Sartre Jean-Paul - L'Antisemitismo
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Jean-Paul Sartre
L'antisemitismo
Riflessioni sulla questione ebraica
Reflexions sur la question juive, 1954
Pubblicato per la prima volta nel 1946, questo breve saggio
sull'antisemitismo è un'analisi sempre attuale, lucida e spietata, e, nel
contempo, originale del problema dell'antisemitismo nelle sue forme
moderne. Con lo stile sferzante e pieno di pathos che caratterizzò sempre le
sue battaglie politiche e culturali per l'emancipazione umana e per la vittoria
di una civiltà della ragione contro il fanatismo e il conformismo, Sartre
denuncia le occulte ragioni psicologiche che hanno portato alle stragi degli
ebrei, analizza il problema dell'antisemitismo dal punto di vista storico,
ontologico e sociale, e della mentalità delle persone affette da pregiudizi
razziali. L'antisemitismo, e in senso lato ogni pregiudizio razziale, è fuga
dall'autenticità esistenziale e dalla libertà, è una concezione del mondo
improntata dalla cieca passionalità dell'odio, che è fuga dal proprio essere e
dalle continue responsabilità cui dobbiamo sottostare in quanto creature
interamente libere. Un'analisi che, definendo l'antisemitismo come una
«rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe, che non potrebbe
esistere in una società senza classi», lascia intravvedere una possibilità di
soluzione del problema.
INDICE
INTRODUZIONE DI FILIPPO GENTILI
L'ANTISEMITISMO
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Introduzione
L'antisemitismo, pubblicato nel novembre del 1946, cade in quell'arco di
anni, dal '45 al '49, che può considerarsi come uno dei periodi più felici,
oltre che fecondi, dell'intera produzione sartriana. Filosofia, teatro, critica
letteraria, articoli di giornali, sceneggiature per film, il catalogo delle opere
di questo periodo abbraccia un campo sconfinato di indagine, in piena
sintonia con quella poliedricità di interessi, davvero impressionante, che fu
sempre una delle caratteristiche più appariscenti del genio sartriano. Tener
conto di ciò è importante per la comprensione dell'opera che qui
presentiamo. La multiformità degli interessi, in Sartre, non si manifesta
infatti solo esteriormente, ovvero nel fatto che egli scrisse dei più svariati
argomenti, ma essa agisce anche all'interno di ciascun testo, che diviene
così il punto in cui confluiscono diverse correnti di pensiero, a volte in
sintonia, a volte in disaccordo tra loro. Ciò costituisce indubbiamente il
fascino dell'opera sartriana, ma anche, bisogna ammetterlo, la sua ambiguità
talvolta fuorviante per il lettore che, attratto in un primo tempo dai
multiformi Bagliori proiettati dal testo, rischia alla fine di soccombere alla
loro molteplicità e di smarrire il filo del discorso; La breve opera
sull'antisemitismo non si sottrae a questa condizione; muovendo dall'ambito
ben circoscritto di un problema specifico, quello del pregiudizio razziale,
essa sviluppa tematiche generali la cui presenza è rintracciabile, come una
sorta di nota continua, lungo tutto l'arco della sconfinata produzione
sartriana.
E' dunque necessario mettere in luce lo sfondo sul quale si snoda il
discorso perché il lettore, messo sull'avviso ed entrato in possesso degli
strumenti necessari, possa avventurarsi nel testo con più facilità. Il richiamo
a tre opere sartriane di quel periodo può esserci di aiuto in questa impresa:
L'esistenzialismo è un umanesimo (marzo 1946), Materialismo e
rivoluzione (giugno 1946), la redazione dei Temps Modernes», il periodico
di cui Sartre fu fondatore e direttore.
Possiamo dire che questi testi stanno a simboleggiare i tre grandi campi di
indagine con i quali il filosofo francese si confrontò in maniera privilegiata.
L'esistenzialismo è un umanesimo è un breve pamphlet nel quale Sartre,
in un linguaggio piano e colloquiale, traccia il profilo essenziale
dell'esistenzialismo, ovvero di quella stessa corrente di pensiero cui egli
legò principalmente il suo destino e la sua notorietà di filosofo. L'opuscolo,
con il suo enorme successo editoriale, contribuì molto all'espandersi della
fama di Sartre e di quella stessa corrente che, nell'immediato dopoguerra,
conobbe la sua massima fortuna. L'esistenzialismo, in contrapposizione
polemica a qualsiasi forma di idealismo e materialismo, pone al centro della
propria attenzione l'uomo, considerato come essere pienamente libero e
cosciente, dunque artefice responsabile del proprio destino. Materialismo e
rivoluzione segna l'inizio del lungo dialogo tra Sartre e il marxismo: essa
proseguirà negli anni a venire, non limitandosi al campo delle dispute,
teoretiche, ma passando anche attraverso clamorose prese di posizione
pubbliche, come l'infatuazione per l'Unione Sovietica nel 1952, e il radicale
voltafaccia compiuto soltanto quattro anni più tardi. «Temps Modernes»,
infine, testimonia della scelta sartriana per una figura di intellettuale
impegnato, per quanto controverso e scostante sia stato il suo impegno.
