Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

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Jean-Paul Sartre L'antisemitismo Riflessioni sulla questione ebraica Reflexions sur la question juive, 1954

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Jean-Paul Sartre

L'antisemitismo

Riflessioni sulla questione ebraica

Reflexions sur la question juive, 1954

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Pubblicato per la prima volta nel 1946, questo breve saggio

sull'antisemitismo è un'analisi sempre attuale, lucida e spietata, e, nel

contempo, originale del problema dell'antisemitismo nelle sue forme

moderne. Con lo stile sferzante e pieno di pathos che caratterizzò sempre le

sue battaglie politiche e culturali per l'emancipazione umana e per la vittoria

di una civiltà della ragione contro il fanatismo e il conformismo, Sartre

denuncia le occulte ragioni psicologiche che hanno portato alle stragi degli

ebrei, analizza il problema dell'antisemitismo dal punto di vista storico,

ontologico e sociale, e della mentalità delle persone affette da pregiudizi

razziali. L'antisemitismo, e in senso lato ogni pregiudizio razziale, è fuga

dall'autenticità esistenziale e dalla libertà, è una concezione del mondo

improntata dalla cieca passionalità dell'odio, che è fuga dal proprio essere e

dalle continue responsabilità cui dobbiamo sottostare in quanto creature

interamente libere. Un'analisi che, definendo l'antisemitismo come una

«rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe, che non potrebbe

esistere in una società senza classi», lascia intravvedere una possibilità di

soluzione del problema.

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INDICE

INTRODUZIONE DI FILIPPO GENTILI

L'ANTISEMITISMO

Capitolo primo

Capitolo secondo

Capitolo terzo

Capitolo quarto

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Introduzione

L'antisemitismo, pubblicato nel novembre del 1946, cade in quell'arco di

anni, dal '45 al '49, che può considerarsi come uno dei periodi più felici,

oltre che fecondi, dell'intera produzione sartriana. Filosofia, teatro, critica

letteraria, articoli di giornali, sceneggiature per film, il catalogo delle opere

di questo periodo abbraccia un campo sconfinato di indagine, in piena

sintonia con quella poliedricità di interessi, davvero impressionante, che fu

sempre una delle caratteristiche più appariscenti del genio sartriano. Tener

conto di ciò è importante per la comprensione dell'opera che qui

presentiamo. La multiformità degli interessi, in Sartre, non si manifesta

infatti solo esteriormente, ovvero nel fatto che egli scrisse dei più svariati

argomenti, ma essa agisce anche all'interno di ciascun testo, che diviene

così il punto in cui confluiscono diverse correnti di pensiero, a volte in

sintonia, a volte in disaccordo tra loro. Ciò costituisce indubbiamente il

fascino dell'opera sartriana, ma anche, bisogna ammetterlo, la sua ambiguità

talvolta fuorviante per il lettore che, attratto in un primo tempo dai

multiformi Bagliori proiettati dal testo, rischia alla fine di soccombere alla

loro molteplicità e di smarrire il filo del discorso; La breve opera

sull'antisemitismo non si sottrae a questa condizione; muovendo dall'ambito

ben circoscritto di un problema specifico, quello del pregiudizio razziale,

essa sviluppa tematiche generali la cui presenza è rintracciabile, come una

sorta di nota continua, lungo tutto l'arco della sconfinata produzione

sartriana.

E' dunque necessario mettere in luce lo sfondo sul quale si snoda il

discorso perché il lettore, messo sull'avviso ed entrato in possesso degli

strumenti necessari, possa avventurarsi nel testo con più facilità. Il richiamo

a tre opere sartriane di quel periodo può esserci di aiuto in questa impresa:

L'esistenzialismo è un umanesimo (marzo 1946), Materialismo e

rivoluzione (giugno 1946), la redazione dei Temps Modernes», il periodico

di cui Sartre fu fondatore e direttore.

Possiamo dire che questi testi stanno a simboleggiare i tre grandi campi di

indagine con i quali il filosofo francese si confrontò in maniera privilegiata.

L'esistenzialismo è un umanesimo è un breve pamphlet nel quale Sartre,

in un linguaggio piano e colloquiale, traccia il profilo essenziale

dell'esistenzialismo, ovvero di quella stessa corrente di pensiero cui egli

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legò principalmente il suo destino e la sua notorietà di filosofo. L'opuscolo,

con il suo enorme successo editoriale, contribuì molto all'espandersi della

fama di Sartre e di quella stessa corrente che, nell'immediato dopoguerra,

conobbe la sua massima fortuna. L'esistenzialismo, in contrapposizione

polemica a qualsiasi forma di idealismo e materialismo, pone al centro della

propria attenzione l'uomo, considerato come essere pienamente libero e

cosciente, dunque artefice responsabile del proprio destino. Materialismo e

rivoluzione segna l'inizio del lungo dialogo tra Sartre e il marxismo: essa

proseguirà negli anni a venire, non limitandosi al campo delle dispute,

teoretiche, ma passando anche attraverso clamorose prese di posizione

pubbliche, come l'infatuazione per l'Unione Sovietica nel 1952, e il radicale

voltafaccia compiuto soltanto quattro anni più tardi. «Temps Modernes»,

infine, testimonia della scelta sartriana per una figura di intellettuale

impegnato, per quanto controverso e scostante sia stato il suo impegno.

Dalle pagine della rivista egli affronta infatti, con grande pathos e forza

polemica, le questioni sociali e politiche più scottanti di quegli anni.

L'essere dell'uomo come libertà, la critica serrata del mondo borghese,

l'impegno quotidiano come destino prescelto dalla filosofia: è quanto noi

ritroviamo nelle pagine dedicate al problema ebraico, velatamente o in

modo manifesto.

Mosso dal desiderio di trattare un argomento tanto più scottante in quel

dopoguerra scioccato dalla rivelazione dell'olocausto, Sartre dipinge

l'antisemita come quell'uomo che, attraverso l'odio razziale, fugge dalla

libertà del proprio essere e che, all'esterno, mostra l'espressione gretta e

astiosa del piccolo borghese francese, risolutamente ostile all'epoca

moderna. Ecco dunque le due facce, quella ontologica e quella sociale,

potremmo dire, che l'antisemita è costretto a mostrare, quanto la ragnatela

delle sue autogiustificazioni cade, viene meno. Ma prima di addentrarci

nella loro indagine particolareggiata, gettiamo un breve sguardo al problema

storico dell'antisemitismo. La smisurata vastità dell'antisemitismo non può

certo venir esaurita nell'ambito di queste poche pagine, ma Sartre stesso ci

viene in aiuto, restringendo il campo della sua indagine al problema

dell'antisemitismo francese e, in particolare, della sua forma moderna. Così

facendo egli si pone come la dolorosa autocoscienza di una nazione la cui

storia è stata segnata da una triste tradizione di antisemitismo latente o

manifesto, pur essendo al contempo il primo paese europeo, con lo statuto

del 1791, ad aver riconosciuto agli ebrei una piena parità di diritti civili e

politici. Possiamo sommariamente ripercorrere le tappe salienti di questa

nefasta tradizione, i cui segni sono rintracciabili anche in opere di eminenti

figure della cultura. In questa categoria rientra certamente l'antisemitismo

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violento e viscerale di Voltaire (1694-1778), nel cuore del Settecento

«illuminato», che tanta parte ebbe nella creazione di una tradizione di

cosiddetto «antisemitismo culturale», vivo ancora nel nostro secolo: e così

pure l'opera di Joseph-Arthur de Gobineau, Saggio sull'ineguaglianza delle

razze umane, scritto nel 1853, la prima esplicita teorizzazione-

giustificazione del razzismo moderno. Una vera e propria esplosione della

tensione razziale si ebbe negli ultimi decenni del 1800, dopo un secolo in

cui tale tensione sembrava essersi attenuata, e durante il quale si era

assistito all'ascesa di numerosi ebrei francesi a posti di spicco sia nella sfera

del potere pubblico che in quella del potere privato. Gli anni a partire dal

1880 furono segnati dal perdurare di una grave crisi economica, e gli ebrei,

secondo uno schema più volte ripresentatosi nella storia, furono

strumentalizzati come capri espiatori contro cui far defluire il malessere e la

rabbia generali.

Episodio emblematico e clamoroso della mutata atmosfera fu il cosiddetto

«affare Dreyfus, ovvero il processo istituito nel 1894 ai danni di un capitano

ebreo, ingiustamente accusato di spionaggio. Circoli di destra, ambienti

militari e Chiesa cattolica fecero fronte comune in una campagna

ferocemente denigratoria, mentre la folla percorreva le strade di Parigi

gridando «morte agli ebrei». Il grande successo editoriale dell'opera del

giornalista Drumont, France juive, pubblicata nel 1886, testimonia quanto

sensibile fosse l'opinione pubblica a simili sollecitazioni. I primi anni del

nostro secolo videro un'inversione di tendenza, un'attenuazione della

tensione razziale, in nome di quella «unità sacra», al di là di qualsiasi

distinzione di razza e di religione, cui tutti i francesi si appellarono per far

fronte comune al dramma della Prima guerra mondiale. Ma la quiete doveva

presagire, per gli ebrei, tempeste ben più rovinose di quelle passate, e

precisamente quelle che si scatenarono nel periodo della Seconda guerra

mondiale, il periodo che sembra maggiormente bruciare nel ricordo delle

pagine sartriane. Invasa dai tedeschi, scissa in due zone, una sotto il diretto

controllo degli invasori, l'altra rimasta francese più a parole che a fatti, la

Francia conobbe una delle pagine più oscure del suo antisemitismo:

creazione di campi di internamento, deportazione di 100.000 ebrei nei Lager

nazisti, promulgazione, nella zona «libera», di una costituzione speciale per

gli ebrei di netto sapore discriminatorio.

Queste e altre misure contribuirono a formare un clima di fosco terrore

che le riparazioni del dopoguerra solo in parte riuscirono a fugare, con tutti i

problemi che la ricostruzione di una comunità ebraica e lacerata ponevano.

Era dunque l'urgenza di problematica drammaticamente attuale che si apriva

agli occhi di Sartre e questo spiega certamente il pathos travolgente e

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doloroso che anima molte delle sue idee Il breve cenno storico tracciato non

deve però trarre in inganno. Se, nell'ambito della storia dell'integrazione

ebraica sul suolo francese, abbiamo sottolineato soltanto i lati oscuri, non

era certo con l'intento di formulare un giudizio negativo sulla Francia in

toto. Si potrebbero ugualmente citare, di quella storia, casi che spingono in

direzione diametralmente opposta, come l'opera svolta da A. Cremieux, più

volte ministro del governo transalpino, che nel 1860 diede vita all'Alliance

Israélite Universelle, primo tentativo di attività coordinata a livello

internazionale per la difesa dei diritti degli ebrei: o come il nervosismo che

le autorità tedesche di occupazione dimostrarono, nel corso della Seconda

guerra mondiale, verso ciò che essi definivano «le omissioni e le lentezze

delle autorità francesi nell'affrontare la questione ebraica». Ma a noi

premeva sottolineare come il problema dell'antisemitismo sia sempre stato

un problema effettivo, reale, nella storia della Francia, e come esso abbia

dato vita a una tradizione di discriminazioni la cui fisionomia, a uno

sguardo profondo, si rivela priva di una vera uniformità, essendo piuttosto il

risultato di diversi motivi confluiti insieme: motivi economici (gli ebrei

considerati come speculatori senza scrupoli, fomentatori interessati delle

crisi economiche), razziali e culturali (il disprezzo volterriano per i loro riti

e i loro costumi), xenofobi (gli ebrei come corpi estranei e corruttori rispetto

all'insieme di tradizioni e valori genuinamente francesi). E bene sottolineare

soprattutto quest'ultimo aspetto, non soltanto perché, secondo alcuni storici,

esso costituisce la nota specifica dell'antisemitismo francese, ma anche

perché Sartre vi si richiama nelle sue pagine con un'insistenza quasi

ossessiva. Ma qual è, per venire direttamente al testo, il modo in cui Sartre

affronta il problema? Le prime tre pagine, in cui ciò viene definito,

dimostrano già di per sé la circospezione e la sottigliezza, con cui egli si

muove.

L'antisemitismo, viene detto, non è un'opinione tra le altre, una possibile

zona d'ombra all'interno di una personalità per il resto irreprensibile, alla cui

origine vi sarebbero considerazioni storiche o esperienze personali: esso è,

piuttosto, una passione, un'idea preconcetta che guida la nostra

interpretazione della realtà circostante, al fine di trovare delle giustificazioni

al proprio operato. Anzi, esso è ancora qualcosa di molto più vasto: «un

atteggiamento globale che si adotta non solamente verso gli ebrei, ma verso

gli uomini in generale, verso la storia e la società: al contempo, una

passione e una concezione del mondo». Si rischia di fraintendere

completamente l'opera sartriana se non si comprende l'estrema particolarità

di questo punto di vista iniziale. Attraverso quelle poche pagine Sartre

assegna al problema razziale una portata e una drammaticità inusuali,

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perché l'antisemitismo cessa di essere, come lo intendono i più, un

comportamento circoscritto adottato in particolari circostanze (la presenza

di un ebreo), per divenire un modo di essere globale, che anima tacitamente

tutti gli atti e i pensieri dell'individuo, indipendentemente dalle circostanze

in cui egli si trova. In questo senso l'antisemitismo si pone come il segno di

una condizione esistenziale che Sartre aveva definito, nell'ambito della sua

filosofia esistenzialistica, come la condizione dell'inautenticità. Con essa si

intende il rapportarsi al proprio essere nei termini di un suo rifiuto, di una

fuga da esso. Ciascun individuo, lo abbiamo visto, è assoluta libertà. Egli

non è dunque un insieme di caratteri dati una volta per tutte (irascibilità,

gelosia, bontà...) in grado di spiegare i suoi atti allo stesso modo in cui la

causa, determinandolo, spiega l'effetto; piuttosto egli rifà se stesso

incessantemente, a ogni istante, progettando la propria esistenza come una

serie di possibili, la cui realizzazione non è garantita da alcuna divinità

ultraterrena, né da alcuna scala di valori eterni e incorruttibili. Questa

condizione di incessante responsabilità è però vissuta come un peso e

l'uomo tenta per lo più di occultarsela, fuggendo l'accettazione del proprio

essere genuino; nella misura in cui fa questo, egli è inautentico. Se

esaminiamo i caratteri attraverso cui Sartre individua l'antisemita, vedremo

che essi corrispondono esattamente a quelli propri dell'uomo inautentico. La

cieca passionalità dell'odio che l'antisemita rivolge all'ebreo, il suo sottrarsi

a qualsiasi discussione, la sua tendenza a vivere il proprio sentimento

esclusivamente in termini collettivi, di massa; tutti questi atteggiamenti

possono venir letti, nel loro significato più profondo, come altrettante vie

imboccate da un medesimo desiderio per realizzarsi, il desiderio di fuggire

il proprio essere, e con esso le continue responsabilità cui dobbiamo

sobbarcarci in quanto creature interamente libere. Il mondo dell'antisemita è

un mondo di assolute certezze fuori discussione, dal quale il dubbio è stato

bandito e ogni cosa ha il suo posto e il suo valore definitivi. Tenendo conto

di ciò si spiega, ancora, la sua visione rigidamente manichea, secondo cui

tutto il bene esistente è in lui, mentre il male è confinato nel versante

ebraico dell'universo, senza alcuna eccezione né possibilità di mutamento.

Potremmo concludere che, paradossalmente, l'ebreo non interessa

all'antisemita se non come semplice pretesto per mettere in atto la sua fuga

ontologica. La rinuncia alla propria individualità, inevitabile conseguenza di

quella fuga, è spinta a un punto tale che l'antisemita si annulla come persona

autosufficiente, in grado di sostenersi da sé; egli finisce per esistere solo in

rapporto all'ebreo come sua negazione, e la totale eliminazione di

quest'ultimo, che egli pure persegue, significherebbe il venir meno della sua

stessa ragion d'essere. Più in generale si può dire che tutta l'opera sartriana

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si sforza di creare una strettissima interdipendenza tra i due protagonisti del

dramma razziale, in modo da farli vivere soltanto nella relazione di

opposizione che essi intrattengono tra loro. Nel chiedersi che cosa

identifichi l'ebreo come tale, ritenendo inadeguato qualsiasi criterio storico,

razziale o religioso di definizione, Sartre conclude che «l'ebreo non è altro

che la creazione dell'antisemita, ovvero un insieme di caratteri fisici,

intellettuali, morali, che la comunità ha associato, in maniera arbitraria, al

concetto di individuo ebraico». Una serie di problemi si impone però alla

nostra attenzione. Sinora abbiamo considerato la figura dell'antisemita come

l'incarnazione di un tipo d'uomo, quello inautentico, che nella sua

universalità si pone al di là di qualsiasi precisa connotazione temporale. Ma

in tal modo Sartre non rischia di dissolvere il problema dell'antisemitismo in

un'atemporalità completamente scissa dalla storia? L'antisemitismo si riduce

forse a un puro pretesto per l'esposizione di una teoria ontologica cara

all'autore? A queste domande dobbiamo rispondere negativamente, anche se

vi fu sempre un'indubbia tendenza sartriana a sfruttare i vari argomenti

trattati come terreno di svolgimento e dimostrazione delle proprie teorie

personali. La risposta sarà comunque negativa perché l'antisemita, oltre a

essere l'incarnazione di un tipo atemporale di uomo inautentico, assume, nel

succedersi delle pagine, i tratti storici del piccolo borghese visceralmente

nazionalista e dedito al culto delle classi, la cui figura dominava la scena

francese nella prima metà del secolo. E tra le due schiere che, per Sartre,

l'antisemitismo recluta la maggior parte dei propri adepti. Mosso da una

profonda frustrazione sociale, il piccolo borghese realizza l'uguaglianza

simbolica con le classi più agiate, dalle quali si sente melanconicamente

escluso, proprio attraverso la partecipazione a una medesima battaglia

razziale.

Il condividere questo stesso credo avrebbe il potere di condurlo al di là

delle barriere sociali ed egli andrebbe così a formare, insieme a quelle classi

dominatrici, un'unica grande nazione antisemita; solo questa nazione nella

nazione costituisce, ai suoi occhi, la Francia reale, ovvero quell'insieme di

tradizioni e valori la cui profonda comprensione è per sempre preclusa

all'ebreo, in quanto straniero, in quanto «altro» per eccellenza. E' qui che la

prospettiva marxista s'insinua con forza nelle argomentazioni sartriane. In

sede di conclusioni troviamo scritto: «L'antisemitismo è una

rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe, che non potrebbe

esistere in una società senza classi». La soluzione auspicata sarà dunque la

rivoluzione socialista, la quale, sopprimendo il concetto stesso di classi,

minerà l'antisemitismo alle sue basi sociali, inferendogli un colpo mortale.

Ecco dunque che indagine ontologica e indagine sociale corrono parallele in

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queste pagine, alla ricerca di un delicato equilibrio che è l'equilibrio stesso

cui anela la multiforme anima sartriana. E questo duplice piano, secondo

uno squisito senso delle simmetrie, emerge anche in quella parte del testo

dedicata specificamente alla figura dell'ebreo. Egli, lo abbiamo visto, non è

altro che la creazione dell'antisemita: i vincoli storici e religiosi sarebbero

troppo deboli per caratterizzarlo, e il concetto di razza, a essere

etnologicamente rigorosi, è assolutamente inapplicabile al popolo ebraico,

nonostante che il senso comune vi si richiami come al criterio più ovvio.

Sartre sviluppa il suo discorso intorno al concetto di «situazione», che

riveste un ruolo fondamentale in tutto il suo pensiero. Se l'uomo è assoluta

libertà, immune da qualsiasi determinazione causale esercitata da fattori

esterni, la sua specificità, in questo caso quella di essere ebreo, sarà il

risultato del modo in cui egli liberamente vive la serie di condizioni di fatto

(biologiche, economiche, culturali...) entro cui si sviluppa la sua esistenza.

Nel caso dell'ebreo l'elemento determinante è la violenta ostilità con cui gli

altri uomini lo considerano. Di fronte a tale situazione, sempre e comunque

sua, egli può farsi avanti con il fiero proposito di affrontarla, oppure

retrocedere illudendosi di poterla sfuggire. L'indagine sartriana si appunta

proprio sul secondo caso.

Questo tipo di ebreo, consapevole dell'immagine fosca e distorta che la

società ha di lui, schiacciato dal Minore di una condizione sempre precaria,

cerca riparo sforzandosi di cancellare tutto ciò che di sé può tradire una

identità agli occhi della gente, esponendolo al pericolo.

Nella luce di questa continua rinuncia a se stesso si spiega la sua vita. Il

suo proverbiale intellettualismo, ad esempio, non è altro che la volontà di

instaurare i propri rapporti su di un piano universale, quello appunto della

ragione astratta, sul quale le differenze individuali (dunque anche la sua

specificità ebraica) non contano più ed egli vale soltanto come singolo

esemplare di essere pensante. Il disagio con il quale vive il proprio corpo,

ancora, nasce dal timore che la particolare conformazione dei suoi tratti

possa tradirlo. Cosa si nasconde dietro quest'individuo angosciosamente

sprofondato nell'autorinnegamento? Dal punto di vista ontologico,

nient'altro che una nuova incarnazione dell'uomo inautentico; dal punto di

vista sociale, il tipico ebreo francese della prima metà del secolo,

fortemente «assimilazionista», ovvero convinto che l'unica soluzione

possibile del problema razziale consista in un'integrazione totale al paese di

residenza, anche a costo di rinnegare del tutto la propria cultura e la propria

tradizione ebraica. Ecco qui riapparire, a proposito dell'ebreo, il duplice

piano (ontologico-sociale) già visto nelle pagine dedicate all'antisemita. Ed

ecco imporsi, ancor più, la desolante constatazione che l'unico punto in

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comune tra le due figure sembra essere uno stesso destino di inautenticità. A

questo destino non sfugge neppure il presunto nemico dell'antisemitismo, il

cosiddetto «democratico», il quale predica la negazione delle specificità

situazionali di ciascun individuo in nome dell'«uomo universale», uguale in

ogni luogo e in ogni tempo, di cui tutti sarebbero semplici incarnazioni e dei

cui diritti egli si fa paladino. La risposta sartriana ci è già nota: il problema

razziale non si sconfigge negando l'esistenza di una specificità ebraica. Al

contrario, l'imprescindibile punto di partenza è la piena accettazione di

quell'identità, anche con il suo bagaglio di subite persecuzioni, sia da parte

dell'ebreo che del non ebreo, perché quest'ultimo possa venir rispettato in

quanto se stesso, e non «nonostante» se stesso. La foga con cui Sartre si

accanisce a svelare le incongruenze di tutti i protagonisti della disputa

razziale, non va certo intesa come il segno di un gusto un po’ perverso per

le inezie e le sfumature: essa è piuttosto un monito profondo al lettore,

dietro cui si cela il vero messaggio dell'opera.

L'antisemitismo, ci suggerisce Sartre, è la spia di un modo globale di

essere, il segno tangibile di una concezione del mondo, non un peccato di

gioventù verso cui rivolgere uno sguardo indulgente. Solo nella serietà di

questa prospettiva esso va inteso e giudicato.

L'antisemitismo, inoltre, al di là delle sue manifestazioni più vistose, ha

una straordinaria capacità di infiltrarsi e nascondersi nel suo apparente

contrario, tanto da essere rintracciabile, al limite, anche nello stesso ebreo e

nel suo difensore democratico. Esso diventa così il terreno più adatto per il

dispiegarsi di una delle armi sartriane più pungenti: la capacità di

smascherare la malafede e le sue contraddizioni nei luoghi più impensati.

Dall'incontro di queste due opposte tendenze (quella dell'antisemitismo a

nascondersi, quella sartriana a svelare l'occulto, il non manifesto) nasce la

straordinaria sottigliezza psicologica che percorre, con pathos corrosivo e

poetico, le pagine del testo. Il lettore ne è colpito, sconcertato, tanto da

essere costretto a riconoscersi, nonostante tutte le sue dichiarazioni di

principio, in qualcuna delle mille malafedi messe in luce dal testo. La

battaglia contro i pregiudizi del senso comune è molto più lunga e difficile

di quanto si pensi: ecco l'amara lezione che se ne deve trarre. Ma il

problema dell'antisemitismo (e i giorni presenti ce ne danno, se mai era

necessario, una tragica conferma) richiede soluzioni pratiche, concrete.

Quanto Sartre stesso ne sia consapevole emerge dalle amare

considerazioni che egli svolge intorno alla figura dell'ebreo autentico, che

accetta interamente e consapevolmente la propria situazione e da qui muove

per il riconoscimento dei propri diritti: «la scelta di un'autenticità appare

come una determinazione morale che apporta all'ebreo una certezza sul

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piano etico, ma non potrebbe in alcun modo servire sul piano sociale e

politico». La stessa rivoluzione socialista, predicata come soluzione radicale

del problema, appare troppo lontana nel tempo per potervisi appellare. La

proposta concreta sartriana è quella di un «liberalismo democratico»: ogni

nazione deve riconoscere gli ebrei come parte attiva del suo sviluppo,

rispettandone al contempo la specificità di tradizione e cultura e

organizzando inoltre una capillare azione di educazione e sensibilizzazione

dell'opinione pubblica. Il problema dell'antisemitismo - viene infatti

affermato con una di quelle repentine inversioni di prospettiva che sono la

forza del testo, - non è un problema dell'ebreo, bensì il problema per

eccellenza del non ebreo che, con il suo odio o la sua indifferenza, ha fatto

sì che esso sorgesse e dilagasse fino alle sue estreme conseguenze. Ma ogni

testo va sempre giudicato in base a ciò che esso si prefigge e persegue:

l'intento sartriano non era quello di articolare una dettagliata proposta

politica, e sarebbe assurdo imputargli di non avercene fornita una. Anzi,

paradossalmente, la grandezza del testo sta proprio in questa sua omissione:

quell'eventuale proposta apparirebbe certamente anacronistica a noi che

abbiamo davanti agli occhi una situazione storica del tutto mutata. Certo,

un'inevitabile dose di anacronismo è il tributo che l'opera paga alla storia,

perché gli ebrei francesi di oggi non sono più quelli di ieri e i loro stessi

antagonisti hanno cambiato volto. Ma il punto non sta qui o soltanto qui.

L'opera sartriana rivendica un altro tipo di attualità: quella di un'indagine

psicologico-filosofica profonda, in grado di mettere in luce le miserie

dell'antisemitismo di ieri, di oggi e, speriamo non più, di domani.

Filippo Gentili.

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L'antisemitismo

Capitolo primo

Se un uomo attribuisce tutte o parte delle disgrazie del paese e delle

proprie disgrazie alla presenza di elementi ebraici nella comunità, se

propone di rimediare a questo stato di cose privando gli ebrei di alcuni dei

loro diritti o escludendoli da certe funzioni economiche e sociali o

espellendoli dal territorio o sterminandoli tutti, si dice che ha opinioni

antisemite. Questa parola opinioni fa riflettere: è la parola che adopera la

padrona di casa per mettere fine ad una discussione che rischia d'invelenirsi.

Suggerisce che tutti i pareri si equivalgono, rassicura e dà ai pensieri una

fisionomia inoffensiva assimilandoli ai gusti. Tutti i gusti esistono nella

natura, tutte le opinioni sono permesse; dei gusti, dei colori, delle opinioni

non si deve discutere.

In nome delle istituzioni democratiche, in nome della libertà d'opinione,

l'antisemita reclama il diritto di predicare ovunque la crociata antiebraica.

Al tempo stesso, poiché la Rivoluzione francese ci ha abituati ad esaminare

ciascun oggetto con spirito analitico, cioè come un composto che può essere

separato nei suoi elementi, noi consideriamo le persone e i caratteri come

mosaici in cui ciascuna tessera coesiste i le altre, senza che questa

coesistenza la intacchi nella sua natura. Così l'opinione antisemita ci appare

come una molecola suscettibile di combinarsi senza alterazioni con

qualsiasi altra molecola. Un uomo può essere un buon padre e un buon

marito, buon cittadino, fine letterato, filantropo e, d'altra parte, antisemita.