Dalle pagine della rivista egli affronta infatti, con grande pathos e forza
polemica, le questioni sociali e politiche più scottanti di quegli anni.
L'essere dell'uomo come libertà, la critica serrata del mondo borghese,
l'impegno quotidiano come destino prescelto dalla filosofia: è quanto noi
ritroviamo nelle pagine dedicate al problema ebraico, velatamente o in
modo manifesto.
Mosso dal desiderio di trattare un argomento tanto più scottante in quel
dopoguerra scioccato dalla rivelazione dell'olocausto, Sartre dipinge
l'antisemita come quell'uomo che, attraverso l'odio razziale, fugge dalla
libertà del proprio essere e che, all'esterno, mostra l'espressione gretta e
astiosa del piccolo borghese francese, risolutamente ostile all'epoca
moderna. Ecco dunque le due facce, quella ontologica e quella sociale,
potremmo dire, che l'antisemita è costretto a mostrare, quanto la ragnatela
delle sue autogiustificazioni cade, viene meno. Ma prima di addentrarci
nella loro indagine particolareggiata, gettiamo un breve sguardo al problema
storico dell'antisemitismo. La smisurata vastità dell'antisemitismo non può
certo venir esaurita nell'ambito di queste poche pagine, ma Sartre stesso ci
viene in aiuto, restringendo il campo della sua indagine al problema
dell'antisemitismo francese e, in particolare, della sua forma moderna. Così
facendo egli si pone come la dolorosa autocoscienza di una nazione la cui
storia è stata segnata da una triste tradizione di antisemitismo latente o
manifesto, pur essendo al contempo il primo paese europeo, con lo statuto
del 1791, ad aver riconosciuto agli ebrei una piena parità di diritti civili e
politici. Possiamo sommariamente ripercorrere le tappe salienti di questa
nefasta tradizione, i cui segni sono rintracciabili anche in opere di eminenti
figure della cultura. In questa categoria rientra certamente l'antisemitismo
violento e viscerale di Voltaire (1694-1778), nel cuore del Settecento
«illuminato», che tanta parte ebbe nella creazione di una tradizione di
cosiddetto «antisemitismo culturale», vivo ancora nel nostro secolo: e così
pure l'opera di Joseph-Arthur de Gobineau, Saggio sull'ineguaglianza delle
razze umane, scritto nel 1853, la prima esplicita teorizzazione-
giustificazione del razzismo moderno. Una vera e propria esplosione della
tensione razziale si ebbe negli ultimi decenni del 1800, dopo un secolo in
cui tale tensione sembrava essersi attenuata, e durante il quale si era
assistito all'ascesa di numerosi ebrei francesi a posti di spicco sia nella sfera
del potere pubblico che in quella del potere privato. Gli anni a partire dal
1880 furono segnati dal perdurare di una grave crisi economica, e gli ebrei,
secondo uno schema più volte ripresentatosi nella storia, furono
strumentalizzati come capri espiatori contro cui far defluire il malessere e la
rabbia generali.
Episodio emblematico e clamoroso della mutata atmosfera fu il cosiddetto
«affare Dreyfus, ovvero il processo istituito nel 1894 ai danni di un capitano
ebreo, ingiustamente accusato di spionaggio. Circoli di destra, ambienti
militari e Chiesa cattolica fecero fronte comune in una campagna
ferocemente denigratoria, mentre la folla percorreva le strade di Parigi
gridando «morte agli ebrei». Il grande successo editoriale dell'opera del
giornalista Drumont, France juive, pubblicata nel 1886, testimonia quanto
sensibile fosse l'opinione pubblica a simili sollecitazioni. I primi anni del
nostro secolo videro un'inversione di tendenza, un'attenuazione della
tensione razziale, in nome di quella «unità sacra», al di là di qualsiasi
distinzione di razza e di religione, cui tutti i francesi si appellarono per far
fronte comune al dramma della Prima guerra mondiale. Ma la quiete doveva
presagire, per gli ebrei, tempeste ben più rovinose di quelle passate, e
precisamente quelle che si scatenarono nel periodo della Seconda guerra
mondiale, il periodo che sembra maggiormente bruciare nel ricordo delle
pagine sartriane. Invasa dai tedeschi, scissa in due zone, una sotto il diretto
controllo degli invasori, l'altra rimasta francese più a parole che a fatti, la
Francia conobbe una delle pagine più oscure del suo antisemitismo:
creazione di campi di internamento, deportazione di 100.000 ebrei nei Lager
nazisti, promulgazione, nella zona «libera», di una costituzione speciale per
gli ebrei di netto sapore discriminatorio.