Può amare la pesca e i piaceri dell'amore, essere tollerante in materia di

religione, pieno di idee generose sulla condizione degli indigeni dell'Africa

centrale e, d'altra parte, detestare gli ebrei. Se non gli piacciono, si dice, è

perché la sua esperienza gli ha rivelato che sono cattivi, le statistiche gli

hanno insegnato che sono pericolosi, certi fattori storici hanno influenzato il

suo giudizio. Così questa opinione sembra l'effetto di cause esterne e coloro

che vogliono studiarla trascureranno la persona stessa dell'antisemita per

prendere in considerazione la percentuale degli ebrei mobilitati nel '14, la

percentuale degli ebrei banchieri, industriali, medici, avvocati, la storia

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degli ebrei in Francia dalle origini. Scopriranno una situazione

rigorosamente oggettiva, che determina una certa corrente di opinione

ugualmente oggettiva, che essi chiameranno antisemitismo e di cui potranno

descrivere i tratti o stabilire le variazioni dal 1870 al 1944.

Così l'antisemitismo sembra essere ad un tempo un gusto soggettivo che

si combina con altri gusti per formare la persona e un fenomeno

impersonale e sociale che può essere espresso in cifre e medie statistiche,

condizionato da costanti economiche, storiche e politiche.

Io non dico che queste due condizioni siano necessariamente

contraddittorie, dico che sono pericolose " e false. Ammetterei a rigore che

si abbia un'opinione sulla politica vinicola del governo, cioè che si decida,

per determinate ragioni, di approvare o condannare la libera importazione

dei vini algerini: in questo caso si tratta di esprimere un'opinione

sull'amministrazione delle cose. Ma mi rifiuto di chiamare opinione una

dottrina che prende di mira espressamente persone determinate, che tende a

sopprimere i loro diritti e a sterminarle.

L'ebreo che l'antisemita vuol colpire non è un essere schematico e definito

solamente dalla sua funzione, come nel diritto amministrativo; dalla sua

posizione o dai suoi atti, come nel codice. E' un ebreo, figlio di ebrei,

riconoscibile dall'aspetto fisico, dal colore dei capelli, forse dal modo di

vestire, e, si dice, dal carattere.

L'antisemitismo non rientra nella categoria dei pensieri protetti dal diritto

di libera opinione. Del resto è tutt'altro che un pensiero. E anzitutto una

passione. Indubbiamente può presentarsi sotto forma di proposizione

teorica. L'antisemita «moderno» è un uomo cortese che vi dirà dolcemente:

«Io non detesto gli ebrei. Credo semplicemente preferibile, per questa o

quella ragione, che essi prendano parte ridotta all'attività della nazione». Ma

subito dopo, se vi siete guadagnati la sua fiducia, aggiungerà con più

abbandono: «Vedete, ci deve essere qualche cosa negli ebrei: mi disturbano

fisicamente».

L'argomento, che ho sentito cento volte, vale la pena di essere esaminato.

Anzitutto rientra nella logica passionale. Si può infatti immaginare qualcuno

che dica seriamente: «Ci deve essere qualche cosa nel pomodoro, perché ho

orrore di mangiarlo?» Ma d'altra parte ci dimostra che l'antisemitismo,

anche nelle sue forme più temperate, più evolute, rimane una totalità

sincretica che si esprime con discorsi di andamento ragionevole, ma può

trascinare fino a modificazioni corporee.

Certi uomini sono colpiti repentinamente da impotenza se sanno che la

donna con la quale fanno all'amore è ebrea. Esiste una ripugnanza per

l'ebreo come esiste una ripugnanza per il cinese o per il negro tra certa

Page 15: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

gente. E non è dal corpo che nasce questa repulsione, perché si può

benissimo amare un'ebrea se si ignora la sua razza, ma proviene al corpo

dallo spirito; è una presa di posizione dell'anima, ma così profonda e totale

che si estende al campo fisiologico, come nell'isteria. Questa presa di

posizione non è provocata dall'esperienza.

Ho interrogato centinaia di persone per sapere le ragioni del loro

antisemitismo. La maggior parte si è limitata ad enumerarmi i difetti che la

tradizione attribuisce all'ebreo. «Non li posso soffrire perché sono

interessati, intriganti, attaccaticci, viscidi, privi di tatto, ecc.». «Ma almeno

ne frequenti qualcuno?». «Oh! me ne guardo bene!». Un pittore m'ha detto:

«Sono nemico degli ebrei perché con le loro abitudini critiche incoraggiano

i nostri domestici all'indisciplina».

Ecco delle esperienze più precise. Un giovane attore senza talento

pretende che gli ebrei gli abbiano impedito di far carriera nel teatro

mantenendolo in funzioni subalterne. Una giovane donna sostiene: «Ho

avuto una lite intollerabile con dei pellicciai, m'hanno derubata, m'hanno

bruciato la pelliccia che avevo loro affidata. Naturalmente erano ebrei». Ma

perché ha preferito odiare gli ebrei piuttosto che i pellicciai? Perché gli

ebrei o i pellicciai piuttosto che un determinato ebreo, un determinato

pellicciaio? Perché questa donna portava in sé una predisposizione

all'antisemitismo. Un collega di liceo mi dice che gli ebrei «lo irritano» per

le mille ingiustizie che certi corpi sociali «ebraizzati» commettono in loro

favore. «Un ebreo è stato promosso all'esame di concorso nell'anno in cui io

fui bocciato e non mi farai credere che quell'individuo, il cui padre veniva

da Cracovia o da Leopoli, comprendeva meglio di me una poesia di

Ronsard o un'egloga di Virgilio». Ma confessa, d'altra parte, che disprezza il

concorso, che si tratta di un «terno al lotto» e che non si era preparato

all'esame.

Dispone dunque, per spiegare il suo scacco, di due sistemi di

interpretazione, come quei pazzi che quando si lasciano andare al loro

delirio pretendono d'essere re d'Ungheria e se li si interroga bruscamente

confessano d'essere dei calzolai. Il suo pensiero si muove su due piani,

senza che egli avverta il minimo disturbo. Di più: quel collega giustifica la

sua poltroneria passata dicendo che sarebbe veramente troppo stupido

preparare un esame in cui si promuovono gli ebrei a preferenza dei buoni

francesi. Ma egli era al ventisettesimo posto nella graduatoria finale. Ce

n'erano ventisei prima di lui, dodici promossi e quattordici respinti. Se si

fossero esclusi gli ebrei sarebbe stato più avanti? Ed anche se fosse stato il

primo dei non ammessi, anche se avesse avuto la possibilità d'essere scelto

eliminando uno dei candidati promossi, perché si sarebbe dovuto eliminare

Page 16: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

l'ebreo Weil piuttosto che il normanno Mathieu o il bretone Arzell? Per

indignarsi, il mio collega doveva essersi fatta a priori una certa idea

dell'ebreo, della sua natura e del suo ruolo sociale, E per decidere che tra

ventisei concorrenti più fortunati di lui era proprio l'ebreo che gli rubava il

posto, era necessario che avesse dato a priori la preferenza ai ragionamenti

passionali per la condotta della sua vita. L'esperienza non fa sorgere la

nozione d'ebreo, al contrario è questa che chiarisce l'esperienza; se l'ebreo

non esistesse, l'antisemita lo inventerebbe. E sia, si dirà; ma, in mancanza di

esperienza, non bisogna ammettere che l'antisemitismo si spiega con certi

dati storici? In fin dei conti, non nascerà dall'aria. Mi sarebbe facile

rispondere che la storia di Francia non insegna niente sul conto degli ebrei:

sono stati oppressi fino al 1789, poi hanno partecipato come hanno potuto

alla vita della nazione, approfittando, certo, della libera concorrenza per

prendere il posto dei deboli, ma né più né meno degli altri francesi: non

hanno commesso nessun crimine contro la Francia, né l'hanno tradita. E se

si è voluto stabilire che il numero di soldati ebrei nel 1914 era inferiore a

quello che avrebbe dovuto essere, è perché si è avuta la curiosità di andare a

vedere le statistiche, dato che non si tratta di uno di quei fatti che colpiscono

di per sé gli animi e nessun mobilitato avrebbe potuto meravigliarsi, di testa

sua, di non vedere degli israeliti nel limitato settore che costituiva il suo

universo. Ma poiché, dopo tutto, le informazioni che la storia dà sul ruolo

d'Israele dipendono essenzialmente dalle concezioni che se ne hanno, io

penso che sia meglio prendere a prestito da un paese straniero un esempio

palese di «tradimento ebraico» e calcolare le ripercussioni che questo

tradimento ha potuto avere sull'antisemitismo contemporaneo. Nel corso

delle rivolte polacche che insanguinarono il secolo diciannovesimo, gli

ebrei di Varsavia, che gli zar proteggevano per ragioni politiche,

manifestarono molta tiepidezza verso i rivoltosi; inoltre, non avendo preso

parte alle insurrezioni, poterono mantenere ed anzi aumentare il loro giro

d'affari in un paese rovinato dalla repressione. Ignoro se il fatto sia esatto.

Ciò che è certo è che molti polacchi lo credono e questo «dato storico»

contribuisce non poco a prevenirli contro gli ebrei. Ma se esamino le cose

più da vicino, vi trovo un circolo vizioso: gli zar, sappiamo, non trattavano

male gli israeliti della Polonia mentre invece ordinavano dei pogrom contro

quelli della Russia. Questi comportamenti così diversi avevano la stessa

causa: il governo russo considerava in Russia ed in Polonia gli ebrei come

non assimilabili e, secondo le necessità della sua politica, li faceva

massacrare a Mosca o a Kiev, perché minacciavano di indebolire l'impero

moscovita; li favoriva a Varsavia, per mantenere la discordia tra i polacchi.

Questi invece manifestavano solo odio e disprezzo per gli ebrei della

Page 17: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Polonia, ma la ragione era la stessa: per loro Israele non poteva integrarsi

alla collettività. Trattati da ebrei dallo zar, da ebrei dai polacchi, dotati, loro

malgrado di interessi ebraici nel seno di una comunità straniera, perché

stupirsi se queste minoranze si sono comportate in modo conforme alla

rappresentazione che si aveva di loro? In altre parole ciò che è essenziale in

questo caso non è il «dato storico», ma l'idea che dell'ebreo si facevano gli

agenti della storia. E quando i polacchi d'oggi serbano rancore agli israeliti

per la loro condotta passata, essi vi sono incitati da questa stessa idea:

perché si pensi di rimproverare ai nipoti le colpe dei nonni bisogna avere un

senso assai primitivo delle responsabilità. Ma non basta: bisogna formarsi

una certa concezione dei figli, conforme a quella degli antenati. Bisogna

credere che i cadetti siano capaci di fare ciò che hanno fatto i primogeniti:

bisogna essere persuasi che il carattere ebraico è ereditario. Così i polacchi

del 1940 trattavano gli israeliti da ebrei perché i loro antenati del 1848 si

erano comportati nello stesso modo coi loro contemporanei. E forse questa

rappresentazione tradizionale, in altre circostanze, avrebbe predisposto gli

ebrei d'oggi ad agire come quelli del '48. E' dunque l'idea che ci si fa

dell'ebreo che sembra determinare la storia, non il «dato storico» che fa

nascere l'idea. E poiché si parla anche di «dati sociali», esplorandoli meglio

troveremo lo stesso circolo: ci sono troppi avvocati ebrei, si dice. Ma ci si

lamenta forse che ci siano troppi avvocati normanni? Anche se tutti i bretoni

fossero medici, non ci si limiterebbe a dire che «la Bretagna fornisce di

medici la Francia intera?» Ah! si replicherà, questa non è la stessa cosa.

Senza dubbio, ma appunto perché noi consideriamo i normanni come

normanni e gli ebrei come ebrei. Così, da qualunque parte ci si volti, è l'idea

dell'ebreo che sembra la cosa essenziale. E' evidente per noi che nessun

fattore esterno può introdurre nell'antisemita il suo antisemitismo.

L'antisemitismo è una scelta libera, e totale di se stessi, un atteggiamento

globale che si adotta non solamente verso gli ebrei, ma verso gli uomini in

generale, verso la storia e la società; è, ad un tempo, una passione e una

concezione del mondo. Indubbiamente in un antisemita certi caratteri

saranno più marcati che in un altro, ma essi sono sempre tutti compresenti e

collegati tra loro. E' questa totalità sincretica che dobbiamo ora tentare di

descrivere. Ho notato poc'anzi che l'antisemitismo si presenta come una

passione. Tutti hanno compreso che si tratta d'un sentimento di odio o di

collera. Ma di solito l'odio e la collera sono provocati: io odio colui che mi

ha fatto soffrire, colui che mi disprezza o che mi insulta. Abbiamo visto che

la passione antisemita non ha un tale carattere; essa precorre i fatti che

dovrebbero farla nascere, li ricerca per alimentarsene, deve anzi interpretarli

a modo suo perché divengano veramente offensivi.

Page 18: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Cionondimeno se parlate dell'ebreo all'antisemita, questi dà tutti i segni di

una viva irritazione. Se d'altra parte ci rammentiamo che dobbiamo sempre

consentire ad una collera perché questa possa manifestarsi e che, secondo

un'espressione molto giusta, si monta in collera, dovremo convenire che

l'antisemita ha scelto di vivere in modo passionale. Non è raro che si opti

per una vita passionale piuttosto che per una vita ragionevole. Ma di solito

si amano gli oggetti della passione: le donne, la gloria, il potere, il denaro.

Poiché l'antisemita ha scelto l'odio, siamo costretti a concludere che è lo

stato passionale che egli ama. Di solito questo tipo d'affezione non piace:

chi desidera appassionatamente una donna è appassionato a causa della

donna e nonostante la passione: si diffida dei ragionamenti passionali, che

vogliono dare evidenza dimostrativa ad opinioni dettate dall'amore o dalla

gelosia o dall'odio; si diffida dei traviamenti passionali e di ciò che si è

chiamato monoideismo. E' questo invece ciò che l'antisemita appunto

sceglie. Ma come si può scegliere di ragionare falsamente? Il fatto è che si

ha la nostalgia dell'impermeabilità. L'uomo sensato cerca penosamente, egli

sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili, che altre considerazioni

subentreranno a metterli in dubbio; non sa mai molto bene dove va; è

«aperto», può passare per esitante. Ma ci sono invece alcuni che sono

attratti dalla stabilità della pietra. Vogliono essere massicci ed

impenetrabili, non vogliono cambiare: dove li condurrebbe mai un

cambiamento? Si tratta di una originaria paura di se stessi e di una paura

della verità. E ciò che li spaventa non è il contenuto della verità, che essi

nemmeno sospettano, ma la forma stessa del vero, questo oggetto di

approssimazione indefinita. E' come se la loro stessa esistenza fosse

perennemente in sospeso. Ma essi vogliono esistere tutto in una volta e

subito. Non ne vogliono sapere di opinioni acquisite, le desiderano innate;

poiché hanno paura del ragionamento, vogliono adottare un modo di vita in

cui il ragionamento e la ricerca non abbiano che una parte subordinata, dove

si cerchi solo quello che si è già trovato, dove si diventi solo ciò che già si

era. Non resta che la passione. Solo una forte prevenzione sentimentale può

dare una certezza folgorante, solo essa può tenere il ragionamento al

margine, solo essa può rimanere impermeabile all'esperienza e sussistere per

tutta una vita. L'antisemita ha scelto l'odio perché l'odio è una fede; ha

scelto originariamente di svalutare le parole e le ragioni. Come si sente a

suo agio, ora; come gli sembrano futili e leggere le discussioni sui diritti

dell'ebreo: si è posto di colpo su un altro terreno. Se consente per cortesia a

difendere per un istante il suo punto di vista, si presta, ma non si dà: cerca

semplicemente di proiettare la sua certezza intuitiva sul piano del discorso.

Ho citato poco fa alcune «battute» di antisemiti, completamente assurde:

Page 19: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

«Io odio gli ebrei perché insegnano l'indisciplina ai domestici, perché un

pellicciaio ebreo mi ha derubato ecc.». Non crediate che gli antisemiti si

ingannino sull'assurdità di queste risposte. Essi sanno che i loro discorsi

sono vacui, contestabili, ma ci si divertono. E' il loro avversario che ha il

dovere di usare seriamente le parole, dato che crede alle parole; essi hanno

il diritto di giocare. Amano anzi giocare col discorso perché dando delle

ragioni buffonesche gettano il discredito sulla serietà del 2loro

interlocutore; sono in malafede con voluttà, perché si tratta per loro non di

persuadere con buoni argomenti, ma di intimidire o disorientare. Se li

incalzate troppo vivacemente, si fermano, e vi dicono superbamente che è

passata l'epoca delle discussioni: non ch'essi abbiano paura d'essere

convinti: temono solo di avere un'aria ridicola o che il loro imbarazzo faccia

brutto effetto su un terzo che vogliono tirare dalla loro parte. Se dunque

l'antisemita è, come ognuno ha potuto vedere, impermeabile ai ragionamenti

e all'esperienza, ciò non vuol dire che la sua convinzione sia forte; ma

piuttosto la sua convinzione è forte perché egli ha scelto anzitutto d'essere

impermeabile Ha scelto anche d'essere terribile. Si teme d'irritarlo. Nessuno

sa a quali estremi lo porteranno i traviamenti della sua passione, egli lo sa:

perché questa passione non è provocata dall'esterno. La tiene stretta nelle

mani, la lascia andare esattamente come vuole, talvolta allenta le briglie

talvolta tira le redini. Non ha paura di se stesso: ma legge negli occhi degli

altri un'immagine inquietante, che è la sua, e conforma ogni proposito, ogni

gesto a quella immagine. Questo modello esterno lo dispensa dal cercare la

sua personalità in se stesso; ha scelto di essere completamente al di fuori, di

non fare mai ritorno su se stesso, di non essere altro che la paura che fa agli

altri: più ancora della Ragione, fugge l'intima consapevolezza che ha di sé.

Ma, si dirà, è così solo con gli ebrei? Se per caso, in tutto il resto, si

comportasse sensatamente? Rispondo che è impossibile: ecco un

pescivendolo che, nel 1942, irritato dalla concorrenza di due pescivendoli

ebrei, che dissimulavano la loro razza, un bel giorno ha preso la penna e li

ha denunziati. Mi si assicura che peraltro era dolce e gioviale, il miglior

uomo del mondo. Ma io non lo credo: un uomo che trova naturale

denunziare altri uomini non può avere la nostra concezione dell'umano;

anche quelli di cui si fa benefattore, non li può vedere con i nostri occhi; la

sua generosità, la sua dolcezza non sono simili alla nostra dolcezza, alla

nostra generosità; non si può circoscrivere la passione. L'antisemita

riconosce volentieri che l'ebreo è intelligente e lavoratore; confesserà

persino d'essergli inferiore, sotto questo aspetto. Questa concessione non gli

costa gran che: ha posto simili qualità tra parentesi. O piuttosto fa derivare il

loro valore da colui che le possiede: più l'ebreo sarà virtuoso, più sarà

Page 20: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

pericoloso. Quanto all'antisemita, non si fa nessuna illusione su ciò ch'egli

è. Si considera un uomo medio, un essere qualunque, in fondo un mediocre;

non c'è esempio di Un antisemita che rivendichi sugli ebrei una superiorità

individuale. Ma non si deve credere che la sua mediocrità lo faccia

vergognare: se ne compiace invece; direi che l'ha scelta. Questo uomo

paventa ogni sorta di solitudine, tanto quella del genio, quanto quella

dell'assassino: è l'uomo della folla; per piccola che sia la sua statura, prende

ancora la precauzione di abbassarsi, per paura d'emergere dal branco e di

ritrovarsi faccia a faccia con se stesso. Se è diventato antisemita, è perché

non si può esserlo da soli.

La frase: «Io odio gli ebrei» è di quelle che si pronunziano in gruppo;

pronunziandola, ci si riattacca ad una tradizione e ad una comunità: quella

dei mediocri. Conviene altresì ricordare che non si è necessariamente umili

e nemmeno modesti, per aver consentito d'essere mediocri. Tutto al

contrario: esiste un orgoglio appassionato dei mediocri e l'antisemitismo è

un tentativo di valorizzare la mediocrità in quanto tale, di creare l'élite dei

mediocri. Per l'antisemita l'intelligenza è ebraica, può perciò disprezzarla

con tutta tranquillità assieme a tutte le altre virtù che possiede l'ebreo: esse

sono dei surrogati che gli ebrei utilizzano per sostituire questa mediocrità

equilibrata che sempre mancherà loro. Il vero francese radicato nella sua

provincia, nel suo paese, carico d'una tradizione di venti secoli, beneficiario

d'una saggezza ancestrale, guidato da consuetudini sperimentate non ha

bisogno d'intelligenza. Le sue virtù poggiano sull'assimilazione delle qualità

depositate dal lavoro di cento generazioni sugli oggetti che lo attorniano:

sulla proprietà. Ma va da sé che si tratta della proprietà ereditaria, non di

quella che si acquista. Esiste un'incomprensione di principio,

nell'antisemita, per le diverse forme della proprietà moderna: danaro, azioni,

ecc.; esse sono astrazioni, prodotti della ragione che assomigliano

all'intelligenza astratta del semita; l'azione non è di nessuno perché può

essere di tutti ed inoltre è un segno di ricchezza, non un bene concreto.

L'antisemita concepisce solo un tipo d'appropriazione primitiva e terriera,

fondato su un vero rapporto magico di possesso in cui l'oggetto posseduto e

il suo possessore sono uniti da un legame di partecipazione mistica, è il

poeta della proprietà fondiaria. Questa trasfigura il proprietario e gl'infonde

una sensibilità speciale e concreta. Beninteso, questa sensibilità non si

rivolge verso verità eterne, verso valori universali: l'universale è ebraico,

dato che è oggetto d'intelligenza. Ciò che sarà colto da questo senso sottile è

ciò che, al contrario, l'intelligenza non può vedere. Detto in altro modo, il

principio dell'antisemitismo è che il possesso concreto d'un oggetto singolo

dà magicamente il senso di tale oggetto. Maurras lo afferma: un ebreo non

Page 21: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

sarà mai capace di comprendere questo verso di Racine: Dans l'Orient

desert, quel devint mon ennui. E perché io, io mediocre, posso intendere ciò

che l'intelligenza più sottile, più raffinata non ha potuto afferrare? Perché io

possiedo Racine. Racine e la mia lingua e la mia terra. Forse l'ebreo parla un

francese più puro del mio, forse conosce meglio la sintassi, la grammatica,

forse è anche uno scrittore; non importa. Questa lingua egli la parla solo da

vent'anni ed io da mille. La correttezza del suo stile è astratta, appresa; i

miei errori di francese sono conformi al genio della lingua.

Si riconosce in ciò il ragionamento che faceva Barres contro i banchieri.

Perché meravigliarsi. Gli ebrei non sono forse i banchieri della nazione?

Tutto ciò che può acquistare l'intelligenza, il danaro, glielo lascia; ma tutto

ciò è vento. Contano solamente i valori irrazionali e sono questi appunto

che si negano loro per sempre. Così l'antisemita aderisce, in partenza, ad un

irrazionalismo di fatto. Si oppone all'ebreo, come il sentimento si oppone

all'intelligenza, come il particolare all'universale, come il passato al

presente, come il concreto all'astratto, come il possessore di beni fondiari al

proprietario di valori mobiliari. Dopo tutto molti antisemiti - - la

maggioranza forse, appartengono alla piccola borghesia cittadina; sono

funzionari, impiegati, piccoli commercianti che non possiedono niente.

Ma appunto ergendosi contro l'ebreo prendono coscienza

improvvisamente d'essere dei proprietari: rappresentandosi l'israelita come

un ladro, si mettono nell'invidiabile posizione di chi potrebbe essere

derubato; poiché l'ebreo vuol rubargli la Francia, vuol dire che la Francia è

loro. L'antisemitismo è stato scelto come un mezzo per realizzare la loro

qualità di possidenti. L'ebreo ha più danaro? Tanto meglio: il danaro è

ebraico, potranno disprezzarlo come disprezzano l'intelligenza.

Hanno meno mezzi del signorotto del perigord, del grande fittavolo della

Beauce? Non importa: basterà che fomentino in loro una collera vendicativa

contro i ladri d'Israele e subito sentiranno la presenza del paese intero. I veri

francesi, i buoni francesi sono tutti eguali, poiché ciascuno di loro possiede

per sé solo la Francia indivisa. Così io chiamerei volentieri l'antisemitismo

uno snobismo del povero. Sembra infatti che la maggior parte dei ricchi

utilizzi ora questa passione piuttosto che abbandonarvisi; hanno altro da

fare. Si propaga di solito nelle classi medie, proprio perché queste non

possiedono né terre, né castelli, né case, ma soltanto danaro liquido e

qualche azione in banca.

Non è per caso che la piccola borghesia tedesca del 1925 era antisemita.

Questo «proletariato in solino» aveva soprattutto la preoccupazione di

distinguersi dal vero proletariato. Rovinato dalla grande industria, dileggiato

dagli Junker, il suo cuore batteva per gli Junker e per i grandi industriali. Si

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è dato all'antisemitismo con la stessa disinvoltura con la quale portava i

vestiti borghesi: perché gli operai erano internazionalisti, perché gli Junker

possedevano la Germania ed esso pure voleva possederla. L'antisemitismo

non è soltanto la gioia d'odiare; procura piaceri positivi: trattando l'ebreo

come un essere inferiore e pernicioso, affermo ad un tempo che io

appartengo ad una élite. E questa, assai diversa in ciò dalle élites moderne

che si fondano sul merito o sul lavoro, assomiglia in ogni punto ad

un'aristocrazia della nascita. Non debbo far nulla per meritare la mia

superiorità, né potrò mai decaderne. E' concessa una volta per sempre: è una

cosa. Non confondiamo questa affermazione di principio col valore.

L'antisemita non ha troppa voglia di possedere un valore. Si cerca il valore

come si cerca la verità, lo si scopre difficilmente, bisogna meritarlo e, una

volta acquisitolo, è costantemente in forse: un passo falso, un errore, e

sparisce; così siamo sempre, senza respiro, da un capo all'altro della nostra

vita, responsabili di ciò che valiamo.

L'antisemita fugge la responsabilità come fugge la propria coscienza: e,

scegliendo per la sua persona la stabilità minerale, elegge a sua morale una

scala di valori pietrificati. Qualunque cosa faccia, egli sa che rimarrà alla

sommità della scala; qualunque cosa faccia l'ebreo, non salirà mai più in

alto del primo gradino. Incominciamo ora a intravedere il senso della scelta

che l'antisemita fa per se stesso: sceglie l'irrimediabile per paura della

libertà, la mediocrità per paura della solitudine e fa di questa mediocrità

irrimediabile un'aristocrazia congelata per orgoglio. Per queste diverse

operazioni gli è assolutamente necessaria l'esistenza dell'ebreo: a chi mai

sarebbe superiore, senza di quello? Ancor meglio: di fronte all'ebreo, e solo

all'ebreo, l'antisemita si realizza come soggetto di diritto. Se, per un

miracolo, tutti gli israeliti venissero sterminati come egli desidera, si

ritroverebbe portinaio o bottegaio in una società fortemente gerarchizzata in

cui la qualità di «autentico francese» sarebbe deprezzata, in quanto tutti la

possiederebbero; perderebbe il senso dei suoi diritti sul suo paese, perché

nessuno glieli contesterebbe e quella profonda eguaglianza che lo ravvicina

ai nobili e ai ricchi sparirebbe di colpo, perché era soprattutto negativa. I

suoi insuccessi, che attribuisce alla concorrenza sleale degli ebrei, dovrebbe

immediatamente imputarli ad un'altra causa, oppure, interrogando se stesso,

rischierebbe di cadere nell'acredine, in un odio melanconico verso le classi

privilegiate. Così l'antisemita ha la disgrazia d'avere vitale bisogno del

nemico che vuol distruggere. Questo egualitarismo che l'antisemita cerca

con tanto zelo non ha niente in comune con l'eguaglianza iscritta nel

programma delle democrazie. Questa deve realizzarsi in una società

economicamente gerarchizzata e deve restare compatibile con la diversità

Page 23: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

delle funzioni. Ma è appunto contro la gerarchia delle funzioni che

l'antisemita rivendica l'eguaglianza degli ariani. Egli non comprende affatto

la divisione del lavoro e non se ne cura: per lui, se ogni cittadino può

rivendicare il titolo di francese, non è perché coopera, al proprio posto, nel

proprio mestiere e con tutti gli altri, alla vita economica, sociale e culturale

della nazione: ma perché ha, allo stesso titolo di ciascun altro, un diritto

imprescrittibile e innato sulla totalità indivisa del paese. Così la società

concepita dall'antisemita è una società di giustapposizione, come del resto si

poteva prevedere dato che il suo ideale di proprietà è la proprietà fondiaria.

E dato che, in realtà, gli antisemiti sono numerosi, ciascuno di essi

contribuisce a costituire, nel seno della società organizzata, una comunità

intesa come solidarietà meccanica. Il grado d'integrazione di ciascun

antisemita a questa comunità, come pure la sua sfumatura egualitaria, sono

determinati da quella che io chiamerei la temperatura della comunità. Proust

ha mostrato, per esempio, come l'antidreyfusismo avvicinava il duca al suo

cocchiere, come, grazie all'odio per Dreyfus, certe famiglie borghesi

avessero forzato le porte dell'aristocrazia. Il fatto è che la comunità

egualitaria cui si richiama l'antisemita è del tipo delle folle o di quelle

società istantanee che sorgono in occasione d'un linciaggio o d'uno

scandalo. L'eguaglianza è il frutto della mancata differenziazione delle

funzioni. Il legame sociale è la collera; la collettività non ha altro scopo che

quello d'esercitare su determinati individui una sanzione repressiva diffusa;

gli impulsi e le rappresentazioni collettive s'impongono tanto più fortemente

ai privati, in quanto nessuno di essi è difeso da una funzione specializzata.

Così le persone annegano nella folla e i modi di pensare, le reazioni del

gruppo sono di puro tipo primitivo. Certo, queste collettività non sorgono

soltanto dall'antisemitismo: una rivolta, un crimine, un'ingiustizia possono

farle sorgere bruscamente. Solo che in tal caso sono delle formazioni fugaci

che svaniscono presto senza lasciare traccia. Poiché l'antisemitismo

sopravvive alle grandi crisi d'odio contro gli ebrei, la società formata dagli

antisemiti continua ad esistere, allo stato latente, nei periodi normali e ogni

antisemita vi si richiama. Incapace di comprendere l'organizzazione sociale

moderna, sente nostalgia dei periodi di crisi, quando la comunità primitiva

riappare improvvisamente e raggiunge la sua temperatura di fusione. Egli

aspira a fondere senza residui la sua persona nel gruppo e ad essere

trascinato dalla corrente collettiva. E' quest'atmosfera di pogrom che ha

davanti agli occhi quando reclama «l'unione di tutti i francesi». In questo

senso l'antisemitismo, in una democrazia, è una forma mascherata di ciò che

si chiama la lotta del cittadino contro il potere. Interrogate qualcuno di

questi giovani turbolenti che infrangono placidamente la legge e si mettono

Page 24: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

in molti per picchiare un ebreo in una strada deserta: vi dirà che aspira a un

potere forte che lo sollevi dalla schiacciante responsabilità di pensare con la

propria testa; poiché la repubblica è un potere debole egli è indotto

all'indisciplina per amore dell'obbedienza. Ma è proprio un potere forte ciò

che desidera? In realtà egli reclama per gli altri un ordine rigoroso e per se

stesso un disordine senza responsabilità; vuol mettersi al di sopra delle leggi

sottraendosi alla coscienza della sua libertà e della sua solitudine.

Si vale dunque d'un sotterfugio: l'ebreo partecipa alle elezioni, ci sono

ebrei al governo, perciò il potere legale è viziato alla base; meglio ancora,

non esiste più ed è cosa legittima non tener conto dei suoi decreti; non si

tratta neppure di disobbedienza: non si disobbedisce a ciò che non esiste.

Così per l'antisemita esisterà una Francia reale con un governo reale ma

diffuso e senza organi specializzati, e una Francia astratta, ufficiale,

ebraicizzata, contro cui sta bene sollevarsi. Naturalmente questa ribellione

permanente è cosa del gruppo: l'antisemita non saprebbe in nessun caso né

agire né pensare, da solo, E il gruppo stesso non saprebbe neppure

concepirsi sotto l'aspetto d'un partito di minoranza: poiché un partito è

obbligato a inventare il suo programma, a fissarsi una linea politica, ciò che

presuppone iniziativa, responsabilità, libertà. Le associazioni antisemite non

vogliono inventare niente, si rifiutano d'assumere delle responsabilità,

avrebbero orrore di presentarsi come una determinata frazione dell'opinione

pubblica francese, perché in tal caso bisognerebbe fissare un programma,

cercare mezzi d'azione legali.

Preferiscono presentarsi come quelle che esprimono con tutta purezza e

passivamente il sentimento del paese reale nella sua indivisibilità.

Ogni antisemita è dunque, in misura variabile, nemico dei poteri regolari;

vuol essere il membro disciplinato d'un gruppo indisciplinato; adora

l'ordine, ma l'ordine sociale. Si potrebbe dire che egli vuol provocare il

disordine politico per restaurare l'ordine sociale, e l'ordine sociale gli appare

in veste d'una società egualitaria e primitiva di giustapposizione, a

temperatura elevata, da cui gli ebrei saranno esclusi. Questi principi lo

fanno beneficiare d'una strana indipendenza, che io chiamerei una libertà a

rovescio. La libertà autentica infatti assume le sue responsabilità, quella

dell'antisemitismo invece deriva dal fatto che esso si sottrae a tutte le sue

responsabilità. Oscillando tra una società autoritaria che non esiste ancora e

una società ufficiale e tollerante ch'egli rinnega, può permettersi tutto senza

temere di passare per anarchico, cosa che gli farebbe orrore. La serietà

profonda delle sue vedute che nessuna parola, nessun discorso, nessun atto

può esprimere, lo autorizza ad una certa leggerezza. E' un monello, ne fa di

tutti i colori, bastona, purga, ruba: ma lo fa per delle buone ragioni. Se il

Page 25: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

governo è forte, l'antisemitismo decresce, a meno che non rientri nel

programma del governo stesso. Ma in questo caso muta la sua natura.

Nemico degli ebrei, l'antisemita ha bisogno di loro; antidemocratico, è un

prodotto naturale delle democrazie e può manifestarsi soltanto nel quadro

della repubblica. Incominciamo a comprendere che l'antisemitismo non è

una semplice «opinione» sugli ebrei e che investe la persona intera

dell'antisemita; ma c'è dell'altro. Esso infatti non si limita a fornire direttive

morali e politiche; è di per sé un modo di pensare e una concezione del

mondo. Non si potrebbe infatti affermare ciò ch'esso afferma senza riferirsi

implicitamente a determinati principi intellettuali. L'ebreo, esso dice, è

completamente cattivo, completamente ebreo; le sue virtù, se pur ne ha, dal

momento che sono sue si trasformano in vizi, le opere che escono dalle sue

mani portano necessariamente il suo marchio: e se costruisce un ponte,

questo ponte è cattivo, essendo ebreo, dalla prima arcata all'ultima. Una

medesima azione fatta da un ebreo e da un cristiano non ha il medesimo

significato nei due casi, egli infonde in tutto ciò che tocca non so che

esecrabile qualità. Fu l'accesso alle piscine che i tedeschi proibirono agli

ebrei per prima cosa: sembrava loro che se il corpo d'un israelita si fosse

immerso in quell'acqua non corrente essa sarebbe completamente insozzata.

l'ebreo insozza perfino l'aria che respira. Se proviamo a formulare con

proposizioni astratte il principio al quale ci si riferisce, esso diverrà il

seguente: un tutto è più e altro che la somma delle sue parti; un tutto

determina il senso e il carattere profondo delle parti che lo compongono.

Non esiste una virtù del coraggio che entri indifferentemente in un carattere

ebraico o in un carattere cristiano come l'ossigeno compone

indifferentemente l'aria con l'azoto e con l'argo, l'acqua con l'idrogeno; ma

ciascuna persona è una totalità indivisibile che ha il suo coraggio, la sua

generosità, la sua maniera di pensare, di ridere, di bere e di mangiare. Ciò

vuol dire che l'antisemita ricorre, per comprendere il mondo, allo spirito di

sintesi.

E' lo spirito di sintesi che gli permette di concepirsi come parte d'una

indissolubile unità con la Francia intera. E' in nome dello spirito di sintesi

che egli denuncia l'intelligenza puramente analitica e critica d'Israele. Ma

bisogna precisare: da qualche tempo, a destra e a sinistra, fra i tradizionalisti

e fra i socialisti, si fa appello ai principi sintetici contro lo spirito d'analisi

che presiedette alla fondazione della democrazia borghese. Non può trattarsi

dei medesimi principi per gli uni e per gli altri, o, per lo meno, gli uni e gli

altri fanno un uso diverso di codesti principi. Che uso ne fa l'antisemita?

Non c'è antisemitismo tra gli operai. Si dirà che ciò è dovuto al fatto che

non ci sono ebrei tra di loro. Ma la spiegazione è assurda: poiché,

Page 26: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

supponendo che il fatto addotto fosse vero, dovrebbero proprio lamentarsi

di questa assenza. I nazisti lo sapevano bene, dato che quando vollero

estendere la loro propaganda al proletariato, lanciarono lo slogan del

«capitalismo ebreo». Anche la classe operaia pensa sinteticamente la

situazione sociale: solo che essa non si vale di metodi antisemiti. Non

divide gli insiemi secondo i dati tecnici, ma secondo le funzioni

economiche. La borghesia, i contadini, il proletariato: ecco le realtà

sintetiche di cui si occupa; e in queste totalità distinguerà delle strutture

sintetiche secondarie: sindacati operai, sindacati padronali, trusts, cartelli,

partiti. Perciò le spiegazioni che dà dei fenomeni storici sono perfettamente

convenienti alla struttura differenziata di una società fondata sulla divisione

del lavoro. La storia risulta, secondo essa, dal gioco degli organismi

economici e dall'interazione dei gruppi sintetici. La maggioranza degli

antisemiti si trova invece tra le classi medie, cioè tra gli uomini che hanno

un livello di vita uguale o superiore a quello degli ebrei, o, se si preferisce,

tra i non produttori (padroni, commercianti, professioni liberali, parassiti). Il

borghese infatti non produce: dirige, amministra, distribuisce, compra e

vende; la sua funzione è quella di entrare in rapporto diretto col

consumatore, la sua attività, cioè, si basa su un costante commercio con gli

uomini, mentre invece l'operaio, nell'esercizio del suo mestiere, è in

permanente contatto con le cose.

Ciascuno giudica la storia secondo la professione che esercita. Formato

dalla sua azione quotidiana sulla materia, l'operaio vede nella società il

prodotto di forze reali che agiscono secondo leggi rigorose. Il suo

«materialismo» dialettico significa che egli considera il mondo sociale nello

stesso modo in cui considera il mondo materiale. Il borghese invece e

l'antisemita in particolare hanno scelto di spiegare la storia con l'azione di

volontà individuali. Non è forse da queste stesse volontà che essi dipendono

nell'esercizio della loro professione '? Il loro comportamento rispetto ai fatti.

Faccio qui un'eccezione per l'ingegnere, l'imprenditore e lo scienziato, che

per i loro mestieri si avvicinano al proletariato e che d'altra parte non sono

frequentemente antisemiti. I fatti sociali è quello dei primitivi che

attribuiscono al vento o al sole una animula. Gli intrighi, le cabale, le

malvagità dell'uno, il coraggio e la virtù dell'altro: ecco ciò che determina il

corso del mondo. L'antisemitismo, fenomeno borghese, appare dunque

come scelta di spiegare gli avvenimenti collettivi con l'iniziativa

individuale. Senza dubbio il proletariato talvolta mette in caricatura «il

borghese» nei suoi manifesti e nei suoi giornali, nello stesso modo in cui

l'antisemita mette in caricatura «l'ebreo». Ma questa somiglianza esteriore

non deve ingannarci. Ciò che costituisce il borghese, per l'operaio, è la sua

Page 27: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

posizione di borghese, cioè un insieme di fattori esterni; e il borghese stesso

si riduce all'unità sintetica delle sue manifestazioni esteriormente visibili. E'

un insieme collegato di comportamenti. Per l'antisemita, ciò che costituisce

l'ebreo è la presenza in lui della «ebraicità», principio analogo al flogisto o

alla «virtus dormitiva» dell'oppio. Non bisogna ingannarsi: le spiegazioni

fondate sull'eredità e la razza sono giunte più tardi, sono come il tenue

rivestimento scientifico di questa convinzione primitiva; molto prima di

Mendel e Gobineau esisteva un orrore dell'ebreo e coloro che lo sentivano

non avrebbero potuto spiegarlo che dicendo, come Montaigne della sua

amicizia per La Boétie, «perché è lui, perché sono io». Senza questa virtù

metafisica le attività che si attribuiscono all'ebreo sarebbero assolutamente

incomprensibili. Come concepire infatti la follia ostinata d'un ricco

mercante ebreo che dovrebbe (se fosse ragionevole) augurarsi la prosperità

del paese in cui esercita il suo commercio e che, si dice, si accanisce invece

a rovinarlo? Come comprendere l'internazionalismo nefasto di uomini che

la loro famiglia, i loro affetti, le loro abitudini, i loro interessi, la natura e la

fonte della loro fortuna dovrebbero legare al destino di un determinato

paese? I furbi parlano di una volontà ebraica di dominare il mondo: ma

anche in questo caso, se non ne abbiamo la chiave, le manifestazioni di

questa volontà rischiano di sembrarci inintelligibili; poiché ora ci viene

mostrato dietro all'ebreo il capitalismo internazionale, l'imperialismo dei

trusts e dei mercanti di cannoni, e ora il bolscevismo col suo coltello tra i

denti, e non si esita a rendere egualmente responsabili del comunismo i

banchieri israeliti, che dovrebbero averne orrore, e dell'imperialismo

capitalista gli ebrei miserabili che popolano la rue des Rosiers. Ma tutto si

chiarisce se rinunciamo a esigere da parte dell'ebreo una condotta

ragionevole e conforme ai suoi interessi, per discernere in lui, invece, un

principio metafisico che lo spinge a fare il male in ogni circostanza, anche a

costo di distruggere se stesso. Questo principio - lo si intuisce facilmente - è

un principio magico; da una parte è un'essenza, una forma sostanziale e

l'ebreo, qualunque cosa faccia, non la può modificare, così come il fuoco

non può evitare di bruciare. E, d'altra parte, dal momento che bisogna potere

odiare l'ebreo e poiché non si odia un terremoto o la fillossera, questa virtù è

anche libertà. Solo che la libertà di cui si tratta è accuratamente limitata:

l'ebreo è libero di fare il male, non il bene, ed ha il libero arbitrio soltanto

per portare la piena responsabilità dei crimini di cui è autore, ma non ne ha

abbastanza per potersi correggere. Strana libertà che, in luogo di precedere e

di costituire l'essenza, le resta completamente sottomessa, non è che una

qualità irrazionale e resta tuttavia libertà. Non c'è che una creatura, a quanto

so, che sia così totalmente libera e incatenata al male, ed è lo Spirito del

Page 28: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Male medesimo, è Satana. Così l'ebreo è assimilabile allo spirito del male.

La sua volontà, all'inverso della volontà kantiana, è una volontà che si vuole

puramente, gratuitamente ed universalmente malefica, è la volontà malefica.

Per causa sua il Male accade sulla terra, tutto ciò che c'è di male nella

società (crisi, guerre, carestie, rivolgimenti e rivolte) gli è direttamente o

indirettamente imputabile. L'antisemita ha paura di scoprire che il mondo è

fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l'uomo si

ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità

angosciosa ed infinita. Perciò localizza nell'ebreo tutto il male dell'universo.

Se le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l'idea di

nazionalità, nella sua forma presente, implica quella dell'imperialismo e del

conflitto di interessi. No, è l'ebreo che sta lì, dietro ai governi, e soffia la

discordia. Se c'è una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che

l'organizzazione economica lascia a desiderare: sono i caporioni ebrei, gli

agitatori dal naso adunco che traviano gli operai. Così l'antisemitismo è

originariamente un manicheismo; spiega il corso del mondo con la lotta del

principio del Bene contro il principio del Male. Tra questi due principi non

è concepibile nessun accordo: bisogna che uno dei due trionfi e che l'altro

sia annientato. Guardate Celine: la sua visione dell'universo è catastrofica;

l'ebreo è dovunque, la terra è perduta, l'ariano deve badare a non

compromettersi, a non venire mai a patti. Ma stia in guardia: se respira, ha

già perso la sua purezza, perché l'aria stessa che penetra nei suoi bronchi è

insozzata. Non si direbbe questa la predicazione di un cataro? Se Celine ha

potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, lo ha fatto perché pagato. Nel

fondo del suo cuore non ci credeva: per lui non c'è soluzione che nel

suicidio collettivo, nella non procreazione, nella morte. Altri, Maurras o il

PPF, sono meno scoraggianti, prevedono una lunga lotta, spesso incerta con

il trionfo finale del Bene: è Ormuzd contro Ahriman. Il lettore ha compreso

che l'antisemita non ricorre al manicheismo come ad un principio

secondario di spiegazione. Ma è invece la scelta originale del manicheismo

che spiega e condiziona l'antisemitismo. Bisogna perciò domandarsi che

cosa possa significare per un uomo d'oggi questa scelta originale.

Confrontiamo per un istante l'idea rivoluzionaria della lotta di classe con il

manicheismo antisemita. Agli occhi del marxista la lotta di classe non è in

nessun modo il combattimento tra il Bene e il Male: è un conflitto di

interessi tra gruppi umani. Ciò che induce il rivoluzionario ad adottare il

punto di vista del proletariato è anzitutto il fatto che questa classe è la sua,

poi il fatto che è la classe oppressa, che è la classe di gran lunga più

numerosa e la sua sorte, per conseguenza, tende a confondersi con quella

dell'umanità, infine che le conseguenze della sua vittoria necessariamente

Page 29: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

comporteranno la soppressione delle classi. Lo scopo del rivoluzionario è

quello di cambiare l'organizzazione della società. E per ottenerlo occorre

senza dubbio distruggere il vecchio regime, ma questo non basterebbe:

prima di tutto conviene costruire un ordine nuovo. Se per assurdo la classe

privilegiata volesse concorrere alla costruzione socialista e si avessero

prove manifeste della sua buona fede, non ci sarebbe alcuna ragione valida

per respingerla. E se è assai improbabile che essa offra di buon grado il suo

concorso ai socialisti, è perché la sua stessa situazione di classe privilegiata

glielo impedisce, non certo per chissà quale demone interiore che la

spingerebbe suo malgrado ad agire male. In tutti i casi, delle frazioni di

questa classe, se se ne staccano, possono sempre essere aggregate alla classe

oppressa e queste frazioni saranno giudicate dai loro atti, non dalla loro

essenza. «Me ne infischio della vostra essenza eterna», mi diceva un giorno

Politzer.

Per il manicheista antisemita invece l'accento è posto sulla distruzione.

Non si tratta di un conflitto di interessi, ma dei danni che una potenza

malvagia causa alla società. Di conseguenza, il Bene consiste innanzitutto

nel distruggere il Male. Sotto l'acredine dell'antisemita si nasconde

l'ottimistica convinzione che l'armonia, una volta soppresso il Male, si

ristabilirà da sola. Il suo compito è dunque esclusivamente negativo. Non si

tratta di costruire una società, ma solamente di purificare quella che esiste.

Per ottenere questo scopo, il concorso degli ebrei di buona volontà sarebbe

inutile ed anzi nefasto e d'altra parte un ebreo non potrebbe essere di buona

volontà. Cavaliere del Bene, l'antisemita è sacro, l'ebreo è pure lui sacro a

suo modo: sacro come gli intoccabili, come gli indigeni colpiti da un tabù.

Così la lotta viene condotta su un piano religioso e la fine del

combattimento non può essere altro che una distruzione sacra. I vantaggi di

questa posizione sono molteplici: per prima cosa, essa favorisce la pigrizia

dello spirito. Abbiamo visto che l'antisemita non capisce niente della società

moderna, sarebbe incapace di concepire un piano costruttivo; la sua azione

non può collocarsi al livello della tecnica, ma si mantiene sul terreno della

passione. Ad una impresa di largo respiro egli preferisce un'esplosione di

rabbia analoga all'amok dei malesi. La sua attività intellettuale si rifugia

nell'interpretazione: cerca negli avvenimenti storici il segno della presenza

d'una potenza malvagia. Da ciò quelle invenzioni puerili e complicate che lo

rendono simile ai grandi paranoici. Ma d'altra parte l'antisemitismo

convoglia le spinte rivoluzionarie verso la distruzione di determinati

uomini, non delle istituzioni; una folla antisemita crederà d'aver fatto

abbastanza quando avrà massacrato alcuni ebrei e bruciato qualche

sinagoga.

Page 30: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Rappresenta dunque una valvola di sicurezza per le classi possidenti che

incoraggiandolo sostituiscono ad un odio pericoloso contro il regime un

odio benigno contro dei privati. E, soprattutto, questo dualismo ingenuo è

altamente rassicurante per l'antisemita stesso: se si tratta solo di togliere il

Male, ciò vuol dire che il Bene è già dato. Non c'è bisogno di cercarlo

nell'angoscia, di inventarlo, di contestarlo pazientemente quando lo si è

trovato, di provarlo nell'azione, di verificarlo nelle sue conseguenze e di

addossarsi finalmente le responsabilità della scelta morale che si è fatta.

Non a caso le grandi collere antisemitiche dissimulano un ottimismo:

l'antisemita ha deciso il Male per non dover decidere il Bene. Più mi

impegno a combattere il Male, meno sono tentato di occuparmi del Bene.

Non se ne parla, è sempre sottinteso nei discorsi dell'antisemita, e resta

sottinteso nel suo pensiero. Quando l'antisemita avrà compiuto la sua

missione di distruttore sacro, il Paradiso perduto si riformerà da sé. Per il

momento, tante faccende lo assorbono, che non ha il tempo di riflettervi: sta

sulla breccia, combatte e ciascuna delle sue indignazioni è un pretesto che

lo distoglie dal cercare il Bene nell'angoscia. Ma c'è di più, e qui tocchiamo

il campo della psicoanalisi. Il manicheismo maschera una profonda

attrazione verso il Male. Per l'antisemita il Male è il suo destino, il suo

«job». Altri verranno più tardi e si occuperanno del Bene, se ve ne sarà.

Quanto a lui, è agli avamposti della società, volge le spalle alle pure virtù

che difende: ha di fronte solo il Male, il suo dovere è di svelarlo,

denunciarlo, misurarne l'estensione. Eccolo dunque unicamente preoccupato

di ammassare gli aneddoti che rivelano la lubricità dell'ebreo, il suo appetito

di lucro, le sue scaltrezze e i suoi tradimenti. Si lava le mani nella lordura.

Si rilegga La France juive di Drumont: questo libro di un'«alta moralità

francese» è una raccolta di storie ignobili o oscene. Niente riflette meglio la

natura complessa dell'antisemita: poiché non ha voluto scegliere il suo Bene

e si è lasciato imporre, per paura di distinguersi dagli altri, quello di tutti, la

morale in lui non è mai basata sull'intuizione dei valori né su ciò che

Platone chiama l'Amore; si manifesta solamente con i tabù più rigidi, con

gli imperativi più rigorosi e più gratuiti. Ma ciò che egli contempla senza

riposo, ciò di cui ha l'intuizione e quasi il gusto, è il Male. Può così vagliare

e rivagliare sino all'ossessione la narrazione di azioni oscene o criminali che

lo turbano e soddisfano le sue tendenze perverse; ma poiché nello stesso

tempo le attribuisce a codesti ebrei infami che carica del suo disprezzo, si

sazia senza compromettersi. Ho conosciuto a Berlino un protestante nel

quale il desiderio prendeva la forma dell'indignazione. La vista di donne in

costume da bagno lo riempiva di furore; egli cercava volentieri quel furore e

passava il suo tempo nelle piscine.

Page 31: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Così è l'antisemita. Una delle componenti del suo odio è un'attrazione

profonda e sessuale per gli ebrei. Si tratta dapprima di una forma di

curiosità affascinata per il Male. Ma soprattutto, credo, essa sfocia nel

sadismo. Non si comprenderà niente dell'antisemitismo, infatti, se non ci si

ricorda che l'ebreo, oggetto di tanta esecrazione, è completamente innocente

e direi anzi inoffensivo. Così l'antisemita ha cura di parlarci di associazioni

ebraiche segrete, di massonerie temibili e clandestine. Ma se si incontra

faccia a faccia con un ebreo vede che si tratta, nella maggioranza dei casi, di

un essere debole e mal preparato alla violenza, non riesce nemmeno a

difendersi.

Questa debolezza individuale dell'ebreo, che lo consegna legato mani e

piedi al pogrom, l'antisemita non la ignora ed anzi se ne compiace. Così il

suo odio per l'ebreo non può paragonarsi a quello che gli italiani del 1830

avevano per gli austriaci, a quello che i francesi del 1942 avevano per i

tedeschi. In questi due ultimi casi si trattava di oppressori, di uomini duri,

crudeli e forti che possedevano armi, denaro, potenza e che potevano fare

del male ai ribelli più di quanto questi ultimi non potessero nemmeno

sognare di fare loro. In quegli odi le tendenze sadiche non c'erano. Ma

poiché per l'antisemita il Male si incarna in questi uomini disarmati e così

poco temibili, egli non si trova mai nella penosa necessità di essere eroico: è

divertente essere antisemita. Si può battere e torturare gli ebrei senza

timore: tutt'al più essi si appelleranno alle leggi della repubblica; ma le leggi

sono miti. Così l'attrazione sadica dell'antisemita per l'ebreo è tanto forte

che non è affatto raro vedere uno di questi nemici giurati di Israele

attorniarsi di amici ebrei. Naturalmente li battezzano «ebrei d'eccezione»,

affermano: «quelli non sono come gli altri». Nello studio del pittore di cui

ho parlato e che non disapprovava in nessun modo gli eccidi di Lublino,

c'era in evidenza il ritratto di un ebreo che gli era caro e che la Gestapo

aveva fucilato. Ma le loro proteste di amicizia non sono sincere, poiché non

giungono nemmeno a concepire il proposito di risparmiare gli «ebrei buoni»

e, pur riconoscendo alcune virtù a coloro che conoscono, non ammettono

che i loro interlocutori abbiano potuto trovare altri che fossero altrettanto

virtuosi. In realtà si compiacciono di proteggere alcune persone per una

specie di inversione del loro sadismo, si compiacciono di tenere sotto gli

occhi l'immagine vivente di quel popolo che esecrano. Le donne antisemite

hanno assai spesso un misto di repulsione e di attrazione sessuale per gli

ebrei.

Una di esse, che ho conosciuto, aveva rapporti intimi con un ebreo

polacco. Andava qualche volta a letto con lui e si lasciava carezzare il petto

e le spalle, ma niente più. Gioiva di sentirlo rispettoso e sottomesso, di

Page 32: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

indovinare il suo violento desiderio frenato, umiliato. Con altri uomini ebbe

in seguito rapporti sessuali normali.

C'è nelle parole «una bella ebrea» un significato sessuale del tutto

particolare e assai diverso da quello che si troverà per esempio nelle parole

«bella rumena», «bella greca» o «bella americana». Hanno come un aroma

di stupro e di massacro. La bella ebrea è quella che i cosacchi dello zar

trascinavano per i capelli lungo le strade del suo villaggio in fiamme; e i

libri «per amatori» dedicati alle storie di flagellazione danno un posto

d'onore agli israeliti. Ma non c'è bisogno di andare a scartabellare nella

letteratura clandestina. Dalla Rebecca di Ivanhoe fino all'ebrea di Gilles,

passando per quelle di Ponson du Terrail, le ebree hanno anche nei romanzi

più seri una funzione ben definita: frequentemente violentate o bastonate di

santa ragione riescono talvolta ad evitare il disonore con la morte, ma di

stretta misura; e quelle che conservano la loro virtù sono le serve docili o le

amanti umiliate di cristiani indifferenti che sposano delle ariane. Non

occorre di più, io credo, per sottolineare il valore di simbolo sessuale che

l'ebrea assume nel folklore. Distruttore per funzione, sadico dal cuore puro,

l'antisemita è nel profondo del cuore un criminale. Ciò che desidera, che

prepara, è la morte dell'ebreo. Certamente non tutti i nemici dell'ebreo

reclamano la sua morte apertamente, ma le misure che propongono e che,

tutte, tendono a degradarlo, umiliarlo, bandirlo, sono succedanei di

quell'assassinio che essi meditano nella loro mente: sono assassini

simbolici. Solo che l'antisemita ha dalla sua parte la sua coscienza: è un

crimine per giusta causa. Non è colpa sua, dopo tutto, se ha la missione di

vincere il Male col Male; la Francia reale gli ha delegato i suoi poteri d'alta

giustizia. Senza dubbio, non tutti i giorni ha occasione di usarne; ma non

lasciatevi ingannare: quelle collere improvvise che lo assalgono tutt'a un

tratto, quelle apostrofi tonanti ch'egli lancia contro i «giudei» sono

altrettante esecuzioni capitali; la coscienza popolare l'ha indovinato, se ha

inventato l'espressione «mangiaebrei». Così l'antisemita si è scelto

criminale, e criminale bianco: anche in ciò rifugge le responsabilità, ha

censurato i suoi istinti d'assassino, ma ha trovato il modo di saziarli senza

confessarli. Sa d'essere perverso, ma poiché fa il Male per il bene, poiché

tutto un popolo attende da lui la liberazione, egli si considera come un

perverso sacro. Per una sorta di capovolgimento di tutti i valori, di cui si

trovano esempi in certe religioni e per esempio in India dove esiste una

prostituzione sacra, è alla collera, all'odio, al saccheggio, all'assassinio, a

tutte le forme di violenza che si collegano, secondo lui, la stima, il rispetto,

l'entusiasmo; e nel momento stesso in cui la perversità lo ubriaca, sente in

sé la leggerezza e la pace che danno la coscienza tranquilla e la

Page 33: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

soddisfazione del dovere compiuto. Il ritratto è finito. Se molte persone che

di buon grado dichiarano di detestare gli ebrei non vi si riconoscono, lo si

deve al fatto ch'esse in realtà non detestano gli ebrei. Non li amano neppure.