Queste e altre misure contribuirono a formare un clima di fosco terrore
che le riparazioni del dopoguerra solo in parte riuscirono a fugare, con tutti i
problemi che la ricostruzione di una comunità ebraica e lacerata ponevano.
Era dunque l'urgenza di problematica drammaticamente attuale che si apriva
agli occhi di Sartre e questo spiega certamente il pathos travolgente e
doloroso che anima molte delle sue idee Il breve cenno storico tracciato non
deve però trarre in inganno. Se, nell'ambito della storia dell'integrazione
ebraica sul suolo francese, abbiamo sottolineato soltanto i lati oscuri, non
era certo con l'intento di formulare un giudizio negativo sulla Francia in
toto. Si potrebbero ugualmente citare, di quella storia, casi che spingono in
direzione diametralmente opposta, come l'opera svolta da A. Cremieux, più
volte ministro del governo transalpino, che nel 1860 diede vita all'Alliance
Israélite Universelle, primo tentativo di attività coordinata a livello
internazionale per la difesa dei diritti degli ebrei: o come il nervosismo che
le autorità tedesche di occupazione dimostrarono, nel corso della Seconda
guerra mondiale, verso ciò che essi definivano «le omissioni e le lentezze
delle autorità francesi nell'affrontare la questione ebraica». Ma a noi
premeva sottolineare come il problema dell'antisemitismo sia sempre stato
un problema effettivo, reale, nella storia della Francia, e come esso abbia
dato vita a una tradizione di discriminazioni la cui fisionomia, a uno
sguardo profondo, si rivela priva di una vera uniformità, essendo piuttosto il
risultato di diversi motivi confluiti insieme: motivi economici (gli ebrei
considerati come speculatori senza scrupoli, fomentatori interessati delle
crisi economiche), razziali e culturali (il disprezzo volterriano per i loro riti
e i loro costumi), xenofobi (gli ebrei come corpi estranei e corruttori rispetto
all'insieme di tradizioni e valori genuinamente francesi). E bene sottolineare
soprattutto quest'ultimo aspetto, non soltanto perché, secondo alcuni storici,
esso costituisce la nota specifica dell'antisemitismo francese, ma anche
perché Sartre vi si richiama nelle sue pagine con un'insistenza quasi
ossessiva. Ma qual è, per venire direttamente al testo, il modo in cui Sartre
affronta il problema? Le prime tre pagine, in cui ciò viene definito,
dimostrano già di per sé la circospezione e la sottigliezza, con cui egli si
muove.
L'antisemitismo, viene detto, non è un'opinione tra le altre, una possibile
zona d'ombra all'interno di una personalità per il resto irreprensibile, alla cui
origine vi sarebbero considerazioni storiche o esperienze personali: esso è,
piuttosto, una passione, un'idea preconcetta che guida la nostra
interpretazione della realtà circostante, al fine di trovare delle giustificazioni
al proprio operato. Anzi, esso è ancora qualcosa di molto più vasto: «un
atteggiamento globale che si adotta non solamente verso gli ebrei, ma verso
gli uomini in generale, verso la storia e la società: al contempo, una
passione e una concezione del mondo». Si rischia di fraintendere
completamente l'opera sartriana se non si comprende l'estrema particolarità
di questo punto di vista iniziale. Attraverso quelle poche pagine Sartre
assegna al problema razziale una portata e una drammaticità inusuali,
perché l'antisemitismo cessa di essere, come lo intendono i più, un
comportamento circoscritto adottato in particolari circostanze (la presenza
di un ebreo), per divenire un modo di essere globale, che anima tacitamente
tutti gli atti e i pensieri dell'individuo, indipendentemente dalle circostanze
in cui egli si trova. In questo senso l'antisemitismo si pone come il segno di
una condizione esistenziale che Sartre aveva definito, nell'ambito della sua
filosofia esistenzialistica, come la condizione dell'inautenticità. Con essa si
intende il rapportarsi al proprio essere nei termini di un suo rifiuto, di una
fuga da esso. Ciascun individuo, lo abbiamo visto, è assoluta libertà. Egli
non è dunque un insieme di caratteri dati una volta per tutte (irascibilità,
gelosia, bontà...) in grado di spiegare i suoi atti allo stesso modo in cui la
causa, determinandolo, spiega l'effetto; piuttosto egli rifà se stesso
incessantemente, a ogni istante, progettando la propria esistenza come una
serie di possibili, la cui realizzazione non è garantita da alcuna divinità
ultraterrena, né da alcuna scala di valori eterni e incorruttibili. Questa
condizione di incessante responsabilità è però vissuta come un peso e
l'uomo tenta per lo più di occultarsela, fuggendo l'accettazione del proprio
essere genuino; nella misura in cui fa questo, egli è inautentico. Se
esaminiamo i caratteri attraverso cui Sartre individua l'antisemita, vedremo
che essi corrispondono esattamente a quelli propri dell'uomo inautentico. La
cieca passionalità dell'odio che l'antisemita rivolge all'ebreo, il suo sottrarsi
a qualsiasi discussione, la sua tendenza a vivere il proprio sentimento
esclusivamente in termini collettivi, di massa; tutti questi atteggiamenti
possono venir letti, nel loro significato più profondo, come altrettante vie
imboccate da un medesimo desiderio per realizzarsi, il desiderio di fuggire
il proprio essere, e con esso le continue responsabilità cui dobbiamo
sobbarcarci in quanto creature interamente libere. Il mondo dell'antisemita è
un mondo di assolute certezze fuori discussione, dal quale il dubbio è stato
bandito e ogni cosa ha il suo posto e il suo valore definitivi. Tenendo conto
di ciò si spiega, ancora, la sua visione rigidamente manichea, secondo cui
tutto il bene esistente è in lui, mentre il male è confinato nel versante
ebraico dell'universo, senza alcuna eccezione né possibilità di mutamento.