Non farebbero loro il benché minimo male, ma non alzerebbero nemmeno il

dito mignolo per impedire che si faccia loro violenza. Non sono antisemiti,

non sono niente, non sono nessuno e poiché bisogna pur sembrare qualche

cosa, si fanno eco, rumore, vanno ripetendo, ma senza pensare male, senza

proprio pensarci, alcune formule orecchiate che danno loro diritto d'accesso

in certi salotti. Così conoscono le delizie di non essere altro che un vano

rumore, d'avere la testa piena d'una affermazione enorme che a loro sembra

tanto più rispettabile in quanto è presa a prestito. In questo caso

l'antisemitismo non è altro che una giustificazione; la futilità di tali persone

è d'altra parte così grande che abbandonano volentieri questa giustificazione

per un'altra qualunque, purché «distinta».

L'antisemitismo infatti è distinto, come tutte le manifestazioni di un'anima

collettiva irrazionale tendente a creare una Francia occulta e conservatrice.

Ripetendo a gara che l'ebreo è nocivo al paese, a tutte queste teste vuote

sembra di compiere un rito d'iniziazione che le rende partecipi dei focolai

sociali d'energia e di calore; in questo senso, l'antisemitismo ha conservato

qualche cosa dei sacrifici umani. Presenta inoltre un serio vantaggio per

coloro che conoscono la propria profonda inconsistenza e si annoiano:

permette loro di attribuirsi l'apparenza della passione e, siccome è di

prammatica, dopo il romanticismo, confondere questa con la personalità,

codesti antisemiti di seconda mano si fregiano con poca spesa d'una

personalità aggressiva. Un mio amico mi citava spesso un vecchio cugino

che veniva a pranzo dai suoi e di cui si diceva con una cert'aria: «Giulio non

può soffrire gli inglesi». Il mio amico non ricorda che si sia mai detto altro

sul conto del cugino Giulio. Ma ciò bastava: c'era un tacito contratto tra

Giulio e la sua famiglia, si evitava ostensibilmente di parlare degli inglesi

davanti a lui e questa precauzione gli dava una sembianza d'esistenza agli

occhi dei suoi parenti, mentre nello stesso tempo procurava loro il piacevole

sentimento di partecipare ad una cerimonia sacra. E quando in determinate

circostanze qualcuno, con deliberata premeditazione, lanciava quasi

inavvertitamente un'allusione alla Gran Bretagna o ai suoi domini, il cugino

Giulio allora fingeva di andare su tutte le furie e per un momento si sentiva

esistere; tutti erano contenti. Molti sono antisemiti come il cugino Giulio era

anglofobo e, beninteso, non si rendono affatto conto di ciò che il loro

atteggiamento implica davvero.

Puri riflessi, canne agitate dal vento, certamente non avrebbero inventato

l'antisemitismo se l'antisemita cosciente non esistesse già.

Page 34: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Ma sono loro che con tutta indifferenza assicurano la continuità

dell'antisemitismo e il cambio delle generazioni. Questo tipo siamo ora in

grado di comprenderlo. E' un uomo che ha paura. Non degli ebrei,

certamente: ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi

istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della

società e del mondo; di tutto meno che degli ebrei. E' un codardo che non

vuol confessarsi la sua viltà; un assassino che rimuove e censura la sua

tendenza al delitto senza poterla frenare e che pertanto non osa uccidere

altro che in effigie o nascosto dall'anonimato» d'una folla; uno scontento

che non osa rivoltarsi per paura delle conseguenze della sua rivolta.

Aderendo all'antisemitismo, non adotta semplicemente un'opinione, ma si

sceglie come persona.

Sceglie la permanenza e l'impenetrabilità della pietra, l'irresponsabilità

totale del guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo.

Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia

dovuto per nascita - e non è nobile.

Sceglie infine che il Bene sia bell'e fatto, fuori discussione, intoccabile:

non osa guardarlo per timore d'essere indotto a contestarlo e a cercarne un

altro. L'ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro, o del

giallo. La sua esistenza permette semplicemente all'antisemita di soffocare

sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da sempre

segnato nel mondo, che lo attende e che egli ha, per tradizione, il diritto

d'occuparlo. L'antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla

condizione umana. L'antisemita è l'uomo che vuole essere roccia spietata,

un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo.

Page 35: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Capitolo secondo

Gli ebrei hanno però un amico: il democratico. Ma è un misero difensore.

Proclama, è vero, che tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti; ha fondato

la Lega dei diritti dell'uomo. Ma le sue stesse dichiarazioni palesano la

debolezza della sua posizione. Egli ha scelto una volta per tutte, nel secolo

XVIII, lo spirito analitico. Non ha occhi per le sintesi concrete che la storia

gli presenta. Non conosce l'ebreo, né l'arabo, né il negro, né il borghese, né

l'operaio: ma solamente l'uomo, in tutti i tempi e in tutti i luoghi uguale a se

stesso. Tutte le collettività le risolve in elementi individuali. Un corpo fisico

è per lui una somma di molecole, un corpo sociale una somma d'individui. E

per individuo egli intende un'incarnazione particolare dei caratteri universali

che compongono la natura umana. Perciò l'antisemita e il democratico

continuano instancabilmente il loro dialogo senza mai comprendersi né

accorgersi che non parlano delle stesse cose. Se l'antisemita rimprovera

all'ebreo la sua avarizia, il democratico risponderà che conosce ebrei che

non sono avari e cristiani che lo sono. Ma l'antisemita non ne rimane

convinto: ciò che voleva dire era che esiste un'avarizia «ebraica», cioè

influenzata da quella totalità sintetica che è la persona ebrea. E converrà

senza esitazione che alcuni cristiani possono essere avari, poiché per lui

l'avarizia cristiana e l'avarizia ebraica non sono della stessa natura. Per il

democratico, invece, l'avarizia è una determinata natura universale e

invariabile che può aggiungersi all'insieme dei caratteri che compongono un

individuo e che rimane identica a se stessa in tutte le circostanze; non

esistono due maniere d'essere avaro, lo si è o non lo si è. Perciò per il

democratico come per lo scienziato, non esiste il caso singolo: l'individuo

non è per lui se non una somma di caratteri universali. Ne segue che la sua

difesa dell'ebreo salva l'ebreo in quanto uomo e lo annienta in quanto ebreo.

A differenza dell'antisemita, il democratico non ha paura di se stesso: ciò

che teme sono le grandi forme collettive in cui rischia di dissolversi. Perciò

ha scelto lo spirito analitico, perché lo spirito d'analisi non vede queste

realtà sintetiche. Da questo punto di vista egli teme che si svegli nell'ebreo

una «coscienza ebraica», cioè una coscienza della collettività israelita, come

teme nell'operaio il sorgere della «coscienza di classe». La sua difesa

consiste nel persuadere gli individui che essi esistono allo stato isolato.

Page 36: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

«Non esiste l'ebreo - dice - non esiste la questione ebraica». Ciò significa

che egli desidera separare l'ebreo dalla sua religione, dalla sua famiglia,

dalla sua comunità etnica, per infornarlo nel crogiuolo democratico, da cui

uscirà solo e nudo, particella individuale e solitaria, simile a tutte le altre

particelle. E' ciò che si chiamava, negli Stati Uniti, la politica

dell'assimilazione. Le leggi sull'immigrazione hanno provato il fallimento di

questa politica e, in definitiva, quello del punto di vista democratico. Come

potrebbe essere diversamente? Per un ebreo cosciente e fiero d'essere ebreo,

che rivendica la sua appartenenza alla comunità ebraica, senza disconoscere

per questo i legami che lo uniscono ad una collettività nazionale, non c'è

tanta differenza tra l'antisemita e il democratico. Quello vuole distruggerlo

come uomo per non lasciar sussistere in lui altro che l'ebreo, il paria,

l'intoccabile; questi vuole distruggerlo come ebreo per conservare in lui

soltanto l'uomo, il soggetto astratto e universale dei diritti dell'uomo e del

cittadino. Si può scorgere anche nel democratico più liberale una sfumatura

d'antisemitismo: è ostile all'ebreo nella misura in cui l'ebreo decide di

considerarsi come ebreo.

Questa ostilità si esprime con una specie d'ironia indulgente e divertita,

come quando dice d'un amico ebreo, la cui origine israelita è facilmente

riconoscibile: «E' veramente troppo ebreo», o quando dichiara: «La sola

cosa che rimprovero agli ebrei è il loro istinto gregario: se si permette ad

uno di loro di entrare in un affare, se ne porterà dietro una diecina». Durante

l'occupazione, il democratico era profondamente e sinceramente indignato

per le persecuzioni antisemitiche, ma di quando in quando sospirava: «Gli

ebrei ritorneranno dall'esilio con una scienza e una fame di vendetta tali che

temo una recrudescenza dell'antisemitismo». Ciò che temeva in realtà era

che le persecuzioni contribuissero a dare all'ebreo una autoconsapevolezza

più precisa. L'antisemita rimprovera all'ebreo di essere ebreo; il democratico

gli rimprovererebbe volentieri di considerarsi ebreo. Tra il suo avversario e

il suo difensore, l'ebreo sembra veramente a mal partito: sembra che non

abbia nient'altro da fare che scegliere l'albero a cui dovrà essere impiccato.

Conviene dunque porci a nostra volta la domanda: esiste l'ebreo? E se

esiste, chi è? E' prima di tutto un ebreo o prima di tutto un uomo? La

soluzione del problema sta nello sterminio di tutti gli israeliti o nella loro

totale assimilazione? Non si può intravedere un'altra maniera di porre il

problema e un'altra maniera di risolverlo?

Page 37: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Capitolo terzo

C'è un punto sul quale siamo d'accordo con l'antisemita: non crediamo

alla «natura» umana, non accettiamo di considerare una società come una

somma di molecole isolate o isolabili; crediamo che si debba considerare i

fenomeni biologici, psichici e sociali con spirito sintetico. Solo che ci

separiamo da lui rispetto alla maniera d'applicare questo spirito sintetico.

Non riconosciamo nessun «principio» ebraico e non siamo dei manichei,

non ammettiamo nemmeno che il «vero» francese sia l'immediato

depositario dell'esperienza e delle tradizioni lasciategli dai suoi antenati;

rimaniamo assai scettici riguardo all'eredità psicologica e non accettiamo

d'utilizzare i concetti etnici se non nei settori in cui hanno avuto conferme

sperimentali, e precisamente quelli della biologia e della patologia: per noi

l'uomo si definisce innanzitutto come un essere «in situazione». Ciò

significa che esso forma un tutto sintetico con la sua situazione biologica,

economica, politica, culturale, ecc.

Non si può distinguerlo da quella, poiché lo forma e decide le sue

possibilità, ma, inversamente, è lui che le dà un senso scegliendosi in quella

e mediante quella. Essere in situazione, secondo noi, significa scegliersi in

situazione e gli uomini differiscono tra di loro a seconda della differenza fra

le loro situazioni ed anche secondo la scelta che fanno della propria

persona. Ciò che c'è di comune tra tutti loro non è una natura, ma una

condizione, cioè un insieme di limiti e di necessità; la necessità di morire, di

lavorare per vivere, d'esistere in un mondo già abitato da altri uomini. E

questa condizione non è altro in fondo che la situazione umana

fondamentale o, se si preferisce, l'insieme dei caratteri astratti comuni a

tutte le situazioni. Concordo dunque col democratico sul fatto che l'ebreo

sia un uomo come tutti gli altri, ma ciò non m'insegna niente di particolare,

se non che egli è libero e allo stesso tempo è schiavo, che nasce, gode,

soffre e muore, che ama e che odia, come tutti gli uomini. Non posso

dedurre nient'altro da queste premesse troppo generali. Se voglio sapere chi

è l'ebreo, devo, poiché si tratta di un essere in situazione, interrogare

anzitutto la sua situazione. Premetto che limiterò la mia descrizione agli

ebrei della Francia, poiché è il problema dell'ebreo francese il nostro

problema. Non negherò che esiste una razza ebraica. Ma bisogna intendersi.

Page 38: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Se per razza s'intende quel complesso indefinibile in cui si fanno entrare alla

rinfusa caratteri somatici ed elementi intellettuali e morali, non posso

crederci più che ai tavolini a tre gambe. Ciò che chiamerò, in mancanza di

meglio, caratteri etnici, sono certe conformazioni fisiche ereditarie che si

incontrano più frequentemente presso gli ebrei che presso i non-ebrei. Ma

conviene essere ancora più prudenti: bisognerebbe piuttosto parlare di razze

ebraiche. Si sa che non tutti i semiti sono ebrei, ciò che complica il

problema; si sa pure che certi ebrei biondi della Russia sono ancor più

lontani da un ebreo crespo dell'Algeria che da un ariano della Prussia

orientale. In realtà ogni paese ha i suoi ebrei e la rappresentazione che

possiamo farci dell'israelita non corrisponde affatto a quella che se ne fanno

i nostri vicini. Quando abitavo a Berlino, al principio del regime nazista,

avevo due amici francesi, di cui uno era ebreo e l'altro no. L'ebreo

presentava un «tipo semita accentuato»: aveva il naso adunco, le orecchie a

sventola, le labbra tumide. Un francese lo avrebbe riconosciuto subito per

un israelita. Ma poiché era biondo, secco e flemmatico, i tedeschi non se ne

accorgevano affatto; egli si divertiva alle volte a uscire con delle SS che non

avevano il minimo dubbio sulla sua razza: un giorno uno di loro gli disse:

«Sono capace di riconoscere un ebreo a cento metri». L'altro amico mio,

invece, corso e cattolico, figlio e nipote di cattolici, aveva i capelli neri e un

po’ ricciuti, il naso borbonico, colorito pallido, era piccolo e grasso: i

monelli lo prendevano a sassate per strada chiamandolo «giudeo»:

assomigliava a un certo tipo d'ebreo orientale, la cui immagine è più

popolare presso i tedeschi. Comunque sia e pur ammettendo che tutti gli

ebrei abbiano in comune certi tratti fisici, non si può concluderne, se non

per la più vaga delle analogie, che essi debbano presentare anche i

medesimi elementi di carattere. Di più: i segni fisici che si possono

constatare nel semita sono spaziali, perciò giustapposti e separabili. Posso

trovarne uno in un ariano, a titolo isolato. Concluderei forse che questo

ariano ha quella tale qualità psichica ordinariamente attribuita all'ebreo? No,

evidentemente. Ma allora tutta la teoria razziale va a fondo: essa presuppone

che l'ebreo sia una totalità non scomponibile ed ecco che noi ne facciamo un

mosaico in cui ciascun elemento è una pietruzza che si può togliere e

collocare in un altro insieme; non possiamo né passare dal fisico al morale,

né postulare un parallelismo psicofisiologico. Se si dice che bisogna

considerare l'insieme dei caratteri somatici, risponderò: o questo insieme è

la somma dei tratti etnici e questa somma non può in nessun modo

rappresentare l'equivalente spaziale di una sintesi psichica, non più di

quanto un'associazione di cellule cerebrali possa corrispondere a un

pensiero; oppure, quando si parla dell'aspetto fisico dell'ebreo, s'intende una

Page 39: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

totalità sincretica che si offre all'intuizione. In questo caso, infatti, può darsi

una Gestalt nel senso in cui intende Kohler la parola, ed a questo fanno

allusione gli antisemiti quando pretendono di «fiutare l'ebreo», «avere il

senso dell'ebreo», ecc. Solo che è impossibile percepire gli elementi

somatici, prescindendo dai significati psichici che vi si mescolano. Ecco un

ebreo seduto sulla soglia della sua porta, nella rue des Rosiers. Lo

riconoscono subito per un ebreo: ha la barba nera e ricciuta, il naso

leggermente adunco, le orecchie a sventola, gli occhiali di ferro, il tubino

affondato fino agli occhi, un vestito nero, gesti rapidi e nervosi, un sorriso

d'una strana bontà dolorosa. Come dividere il fisico dal morale? La sua

barba è nera e ricciuta: è un carattere somatico. Ma ciò che più mi colpisce è

il fatto che se la lascia crescere; con ciò esprime il suo attaccamento alle

tradizioni della comunità ebraica, designa se stesso come proveniente dalla

Polonia, come appartenente a una prima generazione di immigrati; suo

figlio è forse meno ebreo per il fatto che si è rasato? Altri elementi, come la

forma del naso, le orecchie a sventola, sono puramente anatomici e altri

ancora puramente psichici e sociali, come la scelta del vestito e degli

occhiali, l'espressione e la mimica. Che cosa dunque me lo segnala come

israelita se non questo insieme non scomponibile, in cui lo psichico e il

fisico, il sociale, il religioso e l'individuale si compenetrano, se non questa

sintesi vivente che evidentemente non potrebbe essere trasmessa per eredità

e che in fondo è identica alla sua persona tutta intera? Consideriamo quindi

i caratteri somatici ed ereditari dell'ebreo come uno dei fattori della sua

situazione, non come una condizione determinante della sua natura. Poiché

non possiamo determinare l'ebreo per la sua razza, lo definiremo per la sua

religione o per l'appartenenza ad una comunità nazionale strettamente

israelita?

La questione si complica. Certo, in un'epoca passata esisteva una

comunità religiosa e nazionale che si chiamava Israele. Ma la storia di

questa comunità è quella d'una dissoluzione di venticinque secoli.

Dapprima perdette la sovranità: ci fu la cattività babilonese, poi la

dominazione persiana, infine la conquista romana. Non si può sostenere che

questo sia effetto d'una maledizione, a meno che non ci siano maledizioni

geografiche: la posizione della Palestina, crocicchio di tutte le vie

commerciali dell'antichità, schiacciata tra potenti imperi, basta a spiegare

questa lenta perdita della sovranità. Tra gli ebrei della diaspora e quelli che

erano rimasti nel loro territorio i legami religiosi si rafforzarono, sino ad

assumere il senso e il valore d'un legame nazionale. Ma questo «transfert»

manifestò, senza dubbio, una spiritualizzazione dei legami collettivi; e

spiritualizzazione significa, nonostante tutto, indebolimento. Poco dopo,

Page 40: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

d'altra parte ebbe luogo la scissione indotta dal cristianesimo: l'apparizione

della nuova religione provocò una grande crisi nel mondo israelita,

sollevando gli ebrei emigrati contro quelli della Giudea. Rispetto alla

«forma forte» assunta subito dal cristianesimo, la religione ebraica apparve

immediatamente come una forma debole, in via di disgregazione; si

mantenne solo con una complessa politica di concessioni e d'ostinazione.

Resiste alle persecuzioni ed alla grande dispersione degli ebrei nel mondo

medievale; molto meno resiste al progresso dell'illuminismo e dello spirito

critico. Gli ebrei che ci circondano hanno con la loro religione appena un

rapporto di cerimonia e di cortesia. Domandai ad uno di loro perché aveva

fatto circoncidere suo figlio. Mi rispose: «Perché faceva piacere a mia

madre, e poi perché è più igienico». «E vostra madre, perché ci teneva?».

«Per via dei suoi amici e dei suoi vicini.»

Comprendo che queste spiegazioni troppo razionali nascondono un

segreto e profondo bisogno di riattaccarsi alle tradizioni e di abbarbicarsi, in

mancanza d'un passato nazionale, a un passato di riti e di consuetudini.

Ma la religione qui non è altro, appunto, che un mezzo simbolico. Non ha

potuto resistere, almeno nell'Europa occidentale, agli attacchi congiunti del

razionalismo e dello spirito cristiano; gli ebrei atei che ho interrogato

riconoscono che il loro dialogo sull'esistenza di Dio prosegue con la

religione cristiana. La religione che attaccano e di cui vogliono sbarazzarsi è

il cristianesimo; il loro ateismo non si differenzia affatto da quello d'un

Roger Martin du Gard che dice di liberarsi della fede cattolica. Nemmeno

per un attimo sono atei contro il Talmud; e il prete, per tutti loro, è il curato,

non il rabbino.

Così dunque i dati del problema appaiono i seguenti: una comunità storica

concreta è essenzialmente nazionale e religiosa; ma la comunità ebraica, che

fu l'una e l'altra cosa, si è svuotata a poco a poco di questi caratteri concreti.

Sarebbe lecito definirla una comunità storica astratta. La sua dispersione

implica la disgregazione delle tradizioni comuni; e abbiamo notato più

sopra che i suoi venti secoli di dispersione e di impotenza politica le

impediscono d'avere un passato storico. Se è vero, come ha detto Hegel, che

una collettività è storica nella misura in cui ha la memoria della sua storia,

la collettività ebraica è la meno storica di tutte le società, poiché non può

serbare che la memoria d'un lungo martirio, cioè d'una lunga passività. Cosa

dunque mantiene alla comunità ebraica una parvenza d'unità? Per

rispondere a questa domanda, bisogna ritornare sull'idea di situazione.

Non è né il loro passato, né la loro religione, né il loro territorio ciò che

unisce i figli d'Israele. Se essi hanno un legame comune, se meritano tutti il

nome di ebrei, è perché hanno una posizione comune d'ebrei, cioè perché

Page 41: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

vivono nel seno d'una comunità che li considera ebrei. In una parola, l'ebreo

è perfettamente assimilabile da parte delle nazioni moderne, ma si definisce

come colui che le nazioni non vogliono assimilare. Ciò che pesa su di lui

originariamente è il fatto che egli è l'assassino del Cristo '. Si è riflettuto

sulla posizione intollerabile di questi uomini condannati a vivere nel seno

d'una società che adora il Dio che essi hanno ammazzato? Originariamente

dunque l'ebreo è un omicida o figlio d'un omicida - ciò che, agli occhi d'una

collettività che concepisce la responsabilità sotto forma prelogica, è

assolutamente la stessa cosa - e come tale egli è tabù. Non è questa,

evidentemente, una spiegazione dell'antisemitismo moderno; ma se

l'antisemita ha scelto l'ebreo per oggetto del suo odio, è a causa dell'orrore

religioso che costui ha sempre ispirato. Quest'orrore ha avuto per

conseguenza un curioso fenomeno economico: la chiesa del Medioevo ha

tollerato gli ebrei, invece di assimilarli con la forza o farli massacrare, in

quanto compivano una funzione economica di prima necessità: maledetti,

essi esercitavano un mestiere maledetto, ma indispensabile; non potendo

possedere terre né servire negli eserciti, praticavano il commercio del

denaro, che un cristiano non poteva maneggiare senza contaminarsi. Così

alla maledizione originaria s'è ben presto aggiunta una maledizione

economica ed è stata soprattutto quest'ultima a produrre gli effetti più

persistenti. Oggi si rimprovera agli ebrei di esercitare mestieri improduttivi,

Notiamo subito che si tratta d'una leggenda creata dalla propaganda

cristiana della diaspora.

E' abbastanza evidente che la croce è un supplizio romano e che il Cristo

è stato giustiziato dai romani come agitatore politico. senza rendersi conto

che la loro apparente autonomia nel seno della nazione proviene appunto

dal fatto che li si è relegati a questi mestieri, interdicendo loro tutti gli altri.

Perciò non è esagerato sostenere che sono stati i cristiani a creare l'ebreo,

provocando un brusco arresto della sua assimilazione e addossandogli, suo

malgrado, una funzione in cui poi ha eccelso. Anche in questo caso,

d'altronde, non si tratta che di un ricordo: la differenziazione delle funzioni

economiche è oggi tale, che non si può assegnare all'ebreo un compito

definito; tutt'al più si potrebbe notare che la sua lunga esclusione da certi

mestieri l'ha distolto dall'esercitarli anche quando gliene si è presentata la

possibilità. Ma di questo ricordo le società moderne si sono impossessate e

ne hanno fatto il pretesto e la base del loro antisemitismo. Perciò, se si vuole

sapere che cos'è l'ebreo contemporaneo, bisogna interrogare la coscienza

cristiana: bisogna chiederle non «che cosa è un ebreo?», ma «che cosa hai

fatto degli ebrei?». L'ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano

ebreo: ecco la verità semplice da cui bisogna partire. In questo senso il

Page 42: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

democratico ha ragione contro l'antisemita: è l'antisemita che fa l'ebreo. Ma

si avrebbe torto a ridurre la diffidenza, la curiosità, l'ostilità mascherata che

circondano gli israeliti alle manifestazioni intermittenti di alcuni fanatici.

L'abbiamo già visto, l'antisemitismo è l'espressione d'una società primitiva,

cieca e diffusa, che si mantiene allo stato latente nella collettività legale.

Non bisogna dunque supporre che uno slancio generoso, qualche buona

parola, un tratto di penna bastino a sopprimerlo: sarebbe come se si

immaginasse d'aver soppresso la guerra perché se ne sono denunziati gli

effetti in un libro. Senza dubbio, l'ebreo apprezza nel suo giusto valore la

simpatia che gli viene testimoniata, ma questa non può trattenerlo dal

vedere l'antisemitismo come una struttura permanente della comunità in cui

vive; e dal sapere, anche, che i democratici e tutti coloro che lo difendono

hanno la tendenza a destreggiarsi con l'antisemitismo. Difatti noi siamo una

repubblica, e tutte le opinioni sono libere. D'altra parte il mito dell'«unione

sacra» esercita ancora una tale influenza sui francesi, da renderli pronti ai

maggiori compromessi pur di evitare conflitti interni, soprattutto nei periodi

di crisi internazionale che sono, beninteso, anche quelli di più virulento

antisemitismo. Naturalmente è il democratico, ingenuo e pieno di buona

volontà, che fa tutte le concessioni: l'antisemita non ne fa nessuna. Ha il

beneficio della collera; si dice: «Non irritiamolo...», si parla sottovoce

intorno a lui. Nel 1940, per esempio, molti francesi si sono schierati col

governo petain, che non mancava di predicare l'unione, con i secondi fini

che tutti sanno. In seguito questo governo prese misure antisemite. I

«petainisti» non protestarono. Si sentivano assai poco a loro agio, ma che

fare? Se la Francia poteva esser salvata al prezzo di qualche sacrificio, non

era forse meglio chiudere gli occhi? Certamente, non erano antisemiti, anzi

si rivolgevano agli ebrei che incontravano con una commiserazione piena di

cortesia. Ma questi ebrei, come non avrebbero capito che si sacrificava la

loro sorte al miraggio di una Francia unita e patriarcale? Oggi, quelli che i

tedeschi non hanno deportato e assassinato riescono a tornare in patria.

Molti parteciparono alla resistenza dalla prima ora; altri hanno un figlio, un

cugino nell'armata di Ledere. La Francia intera gioisce o fraternizza sulle

strade, le lotte sociali sembrano provvisoriamente dimenticate;

Nota: Scritto nell'ottobre del 1944.

I giornali dedicano intere colonne ai prigionieri di guerra, ai deportati. Si

parlerà degli ebrei? Si saluterà il ritorno tra noi dei superstiti, si rivolgerà un

pensiero a coloro che sono morti nelle camere a gas di Lublino? Non una

parola. Non una riga nei quotidiani.

Page 43: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Non bisogna irritare gli antisemiti. Più che mai la Francia ha bisogno di

unione. I giornalisti ben intenzionati vi dicono: «Nello stesso interesse degli

ebrei, non bisogna parlare troppo di loro in questo momento». Per quattro

anni la società francese è vissuta senza di loro, conviene non segnalare

troppo la loro riapparizione. Si crede forse che gli ebrei non si rendano

conto della situazione? Si crede forse che non comprendano le ragioni di

questo silenzio? Alcuni di loro approvano questo atteggiamento e dicono:

«Meno si parlerà di noi, meglio sarà». Un francese sicuro di sé, della sua

religione, della sua razza può arrivare a comprendere lo 'stato d'animo che

detta una simile affermazione? Non ci rendiamo conto che solo essendo

stati sopraffatti per anni, nel proprio paese, dall'ostilità, da una diffidenza

sempre sull'avviso, da un'indifferenza sempre pronta a volgersi al peggio, si

può giungere a questa saggezza rassegnata, a questa politica del silenzio?