Potremmo concludere che, paradossalmente, l'ebreo non interessa
all'antisemita se non come semplice pretesto per mettere in atto la sua fuga
ontologica. La rinuncia alla propria individualità, inevitabile conseguenza di
quella fuga, è spinta a un punto tale che l'antisemita si annulla come persona
autosufficiente, in grado di sostenersi da sé; egli finisce per esistere solo in
rapporto all'ebreo come sua negazione, e la totale eliminazione di
quest'ultimo, che egli pure persegue, significherebbe il venir meno della sua
stessa ragion d'essere. Più in generale si può dire che tutta l'opera sartriana
si sforza di creare una strettissima interdipendenza tra i due protagonisti del
dramma razziale, in modo da farli vivere soltanto nella relazione di
opposizione che essi intrattengono tra loro. Nel chiedersi che cosa
identifichi l'ebreo come tale, ritenendo inadeguato qualsiasi criterio storico,
razziale o religioso di definizione, Sartre conclude che «l'ebreo non è altro
che la creazione dell'antisemita, ovvero un insieme di caratteri fisici,
intellettuali, morali, che la comunità ha associato, in maniera arbitraria, al
concetto di individuo ebraico». Una serie di problemi si impone però alla
nostra attenzione. Sinora abbiamo considerato la figura dell'antisemita come
l'incarnazione di un tipo d'uomo, quello inautentico, che nella sua
universalità si pone al di là di qualsiasi precisa connotazione temporale. Ma
in tal modo Sartre non rischia di dissolvere il problema dell'antisemitismo in
un'atemporalità completamente scissa dalla storia? L'antisemitismo si riduce
forse a un puro pretesto per l'esposizione di una teoria ontologica cara
all'autore? A queste domande dobbiamo rispondere negativamente, anche se
vi fu sempre un'indubbia tendenza sartriana a sfruttare i vari argomenti
trattati come terreno di svolgimento e dimostrazione delle proprie teorie
personali. La risposta sarà comunque negativa perché l'antisemita, oltre a
essere l'incarnazione di un tipo atemporale di uomo inautentico, assume, nel
succedersi delle pagine, i tratti storici del piccolo borghese visceralmente
nazionalista e dedito al culto delle classi, la cui figura dominava la scena
francese nella prima metà del secolo. E tra le due schiere che, per Sartre,
l'antisemitismo recluta la maggior parte dei propri adepti. Mosso da una
profonda frustrazione sociale, il piccolo borghese realizza l'uguaglianza
simbolica con le classi più agiate, dalle quali si sente melanconicamente
escluso, proprio attraverso la partecipazione a una medesima battaglia
razziale.
Il condividere questo stesso credo avrebbe il potere di condurlo al di là
delle barriere sociali ed egli andrebbe così a formare, insieme a quelle classi
dominatrici, un'unica grande nazione antisemita; solo questa nazione nella
nazione costituisce, ai suoi occhi, la Francia reale, ovvero quell'insieme di
tradizioni e valori la cui profonda comprensione è per sempre preclusa
all'ebreo, in quanto straniero, in quanto «altro» per eccellenza. E' qui che la
prospettiva marxista s'insinua con forza nelle argomentazioni sartriane. In
sede di conclusioni troviamo scritto: «L'antisemitismo è una
rappresentazione mitica e borghese della lotta di classe, che non potrebbe
esistere in una società senza classi». La soluzione auspicata sarà dunque la
rivoluzione socialista, la quale, sopprimendo il concetto stesso di classi,
minerà l'antisemitismo alle sue basi sociali, inferendogli un colpo mortale.
Ecco dunque che indagine ontologica e indagine sociale corrono parallele in
queste pagine, alla ricerca di un delicato equilibrio che è l'equilibrio stesso
cui anela la multiforme anima sartriana. E questo duplice piano, secondo
uno squisito senso delle simmetrie, emerge anche in quella parte del testo
dedicata specificamente alla figura dell'ebreo. Egli, lo abbiamo visto, non è
altro che la creazione dell'antisemita: i vincoli storici e religiosi sarebbero
troppo deboli per caratterizzarlo, e il concetto di razza, a essere
etnologicamente rigorosi, è assolutamente inapplicabile al popolo ebraico,
nonostante che il senso comune vi si richiami come al criterio più ovvio.
Sartre sviluppa il suo discorso intorno al concetto di «situazione», che
riveste un ruolo fondamentale in tutto il suo pensiero. Se l'uomo è assoluta
libertà, immune da qualsiasi determinazione causale esercitata da fattori
esterni, la sua specificità, in questo caso quella di essere ebreo, sarà il
risultato del modo in cui egli liberamente vive la serie di condizioni di fatto
(biologiche, economiche, culturali...) entro cui si sviluppa la sua esistenza.
Nel caso dell'ebreo l'elemento determinante è la violenta ostilità con cui gli
altri uomini lo considerano. Di fronte a tale situazione, sempre e comunque
sua, egli può farsi avanti con il fiero proposito di affrontarla, oppure
retrocedere illudendosi di poterla sfuggire. L'indagine sartriana si appunta
proprio sul secondo caso.
Questo tipo di ebreo, consapevole dell'immagine fosca e distorta che la
società ha di lui, schiacciato dal Minore di una condizione sempre precaria,
cerca riparo sforzandosi di cancellare tutto ciò che di sé può tradire una
identità agli occhi della gente, esponendolo al pericolo.
Nella luce di questa continua rinuncia a se stesso si spiega la sua vita. Il
suo proverbiale intellettualismo, ad esempio, non è altro che la volontà di
instaurare i propri rapporti su di un piano universale, quello appunto della
ragione astratta, sul quale le differenze individuali (dunque anche la sua
specificità ebraica) non contano più ed egli vale soltanto come singolo
esemplare di essere pensante. Il disagio con il quale vive il proprio corpo,
ancora, nasce dal timore che la particolare conformazione dei suoi tratti
possa tradirlo. Cosa si nasconde dietro quest'individuo angosciosamente
sprofondato nell'autorinnegamento? Dal punto di vista ontologico,
nient'altro che una nuova incarnazione dell'uomo inautentico; dal punto di
vista sociale, il tipico ebreo francese della prima metà del secolo,
fortemente «assimilazionista», ovvero convinto che l'unica soluzione
possibile del problema razziale consista in un'integrazione totale al paese di
residenza, anche a costo di rinnegare del tutto la propria cultura e la propria
tradizione ebraica. Ecco qui riapparire, a proposito dell'ebreo, il duplice
piano (ontologico-sociale) già visto nelle pagine dedicate all'antisemita. Ed
ecco imporsi, ancor più, la desolante constatazione che l'unico punto in
comune tra le due figure sembra essere uno stesso destino di inautenticità. A
questo destino non sfugge neppure il presunto nemico dell'antisemitismo, il
cosiddetto «democratico», il quale predica la negazione delle specificità
situazionali di ciascun individuo in nome dell'«uomo universale», uguale in
ogni luogo e in ogni tempo, di cui tutti sarebbero semplici incarnazioni e dei
cui diritti egli si fa paladino. La risposta sartriana ci è già nota: il problema
razziale non si sconfigge negando l'esistenza di una specificità ebraica. Al
contrario, l'imprescindibile punto di partenza è la piena accettazione di
quell'identità, anche con il suo bagaglio di subite persecuzioni, sia da parte
dell'ebreo che del non ebreo, perché quest'ultimo possa venir rispettato in
quanto se stesso, e non «nonostante» se stesso. La foga con cui Sartre si
accanisce a svelare le incongruenze di tutti i protagonisti della disputa
razziale, non va certo intesa come il segno di un gusto un po’ perverso per
le inezie e le sfumature: essa è piuttosto un monito profondo al lettore,
dietro cui si cela il vero messaggio dell'opera.
L'antisemitismo, ci suggerisce Sartre, è la spia di un modo globale di
essere, il segno tangibile di una concezione del mondo, non un peccato di
gioventù verso cui rivolgere uno sguardo indulgente. Solo nella serietà di
questa prospettiva esso va inteso e giudicato.
L'antisemitismo, inoltre, al di là delle sue manifestazioni più vistose, ha
una straordinaria capacità di infiltrarsi e nascondersi nel suo apparente
contrario, tanto da essere rintracciabile, al limite, anche nello stesso ebreo e
nel suo difensore democratico. Esso diventa così il terreno più adatto per il
dispiegarsi di una delle armi sartriane più pungenti: la capacità di
smascherare la malafede e le sue contraddizioni nei luoghi più impensati.