Hanno fatto dunque un ritorno clandestino; la loro gioia d'esser liberati non

si è fusa con la gioia della nazione. Che ne abbiano sofferto, basta a

provarlo il seguente fatterello: avevo scritto nelle «Lettres Francaises»,

senza pensarci gran che, a titolo d'enumerazione completa, non so quale

frase sulle sofferenze dei prigionieri, dei deportati, dei detenuti politici e

degli ebrei. Alcuni israeliti mi hanno ringraziato in una maniera

commovente: in che stato di abbattimento dovevano trovarsi, per pensare di

ringraziare un autore di aver solamente scritto la parola ebreo in un articolo?

Dunque l'ebreo è in situazione d'ebreo perché vive nel seno d'una collettività

che lo considera ebreo. Ha nemici appassionati e difensori senza passione. Il

democratico fa professione di moderazione; biasima e ammonisce mentre si

dà fuoco alle sinagoghe. E' tollerante per natura; ha persino lo snobismo

della tolleranza, che intende sia estesa anche ai nemici della democrazia:

non fu forse di moda, nella sinistra radicale, considerare Maurras un genio?

Come negare comprensione all'antisemita? Il democratico è come

affascinato da tutti coloro che meditano la sua perdita. Forse, nel fondo di se

stesso, quasi rimpiange la violenza di cui ha voluto negarsi l'uso. E

soprattutto la partita non è uguale; perché il democratico mettesse un po’ di

calore per patrocinare la causa dell'ebreo, occorrerebbe che fosse manicheo

anche lui e parteggiasse per il Principio del Bene. Ma come sarebbe

possibile? Il democratico non è pazzo. Si fa avvocato dell'ebreo perché vede

in lui un membro dell'umanità; ma l'umanità ha anche altri membri, che

bisogna difendere nello stesso modo. Il democratico ha molto da fare: si

occupa dell'ebreo quando ne ha il tempo; l'antisemita non ha che un solo

nemico, può pensarvi continuamente; è lui che dà il tono. Attaccato

vigorosamente, debolmente difeso, l'ebreo non può non sentirsi in pericolo,

in una società in cui l'antisemitismo è la tentazione perpetua. Ecco ciò che

Page 44: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

bisogna esaminare più da vicino. Gli ebrei francesi sono in maggioranza dei

piccoli o dei grossi borghesi. Esercitano per lo più mestieri che io chiamerei

d'opinione, nel senso che il successo dipende non dall'abilità di lavorare la

materia, ma dall'opinione che gli altri uomini hanno di voi. Siate avvocato o

cappellaio, la clientela verrà se voi piacete. Ne consegue che i mestieri di

cui parliamo sono pieni di cerimonie: bisogna sedurre, trattenere,

accattivarsi la fiducia; la correttezza nel modo di vestire, la severità

apparente del comportamento, l'onorabilità fanno parte di quelle cerimonie,

di quelle mille piccole danze che bisogna fare per attrarre il cliente. Perciò

la cosa più importante è la reputazione: ci si fa una reputazione, si vive di

essa, vale a dire che in fondo si è in completa balia degli altri, mentre il

contadino ha a che fare con la sua terra, l'operaio con la materia e i suoi

utensili.

Ora, l'ebreo si trova in una situazione paradossale; gli è lecito guadagnare,

come gli altri e con gli stessi procedimenti, una reputazione d'onestà. Ma

questa s'aggiunge a una prima reputazione precostituita e di cui non può

sbarazzarsi qualunque cosa faccia: quella d'essere ebreo. Un operaio ebreo

dimenticherà nella sua miniera, sul suo vagoncino, nella sua fonderia, di

essere ebreo. Un commerciante ebreo non può dimenticarlo. Per quanto

moltiplichi gli atti di disinteresse e di onestà, lo si chiamerà forse un buon

ebreo. Ma ebreo è e resterà.

Almeno, quando lo si qualifica onesto o disonesto, egli sa di che cosa si

tratta. Serba memoria degli atti che hanno valso queste qualifiche.

Ma quando lo si chiama ebreo, la cosa è completamente diversa: non si

tratta infatti d'una condizione speciale ma di un certo modo di fare comune

a tutti i suoi atti. Gli si è ripetuto che un ebreo pensa come un ebreo, dorme,

beve, mangia come un ebreo, è onesto o disonesto alla maniera ebraica.

Orbene, questo modo di fare, per quanto si esamini, non riesce a scoprirlo

nei suoi atti. Abbiamo forse coscienza del nostro stile di vita? In realtà,

siamo troppo aderenti a noi stessi per poter assumere su di noi un punto di

vista obiettivo, da testimoni. Nondimeno, questa breve parola «ebreo» è

apparsa un bel giorno nella sua vita e non ne è più uscita. Certi ragazzi

hanno fatto a pugni fin dall'età di sei anni con dei compagni di scuola che li

chiamavano «giudei». Altri sono stati tenuti per lungo tempo nell'ignoranza

della loro razza. Una giovinetta israelita, d'una famiglia di mia conoscenza,

giunse ai quindici anni ignorando perfino il significato della parola ebreo.

Durante l'occupazione un dottore ebreo di Fontainebleau, che viveva

chiuso in casa sua, allevava i nipoti senza dir loro una parola sulla loro

origine. Ma, comunque sia, bisogna che in un modo o nell'altro apprendano

un giorno la verità: a volte dai sorrisi della gente che li attornia, altre volte

Page 45: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

da una diceria o da insulti. Più tardiva è la scoperta, più violenta ne è la

scossa: di colpo s'accorgono che gli altri sapevano qualche cosa di loro

ch'essi stessi ignoravano, che si applicava loro un epiteto losco ed

inquietante, non usato nelle loro famiglie. Si sentono divisi, separati dalla

società dei ragazzi normali che corrono e giocano tranquillamente intorno a

loro, e non hanno un nome speciale. Rientrano in casa, guardano il padre, e

pensano: «Anche lui è un ebreo?» ed il rispetto che gli portano ne viene

avvelenato. E' inevitabile che conservino per tutta la vita il marchio di

questa prima rivelazione. Si è cento volte descritto il turbamento che nasce

in un bambino quando d'un tratto scopre che i suoi genitori hanno rapporti

sessuali: analogo è il turbamento del piccolo ebreo che guarda furtivamente

i suoi genitori e pensa: «Sono ebrei». Nella sua famiglia invece gli si dice

che bisogna esser fiero d'essere ebreo. Non sa più a chi credere, oscilla tra

l'umiliazione, l'angoscia e l'orgoglio. Sente che è a parte, ma non comprende

ciò che lo mette da parte, non è sicuro che d'una cosa sola: che agli occhi

degli altri, qualunque cosa faccia, egli è e rimarrà ebreo. Ci si è indignati, e

a ragione, dell'immonda «stella gialla» che il governo tedesco imponeva

agli ebrei. Ciò che sembrava insopportabile era il fatto che si segnalasse

l'ebreo all'attenzione, che lo si obbligasse a sentirsi perpetuamente ebreo

sotto gli occhi degli altri. Si era arrivati al punto che si cercava in tutti i

modi di testimoniare una simpatia cortese ai disgraziati così segnati. Ma

avendo certe persone ben intenzionate incominciato a togliersi il cappello

incontrando degli ebrei, questi hanno dichiarato che quei saluti erano loro

assai penosi. Sotto gli sguardi protettivi, umidi di compassione che li

accompagnavano, sentivano di diventare degli oggetti. Oggetti di

commiserazione, di pietà, fin che si vuole: ma oggetti. I virtuosi liberali

avevano l'occasione di fare un gesto generoso, una manifestazione: gli ebrei

non erano se non un'occasione; i liberali erano liberi, completamente liberi,

di fronte all'ebreo, di stringergli la mano o di sputargli in faccia, decidevano

secondo la loro morale, secondo la scelta che avevano fatto di se stessi;

l'ebreo non era libero d'essere ebreo. Cosi le anime più forti preferivano

ancora il gesto d'odio a un gesto di carità, perché l'odio è una passione ed

essa sembra meno libera, mentre la carità si fa dall'alto in basso. Tutto ciò

noi l'abbiamo compreso così bene che, alla fine, volgevamo gli occhi

quando incontravamo un ebreo che portava la stella. Non ci sentivamo a

nostro agio, messi in soggezione dal nostro proprio sguardo che, se si

posava su di lui, lo marcava come ebreo, a dispetto suo, a dispetto nostro; la

risorsa suprema della simpatia, dell'amicizia, era in questo caso il fingere

d'ignorarlo: poiché, qualunque sforzo tentassimo per raggiungere la persona,

era l'ebreo che necessariamente dovevamo incontrare. Come non accorgersi

Page 46: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

che l'ordinanza nazista non aveva fatto altro che spingere all'estremo una

situazione di fatto alla quale ci eravamo adattati assai bene già prima? Prima

dell'armistizio l'ebreo non portava la stella, ma il suo nome, il suo volto, i

suoi gesti, mille altri elementi lo designavano come ebreo; passeggiasse per

le strade, entrasse in un caffè, in un negozio, in un salotto, si sapeva marcato

come ebreo. Se qualcuno gli si avvicinava con un'aria troppo aperta e troppo

ridente, sapeva che diventava oggetto d'una manifestazione di tolleranza,

che il suo interlocutore l'aveva scelto come pretesto per dichiarare al mondo

e dichiarare a se stesso: io sono largo d'idee, io non sono antisemita, io

conosco solo gli individui e ignoro le razze.

Pure, dentro di sé, l'ebreo si reputa uguale agli altri: parla la loro lingua ed

ha gli stessi interessi di classe, gli stessi interessi nazionali, legge i giornali

che essi leggono, vota come gli altri, comprende le loro opinioni e le

condivide. Ma gli si lascia capire che non c'è niente da fare, poiché ha una

«maniera ebraica» di parlare, di leggere, di votare. Se domanda spiegazioni,

gli si traccia un ritratto in cui non si riconosce. Cionondimeno è il suo,

senza dubbio alcuno, poiché milioni di persone sono d'accordo nel

sostenerlo. Che cosa può fare? Vedremo ben presto che la radice

dell'inquietudine ebraica sta proprio in questa necessità in cui si trova

l'ebreo di interrogare se stesso senza posa e finalmente di prender partito sul

personaggio fantasma, sconosciuto e familiare, inafferrabile e vicinissimo,

che lo ossessiona e che non è altro che lui stesso, lui stesso come è per gli

altri. Si dirà che questo è il caso di ciascuno di noi, che tutti abbiamo un

carattere familiare per il nostro prossimo e che ci sfugge.

Senza dubbio: ciò non è in fondo che l'espressione della nostra relazione

fondamentale con l'Altro. Ma l'ebreo ha come noi un carattere e per di più è

ebreo. Si tratta per lui, in un certo senso, d'un raddoppiamento della

relazione fondamentale con gli altri. Egli è superdeterminato. Ciò che rende,

ai suoi occhi, la sua posizione ancora più incomprensibile è il fatto di

godere dei pieni diritti di cittadino, per lo meno fino a quando la società in

cui vive è in equilibrio. Nei periodi di crisi e di persecuzione, è cento volte

più disgraziato, ma per lo meno può rivoltarsi e, per una dialettica analoga a

quella descritta da Hegel nel «padrone e schiavo», ritrovare la sua libertà

contro l'oppressione, negare la sua natura maledetta d'ebreo resistendo con

le armi a coloro che vogliono imporgliela. Ma quando tutto è calmo, contro

chi può rivoltarsi? Egli accetta certamente la collettività che lo circonda,

poiché vuol stare al gioco e si piega a tutte le cerimonie d'uso, ballando

come gli altri il ballo dell'onorabilità e della rispettabilità; d'altra parte, non

è schiavo di nessuno: libero cittadino in un regime che autorizza la libera

concorrenza, nessuna dignità sociale, nessuna carica di stato gli è interdetta;

Page 47: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

verrà decorato con la Legione d'onore, sarà grande avvocato, ministro. Ma

nel momento stesso in cui raggiunge la vetta della società legale, un'altra

società amorfa, diffusa ed onnipresente gli si discopre in un baleno e gli si

rifiuta. Egli avverte in maniera del tutto speciale la vanità degli onori e della

fortuna poiché il maggior successo non gli permetterà mai l'accesso a quella

società che pretende d'essere la vera: ministro, sarà un ministro ebreo, nello

stesso tempo un'eccellenza e un intoccabile. Beninteso, non trova nessuna

speciale resistenza: ma intorno a lui si crea come una fuga, si scava un

vuoto impalpabile e soprattutto una invisibile chimica toglie valore a tutto

ciò che tocca.

In una società borghese, infatti, il mescolarsi perpetuo degli individui, le

correnti di vita collettive, le mode, le consuetudini creano i valori. I valori

della letteratura, dei mobili, delle case, dei paesaggi provengono in gran

parte da queste condensazioni spontanee che si depositano sugli oggetti

come una leggera rugiada; sono strettamente nazionali e risultano dal

funzionamento normale d'una collettività tradizionalista e storica. Essere

francese non vuol dire solo essere nato in Francia, votare, pagare le imposte;

vuol dire soprattutto aver l'uso e l'intelligenza di questi valori. E quando si

partecipa alla loro creazione, si è in un certo senso rassicurati su se stessi, si

è giustificati d'esistere per una specie d'adesione all'intera collettività; saper

apprezzare un mobile Luigi XVI, la finezza d'un motto di Chamfort, un

paesaggio dell'Ile-de-France, un quadro di Claude Lorrain è affermare e

sentire la propria appartenenza alla società francese, è rinnovare un tacito

contratto sociale con tutti i membri di essa. Di colpo la vaga contingenza del

nostro esistere svanisce e le subentra la necessità d'un'esistenza di diritto.

Ciascun francese che si commuove alla lettura di Villon, alla vista del

palazzo di Versailles, diviene funzione pubblica e soggetto di diritti

imprescrittibili.

Orbene, l'ebreo è l'uomo cui si nega, per principio, l'accesso ai valori.

Anche l'operaio è nelle stesse condizioni. Ma la situazione è diversa: egli

può respingere con disprezzo i valori e la cultura borghesi, può pensare di

sostituirvi i propri valori. L'ebreo, in via di principio, appartiene alla stessa

classe delle persone che lo negano, ha gli stessi loro gusti e il loro modo di

vita: egli tocca questi valori, ma non li vede, essi dovrebbero essere suoi e

gli vengono rifiutati. Gli si dice che è cieco. Naturalmente ciò è falso: si

crede dunque davvero che Bloch, Cremieux, Suares, Schwob, Benda

comprendano meno le grandi opere francesi di un droghiere o d'un agente di

polizia cristiani? Si crede dunque davvero che Max Jacob sapesse

maneggiare meno bene la nostra lingua d'un segretario municipale

«ariano?» E Proust, mezzo ebreo, comprendeva forse Racine soltanto a

Page 48: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

metà? E chi comprendeva meglio Stendhal fra l'ariano Chuquet, celebre

cacografo, e l'ebreo Leon Blum? Ma poco importa che ciò sia un errore, il

fatto è che questo errore è collettivo. E l'ebreo deve decidere da se stesso se

ciò è vero o falso, meglio ancora: bisogna che ne faccia la prova. Ci si potrà

sempre intendere, poi, per ricusare la prova che fornirà. Potrà andare tanto

oltre quanto vuole nella comprensione di un'opera, di un costume, di

un'epoca, di uno stile: ciò che formerà il vero valore dell'oggetto

considerato, valore accessibile ai soli francesi della Francia reale, sarà

proprio ciò che è «al di là», ciò che non può esprimersi con parole. Invano

argomenterà sulla sua cultura, sui suoi lavori: è una cultura ebraica, sono

lavori ebraici, egli è l'ebreo proprio per il fatto che non sospetta nemmeno

ciò che deve esser compreso. Così si tenta di persuaderlo che a lui sfugge il

vero senso delle cose, si forma intorno a lui una nebbia inafferrabile che è la

vera Francia, coi suoi veri valori, il suo vero tatto, la sua vera moralità, cui

egli non partecipa in alcun modo. Può, nondimeno, acquistare tutti i beni

che vuole, terre e castelli, se ne ha i mezzi: ma nel momento stesso in cui ne

diviene proprietario legale, la proprietà cambia sottilmente significato. Solo

un francese, figlio di francesi, figlio o nipote di contadini è capace di

possedere realmente.

Per possedere una casupola in un villaggio, non basta averla comperata

con moneta sonante, bisogna conoscere tutti i vicini, i loro parenti e avi, le

colture circostanti, i faggi e le querce del bosco, saper coltivare la terra,

pescare, cacciare, aver inciso delle tacche sugli alberi nell'infanzia e

ritrovarle ampliate nell'età matura. Si può esser sicuri che l'ebreo non

adempie a queste condizioni. Magari nemmeno il francese vi adempie, ma

esistono delle grazie di fatto, esiste una maniera ebraica e una maniera

francese di confondere l'avena col frumento. Così l'ebreo rimane lo

straniero, l'intruso, l'inassimilato nel seno stesso della collettività. Tutto gli è

accessibile e nondimeno non possiede niente: poiché ciò che si possiede -

gli si dice - non si compera. Tutto ciò che tocca, tutto ciò che acquista perde

valore tra le sue mani; i beni della terra, i veri beni, sono sempre quelli che

non ha. Cionondimeno egli sa di contribuire nella stessa misura degli altri a

forgiare l'avvenire della collettività che lo respinge. Ma se l'avvenire è suo,

per lo meno gli si rifiuta il passato. E d'altra parte, bisogna riconoscerlo, se

si volge al passato, vede che la sua razza non vi ha parte alcuna: né i re di

Francia, né i loro ministri, né i grandi capitani, né i grandi signori, né gli

artisti, né gli scienziati furono ebrei; non è l'ebreo che ha fatto la rivoluzione

francese. La ragione è semplice: fino al diciannovesimo secolo gli ebrei,

come le donne, erano sotto tutela, perciò il loro contributo alla vita politica

e sociale, come quello delle donne, è di data recente. I nomi di Einstein, di

Page 49: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Charlie Chaplin, di Bergson, di Chagall, di Kafka bastano a dimostrare ciò

che avrebbero potuto apportare al mondo, se fossero stati emancipati prima.

Ma le cose stanno così. Questi francesi non hanno a loro disposizione la

storia di Francia. La loro memoria collettiva non fornisce che oscuri ricordi

di pogrom, di ghetti, di esodi, di grandi sofferenze monotone, venti secoli di

ripetizione, non di evoluzione. L'ebreo non è ancora storico e nondimeno è,

o quasi, il più vecchio dei popoli: è questo a dargli quell'aria perpetuamente

anziana e sempre nuova; non manca di saggezza, manca di storia. Ciò non

ha importanza, si dirà: accogliamolo fra noi senza riserve: la nostra storia

sarà la sua o per lo meno quella di suo figlio. Ma è proprio ciò che non si

vuol fare. Così l'ebreo oscilla, incerto, sradicato. E non si azzardi, d'altra

parte, a volgersi verso Israele per trovare una comunità e un passato che

compensino quelli che gli sono rifiutati.

Questa comunità ebraica che non è basata né sulla nazione, né sulla terra,

né sulla religione, almeno nella Francia contemporanea, né su interessi

materiali, ma su un'identità di situazione, potrebbe rappresentare un legame

veramente spirituale di sentimento, di cultura, di mutuo aiuto. Ma subito i

suoi nemici diranno che si tratta di un legame etnico ed egli stesso, assai

imbarazzato, userà forse, per designarla, la parola razza. Di colpo darà

ragione all'antisemita: «Vedete bene che esiste una razza ebraica, essi stessi

lo riconoscono e tendono sempre a raggrupparsi insieme». E infatti se gli

ebrei vogliono attingere da questa comunità una legittima fierezza, poiché

non possono essere orgogliosi né di un'opera collettiva specificamente

ebraica, né di una civiltà propriamente israelita, né di un misticismo

comune, bisognerà pure che finiscano con l'esaltare delle qualità razziali.

Così l'antisemita vince tutte le partite. In una parola, si esige dall'ebreo,

intruso nella società francese, che egli vi viva isolato. Se non si adatta, lo si

insulta. Ma se obbedisce, non lo si assimila ugualmente, lo si tollera. Per di

più lo si mette sospettosamente alle strette in ogni occasione perché

«fornisca la prova». In caso di guerra o di rivolta, il «vero» francese non ha

da fornire nessuna prova: compie semplicemente i suoi obblighi militari o

civili. Ma per l'ebreo, non è la stessa cosa: egli può essere certo che

qualcuno conterà con animo malevolo il numero degli ebrei sotto le armi.

Così di colpo egli si troverà corresponsabile per tutti i suoi correligionari.

Anche se ha superato l'età per potersi battere, sentirà - - voglia o non voglia

- - la necessità di arruolarsi perché ovunque si pretende che gli ebrei

s'imboscano. Voce fondata, si dirà. Ma no: in un'analisi di Stekel su un

complesso giudaico di cui parlerò in seguito, leggo questa frase: «I cristiani

erano abituati a dire è un'ebrea che parla. Gli "ebrei quando possono si

tirano sempre indietro". Perciò mio marito volle arruolarsi volontario».

Page 50: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Orbene, eravamo all'inizio della guerra del '14 e l'Austria non aveva avuto

guerre dopo quella del 1866, condotta con un esercito di mestiere. La

reputazione che avevano gli ebrei in Austria, e che avevano pure in Francia,

è dunque semplicemente il frutto spontaneo della diffidenza verso l'ebreo.

Nel 1938, nel momento della crisi internazionale che si sciolse a Monaco, il

governo francese chiamò alle armi soltanto alcune categorie della riserva: la

maggior parte degli uomini atti alle armi non era stata ancora mobilitata. E

tuttavia già allora si gettavano pietre contro la vetrina d'un amico mio,

commerciante ebreo di Belleville, trattandolo da imboscato. Perciò l'ebreo,

per esser lasciato in pace, dovrebbe venir mobilitato prima degli altri,

dovrebbe, in caso di carestia, esser più affamato degli altri; se una disgrazia

collettiva colpisce il paese, deve essere il più colpito. Quest'obbligo

perpetuo di fornire la prova d'essere francese ha come conseguenza per

l'ebreo una situazione di colpevolezza: se non fa in tutte le occasioni più

degli altri, molto di più degli altri, è colpevole. E' uno sporco ebreo; e si

potrebbe dire, parodiando una frase di Beaumarchais: a giudicare dalle

qualità che si esigono da un ebreo per assimilarlo a un «vero» francese,

quanti francesi sarebbero degni d'essere ebrei nel loro proprio paese? Poiché

l'ebreo dipende dall'opinione degli altri per la professione che esercita, per i

suoi diritti e per la sua vita, la sua situazione è assolutamente instabile;

legalmente inattaccabile, egli è alla mercé degli umori, delle passioni della

società «reale». Spia i progressi dell'antisemitismo, prevede le crisi, i

parossismi, come il contadino spia e prevede i temporali: calcola senza

tregua le ripercussioni che gli avvenimenti esterni avranno sulla sua

posizione. Anche se accumula garanzie legali, ricchezze, onori, ciò lo fa

solo più vulnerabile; ed egli lo sa. Perciò gli sembra che i suoi sforzi siano

sempre coronati dal successo (poiché conosce i grandiosi successi della sua

razza) e che, contemporaneamente, una maledizione li renda vani; non

raggiunge mai la sicurezza del più umile cristiano. Questo è forse uno dei

significati del Processo dell'israelita Kafka: come l'eroe del romanzo, l'ebreo

è alle prese con un lungo processo, non conosce i suoi giudici, un po’

meglio i suoi avvocati, non sa ciò che gli si rimprovera, e nondimeno sa che

lo si considera colpevole; il giudizio viene costantemente rimandato di

settimana in settimana, di quindicina in quindicina, ed egli ne approfitta per

garantirsi in mille modi; ma ognuna di queste precauzioni prese alla cieca lo

sprofonda sempre un poco di più nella sua colpevolezza: la sua posizione

esteriore può sembrare brillante, ma l'interminabile processo lo rode

invisibilmente e accade alle volte, come nel romanzo, che degli uomini lo

afferrino, lo trascinino via, con la pretesa ch'egli ha perso il suo processo, e

lo massacrino in uno spiazzo deserto della periferia. Gli antisemiti hanno

Page 51: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

ragione di dire che l'ebreo mangia, beve, legge, dorme e muore come un

ebreo. Come potrebbe fare diversamente? Hanno sottilmente avvelenato il

suo nutrimento, il suo sonno e perfino la sua morte; come potrebbe essere

diversamente, se ogni minuto è costretto a prendere posizione di fronte a

questo avvelenamento? E non appena mette il piede fuori, in un luogo

pubblico, non appena sente su di sé lo sguardo di coloro che un giornale

ebraico chiama «Loro», con un misto di timore, di disprezzo, di rimprovero,

d'amore fraterno, bisogna che si decida: accetta o non accetta la parte che gli

si fa rappresentare? E se accetta, in che misura? E se rifiuta, rifiuta anche

ogni parentela con gli altri israeliti? o solamente una parentela etnica?

Qualunque cosa faccia, è lanciato su questa strada. Può scegliere d'essere

coraggioso o vile, triste o gaio, può scegliere di ammazzare i cristiani

oppure di amarli.

Ma non può scegliere di non essere ebreo. O piuttosto, se sceglie questo,

se dichiara che l'ebreo non esiste, se nega violentemente, disperatamente in

sé il carattere ebraico, è precisamente in ciò che egli è ebreo. Poiché io, che

non sono ebreo, non ho niente da negare, né da provare, mentre invece se

l'ebreo ha deciso che la sua razza non esiste, deve egli stesso darne la prova.

Essere ebreo vuol dire venir gettato, abbandonato nella situazione ebraica, e

vuol dire, allo stesso tempo, essere responsabile nella e con la propria

persona del destino e della natura stessa del popolo ebraico. Qualunque cosa

dica o faccia l'ebreo, abbia una coscienza oscura o chiara delle sue

responsabilità, per lui è come se dovesse confrontare tutte le sue azioni con

un imperativo di tipo kantiano, come se dovesse domandarsi, in ogni caso:

«Se tutti gli ebrei agissero come me, che cosa avverrebbe della realtà

ebraica?». E alle domande che si pone («che cosa succederebbe se tutti gli

ebrei fossero sionisti o, al contrario, se si convertissero tutti al cristianesimo,

se tutti gli ebrei negassero di essere ebrei, ecc.») deve rispondersi da se

stesso e senza alcun aiuto, scegliendosi da solo. Se si è d'accordo con noi

che l'uomo è una «libertà in situazione», si concepirà facilmente che questa

libertà possa definirsi come autentica o non autentica, a seconda della scelta

che fa di se stessa nella situazione da cui sorge. L'autenticità, va da sé,

consiste nel prendere una coscienza lucida e veridica della situazione,

nell'assumere le responsabilità e i rischi che tale situazione comporta, nel

rivendicarla nella fierezza o nell'umiliazione, a volte nell'orrore e nell'odio.

Non c'è dubbio che l'autenticità richiede molto coraggio, e più che coraggio.