Dall'incontro di queste due opposte tendenze (quella dell'antisemitismo a
nascondersi, quella sartriana a svelare l'occulto, il non manifesto) nasce la
straordinaria sottigliezza psicologica che percorre, con pathos corrosivo e
poetico, le pagine del testo. Il lettore ne è colpito, sconcertato, tanto da
essere costretto a riconoscersi, nonostante tutte le sue dichiarazioni di
principio, in qualcuna delle mille malafedi messe in luce dal testo. La
battaglia contro i pregiudizi del senso comune è molto più lunga e difficile
di quanto si pensi: ecco l'amara lezione che se ne deve trarre. Ma il
problema dell'antisemitismo (e i giorni presenti ce ne danno, se mai era
necessario, una tragica conferma) richiede soluzioni pratiche, concrete.
Quanto Sartre stesso ne sia consapevole emerge dalle amare
considerazioni che egli svolge intorno alla figura dell'ebreo autentico, che
accetta interamente e consapevolmente la propria situazione e da qui muove
per il riconoscimento dei propri diritti: «la scelta di un'autenticità appare
come una determinazione morale che apporta all'ebreo una certezza sul
piano etico, ma non potrebbe in alcun modo servire sul piano sociale e
politico». La stessa rivoluzione socialista, predicata come soluzione radicale
del problema, appare troppo lontana nel tempo per potervisi appellare. La
proposta concreta sartriana è quella di un «liberalismo democratico»: ogni
nazione deve riconoscere gli ebrei come parte attiva del suo sviluppo,
rispettandone al contempo la specificità di tradizione e cultura e
organizzando inoltre una capillare azione di educazione e sensibilizzazione
dell'opinione pubblica. Il problema dell'antisemitismo - viene infatti
affermato con una di quelle repentine inversioni di prospettiva che sono la
forza del testo, - non è un problema dell'ebreo, bensì il problema per
eccellenza del non ebreo che, con il suo odio o la sua indifferenza, ha fatto
sì che esso sorgesse e dilagasse fino alle sue estreme conseguenze. Ma ogni
testo va sempre giudicato in base a ciò che esso si prefigge e persegue:
l'intento sartriano non era quello di articolare una dettagliata proposta
politica, e sarebbe assurdo imputargli di non avercene fornita una. Anzi,
paradossalmente, la grandezza del testo sta proprio in questa sua omissione:
quell'eventuale proposta apparirebbe certamente anacronistica a noi che
abbiamo davanti agli occhi una situazione storica del tutto mutata. Certo,
un'inevitabile dose di anacronismo è il tributo che l'opera paga alla storia,
perché gli ebrei francesi di oggi non sono più quelli di ieri e i loro stessi
antagonisti hanno cambiato volto. Ma il punto non sta qui o soltanto qui.
L'opera sartriana rivendica un altro tipo di attualità: quella di un'indagine
psicologico-filosofica profonda, in grado di mettere in luce le miserie
dell'antisemitismo di ieri, di oggi e, speriamo non più, di domani.
Filippo Gentili.
L'antisemitismo
Capitolo primo
Se un uomo attribuisce tutte o parte delle disgrazie del paese e delle
proprie disgrazie alla presenza di elementi ebraici nella comunità, se
propone di rimediare a questo stato di cose privando gli ebrei di alcuni dei
loro diritti o escludendoli da certe funzioni economiche e sociali o
espellendoli dal territorio o sterminandoli tutti, si dice che ha opinioni
antisemite. Questa parola opinioni fa riflettere: è la parola che adopera la
padrona di casa per mettere fine ad una discussione che rischia d'invelenirsi.
Suggerisce che tutti i pareri si equivalgono, rassicura e dà ai pensieri una
fisionomia inoffensiva assimilandoli ai gusti. Tutti i gusti esistono nella
natura, tutte le opinioni sono permesse; dei gusti, dei colori, delle opinioni
non si deve discutere.
In nome delle istituzioni democratiche, in nome della libertà d'opinione,
l'antisemita reclama il diritto di predicare ovunque la crociata antiebraica.
Al tempo stesso, poiché la Rivoluzione francese ci ha abituati ad esaminare
ciascun oggetto con spirito analitico, cioè come un composto che può essere
separato nei suoi elementi, noi consideriamo le persone e i caratteri come
mosaici in cui ciascuna tessera coesiste i le altre, senza che questa
coesistenza la intacchi nella sua natura. Così l'opinione antisemita ci appare
come una molecola suscettibile di combinarsi senza alterazioni con
qualsiasi altra molecola. Un uomo può essere un buon padre e un buon
marito, buon cittadino, fine letterato, filantropo e, d'altra parte, antisemita.