E non ci si meraviglierà che la non autenticità sia la più diffusa. I borghesi, i

cristiani, per la maggior parte non sono autentici, nel senso che rifiutano di

vivere fino in fondo la loro condizione borghese e cristiana, mascherandone

sempre qualche lato. E quando i comunisti mettono nel loro programma la

Page 52: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

«radicalizzazione delle masse», quando Marx spiega che la classe proletaria

deve prender coscienza di se stessa, che cosa vuol dire ciò se non che

l'operaio, anche lui, è, in partenza, non autentico? L'ebreo non sfugge a

questa regola: l'autenticità, per lui, consiste nel vivere sino in fondo la sua

condizione d'ebreo, la non autenticità nel negarla o nel tentare di eluderla. E

la non autenticità è senza dubbio più allettante per lui che per gli altri

uomini, perché la posizione ch'egli deve rivendicare e in cui deve vivere è

semplicemente quella del martire. Gli uomini meno favoriti possono

scoprire nella loro situazione un legame di solidarietà concreta con altri

uomini: la condizione economica del salariato, vissuta in una prospettiva

rivoluzionaria, o quella di membro d'una chiesa, per quanto perseguitata,

comportano in sé una unità profonda di interessi materiali e spirituali. Ma

noi abbiamo dimostrato che gli ebrei non hanno tra loro né comunità

d'interessi, né comunità di credenze. Non hanno la stessa patria, non hanno

alcuna storia. L'unico legame che li unisce è il disprezzo ostile in cui li

tengono le società che li attorniano. Perciò l'ebreo autentico è colui che

rivendica se stesso nel e dal disprezzo che gli si porta; la situazione che

vuole pienamente comprendere e in cui vuol vivere è, in tempo di pace

sociale, quasi inafferrabile: è un'atmosfera, un senso sottile dei volti e delle

parole, una minaccia dissimulata nelle cose, un legame astratto che lo

unisce ad altri uomini, del resto assai diversi da lui. Ai suoi propri occhi,

tutto cospira invece a presentarlo come un qualsiasi francese: la prosperità

dei suoi affari dipende strettamente da quella del paese, la sorte dei suoi

figli è legata alla pace, alla grandezza della Francia, la lingua che parla e la

cultura che gli è stata data gli permettono di sorreggere i suoi calcoli e

ragionamenti su principi comuni a tutta una nazione. Non gli resterebbe

dunque che lasciarsi vivere per dimenticare la sua condizione d'ebreo, se,

come già abbiamo visto, non incontrasse dappertutto quel veleno quasi

impercettibile: la coscienza ostile degli altri. Ciò che può destar meraviglia

non è che esistano ebrei non autentici, ma che proporzionalmente ce ne

siano meno dei cristiani non autentici. Eppure, è proprio ispirandosi a certi

comportamenti degli ebrei non autentici che l'antisemita ha costruito la sua

mitologia dell'ebreo in generale. Ciò che li caratterizza infatti è che vivono

la loro situazione sfuggendola, hanno scelto di negarla, o di negare la loro

responsabilità o di negare il loro isolamento che giudicavano intollerabile.

Ciò non significa necessariamente che vogliano distruggere il concetto di

ebreo o che neghino esplicitamente l'esistenza di una realtà ebraica. Ma i

loro gesti, i loro sentimenti e i loro atti tendono sordamente a distruggere

quella realtà. In una parola, gli ebrei non autentici sono uomini che gli altri

uomini considerano ebrei e che hanno scelto di fuggire da questa situazione

Page 53: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

insopportabile. Ne risultano comportamenti diversi, non tutti presenti nello

stesso tempo nella medesima persona, e ciascuno dei quali può

caratterizzarsi come una via d'uscita. L'antisemita ha raccolto e unito tutte

queste diverse vie d'uscita, talvolta incompatibili, ed ha così tracciato un

quadro mostruoso che pretende sia quello dell'ebreo in generale; nello

stesso tempo ha presentato quei liberi sforzi di evadere da una situazione

insostenibile come caratteri ereditari, incisi nel corpo stesso dell'israelita e

per conseguenza non modificabili. Se desideriamo vederci chiaro, bisogna

smembrare questo ritratto, rendere la loro autonomia alle «vie d'uscita»,

presentarle come iniziative invece di considerarle come qualità innate.

Bisogna comprendere che la nomenclatura di queste vie si applica

unicamente all'ebreo non autentico (il termine non autentico, beninteso, non

implica nessun biasimo morale) e che bisogna completarla con una

descrizione dell'autenticità ebraica. Occorre insomma convincersi che è la

situazione dell'ebreo a doverci servire, in ogni circostanza, da filo

conduttore. Se si è fatto proprio questo metodo e lo si applica

rigorosamente, forse si potranno sostituire al gran mito manicheo d'Israele

alcune verità più frammentarie ma più precise. Qual è la prima affermazione

della mitologia antisemita? Quella, ci si dice, che l'ebreo è un essere

complicato che passa il suo tempo ad analizzarsi e a sottilizzare.

Perciò lo si indica come «uno che spacca il capello in quattro», senza

nemmeno chiedersi se questa tendenza all'analisi e all'introspezione sia

compatibile con la durezza negli affari e il cieco arrivismo che d'altra parte

gli vengono attribuiti. Per parte nostra, riconosceremo che la scelta della

fuga produce in certi ebrei, per lo più intellettuali, un atteggiamento

abbastanza spesso riflessivo. Ma bisogna intendersi.

Questa riflessività non è un carattere ereditario: è una via d'uscita; e siamo

noi a costringere l'ebreo a fuggire. Stekel, seguito da molti altri psicanalisti,

parla a questo proposito di «complesso giudaico». E sono molti gli ebrei che

menzionano il loro complesso d'inferiorità. Non vedo nessun inconveniente

nell'utilizzare questa espressione, se resta ben fermo che tale complesso non

è stato ricevuto dall'esterno ma che l'ebreo si mette in condizione di averlo

quando sceglie di vivere la sua situazione in modo non autentico. Si è

lasciato persuadere dagli antisemiti, insomma, è la prima vittima della loro

propaganda. Ammette con loro che, se esiste l'ebreo, deve avere quei

caratteri che la malvagità popolare gli attribuisce e il suo sforzo consiste nel

farsi martire, nel vero senso della parola, cioè nel provare con la sua

persona che l'ebreo non esiste. L'angoscia assume in lui sovente una forma

speciale: diviene paura di agire o di sentire ebraicamente.

Page 54: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Esistono degli psicoastenici che sono ossessionati dalla paura di uccidere,

di gettarsi dalla finestra, o di proferire parole sconvenienti. In una certa

misura, benché la loro angoscia raggiunga di rado un livello patologico,

certi ebrei sono loro comparabili: si sono lasciati avvelenare da una

determinata rappresentazione che gli altri hanno di loro e vivono nel timore

che i loro atti vi si conformino.

Perciò potremmo dire, riprendendo un termine di cui ci siamo serviti poco

fa, che la loro condotta è perpetuamente sovradeterminata dall'interno. I loro

atti non hanno solamente i motivi che si possono attribuire a quelli dei non

ebrei - interessi, passione, altruismo, ecc. - ma in più tendono a distinguersi

radicalmente dagli atti catalogati come «ebraici». Quanti ebrei sono

deliberatamente generosi, disinteressati e anzi munifici perché di solito si

considera l'ebreo come un uomo attaccato al denaro? Intendiamoci bene, ciò

non significa affatto ch'essi debbano lottare contro una «tendenza»

all'avarizia. Non c'è nessuna ragione, a priori, perché l'ebreo sia più avaro

del cristiano. Vuol dire piuttosto che i loro gesti di generosità sono

avvelenati dalla decisione d'essere generosi. La spontaneità e la scelta

deliberata sono in questo caso inestricabilmente mescolate. Lo scopo

perseguito è ad un tempo di ottenere un certo risultato nel mondo esterno e

di provare a se stessi, di provare agli altri, che non c'è una natura ebraica.

Molti ebrei non autentici giocano insomma a non essere ebrei. Parecchi di

loro mi hanno riferito la loro curiosa reazione dopo l'armistizio: si sa che la

parte avuta dagli ebrei nella Resistenza è stata ammirevole; sono loro che,

prima che i comunisti entrassero in azione, ne hanno fornito i quadri

principali; hanno dato prova, per quattro anni, d'un coraggio e d'uno spirito

di decisione davanti ai quali bisogna inchinarsi. Nondimeno alcuni hanno

assai esitato prima di «resistere», sembrando loro la Resistenza talmente

conforme agli interessi degli ebrei, che avevano ripugnanza ad

impegnarvisi; avrebbero voluto esser sicuri di resistere non come ebrei ma

come francesi. Questo scrupolo dimostra abbastanza bene la qualità

particolare delle loro deliberazioni: il fattore ebraico vi interviene sempre ed

è loro impossibile decidere tranquillamente, dopo un puro e semplice esame

dei fatti. In una parola, si sono messi naturalmente sul terreno della

riflessività. L'ebreo, come il timido, come lo scrupoloso, non si accontenta

di agire o di pensare: si vede in azione, si vede pensare. E' opportuno

pertanto notare che la riflessività ebraica, non avendo come origine la

curiosità disinteressata o il desiderio d'una conversione morale, è per se

stessa pratica. Non è l'uomo, ma l'ebreo che gli ebrei cercano di riconoscere

in se stessi per mezzo dell'introspezione; e vogliono conoscerlo per negarlo.

Non si tratta, per loro, di riconoscere certi difetti e di combatterli, ma di

Page 55: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

sottolineare con la loro condotta che non hanno questi difetti. Così si spiega

la qualità particolare dell'ironia ebraica, che tanto spesso viene praticata a

spese dell'ebreo stesso ed è un tentativo perpetuo di vedersi dall'esterno.

L'ebreo, sapendosi guardato, prende l'iniziativa e cerca di guardarsi con gli

occhi degli altri. Questa obiettività nei suoi stessi riguardi è anche un'astuzia

della non autenticità: mentre si contempla col «distacco» d'un altro, si sente

effettivamente staccato da se stesso, è un altro, un puro testimone.

Cionondimeno, egli lo sa molto bene, questo distacco da se stesso sarà

effettivo solo se verrà convalidato dagli altri. E' per questo che lo troviamo

frequentemente dotato della capacità di assimilare. Assorbe tutte le

conoscenze con una avidità che non va confusa con la curiosità

disinteressata. Il fatto è che pensa di diventare «un uomo», nient'altro che un

uomo, un uomo come gli altri, ingerendo tutti i pensieri dell'uomo ed

acquistando un punto di vista umano sull'universo. Si dà una cultura per

distruggere in se stesso l'ebreo; vorrebbe che gli si applicassero,

modificandole un po’, le parole di Terenzio: «Nil humani mihi alienum

puto, ergo homo sum». E, nello stesso tempo, tenta di perdersi tra la folla

dei cristiani: abbiamo già visto che i cristiani hanno avuto l'abilità e

l'audacia di pretendere, di fronte agli ebrei, che essi non erano un'altra razza,

ma puramente e semplicemente l'uomo. Se l'ebreo è affascinato dai cristiani

non lo è per le loro virtù, che apprezza poco, ma perché essi rappresentano

l'anonimato, l'umanità senza razza. Se cerca di infiltrarsi nei circoli più

chiusi non lo fa per quella sfrenata ambizione che spesso gli si rimprovera;

o meglio, questa ambizione ha un solo significato: l'ebreo cerca di farsi

riconoscere come uomo dagli altri uomini. Se vuole insinuarsi dappertutto,

lo fa perché non sarà tranquillo finché ci sarà un ambiente che gli resiste e

che resistendogli lo rende ebreo ai propri occhi. Il principio di questa corsa

all'assimilazione è eccellente: l'ebreo rivendica i suoi diritti di francese.

Disgraziatamente, però, la realizzazione della sua impresa è inficiata alla

base: vorrebbe essere accolto come «un uomo» e, anche nei circoli in cui ha

potuto penetrare, lo si riceve come ebreo: è l'ebreo ricco o potente che

«bisogna» frequentare o il «buon» ebreo, l'ebreo di eccezione che si

frequenta per amicizia malgrado la sua razza. Egli non l'ignora, ma se

confessasse a se stesso che è accolto come ebreo, la sua iniziativa

perderebbe ogni senso e si scoraggerebbe.

Perciò è in malafede: maschera la verità che nondimeno porta in fondo a

se stesso: conquista in quanto ebreo una posizione, la conserva con i mezzi

di cui dispone, cioè con i suoi mezzi di ebreo, ma considera ogni nuova

conquista come il simbolo di un grado più alto di assimilazione.

Page 56: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

E' chiaro che l'antisemitismo, reazione quasi immediata degli ambienti in

cui è penetrato, non gli permette di ignorare per lungo tempo ciò che

vorrebbe così volentieri disconoscere. Ma le violenze dell'antisemita hanno

come risultato paradossale di spingere l'israelita alla conquista di altri

ambienti e di altri gruppi. Il fatto è che in realtà la sua ambizione è

fondamentalmente una ricerca di sicurezza, nello stesso modo che il suo

snobismo - quando è snob - è uno sforzo per assimilare i valori nazionali

(quadri, libri, ecc.). Perciò egli può attraversare rapidamente e

brillantemente tutti gli strati sociali, ma resta come un nocciolo duro negli

ambienti che lo accolgono. La sua assimilazione è altrettanto brillante

quanto effimera. Gliela si rimprovera a ogni passo: secondo l'osservazione

di Siegfried, gli americani credono che il loro antisemitismo abbia per

origine il fatto che gli immigranti ebrei, in apparenza assimilati per primi,

ridivengono ebrei alla seconda o alla terza generazione. Beninteso, si

interpreta il fatto come se l'ebreo non desiderasse sinceramente di

assimilarsi e come se dietro a una flessibilità fattizia si dissimulasse un

attaccamento deliberato e cosciente alle tradizioni della sua razza. Ma è

esattamente il contrario: è proprio perché non lo si accoglie mai come un

uomo ma sempre e dovunque come 'ebreo, che l'ebreo è inassimilabile. Da

questa situazione risulta un nuovo paradosso: l'ebreo non autentico vuole

confondersi nel mondo cristiano e contemporaneamente rimane inchiodato

agli ambienti ebraici. Ovunque l'ebreo si è introdotto per fuggire la realtà

ebraica, sente che lo si è accolto come ebreo e lo si pensa in tutti i momenti

come tale. La sua vita in mezzo ai cristiani non è un riposo, non gli procura

l'anonimato cui aspira; è al contrario una perpetua tensione; in questa fuga

verso l'uomo, egli porta sempre con 86 sé l'immagine che lo ossessiona.

Ecco quel che stabilisce fra tutti gli ebrei una solidarietà che non è

solidarietà di azione o di interesse, ma di situazione. Ciò che li unisce, più

ancora che una sofferenza di duemila anni, è l'ostilità presente dei cristiani.

Potranno bensì sostenere che solo il caso li ha raggruppati negli stessi

quartieri, nelle stesse case, nelle stesse imprese: in realtà esiste tra di loro un

legame complesso e forte, che vale la pena di descrivere. L'ebreo infatti è

per l'ebreo il solo uomo con cui può dire noi; e ciò che hanno tutti in

comune (per lo meno tutti gli ebrei non autentici) è appunto la tentazione di

riconoscere che essi «non sono uomini come gli altri», la vertigine di fronte

all'opinione degli altri e la decisione cieca e disperata di fuggire questa

tentazione. Orbene, quando si trovano tra di loro, nell'intimità dei loro

appartamenti, eliminando il testimone non ebreo, eliminano di colpo la

realtà ebraica. Senza dubbio, agli occhi dei rari cristiani che sono penetrati

in questi interni, essi hanno l'aria più ebraica che mai, ma ciò dipende dal

Page 57: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

fatto che allora si rilassano; e questo rilassarsi non significa che si

abbandonano con gioia, come li si accusa, alla loro «natura» ebraica, ma al

contrario che la dimenticano. Quando gli ebrei stanno tra di loro, infatti,

ciascuno non è per gli altri, e di conseguenza per se stesso, niente di più che

un uomo. E lo proverebbe, se mai fosse necessario, il fatto che assai spesso i

membri di una stessa famiglia non percepiscono i caratteri etnici dei loro

parenti (per caratteri etnici intendo qui i dati biologici ereditari che abbiamo

accettato come incontestabili).

Conoscevo una signora ebrea il cui figlio, verso il 1934, era costretto a

fare viaggi d'affari nella Germania nazista. Questo figlio presentava i

caratteri tipici dell'israelita francese: naso adunco, orecchie a sventola, ecc.;

ma a chi manifestava inquietudine per la sua sorte, durante una delle sue

assenze, sua madre rispondeva: «Sono tranquillissima, non ha per nulla

l'aria ebraica». Ma una dialettica propria della non autenticità ebraica fa sì

che questo ricorso all'interiorità, questo sforzo per costituire una immanenza

ebraica in cui ciascun ebreo invece di essere il testimone degli altri si

sprofonda in una soggettività collettiva e per eliminare il cristiano come

pupilla giudicante, tutte queste astuzie di fuga sono annientate dalla

presenza universale e costante del non ebreo. Anche nelle loro riunioni più

intime gli ebrei potrebbero dire di lui ciò che Saint-John Perse dice del sole:

«Non è nominato, ma la sua presenza è in mezzo a noi». Essi non ignorano

che la loro stessa propensione a frequentarsi li definisce come ebrei agli

occhi del cristiano. E quando riappaiono apertamente in pubblico, la loro

solidarietà coi correligionari li segna con un marchio di fuoco. L'ebreo che

incontra un altro ebreo nel salotto di un cristiano è un po’ come un francese

che incontra un compatriota all'estero. Di più, il francese ha piacere di

affermarsi come francese agli occhi del mondo; l'ebreo invece, se fosse il

solo israelita in una compagnia non ebrea, si sforzerebbe di non sentirsi

ebreo. Ma dato che c'è un altro ebreo con lui, si sente in pericolo in quel

punto, nell'altro. Ed egli, che poco fa non si accorgeva nemmeno dei

caratteri etnici di suo figlio o di suo nipote, ecco che spia il correligionario

con gli occhi di un antisemita, ecco che osserva in lui con un misto di

timore e di fatalismo i segni oggettivi della loro comune origine. Ha tanta

paura delle scoperte che i cristiani stanno per fare, che si affretta a

prevenirli: antisemita per impazienza e per conto degli altri. E ogni carattere

ebraico che crede di scoprire è per lui come un colpo di pugnale, poiché gli

sembra di trovarlo in se stesso ma fuori della sua portata, oggettivo,

incurabile, come un dato di fatto. Poco importa infatti chi manifesti la razza

ebraica: dal momento che è manifesta, tutti gli sforzi dell'ebreo per negarla

divengono vani. Si sa che i nemici di Israele affermano volentieri, in

Page 58: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

appoggio alla propria opinione, che «non c'è peggior antisemita dell'ebreo».

In realtà l'antisemitismo dell'ebreo è preso a prestito, è l'ossessione dolorosa

di ritrovare nei suoi parenti, nei suoi vicini, i difetti di cui vuole liberarsi

con tutte le sue forze. Stekel, nell'analisi da noi già citata, ricorda i fatti

seguenti: «Dal punto di vista dell'educazione ed a casa tutto deve marciare

secondo le direttive (del marito ebreo).

Ancora peggio è in società: la tormenta (la donna che si fa psicanalizzare)

con i suoi sguardi e la critica, cosicché essa si confonde. Da nubile era

orgogliosa e tutti vantavano i suoi modi distinti e sicuri. Ora ha sempre il

timore d'aver fatto male; teme la critica di suo marito, che essa legge nei

suoi occhi... Al minimo sbaglio egli le rimprovera che il suo modo di fare è

ebraico». Pare di assistere a questo dramma a due personaggi: il marito

critico, quasi pedante, sempre sul piano della riflessività, che rimprovera

alla moglie di essere ebrea, perché muore dalla paura di sembrarlo; la

moglie, schiacciata da quello sguardo spietato e ostile, che si sente

invischiata suo malgrado nell'«ebreume», ed ha il presentimento, pur senza

capire, che ogni gesto, ogni frase stonerà un po’ e rivelerà agli occhi di tutti

la sua origine. Per l'uno come per l'altra, questo è un inferno. Ma

nell'antisemitismo dell'ebreo occorre anche vedere uno sforzo per non

essere solidale con i difetti riconosciuti alla sua «razza», facendosene ad un

tempo testimone oggettivo e giudice. Allo stesso modo, a molti succede di

giudicare se stessi con una severità lucida e spietata perché questa severità

opera uno sdoppiamento e sentendosi giudici sfuggono alla condizione di

colpevoli. Comunque, la manifesta presenza, nell'altro, di questa «realtà

ebraica» che egli rifiuta in sé contribuisce a creare nell'ebreo non autentico

un sentimento mistico e prelogico dei suoi legami con gli altri ebrei.

Questo sentimento è insomma il riconoscimento di una partecipazione: gli

ebrei «partecipano» gli uni degli altri, la vita di ciascuno è ossessionata

dalla vita degli altri. E questa comunione mistica è tanto più forte in quanto

l'ebreo non autentico cerca maggiormente di negarsi come ebreo. Do come

prova soltanto un esempio: si sa che le prostitute all'estero sono spesso

francesi. L'incontro con una francese in una casa equivoca in Germania o in

Argentina non è mai stato piacevole per un francese. Tuttavia il senso della

partecipazione alla realtà nazionale è in lui di tutt'altro tipo: la Francia è una

nazione, il patriota può dunque considerarsi come appartenente ad una

realtà collettiva le cui forme si esprimono con le attività economiche,

culturali, militari; se certi aspetti secondari sono spiacevoli, gli è permesso

di trascurarli.

Page 59: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Non è questa la reazione dell'ebreo che incontra un'ebrea nelle stesse

condizioni: nell'umiliata situazione della prostituta vedrà, a dispetto di se

stesso, come un simbolo della umiliata situazione di Israele.

Ricordo parecchi aneddoti a questo proposito. Non ne citerò che uno,

perché l'ho saputo direttamente da colui al quale è successo: un ebreo entra

in una casa di tolleranza, sceglie una prostituta e va con lei; essa gli rivela

che è ebrea. E' immediatamente colpito da impotenza e ben presto da una

intollerabile umiliazione che si traduce in violenti conati di vomito. Non è il

commercio sessuale con un'ebrea che gli ripugna, perché al contrario gli

ebrei si sposano tra di loro: è piuttosto il fatto di contribuire personalmente

alla umiliazione della razza ebraica nella persona della prostituta e, di

conseguenza, nella sua stessa persona. E' lui, in fondo, che si è prostituito,

umiliato, è lui e tutto il popolo ebraico. Perciò, qualunque cosa faccia,

l'ebreo non autentico è pervaso dalla coscienza di essere ebreo. Nel

momento stesso in cui si sforza con tutta la sua condotta di smentire i

caratteri che gli si attribuiscono, crede di ritrovarli negli altri ed in questo

modo se ne trova indirettamente in possesso. Cerca e fugge i suoi

correligionari; afferma di non essere che un uomo fra gli altri, come tutti gli

altri; non di meno si sente compromesso dall'atteggiamento del primo che

passa per la strada, se questi è un ebreo. E' antisemita per rompere tutti i

legami con la comunità ebraica e tuttavia la ritrova nel più profondo del

cuore, poiché risente nella sua propria carne le umiliazioni che gli antisemiti

fanno subire agli altri ebrei. Ed è propriamente un'carattere degli ebrei non

autentici questa perpetua oscillazione tra l'orgoglio e il senso di inferiorità,

tra la negazione volontaria e passionale dei caratteri della loro razza e la

partecipazione mistica e carnale alla realtà ebraica. Questa situazione

dolorosa e inestricabile può condurre una piccola parte di loro al

masochismo. Il masochismo si presenta come una soluzione effimera, come

una sorta di tregua, di riposo. Ciò che ossessiona l'ebreo è il fatto che egli è

responsabile di se stesso, come tutti gli uomini, che fa liberamente gli atti

che giudica bene fare e che, non di meno, una collettività ostile giudica,

ogni volta, che questi atti sono macchiati dal carattere ebraico. Perciò gli

sembra di creare in se stesso l'ebreo nel momento in cui si sforza di sfuggire

la realtà ebraica; gli sembra di essere impegnato in una lotta in cui sempre è

vinto ed in cui si rende nemico di se stesso; nella misura in cui ha coscienza

di essere responsabile di se stesso, gli sembra di avere la schiacciante

responsabilità di rendersi ebreo di fronte agli altri ebrei e di fronte ai

cristiani. Per mezzo suo, a dispetto di se stesso, la realtà ebraica esiste nel

mondo. Orbene il masochismo è il desiderio di farsi trattare come un

oggetto. Umiliato, disprezzato, o semplicemente negletto, il masochista ha

Page 60: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

la gioia di vedersi disprezzato, manovrato, utilizzato come una cosa. Tenta

di realizzarsi come cosa inanimata e contemporaneamente abdica alle sue

responsabilità. Ciò che attira alcuni ebrei, stanchi di lottare contro questo

impalpabile ebreume sempre rinnegato, vessato e sempre rinascente, è

l'abdicazione completa. In realtà rivendicarsi come ebrei significa

raggiungere l'autenticità; ma essi non hanno afferrato il concetto che

l'autenticità si manifesta nella rivolta; desiderano soltanto che gli sguardi, le

violenze, il disprezzo altrui li costituiscano ebrei nella maniera stessa in cui

una pietra è pietra, attribuendo loro delle qualità e un destino; così saranno

alleviati un momento da questa libertà stregata che è la loro, che non

permette di sfuggire dalla loro condizione e sembra star lì soltanto per

renderli responsabili di ciò che respingono con tutte le forze. Bisogna però

sottolineare che questo masochismo ha anche altre cause. In un mirabile e

crudele passo dell''Antigone Sofocle scrive: «Tu hai troppa fierezza per uno

che si trova in disgrazia». Si potrebbe dire che uno dei caratteri essenziali

dell'ebreo- è che, al contrario di Antigone, una secolare familiarità con la

disgrazia lo rende modesto nella catastrofe. Non ne dedurremo, come si fa

spesso, che è arrogante quando ha successo e umile quando fallisce. La cosa

è diversa: egli ha assimilato il curioso consiglio che la saggezza greca dava

alla figlia di Edipo, ha compreso che la modestia, il silenzio, la pazienza

convenivano alla sfortuna, perché questa è già peccato agli occhi degli

uomini. E tale saggezza può certo trasformarsi in masochismo, in gusto di

soffrire. Ma la cosa essenziale resta questa tentazione di dimettersi da se

stesso ed essere finalmente segnato per sempre da una natura e da un

destino ebraici che lo liberino da ogni responsabilità e da ogni lotta. Perciò

l'antisemitismo dell'ebreo non autentico e il suo masochismo rappresentano,

in un certo senso, i due estremi del suo tentativo: col primo atteggiamento

giunge sino a rinnegare la sua razza per essere soltanto, a titolo strettamente

individuale, un uomo senza tare in mezzo ad altri uomini; col secondo

rinnega la sua libertà di uomo per sfuggire al peccato di essere ebreo e

tentare di raggiungere il riposo e la passività della cosa. Ma l'antisemita

aggiunge una nuova pennellata al ritratto: l'ebreo, ci dice, è un intellettuale

astratto, un puro ragionatore; ed è chiaro che nella sua bocca i termini

astratto, razionalista e intellettuale assumono un senso peggiorativo. Non

potrebbe essere altrimenti, dato che l'antisemita si definisce tramite il

possesso concreto e irrazionale dei beni della nazione. Ma se ricordiamo che

il razionalismo fu uno dei principali strumenti della liberazione degli

uomini, ci rifiuteremo di considerarlo come un puro gioco di astrazione e

insisteremo invece sulla sua potenza creatrice.

Page 61: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Due secoli - e non dei minori - hanno posto in esso tutta la loro speranza,

da esso sono nate le scienze e le loro applicazioni pratiche.

Fu un ideale e una passione, tentò di riconciliare gli uomini scoprendo

loro delle verità universali sulle quali potessero tutti essere d'accordo e, nel

suo ingenuo e simpatico ottimismo, confuse deliberatamente il Male con

l'errore. Non si comprenderà niente del razionalismo ebraico se si vuol

vedere in esso non so che gusto astratto per la discussione invece di

prenderlo per ciò che è: un giovane, vivace amore per gli uomini. Tuttavia,

esso è nello stesso tempo una via d'uscita - direi anzi la via maestra della

fuga. Fin qui abbiamo visto israeliti che si sforzavano di negare nella

persona e nella carne la loro situazione di ebrei. Ce ne sono altri che

scelgono una concezione del mondo in cui l'idea stessa di razza non

potrebbe trovare posto; certo, si tratta sempre di mascherare la propria

situazione di ebreo: ma se riuscissero a persuadersi e a persuadere gli altri

che l'idea di ebreo è contraddittoria, se riuscissero a costituire la loro visione

del mondo in maniera tale da diventare ciechi alla realtà ebraica, come il

daltonico è cieco per il rosso o per il verde, non potrebbero dichiarare in

buona fede che essi «sono uomini in mezzo agli uomini?» Il razionalismo

degli ebrei è una passione: la passione dell'Universale. Ed essi l'hanno

scelta, in luogo di un'altra, per combattere le concezioni particolaristiche

che fanno di loro degli esseri a parte. La Ragione è la cosa del mondo

meglio ripartita, è di tutti e di nessuno; è la stessa in tutti. Se la Ragione

esiste, non c'è una verità francese e una verità tedesca; non c'è una verità

negra o ebraica; non c'è che una Verità ed è il migliore che la scopre. Di

fronte alle leggi universali ed eterne l'uomo è egli stesso universale. Non

esistono più ebrei né polacchi, ma esistono uomini che vivono in Polonia,

altri che sono designati come «di religione ebraica» sulle carte di famiglia, e

tra di loro un accordo è sempre possibile, dato che si basa sull'universale.