Può amare la pesca e i piaceri dell'amore, essere tollerante in materia di
religione, pieno di idee generose sulla condizione degli indigeni dell'Africa
centrale e, d'altra parte, detestare gli ebrei. Se non gli piacciono, si dice, è
perché la sua esperienza gli ha rivelato che sono cattivi, le statistiche gli
hanno insegnato che sono pericolosi, certi fattori storici hanno influenzato il
suo giudizio. Così questa opinione sembra l'effetto di cause esterne e coloro
che vogliono studiarla trascureranno la persona stessa dell'antisemita per
prendere in considerazione la percentuale degli ebrei mobilitati nel '14, la
percentuale degli ebrei banchieri, industriali, medici, avvocati, la storia
degli ebrei in Francia dalle origini. Scopriranno una situazione
rigorosamente oggettiva, che determina una certa corrente di opinione
ugualmente oggettiva, che essi chiameranno antisemitismo e di cui potranno
descrivere i tratti o stabilire le variazioni dal 1870 al 1944.
Così l'antisemitismo sembra essere ad un tempo un gusto soggettivo che
si combina con altri gusti per formare la persona e un fenomeno
impersonale e sociale che può essere espresso in cifre e medie statistiche,
condizionato da costanti economiche, storiche e politiche.
Io non dico che queste due condizioni siano necessariamente
contraddittorie, dico che sono pericolose " e false. Ammetterei a rigore che
si abbia un'opinione sulla politica vinicola del governo, cioè che si decida,
per determinate ragioni, di approvare o condannare la libera importazione
dei vini algerini: in questo caso si tratta di esprimere un'opinione
sull'amministrazione delle cose. Ma mi rifiuto di chiamare opinione una
dottrina che prende di mira espressamente persone determinate, che tende a
sopprimere i loro diritti e a sterminarle.
L'ebreo che l'antisemita vuol colpire non è un essere schematico e definito
solamente dalla sua funzione, come nel diritto amministrativo; dalla sua
posizione o dai suoi atti, come nel codice. E' un ebreo, figlio di ebrei,
riconoscibile dall'aspetto fisico, dal colore dei capelli, forse dal modo di
vestire, e, si dice, dal carattere.
L'antisemitismo non rientra nella categoria dei pensieri protetti dal diritto
di libera opinione. Del resto è tutt'altro che un pensiero. E anzitutto una
passione. Indubbiamente può presentarsi sotto forma di proposizione
teorica. L'antisemita «moderno» è un uomo cortese che vi dirà dolcemente:
«Io non detesto gli ebrei. Credo semplicemente preferibile, per questa o
quella ragione, che essi prendano parte ridotta all'attività della nazione». Ma
subito dopo, se vi siete guadagnati la sua fiducia, aggiungerà con più
abbandono: «Vedete, ci deve essere qualche cosa negli ebrei: mi disturbano
fisicamente».
L'argomento, che ho sentito cento volte, vale la pena di essere esaminato.
Anzitutto rientra nella logica passionale. Si può infatti immaginare qualcuno
che dica seriamente: «Ci deve essere qualche cosa nel pomodoro, perché ho
orrore di mangiarlo?» Ma d'altra parte ci dimostra che l'antisemitismo,
anche nelle sue forme più temperate, più evolute, rimane una totalità
sincretica che si esprime con discorsi di andamento ragionevole, ma può
trascinare fino a modificazioni corporee.
Certi uomini sono colpiti repentinamente da impotenza se sanno che la
donna con la quale fanno all'amore è ebrea. Esiste una ripugnanza per
l'ebreo come esiste una ripugnanza per il cinese o per il negro tra certa
gente. E non è dal corpo che nasce questa repulsione, perché si può
benissimo amare un'ebrea se si ignora la sua razza, ma proviene al corpo
dallo spirito; è una presa di posizione dell'anima, ma così profonda e totale
che si estende al campo fisiologico, come nell'isteria. Questa presa di
posizione non è provocata dall'esperienza.
Ho interrogato centinaia di persone per sapere le ragioni del loro
antisemitismo. La maggior parte si è limitata ad enumerarmi i difetti che la
tradizione attribuisce all'ebreo. «Non li posso soffrire perché sono
interessati, intriganti, attaccaticci, viscidi, privi di tatto, ecc.». «Ma almeno
ne frequenti qualcuno?». «Oh! me ne guardo bene!». Un pittore m'ha detto:
«Sono nemico degli ebrei perché con le loro abitudini critiche incoraggiano
i nostri domestici all'indisciplina».