Ricordiamoci il ritratto del filosofo che Platone traccia nel Fedone: come il

risveglio alla ragione sia per lui la morte per il corpo, per le particolarità del

carattere; come il filosofo disincarnato, puro amante della verità astratta e

universale, perda tutti i suoi tratti individuali per divenire uno sguardo

universale. Questa appunto è la disincarnazione che alcuni israeliti

ricercano. Il mezzo migliore per non sentirsi ebrei è quello di ragionare,

poiché il ragionamento è valevole per tutti e può essere rifatto da tutti: non

esiste una maniera ebraica di essere matematici; perciò l'ebreo matematico

si disincarna e diviene uomo universale quando ragiona. E l'antisemita che

segue il suo ragionamento diviene, a dispetto di ogni resistenza, suo fratello.

Il razionalismo al quale l'ebreo aderisce con tanta passione è appunto un

esercizio di ascesi e di purificazione, una evasione nell'universale: e nella

Page 62: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

misura in cui il giovane ebreo prova piacere per le argomentazioni brillanti

e astratte è come il neonato che tocca il proprio corpo per conoscerlo:

esperimenta ed esamina la sua inebriante condizione di uomo universale,

realizza su un piano superiore quell'accordo e quella assimilazione che gli

sono rifiutati sul piano sociale. La scelta del razionalismo è per lui la scelta

di un destino dell'uomo e di una natura umana. Perciò è insieme vero e falso

che l'ebreo sia «più intelligente del cristiano».

Bisognerebbe piuttosto dire che ha il gusto dell'intelligenza pura, che ama

esercitarla a proposito di tutto e di niente, che l'uso che ne fa non è

contrastato dagli innumerevoli tabù che un cristiano trova in se stesso come

dei residui, né da un certo tipo di sensibilità particolaristica che il non ebreo

coltiva volentieri. Bisognerebbe aggiungere che c'è in lui una specie di

imperialismo passionale della ragione: poiché egli non vuole solo

convincere che è nel vero, il suo scopo è di persuadere i suoi interlocutori

che c'è un valore assoluto e incondizionato nel razionalismo. Egli si

considera come un missionario dell'universale; di fronte all'universalità

della religione cattolica, dalla quale è escluso, vuole stabilire la «cattolicità»

del razionale, strumento per raggiungere il vero e legame spirituale tra gli

uomini.

Non è per caso che Leon Brunschvieg, filosofo israelita, assimila i

progressi della ragione a quelli dell'unificazione (unificazione delle idee,

unificazione degli uomini). L'antisemita rimprovera all'ebreo di «non essere

creatore», di avere «uno spirito dissolvente». Questa accusa assurda

(Spinoza, Proust, Kafka, Milhaud, Chagall, Einstein, Bergson non sono

forse ebrei?) è potuta sembrare speciosa perché l'intelligenza ebraica

assume volentieri un tono critico; ma anche in questo caso non si tratta di

una disposizione delle cellule cerebrali, ma della scelta di un'arma. Contro

l'ebreo infatti si sono istigate le forze irrazionali della tradizione, della

razza, del destino nazionale, dell'istinto. Si pretende che queste forze

abbiano edificato dei monumenti, una cultura, una storia, dei valori pratici

che conservano largamente in sé l'irrazionalità delle loro cause e che sono

accessibili solo all'intuizione. La difesa dell'israelita è di negare l'intuizione

e assieme l'irrazionale; è di fare svanire i poteri oscuri, la magia,

l'irragionevolezza, tutto ciò che non si può spiegare partendo da principi

universali, tutto ciò che lascia intravedere delle tendenze alla singolarità,

all'eccezione. Egli diffida, per principio, dei blocchi totalitari che di quando

in quando lo spirito cristiano fa apparire: egli contesta. E indubbiamente a

questo proposito si può parlare di distruzione: ma ciò che l'ebreo vuole

distruggere è strettamente localizzato, è l'insieme dei valori irrazionali che

sono in balia di una coscienza immediata e senza garanzia. L'ebreo reclama

Page 63: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

una cauzione, una garanzia per tutto ciò che pretende il suo avversario,

perché così egli garantisce se stesso. Diffida dell'intuizione perché questa

non si discute e per conseguenza finisce col separare gli uomini.

Se ragiona e discute col suo avversario è per realizzare in partenza l'unità

degli spiriti: prima di ogni discussione, desidera che ci si metta d'accordo

sui principi dai quali si parte. Mediante questo accordo preliminare egli

offre di costruire un ordine umano fondato sull'universalità della natura

umana. La perpetua critica che gli si rimprovera nasconde l'amore ingenuo

di una comunione con gli avversari nel nome della ragione e la credenza

ancora più ingenua che la violenza non è in nessun modo necessaria nei

rapporti fra gli uomini. Mentre l'antisemita, il fascista, ecc., partendo da

intuizioni incomunicabili e assunte come tali, devono necessariamente

ricorrere alla forza per 96 imporre illuminazioni che non possono far

condividere, l'ebreo non autentico si affretta a dissolvere con l'analisi critica

tutto ciò che può separare gli uomini e condurli alla violenza; di questa

violenza infatti egli sarebbe la prima vittima. Sappiamo bene che Spinoza,

Husserl, Bergson hanno fatto posto all'intuizione nella loro dottrina; ma

quella dei primi due è razionale, cioè è fondata sulla ragione, garantita dalla

critica e ha per oggetto verità universali. Non assomiglia per niente all'esprit

de finesse di Pascal: quell'esprit de finesse incontestabile e mutevole,

fondato su mille percezioni impercettibili, che sembra all'ebreo il suo

peggior nemico. Quanto a Bergson, la sua filosofia offre l'aspetto curioso di

una dottrina antintellettualistica edificata interamente con l'intelligenza più

raziocinante e più critica. E' un'argomentazione che gli consente di stabilire

l'esistenza di una durata pura, di una intuizione filosofica; e la stessa

intuizione che scopre la durata o la vita è universale in quanto ciascuno può

praticarla ed essa si riferisce all'universale, dato che i suoi oggetti possono

essere nominati e concepiti. E' vero, Bergson fa mille acrobazie prima di

servirsi del linguaggio; ma finalmente riconosce che le parole hanno la

funzione di guide, di indicatori, di messaggeri semifedeli. E chi può

chiedere loro qualcosa di più? E guardate come egli si trova a suo agio nelle

contestazioni: rileggete nel primo capitolo dell'Essai sur les données

immediate, la classica critica del parallelismo psicofisiologico, quella della

teoria di Broca sull'afasia. Come si è potuto dire, con Poincaré, che la

geometria non euclidea era un problema di definizione e che nasceva nel

momento in cui si era deciso di chiamare rette un certo tipo di curve, per

esempio le circonferenze che si possono tracciare sulla superficie di una

sfera, nello stesso modo la filosofia di Bergson è un razionalismo che si è

scelto un linguaggio particolare. Ha scelto infatti di chiamare vita, durata

pura, ecc., ciò che la filosofia anteriore denominava «il continuo», ed ha

Page 64: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

battezzato «intuizione» la comprensione di questo continuo. Considerato

che questa comprensione deve essere preparata da ricerche e critiche, che

essa coglie un universale e non delle particolarità incomunicabili, è lo stesso

chiamarla intuizione irrazionale o funzione sintetica della ragione. Se si

chiama - a buon diritto - irrazionalismo il pensiero di Kierkegaard o di

Novalis, diremo che il sistema di Bergson è un razionalismo sbattezzato.

Per parte mia vi vedo come la difesa suprema di un perseguitato: attaccare

per difendersi, conquistare l'irrazionalismo dell'avversario in quanto tale,

cioè renderlo inoffensivo e assimilarlo ad una ragione costruttrice. E difatti

l'irrazionale di Sorci conduce dritto alla violenza e per conseguenza

all'antisemitismo; mentre quello di Bergson è perfettamente inoffensivo e

può servire solo alla riconciliazione universale. Questo universalismo,

questo razionalismo critico lo ritroviamo di solito nel democratico. Il suo

liberalismo astratto afferma che ebrei, cinesi, neri, devono avere gli stessi

diritti degli altri membri della collettività, ma reclama questi diritti per loro

in quanto uomini, non in quanto prodotti concreti e singolari della storia.

Perciò certi ebrei volgono verso la loro persona lo sguardo del democratico.

Ossessionati dallo spettro della violenza, residui inassimilati di società

particolaristiche e guerriere, essi sognano una comunità contrattuale in cui

anche il pensiero si stabilisca sotto forma di contratto - poiché esso sarebbe

dialogo, poiché i disputatori sarebbero d'accordo in partenza sui principi -

ed in cui il «contratto sociale» sia l'unico legame collettivo. Gli ebrei sono

gli uomini più dolci; sono appassionatamente nemici della violenza. E

l'ostinata dolcezza che conservano in mezzo alle più atroci persecuzioni, il

senso della giustizia e della ragione che oppongono come loro unica difesa

ad una società ostile, brutale e ingiusta, sono forse la parte migliore del

messaggio che ci rivolgono e il vero segno della loro grandezza. Ma

l'antisemita si appropria anche questo libero sforzo dell'ebreo per vivere e

dominare la sua situazione; ne fa un dato caratteristico che manifesta

l'incapacità dell'ebreo all'assimilazione. L'ebreo non è più un razionalista ma

un ragionatore. La sua indagine non è più una ricerca positiva

dell'universale, ma manifesta l'incapacità di cogliere i valori vitali razziali e

nazionali; lo spirito di libera critica cui attinge la speranza di difendersi

contro le superstizioni e i miti diviene spirito satanico di negazione, virus

dissolvente; invece di apprezzarlo come uno strumento di autocritica

spontaneamente nato nell'intimo delle società moderne, vi si vuole vedere

un pericolo permanente per i legami nazionali e i valori francesi. Piuttosto

che negare l'amore di certi ebrei per l'esercizio della Ragione, ci è parso più

vero e più utile tentare una spiegazione del loro razionalismo. E' ancora

come un tentativo di evasione che bisogna interpretare l'atteggiamento di

Page 65: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

alcuni di loro verso il proprio corpo. Si sa infatti che i soli caratteri etnici

dell'ebreo sono caratteri fisici. L'antisemita si è impadronito di questo fatto

e l'ha trasformato in un mito: pretende di scoprire il suo nemico con un

semplice colpo d'occhio. La reazione di alcuni israeliti tende dunque a

negare questo corpo che li tradisce.

Naturalmente la negazione varierà d'intensità a seconda che il loro aspetto

fisico sia più o meno rivelatore; in ogni caso essi non aderiscono al loro

corpo con quel compiacimento, quel sentimento tranquillo della proprietà

che caratterizzano la maggior parte degli «ariani». Per costoro il corpo è un

frutto della terra francese; lo possiedono in grazia di quella partecipazione

magica e profonda che già assicura loro il godimento della propria terra e

della propria cultura.

Poiché ne sono fieri, gli hanno attribuito un certo numero di valori

strettamente irrazionali, destinati ad esprimere gli ideali della vita in quanto

tale. Scheler li ha giustamente chiamati valori vitali; essi non concernono

infatti né i bisogni elementari del corpo né le richieste dello spirito, ma un

certo tipo di affermazione di sé, un certo stile biologico che sembra

manifestare l'intimo funzionamento dell'organismo, l'armonia e

l'indipendenza degli organi, il metabolismo cellulare e soprattutto il

«proposito di vivere», quel proposito cieco e scaltro che è il senso stesso

della finalità vivente. Grazia, nobiltà, vivacità sono fra questi valori. Si

constaterà infatti che li possiamo cogliere anche negli animali: si parlerà

della grazia del gatto, della nobiltà dell'aquila. E' chiaro che nel concetto di

razza la gente fa entrare un gran numero di questi valori biologici. La razza

stessa non è un puro valore vitale; non congloba forse, nella sua struttura

profonda, un giudizio di valore, dato che l'idea stessa di razza implica quella

di ineguaglianza? Perciò il cristiano, l'ariano, sente il suo corpo in un modo

speciale: non c'è in lui la pura e semplice coscienza delle modificazioni

massicce dei suoi organi; gli indizi che il corpo gli invia, i suoi appelli e

messaggi gli pervengono carichi di un certo coefficiente di idealità, sono

sempre più o meno simboli di valori vitali. Egli dedica persino una parte

della sua attività a procurarsi delle percezioni di sé che corrispondano al suo

ideale vitale. La noncuranza dei nostri ceti eleganti, la vivacità e la

spigliatezza che caratterizzò la moda di certe epoche, l'andatura feroce

dell'italiano fascista, la grazia delle donne, tutti questi comportamenti

biologici tendono ad esprimere l'aristocrazia del corpo. A questi valori sono

naturalmente legati degli antivalori, come il discredito gettato sulle basse

funzioni del corpo, e i connessi comportamenti e sentimenti sociali: il

pudore per esempio. Questo infatti non è soltanto la vergogna di mostrare la

propria nudità, ma è anche una certa maniera di considerare il corpo come

Page 66: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

cosa preziosa, un rifiuto di vedervi un semplice strumento, un modo di

nasconderlo nel santuario degli abiti come un oggetto di culto. L'ebreo non

autentico è spogliato dal cristiano dei suoi valori vitali. Se il suo corpo si

ridesta, subito il concetto di razza insorge ad avvelenargli queste sensazioni

intime. I valori della nobiltà e della grazia sono stati accaparrati dagli ariani,

che glieli rifiutano. Se accettasse questi valori, forse sarebbe indotto a

riconsiderare la nozione di superiorità etnica con tutte le conseguenze che

essa implica. Nel nome stesso dell'idea di uomo universale egli rifiuta di

prestare l'orecchio a questi messaggi così particolari che gli invia il suo

organismo; in nome della razionalità respinge i valori irrazionali ed accetta

solo i valori spirituali; essendo per lui l'universalità al sommo della scala dei

valori, concepisce una specie di corpo universale e razionalizzato. Non ha

per il suo corpo il disprezzo degli asceti, non ne fa un «cencio» o una

«bestia», ma non lo vede mai sotto l'aspetto di un oggetto di culto: nella

misura in cui non lo dimentica, lo tratta come uno strumento, preoccupato

solamente di adattarlo con precisione ai suoi fini. E come si rifiuta di

considerare i valori irrazionali della vita, così non accetta di stabilire una

gerarchia tra le funzioni naturali. Questo rifiuto ha due scopi: da un lato

implica la negazione della specificità etnica di Israele, dall'altro è un'arma

imperialista e offensiva diretta a persuadere i cristiani che i loro corpi sono

soltanto degli utensili.

La «mancanza di pudore» che l'antisemita non si perita di rimproverare a

certi ebrei non ha altre origini. E' innanzitutto un'affettazione di trattare il

corpo razionalmente. Se il corpo è un meccanismo, perché mettere il veto

sui suoi bisogni di escrezione?

Perché esercitare su di esso un perpetuo controllo? Bisogna curarlo,

pulirlo, conservarlo senza gioia, senza amore e senza vergogna, come una

macchina. Vero è che nel fondo di questa impudicizia si deve

indubbiamente scorgere, almeno in alcuni casi, una sorta di disperazione:

perché coprire la nudità di un corpo che lo sguardo degli ariani ha svestito

una volta per tutte; essere ebreo non è forse peggio ai loro occhi che essere

nudo? Beninteso, questo razionalismo non è esclusivo appannaggio degli

israeliti; si può trovare un buon numero di cristiani, i medici ad esempio,

che hanno adottato sul proprio corpo o su quello dei loro bambini questo

punto di vista razionale; ma si tratta allora di una conquista, di una

liberazione che coesiste quasi sempre con molte sopravvivenze prelogiche.

L'ebreo invece non si è affatto esercitato a criticare i valori vitali: si è reso

tale da non averne il senso. Bisognerebbe aggiungere d'altra parte, contro

l'antisemita, che questo disagio corporale può produrre risultati

completamente opposti e portare ad una vergogna del corpo e ad un estremo

Page 67: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

pudore. Mi sono stati segnalati molti israeliti che superano in pudore i

cristiani e hanno per cura costante di coprire il loro corpo; altri si

preoccupano di spiritualizzarlo, cioè - poiché gli si rifiutano i valori vitali -

di vestirlo di significati spirituali. Per il cristiano il volto ed i gesti di certi

ebrei sono spesso molesti a forza di significare. Essi esprimono troppo e

troppo a lungo l'intelligenza, la bontà, la rassegnazione, il dolore. Si è soliti

canzonare i gesti rapidi e per così dire volubili che l'ebreo fa con le mani

quando parla.

Intanto, questa vivacità mimica è meno diffusa di quanto si pretende. Ma

ciò che importa soprattutto è di distinguerla da certe mimiche che in

apparenza le assomigliano: quella del marsigliese, per esempio. Nel

marsigliese la mimica vivace, rapida, inesauribile, si accompagna ad un

fuoco interiore, una nervosità costante, un desiderio di rendere con tutto il

suo corpo ciò che vede o ciò che sente. Nell'ebreo invece c'è anzitutto il

desiderio di essere totalmente significativo, di sentire il suo organismo

come un segno al servizio dell'idea, di trascendere questo corpo che gli pesa

per volgersi agli oggetti o alle verità che si svelano alla sua ragione.

Aggiungiamo che, in un campo così delicato, la descrizione deve attorniarsi

di molte precauzioni: ciò che abbiamo detto non si confà a tutti gli ebrei non

autentici e soprattutto presenta una importanza variabile nell'atteggiamento

generale dell'ebreo, secondo la sua educazione, la sua origine e soprattutto

l'insieme del suo comportamento. Mi sembra che nello stesso modo si

potrebbe spiegare la famosa «mancanza di tatto» degli israeliti. Beninteso,

c'è in questa accusa una considerevole parte di malevolenza. Ma è vero che

ciò che noi diciamo tatto si richiama all'esprit de finesse e che l'ebreo diffida

dell'esprit de finesse. Agire con tatto vuol dire valutare con un colpo

d'occhio la situazione, abbracciarla sinteticamente, sentirla più ancora che

analizzarla; ma nello stesso tempo vuol dire guidare la propria condotta

riferendosi ad un cumulo di principi indistinti di cui alcuni concernono i

valori vitali ed altri esprimono delle tradizioni di cortesia e cerimoniosità

assolutamente irrazionali. Così l'atto compiuto «con tatto» implica per il suo

autore l'adozione di una certa concezione del mondo tradizionale, sintetica e

rituale; non si può darne ragione; implica pure un senso particolare delle

situazioni psicologiche; non è in nessun modo critico; infine, acquista tutto

il suo significato solo in una comunità strettamente definita che 103

possiede i suoi ideali, i suoi usi e i suoi costumi. L'ebreo ha altrettanto tatto

naturale di chicchessia, se con ciò si intende la comprensione originale

dell'Altro; ma egli non cerca di averne.

Accettare di basare la propria condotta sul tatto sarebbe riconoscere che la

ragione non è una guida sufficiente nelle relazioni umane e che la

Page 68: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

tradizione, le potenze oscure dell'intuizione possono esserle superiori,

quando si tratti di adattarsi agli uomini o di imporsi ad essi; sarebbe

ammettere una casistica, una morale dei casi particolari, quindi rinunciare

all'idea di una natura umana universale che reclama una norma di rapporti

universale; implicherebbe la confessione che le situazioni concrete sono

incomparabili tra di loro come incomparabili sono gli uomini concreti;

insomma significherebbe sprofondare nel particolarismo. Ma da quel

momento l'ebreo segna la sua perdita: poiché appunto in nome del tatto

l'antisemita lo denuncia come un caso particolare e lo esclude dalla

comunità nazionale. C'è dunque nell'ebreo una forte inclinazione a credere

che le peggiori difficoltà si possono risolvere con la ragione; egli non vede

l'irrazionale, il magico, la sfumatura concreta e particolare; non crede alle

singolarità dei sentimenti; per una comprensibile reazione di difesa,

quest'uomo che vive dell'opinione che gli altri hanno di lui cerca di negare i

valori dell'opinione, ed è tentato di applicare agli uomini i ragionamenti che

convengono alle cose; si avvicina al razionalismo analitico dell'ingegnere e

dell'operaio: non perché sia formato o attirato dalle cose, ma perché è

respinto dagli uomini. E la psicologia analitica da lui costruita sostituisce

volentieri alle strutture sintetiche della coscienza il gioco degli interessi, la

composizione degli appetiti, la somma algebrica delle tendenze. L'arte di

dominare, di sedurre o di persuadere si trasforma in un calcolo razionale. E'

chiaro però che una spiegazione del comportamento umano per via di

nozioni universali rischia di condurre all'astrazione. Infatti, è appunto il

gusto dell'astrazione che permette di comprendere lo speciale rapporto

dell'ebreo con il danaro. Si dice che l'ebreo ama il danaro. Nondimeno la

coscienza collettiva, che spesso lo dipinge come avido di guadagno,

raramente lo confonde con un altro mito popolare, quello dell'avaro: anzi,

uno dei temi di imprecazione favoriti dell'antisemita è proprio la munifica

prodigalità dell'ebreo. In realtà, se l'ebreo ama il danaro non lo fa per un

particolare gusto per la moneta di bronzo o d'oro o per i biglietti di banca:

spesso il danaro prende per lui la forma astratta di azioni, di assegni o di

conto in banca. Egli non si riferisce dunque alla figurazione sensibile, ma

alla forma astratta. Ad interessarlo è in realtà il potere d'acquisto. Se

preferisce a qualunque altra questa forma di proprietà, è dovuto soltanto al

fatto che essa è universale. Il modo di appropriazione tramite l'acquisto non

dipende infatti dalla razza dell'acquirente, non varia con la sua idiosincrasia;

il prezzo dell'oggetto rinvia ad un acquirente qualunque, definito solamente

dal fatto che possiede la somma indicata sull'etichetta. E quando la somma è

versata, l'acquirente è legalmente proprietario dell'oggetto. Perciò la

proprietà per acquisto è una forma astratta e universale di proprietà che si

Page 69: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

oppone all'appropriazione singolare e irrazionale per via di partecipazione.

C'è qui un circolo vizioso: quanto più l'ebreo è ricco tanto più l'antisemita

tradizionalista tenderà ad insistere sul fatto che la vera proprietà non è la

proprietà legale, ma un adattamento del corpo e dello spirito all'oggetto

posseduto: in tal modo, come abbiamo visto, il povero recupera la terra e i

beni spirituali francesi. La letteratura antisemita brulica di fiere risposte

indirizzate ad ebrei da virtuosi orfani o da vecchi nobili decaduti, il cui

senso è in sostanza che l'onore, l'amore, la virtù, il gusto, ecc., «non si

comprano». Ma quanto più l'antisemita insisterà su questo genere di

appropriazione che tende ad escludere l'ebreo dalla comunità, tanto più

l'ebreo sarà tentato di affermare che l'unica forma di proprietà è la proprietà

legale che si ottiene con l'acquisto. In opposizione a questo possesso magico

che gli viene rifiutato e che gli sottrae persino gli oggetti da lui acquistati,

egli si attacca al danaro come al legittimo potere di appropriazione

caratteristico dell'uomo universale e anonimo che aspira ad essere. E se

insiste sulla potenza del danaro, lo fa per difendere i suoi diritti di

consumatore in una comunità che glieli contesta, e ad un tempo per

razionalizzare il legame del possessore con l'oggetto posseduto, in modo da

far entrare la proprietà nel quadro di una concezione razionale dell'universo.

L'acquisto infatti, come atto commerciale razionale, legittima la proprietà e

questa si definisce semplicemente come diritto d'uso. Nello stesso tempo il

valore dell'oggetto acquistato, invece di apparire come non so quale mana

mistico che si rivelerebbe ai soli iniziati, si identifica con il suo prezzo, che

è pubblico e può essere conosciuto immediatamente da chiunque. Ecco i

sottintesi che implica il gusto dell'ebreo per il danaro: se il danaro definisce

il valore, questo è universale e razionale, non emana dunque da oscure fonti

sociali, è accessibile a tutti: da quel momento l'ebreo non potrebbe essere

escluso dalla società; vi si integra come acquirente e come consumatore

anonimo. Il danaro è fattore di integrazione. E alle belle formule

dell'antisemita «il danaro non può tutto» oppure «ci sono cose che non si

possono comprare», egli risponde a volte affermando l'onnipotenza del

danaro: «Si possono comprare tutte le coscienze, basta dare loro un prezzo».

Non si tratta né di cinismo, né di bassezza: siamo soltanto di fronte a un

contrattacco. L'ebreo vorrebbe persuadere l'antisemita che i valori

irrazionali sono pure apparenze e che non c'è nessuno che non sia pronto a

monetizzarli. Se l'antisemita si lascia comperare, la prova è fatta: è segno

che anch'egli preferisce in fondo l'appropriazione legale per acquisto

all'appropriazione mistica per partecipazione. Di colpo, eccolo rientrare

nell'anonimato; non è più che un uomo universale, definito unicamente dal

suo potere d'acquisto. Così si spiega ad un tempo «l'avidità di guadagno»

Page 70: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

dell'ebreo e la sua effettiva generosità. Il suo «amore per il danaro»

manifesta soltanto la deliberata decisione di considerare valevoli

esclusivamente i rapporti razionali, universali e astratti che l'uomo ha con le

cose; l'ebreo è utilitarista perché l'opinione pubblica gli rifiuta ogni altra

maniera di godere gli oggetti all'infuori dell'uso. Nello stesso tempo, egli

desidera acquistare col danaro i diritti sociali che gli vengono rifiutati a

titolo individuale.

Non lo urta il fatto di essere amato per il suo danaro: il rispetto,

l'adulazione che la sua ricchezza gli procurano sono indirizzati all'essere

anonimo che possiede un tale potere d'acquisto; orbene, è precisamente

questo anonimato che egli cerca: in forma abbastanza paradossale, vuole

essere ricco per passare inosservato. Queste indicazioni dovrebbero

permetterci di tracciare i caratteri principali della sensibilità ebraica. Essa è

senza dubbio profondamente segnata dalla scelta che l'ebreo fa di se stesso e

del senso della sua situazione. Ma non ci interessa delineare un ritratto. Ci

contenteremo dunque di evocare la lunga pazienza dell'ebreo e quell'attesa

della persecuzione, quel presentimento della catastrofe che egli cerca di

mascherare a se stesso durante gli anni felici e che scaturisce

improvvisamente, quando il cielo si copre, sotto forma di aura profetica;

sottolineeremo la natura particolare del suo umanesimo, quella volontà di

fratellanza universale destinata a scontrarsi con il più ostinato dei

particolarismi, e il miscuglio bizzarro di amore, disprezzo, ammirazione,

diffidenza che nutre per quegli uomini che non vogliono saperne di lui. Non

crediate che basti andare verso di lui a braccia aperte perché vi conceda la

sua fiducia: ha appreso a discernere l'antisemitismo sotto le più rumorose

manifestazioni di liberalismo. E' altrettanto diffidente verso i cristiani

quanto gli operai verso i giovani borghesi che «vanno verso il popolo». La

sua psicologia utilitarista lo porta a cercare dietro le testimonianze di

simpatia che alcuni gli prodigano il gioco di interessi, il calcolo, la

commedia della tolleranza. E del resto rare volte si sbaglia. Ma ciò

nondimeno cerca appassionatamente queste testimonianze, ama gli onori di

cui diffida, desidera essere dall'altra parte della barricata con loro, in mezzo

a loro, accarezza il sogno impossibile di essere subitamente guarito del suo

sospetto universale ad opera di qualche evidente prova di affetto, di buona

volontà. Bisognerebbe descrivere questo mondo a due poli, questa umanità

scissa in due e notare che ciascun sentimento ebraico ha una qualità diversa

secondo che si rivolga ad un cristiano o ad un ebreo. L'amore di un ebreo

per una ebrea non è della stessa natura dell'amore che egli porta ad una

«ariana»; c'è uno sdoppiamento profondo nella sensibilità ebraica,

mascherato sotto l'apparenza di un umanesimo universalistico.

Page 71: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Bisognerebbe notare infine la freschezza disarmata e la spontaneità incolta

dei sentimenti ebraici: occupato interamente a razionalizzare il mondo,

l'israelita non autentico può senza dubbio analizzare i suoi affetti, ma non li

può coltivare; può essere Proust ma non Barres. La cultura dei sentimenti e

dell'io presuppone un tradizionalismo profondo, un gusto del particolare e

dell'irrazionale, un ricorso a metodi empirici, il godimento tranquillo di ben

meritati privilegi: principi tutti di una sensibilità aristocratica.

Basandosi su di essi, il cristiano si darà ogni cura per trattarsi come una

pianta di lusso o come quei fusti di buon vino che venivano mandati sino

nelle Indie per riportarli poi in Francia perché l'aria marina li penetrava e

dava al vino un incomparabile sapore. La cultura dell'io è del tutto magica e

partecipazionista, ma questa attenzione perpetuamente rivolta verso di sé

finisce per portare qualche frutto. L'ebreo, che fugge se stesso e concepisce i

processi psicologici come operazioni meccaniche piuttosto che come le

attività di un organismo, assiste bensì al gioco delle sue inclinazioni, poiché

si è posto sul piano riflessivo, ma senza intervenire attivamente; non è

nemmeno sicuro di afferrarne il vero senso: l'analisi riflessiva non è il

migliore strumento d'indagine psicologica. Perciò il razionalista è

continuamente sopraffatto da una massa mobile e fresca di passioni e di

emozioni. Egli somma una sensibilità bruta alle raffinatezze della cultura

intellettuale. C'è una sincerità, una giovinezza, un calore nelle

manifestazioni di amicizia di un ebreo come raramente si potrà trovare

presso un cristiano, invischiato nelle sue tradizioni e nelle sue cerimonie.

Da ciò deriva anche il carattere disarmato della sofferenza ebraica, la più

sconvolgente delle sofferenze. Ma non rientra nel nostro compito insistervi.

Ci basta avere indicato le conseguenze che può avere la non autenticità

ebraica. Ci contenteremo, per finire, di delineare a grandi tratti ciò che si

chiama inquietudine ebraica. Gli ebrei infatti sono spesso inquieti. Un

israelita non è mai sicuro del suo posto o delle sue proprietà; non potrebbe

nemmeno affermare che domani sarà ancora nel paese che abita oggi; la sua

situazione, i suoi poteri e persino il suo diritto di vivere possono essere

messi in discussione da un momento all'altro; inoltre, come abbiamo già

visto, egli è ossessionato dall'immagine inafferrabile e umiliante che le folle

ostili hanno di lui. La sua storia è la storia di un errare di venti secoli; ad

ogni istante deve attendersi di riprendere il suo bastone. Si trova a disagio

persino nella sua pelle, nemico irriconciliabile del suo corpo, intento a

perseguire il sogno impossibile di una assimilazione che si allontana via via

che egli tenta di raggiungerla. Non ha mai la sicurezza ottusa dell'«ariano»,

solidamente stabilito sulle sue terre e così certo dei suoi titoli di proprietà da

poter anche dimenticare che è proprietario e trovare naturale il legame che

Page 72: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

lo unisce al suo paese. Ma non bisogna credere che l'inquietudine ebraica

sia metafisica. Sarebbe sbagliato assimilarla all'angoscia che provoca in noi

la considerazione della condizione umana. Direi che l'inquietudine

metafisica è un lusso che l'ebreo, come l'operaio, non può oggi permettersi.

Bisogna essere certi dei propri diritti e profondamente radicati nel mondo,

bisogna non avere nessuno dei timori che assalgono ogni giorno le classi o

le minoranze oppresse, per permettersi di interrogarsi sul posto dell'uomo

nel mondo e sul suo destino. In una parola, la metafisica è appannaggio

delle classi dirigenti ariane. Non si veda in queste osservazioni un tentativo

di screditarla: essa ritornerà la preoccupazione essenziale dell'uomo, quando

gli uomini si saranno liberati. L'inquietudine dell'ebreo non è metafisica, è

sociale. L'oggetto consueto della sua preoccupazione non è ancora il posto

dell'uomo nel mondo, ma il suo posto nella società: non vede l'abbandono di

ciascuno in mezzo ad un universo muto, perché non emerge ancora dalla

società nel mondo. E' in mezzo agli uomini che egli si sente abbandonato; il

problema razziale gli chiude l'orizzonte. La sua inquietudine non è di quelle

che vogliono perpetuarsi; egli non se ne compiace: vuole essere rassicurato.

Mi si faceva notare che non vi sono stati in Francia degli ebrei surrealisti.

La ragione è che il surrealismo pone, a suo modo, la questione del destino

umano. Le sue imprese di demolizione e il gran rumore fattovi intorno

erano dei giochi lussuosi di giovani borghesi a proprio agio in un paese

vittorioso che loro apparteneva.

L'ebreo non si sogna di demolire, né di considerare la condizione umana

nella sua nudità. E' l'uomo sociale per eccellenza, perché il suo tormento è

un tormento sociale. E' la società, non il decreto di Dio, che ha fatto di lui

un ebreo, che ha fatto nascere il problema ebraico; obbligato a scegliersi

intieramente entro le prospettive definite da questo problema, è nella e dalla

socialità che l'ebreo sceglie la sua stessa esistenza; il suo progetto

costruttivo di integrarsi nella comunità nazionale è sociale, sociale lo sforzo

che fa per pensarsi, cioè per situarsi in mezzo agli altri uomini, sociali le sue

gioie e le sue pene; così è, perché la maledizione che pesa su di lui è sociale.

Di conseguenza se gli si rimprovera la sua inautenticità metafisica, se gli si

fa notare che la sua perpetua inquietudine è accompagnata da un radicale

positivismo, non si dimentichi che i rimproveri si ritorcono contro chi li

formula: l'ebreo è sociale perché l'antisemita l'ha fatto tale. Tale è dunque

quest'uomo braccato, condannato a scegliersi sulla base di falsi problemi e

in una situazione falsa, privato del senso metafisico dall'ostilità minacciosa

della società che lo attornia, ridotto ad un razionalismo della disperazione.

La sua vita non è che una lunga fuga davanti agli altri e davanti a se stesso.

Gli si è tolto persino il suo proprio corpo, si è tagliata in due la sua vita

Page 73: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

affettiva, lo si è ridotto a perseguire, in un mondo che lo respinge, il sogno

impossibile di una fraternità universale. Di chi la colpa? Sono i nostri occhi

che gli rispecchiano l'immagine inaccettabile che egli vuole dissimulare.

Sono le nostre parole e i nostri gesti - tutte le nostre parole e tutti i nostri

gesti, il nostro antisemitismo ma anche il nostro liberalismo condiscendente

- che lo hanno avvelenato fino al midollo; siamo noi che lo costringiamo a

scegliersi ebreo, sia che fugga, sia che si rivendichi, siamo noi che lo

abbiamo costretto al dilemma della non autenticità o della autenticità

ebraica. Noi abbiamo creato questa specie di uomini che non ha senso se

non come prodotto artificiale di una società capitalistica (o feudale), che

non ha altra ragion d'essere che di servire da capro espiatorio di una

collettività ancora prelogica. Questa specie di uomini che testimonia

dell'uomo più di tutte le altre perché è nata da reazioni secondarie

nell'interno dell'umanità, questa quintessenza d'uomo, disgraziata, sradicata,

originariamente votata alla non autenticità o al martirio. Non c'è uno tra di

noi che non sia, in questa circostanza, totalmente colpevole e anzi

criminale; il sangue ebraico che i nazisti hanno versato ricade su tutte le

nostre teste. Resta vero, si dirà, che l'ebreo è libero: può scegliere di essere

autentico. E' vero, ma bisogna appunto comprendere che ciò non ci

riguarda: il prigioniero è sempre libero di evadere, restando inteso che

rischia la morte oltrepassando i reticolati; forse il suo carceriere è perciò

meno colpevole? L'autenticità ebraica consiste nello scegliersi come ebreo,

cioè nel realizzare la propria condizione ebraica. L'ebreo autentico

abbandona il mito dell'uomo universale: si riconosce e si vuole nella storia

come creatura storica e condannata; ha smesso di fuggire e di avere

vergogna dei suoi. Ha compreso che la società è cattiva; al monismo

ingenuo dell'ebreo non autentico sostituisce un pluralismo sociale; sa di

essere a parte, intoccabile, maledetto, proscritto, ed è come tale che si

rivendica.

Rinunzia al suo ottimismo razionalista: vede che il mondo è smembrato in

divisioni irrazionali ed accettando questo smembramento, almeno per

quanto lo concerne, proclamandosi ebreo, fa suoi alcuni di cedesti valori e

di codeste divisioni; sceglie i suoi fratelli e i suoi pari: sono gli altri ebrei;

ambisce alla grandezza umana poiché accetta di vivere in una condizione

che si definisce precisamente come impossibile a viversi, poiché trae il suo

orgoglio dalla sua umiliazione. Toglie ogni potere ed ogni virulenza

all'antisemitismo nel momento stesso in cui cessa di essere passivo. Infatti

l'ebreo non autentico fuggiva la sua realtà ebraica ed era l'antisemita che lo

faceva ebreo suo malgrado: mentre invece l'ebreo autentico si fa ebreo egli

stesso e da se stesso, a dispetto di tutti; accetta tutto fino al martirio e

Page 74: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

l'antisemita, disarmato, deve accontentarsi di abbaiare al suo passaggio

senza poterlo azzannare. Di colpo l'ebreo, come ogni uomo autentico,

sfugge alla descrizione: i caratteri comuni che abbiamo rilevato negli ebrei

non autentici provenivano dalla loro comune non autenticità. Non ne

ritroveremo nessuno nell'ebreo autentico: questi è ciò che si fa, ecco tutto

quanto ne possiamo dire. Si ritrova nel suo abbandono consentito, come

uomo, un uomo intero, con gli orizzonti metafisici che comporta la

condizione umana. Le anime belle non possono però tranquillizzarsi

dicendo: «Ebbene, poiché l'ebreo è libero, che sia dunque autentico e

avremo pace». La scelta dell'autenticità non è una soluzione sociale del

problema ebraico; non è nemmeno una soluzione individuale. Certo, gli

ebrei autentici sono oggi assai più numerosi di quanto non si immagini. Le

sofferenze che hanno dovuto sopportare durante questi ultimi anni hanno

contribuito non poco ad aprire loro gli occhi, e a me sembra anzi probabile

che esistano più ebrei autentici che autentici cristiani. Ma la scelta che

hanno fatto di se stessi non facilita per nulla la loro azione individuale, al

contrario. Ecco per esempio un ebreo francese «autentico» il quale, dopo

essersi battuto nel 1940, dirige a Londra una rivista di propaganda francese

durante l'occupazione. Scrive sotto pseudonimo, perché vuole evitare che

sua moglie, «ariana», residente in Francia, venga molestata. Lo stesso fanno

molti francesi emigrati; e quando si tratta di loro, lo si giudica ben fatto. Ma

quanto all'ebreo, gli si rifiuta questo diritto: «Ah! - si dice - ecco un altro

giudeo che vuole dissimulare la sua origine».

Sceglie gli articoli che pubblica tenendo conto unicamente del loro valore.

Se la percentuale degli articoli di ebrei è, per caso, considerevole, i lettori

sogghignano e gli scrivono: «Ecco la grande famiglia che si ricostituisce».

Se invece rifiuta un articolo di un ebreo, si dice che «fa dell'antisemitismo».

Ebbene, si dirà, se ne infischi, dal momento che è autentico. E' presto detto:

non può infischiarsene perché, precisamente, la sua è una azione di

propaganda; dipende dunque dalla opinione pubblica. «Benissimo: allora

vuol dire che questo genere di azione è proibito agli ebrei; che se ne

astenga». Ci risiamo: accettereste l'autenticità se conducesse dritta al ghetto.

E siete voi che rifiutate di vedere in ciò una soluzione del problema.

Socialmente poi le cose non vanno meglio; le circostanze che abbiamo

creato sono tali che l'autenticità finisce per disseminare la divisione tra gli

stessi ebrei. Sceglierla può infatti condurre a decisioni politiche opposte.

L'ebreo può scegliersi autentico per rivendicare il suo posto d'ebreo, coi

suoi diritti e il suo martirio entro la comunità francese; può darsi cura prima

di tutto di provare che la miglior maniera d'essere francese per lui è quella

di affermarsi come ebreo francese. Ma può anche esser indotto dalla sua

Page 75: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

scelta a rivendicare una nazione ebraica che possieda una terra e

un'autonomia, può persuadersi che l'autenticità ebraica esiga che l'ebreo sia

sostenuto da una comunità israelita. Non sarebbe impossibile concepire che

queste scelte opposte possano accordarsi e completarsi come due

manifestazioni della realtà ebraica. Ma sarebbe perciò necessario che gli atti

degli ebrei non fossero spiati e non corressero il rischio Continuo di fornire

ai loro avversari armi contro di loro. Se noi non avessimo creato all'ebreo la

sua situazione d'ebreo, si tratterebbe insomma di un'opzione sempre

possibile tra Gerusalemme e la Francia; l'immensa maggioranza degli

israeliti francesi sceglierebbe di rimanere in Francia, un piccolo numero

andrebbe ad ingrossare la nazione ebraica in Palestina; ciò non

significherebbe affatto che l'ebreo integrato nella collettività francese

conserverebbe un legame con Tel Aviv; tutt'al più la Palestina potrebbe

rappresentare ai suoi occhi una sorta di valore ideale, un simbolo, e

l'esistenza d'una comunità ebraica autonoma sarebbe infinitamente meno

pericolosa per l'integrità della società francese di quella, per esempio, d'un

clero ultramontano, che tolleriamo perfettamente. Ma lo stato attuale degli

spiriti fa di una scelta così legittima una fonte di conflitto tra gli israeliti.

Agli occhi dell'antisemita la costituzione d'una nazione ebraica fornisce la

prova che l'ebreo nella comunità francese è uno spostato. Prima gli si

rimproverava la sua razza, ora lo si considera come proveniente da un paese

straniero; non ha niente da fare tra noi, se ne vada dunque a Gerusalemme.

Perciò l'autenticità, quando conduce al sionismo, è nociva agli ebrei che

vogliono rimanere nella loro patria d'origine, perché fornisce argomenti

all'antisemita. L'ebreo francese si irrita contro il sionista che Complica

ancora di più una situazione già di per sé delicata e il sionista si irrita contro

l'ebreo francese che accusa a priori di inautenticità. Così la scelta di

un'autenticità appare come una determinazione morale che apporta all'ebreo

una certezza sul piano etico, ma non potrebbe in nessun modo servire come

soluzione sul piano sociale e politico: la situazione dell'ebreo è tale che tutto

quanto egli fa gli si rivolge contro.

Page 76: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

Capitolo quarto

Naturalmente, le osservazioni che siamo venuti facendo non pretendono

di portare ad una soluzione del problema ebraico. Ma non è impossibile

precisare, partendo da esse, le condizioni nelle quali una soluzione può

essere tentata.

Abbiamo visto infatti che, contrariamente ad una opinione diffusa, non è

il carattere ebraico a provocare l'antisemitismo ma, al contrario, è

l'antisemita a creare l'ebreo. Il fenomeno primo è dunque l'antisemitismo,

struttura sociale regressiva e concezione del mondo prelogica. Premesso

questo, che si vuole? Bisogna osservare infatti che la soluzione del

problema comporta la definizione dello scopo da raggiungere e dei mezzi

per raggiungerlo. Assai spesso si discute sui mezzi quando si è ancora

incerti sullo scopo. Che cosa possiamo volere?

L'assimilazione? Questo è un sogno: il vero avversario dell'assimilazione,

l'abbiamo visto, non è l'ebreo ma l'antisemita. Dopo la sua emancipazione,

cioè da un secolo e mezzo circa a questa parte, l'ebreo tenta di farsi

accettare da una società che lo respinge. Sarebbe perciò vano agire su di lui

per affrettare questa integrazione che si allontana continuamente davanti ai

suoi occhi: finché ci sarà dell'antisemitismo l'assimilazione non potrà

realizzarsi. E' vero che si può pensare di impiegare i grandi mezzi: alcuni

ebrei chiedono che si muti il nome a tutti gli israeliti e li si obblighi a

chiamarsi Durand o Dupont. Ma questa misura è insufficiente: bisognerebbe

aggiungervi una politica di matrimoni misti e di divieti rigorosi per quanto

concerne le pratiche della religione e particolarmente la circoncisione.

Dirò chiaramente che queste misure mi sembrano inumane. Può essere

che Napoleone abbia pensato di ricorrervi: ma Napoleone pensava

precisamente di sacrificare la persona alla comunità. Nessuna democrazia

può accettare di realizzare l'integrazione degli ebrei al prezzo di simili

coercizioni. D'altra parte un procedimento del genere può essere

magnificato soltanto da ebrei non autentici in preda ad una crisi di

antisemitismo; non tenderebbe ad altro che a liquidare la razza ebraica;

rappresenta, spinta alle estreme conseguenze, la tendenza, che abbiamo

notato nel democratico, a sopprimere puramente e semplicemente l'ebreo a

profitto dell'uomo. Ma l'uomo non esiste: esistono ebrei, protestanti,

Page 77: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

cattolici; esistono francesi, inglesi, tedeschi; esistono bianchi, neri e gialli.

Si tratta insomma di annullare una comunità spirituale fondata sui costumi e

l'affetto, a vantaggio di una collettività nazionale. La maggior parte degli

ebrei coscienti rifiuterà l'assimilazione, se gliela si presenta sotto questo

aspetto. Certo, essi sognano di integrarsi alla nazione, ma in guanto ebrei: e

chi oserebbe rimproverarli per questo?

Sono stati costretti a pensarsi ebrei, li si è indotti a prendere coscienza

della loro solidarietà con gli altri ebrei; perché stupirsi se oggi essi si

oppongono a misure che tendono a distruggere Israele?

Vanamente si obietterà che essi formano una nazione entro la nazione.

Abbiamo cercato di mostrare che la comunità ebraica non è né nazionale,

né internazionale, né religiosa, né etnica, né politica: è una comunità quasi

storica. Ciò che fa l'ebreo è la sua situazione concreta; ciò che lo unisce agli

altri ebrei è l'identità della situazione. Questo corpo quasi storico non può

essere considerato come un elemento estraneo nella società. Tutt'al

contrario, le è necessario. Se la chiesa, in un tempo in cui era onnipotente,

ne ha tollerato l'esistenza, lo ha fatto perché esso aveva assunto delle

funzioni economiche che lo rendevano indispensabile. Oggi queste funzioni

sono accessibili a tutti, ma ciò non significa che l'ebreo, come fattore

spirituale, non contribuisca a dare alla nazione francese il suo carattere

particolare e il suo equilibrio. Abbiamo descritto oggettivamente,

severamente forse, i caratteri dell'ebreo non autentico: non ce n'è uno che si

opponga alla sua assimilazione come tale nella società nazionale. Al

contrario, il suo razionalismo, il suo spirito critico, il suo sogno di una

società contrattuale, di una fraternità universale, il suo umanesimo, fanno di

lui un indispensabile lievito di questa società. Ciò che proponiamo qui è un

liberalismo concreto. Intendo con ciò che tutte le persone che collaborano

col loro lavoro alla grandezza di un paese hanno pieni diritti di cittadinanza

in questo paese. Ciò che dà loro questo diritto non è il possesso di una

problematica ed astratta «natura umana», ma la loro partecipazione attiva

alla vita della società. Ciò significa dunque che gli ebrei, come gli arabi o i

neri, dal momento che sono associati all'impresa nazionale hanno il diritto

di interloquire sul suo funzionamento; sono cittadini. Ma hanno questi diritti

a titolo di ebrei, neri o arabi, cioè come persone concrete. Nelle società in

cui la donna vota, non si domanda alle elettrici di cambiare sesso

avvicinandosi all'urna: il voto della donna vale esattamente quanto quello

dell'uomo, ma ella vota in quanto donna, con le sue passioni e

preoccupazioni di donna, col suo carattere di donna. Quando si tratta dei

diritti legali dell'ebreo e dei diritti più oscuri, ma altrettanto indispensabili,

che non sono scritti in nessun codice, non bisognerà riconoscerglieli in

Page 78: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

quanto c'è in lui un possibile cristiano, ma in quanto egli è un ebreo

francese: noi dobbiamo accettarlo col suo carattere, i suoi costumi, i suoi

gusti, la sua religione se ne ha una, col suo nome e coi suoi caratteri fisici.

Questa accettazione, se è totale e sincera, dapprima faciliterà all'ebreo la

scelta dell'autenticità ed in seguito a poco a poco renderà possibile senza

violenza, per il corso stesso della storia, quell'assimilazione che si vorrebbe

imporre per costrizione. Ma il liberalismo concreto che abbiamo definito è

un fine; e rischia di diventare un semplice ideale se non determiniamo i

mezzi per raggiungerlo. Orbene, l'abbiamo già dimostrato, non si tratta di

agire sull'ebreo. Il problema ebraico è nato dall'antisemitismo; perciò è

l'antisemita che deve essere soppresso per risolverlo. Il problema si

trasforma quindi così: come agire sull'antisemitismo? I procedimenti

ordinari, ed in particolare la propaganda e l'istruzione, non devono essere

trascurati: sarebbe desiderabile che il bambino ricevesse a scuola una

educazione che gli permettesse di evitare gli errori passionali. Ma è

legittimo dubitare che i risultati sarebbero puramente individuali. Allo

stesso modo, non bisogna temere di proibire con leggi permanenti i

propositi e gli atti che tendono a gettare il discredito su una categoria di

francesi. Ma non facciamoci troppe illusioni sull'efficacia di simili misure:

le leggi non hanno mai disturbato e mai disturberanno l'antisemita, che ha

coscienza di appartenere ad una società mistica al di fuori della legalità. Si

possono accumulare decreti ed interdizioni: verranno sempre dalla Francia

legale, e l'antisemita pretende di rappresentare la Francia reale.

Ricordiamoci che l'antisemitismo è una concezione del mondo manichea e

primitiva in cui l'odio per l'ebreo prende posto a titolo di grande mito

esplicativo. Abbiamo visto che non si tratta di una opinione isolata, ma della

scelta globale che un uomo in una determinata situazione fa di se stesso e

del senso dell'universo. E' l'espressione di un senso selvaggio e mistico della

proprietà immobiliare. Se vogliamo rendere questa scelta impossibile, non

basta rivolgersi con la propaganda, l'educazione e le interdizioni legali alla

libertà dell'antisemita. Dato che questi è, come ogni altro uomo, una libertà

in situazione, è la sua situazione che va modificata radicalmente. Basta

infatti cambiare le prospettive della scelta perché tale scelta si trasformi.

Non è che in questo modo si attenti alla libertà: ma la libertà decide su altre

basi, in riferimento ad altre strutture. Il politico non può mai agire sulla

libertà dei cittadini; la sua posizione stessa gli impedisce di curarsene

altrimenti che in forma negativa, cioè prendendo cura di non ostacolarla:

egli agisce solo sulle situazioni. Abbiamo constatato che l'antisemitismo è

uno sforzo passionale per realizzare una unione nazionale contro la

divisione della società in classi. Si tenta di sopprimere la frammentazione

Page 79: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

della comunità in gruppi ostili gli uni agli altri portando le passioni comuni

ad una temperatura tale da far fondere le barriere: e poiché ciò nonostante le

divisioni sussistono, in quanto le loro cause economiche e sociali non sono

state toccate, si tenta di riunirle tutte in una sola: le distinzioni tra ricchi e

poveri, tra classi lavoratrici e classi possidenti, tra poteri legali e poteri

occulti, tra cittadini e rurali, ecc., vengono riassunte tutte in quella di ebreo

e non ebreo. Ciò significa che l'antisemitismo è una rappresentazione mitica

e borghese della lotta di classe e che non potrebbe esistere in una società

senza classi. Dimostra la separazione degli uomini e il loro isolamento nel

seno della comunità, il conflitto degli interessi, lo smembramento delle

passioni: può esistere solo nelle collettività in cui un debole legame di

solidarietà unisce delle pluralità fortemente strutturate; è un fenomeno di

pluralismo sociale. In una società i cui membri sono tutti solidali, perché

tutti impegnati nella stessa impresa, non ci sarebbe posto per esso. Infine,

dimostra un certo legame mistico e partecipazionista dell'uomo al suo

«bene» che risulta dal regime attuale della proprietà. In una società senza

classi e fondata sulla proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, quando

l'uomo liberato dalle allucinazioni del mondo sotterraneo si lancerà infine

nella sua impresa, quella di fare esistere il regno umano, l'antisemitismo non

avrà più alcuna ragione di esistere: lo si sarà colpito alla radice. Perciò

l'ebreo autentico, che si pensa come ebreo perché l'antisemita l'ha messo

nella situazione di ebreo, non si opporrà all'assimilazione più di quanto

l'operaio che prende coscienza di appartenere ad una classe non si oppone

alla liquidazione delle classi. Al contrario, in entrambi i casi è proprio con

la presa di coscienza che si accelererà la soppressione della lotta di classe e

del razzismo. L'ebreo autentico rinuncia per sé ad una assimilazione oggi

impossibile e l'attende per i suoi figli dalla liquidazione radicale

dell'antisemitismo. L'ebreo di oggi è in pieno regime di guerra. La

rivoluzione socialista è necessaria e sufficiente per sopprimere l'antisemita:

è anche per gli ebrei che faremo la rivoluzione. E intanto? E' infatti una

soluzione oziosa quella di affidare alla rivoluzione futura la liquidazione del

problema ebraico. Esso ci interessa tutti direttamente; siamo tutti solidali

con l'ebreo perché l'antisemitismo conduce direttamente al

nazionalsocialismo. E se non rispettiamo la persona dell'israelita, chi ci

rispetterà? Se siamo coscienti di questi pericoli, se siamo vissuti nell'onta

della nostra complicità involontaria con gli antisemiti, che ha fatto di noi dei

carnefici, forse cominceremo a comprendere che bisogna lottare per l'ebreo

né più né meno che per noi stessi. Mi dicono che è da poco rinata una lega

ebraica contro l'antisemitismo. Ne sono lietissimo: ciò prova che il senso

dell'autenticità si sviluppa presso gli israeliti. Ma questa lega sarà poi

Page 80: Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo

efficace? Molti ebrei - e dei migliori - esitano ad entrarvi per una sorta di

modestia: «Ne sentiremo delle belle!», mi diceva uno di loro recentemente,

ed aggiungeva, piuttosto goffamente ma con un sincero e profondo pudore:

«L'antisemitismo e le persecuzioni sono cose senza importanza». Questa

ripugnanza è ben comprensibile. Ma noi che non siamo ebrei, dobbiamo

condividerla? Richard Wright, lo scrittore nero, diceva recentemente: «Non

esiste un problema nero negli Stati Uniti, esiste solo un problema bianco».

Allo stesso modo, diremo che l'antisemitismo non è un problema ebraico: è

il nostro problema. Dato che ne portiamo la colpa e che rischiamo di esserne

anche noi le vittime, dobbiamo essere ben ciechi per non vedere che

riguarda essenzialmente e prima di tutto noi. Non spetta dunque agli ebrei

fare una lega militante contro l'antisemitismo, ma a noi. Va da sé che una

lega del genere non sopprimerà il problema.

Ma se si ramificasse in tutta la Francia, se ottenesse di essere

ufficialmente riconosciuta dallo stato, se la sua esistenza facesse nascere in

altri paesi altre leghe analoghe alle quali si unisse per formare

un'associazione internazionale, se intervenisse efficacemente in tutti quei

casi in cui le venissero segnalate delle ingiustizie, se operasse con la

stampa, la propaganda e l'insegnamento, essa otterrebbe un triplice risultato:

per prima cosa permetterebbe agli avversari dell'antisemitismo di contarsi e

di unirsi in una collettività attiva; in secondo luogo riunirebbe, con la forza

di attrazione che esercita ogni gruppo organizzato, un buon numero di

esitanti che non pensano niente sul problema ebraico; offrirebbe infine ad

un avversario che oppone volentieri il paese reale al paese legale l'immagine

di una comunità concreta impegnata, al di là dell'astrazione universalistica

della legalità, in un combattimento particolare. Così toglierebbe

all'antisemita il suo argomento favorito, che poggia sul mito del concreto.

La causa degli israeliti sarebbe vinta a metà, solo che i loro amici trovassero

per difenderla un po’ della passione e della perseveranza che vi mettono i

loro nemici per batterla. Per svegliare questa passione non bisognerà

indirizzarsi alla generosità degli ariani: si tratta di una virtù che anche nei

migliori può andare soggetta ad intermittenze. Ma bisognerà dimostrare a

ciascuno che il destino degli ebrei è il suo destino. Non ci sarà un francese

libero, finché gli ebrei non godranno la pienezza dei loro diritti; non un

francese vivrà sicuro, finché un ebreo in Francia e nel mondo intero potrà

temere per la propria vita.