Ecco delle esperienze più precise. Un giovane attore senza talento
pretende che gli ebrei gli abbiano impedito di far carriera nel teatro
mantenendolo in funzioni subalterne. Una giovane donna sostiene: «Ho
avuto una lite intollerabile con dei pellicciai, m'hanno derubata, m'hanno
bruciato la pelliccia che avevo loro affidata. Naturalmente erano ebrei». Ma
perché ha preferito odiare gli ebrei piuttosto che i pellicciai? Perché gli
ebrei o i pellicciai piuttosto che un determinato ebreo, un determinato
pellicciaio? Perché questa donna portava in sé una predisposizione
all'antisemitismo. Un collega di liceo mi dice che gli ebrei «lo irritano» per
le mille ingiustizie che certi corpi sociali «ebraizzati» commettono in loro
favore. «Un ebreo è stato promosso all'esame di concorso nell'anno in cui io
fui bocciato e non mi farai credere che quell'individuo, il cui padre veniva
da Cracovia o da Leopoli, comprendeva meglio di me una poesia di
Ronsard o un'egloga di Virgilio». Ma confessa, d'altra parte, che disprezza il
concorso, che si tratta di un «terno al lotto» e che non si era preparato
all'esame.
Dispone dunque, per spiegare il suo scacco, di due sistemi di
interpretazione, come quei pazzi che quando si lasciano andare al loro
delirio pretendono d'essere re d'Ungheria e se li si interroga bruscamente
confessano d'essere dei calzolai. Il suo pensiero si muove su due piani,
senza che egli avverta il minimo disturbo. Di più: quel collega giustifica la
sua poltroneria passata dicendo che sarebbe veramente troppo stupido
preparare un esame in cui si promuovono gli ebrei a preferenza dei buoni
francesi. Ma egli era al ventisettesimo posto nella graduatoria finale. Ce
n'erano ventisei prima di lui, dodici promossi e quattordici respinti. Se si
fossero esclusi gli ebrei sarebbe stato più avanti? Ed anche se fosse stato il
primo dei non ammessi, anche se avesse avuto la possibilità d'essere scelto
eliminando uno dei candidati promossi, perché si sarebbe dovuto eliminare
l'ebreo Weil piuttosto che il normanno Mathieu o il bretone Arzell? Per
indignarsi, il mio collega doveva essersi fatta a priori una certa idea
dell'ebreo, della sua natura e del suo ruolo sociale, E per decidere che tra
ventisei concorrenti più fortunati di lui era proprio l'ebreo che gli rubava il
posto, era necessario che avesse dato a priori la preferenza ai ragionamenti
passionali per la condotta della sua vita. L'esperienza non fa sorgere la
nozione d'ebreo, al contrario è questa che chiarisce l'esperienza; se l'ebreo
non esistesse, l'antisemita lo inventerebbe. E sia, si dirà; ma, in mancanza di
esperienza, non bisogna ammettere che l'antisemitismo si spiega con certi
dati storici? In fin dei conti, non nascerà dall'aria. Mi sarebbe facile
rispondere che la storia di Francia non insegna niente sul conto degli ebrei:
sono stati oppressi fino al 1789, poi hanno partecipato come hanno potuto
alla vita della nazione, approfittando, certo, della libera concorrenza per
prendere il posto dei deboli, ma né più né meno degli altri francesi: non
hanno commesso nessun crimine contro la Francia, né l'hanno tradita. E se
si è voluto stabilire che il numero di soldati ebrei nel 1914 era inferiore a
quello che avrebbe dovuto essere, è perché si è avuta la curiosità di andare a
vedere le statistiche, dato che non si tratta di uno di quei fatti che colpiscono
di per sé gli animi e nessun mobilitato avrebbe potuto meravigliarsi, di testa
sua, di non vedere degli israeliti nel limitato settore che costituiva il suo
universo. Ma poiché, dopo tutto, le informazioni che la storia dà sul ruolo
d'Israele dipendono essenzialmente dalle concezioni che se ne hanno, io
penso che sia meglio prendere a prestito da un paese straniero un esempio
palese di «tradimento ebraico» e calcolare le ripercussioni che questo
tradimento ha potuto avere sull'antisemitismo contemporaneo. Nel corso
delle rivolte polacche che insanguinarono il secolo diciannovesimo, gli
ebrei di Varsavia, che gli zar proteggevano per ragioni politiche,
manifestarono molta tiepidezza verso i rivoltosi; inoltre, non avendo preso
parte alle insurrezioni, poterono mantenere ed anzi aumentare il loro giro
d'affari in un paese rovinato dalla repressione. Ignoro se il fatto sia esatto.
Ciò che è certo è che molti polacchi lo credono e questo «dato storico»
contribuisce non poco a prevenirli contro gli ebrei. Ma se esamino le cose
più da vicino, vi trovo un circolo vizioso: gli zar, sappiamo, non trattavano
male gli israeliti della Polonia mentre invece ordinavano dei pogrom contro
quelli della Russia. Questi comportamenti così diversi avevano la stessa
causa: il governo russo considerava in Russia ed in Polonia gli ebrei come
non assimilabili e, secondo le necessità della sua politica, li faceva
massacrare a Mosca o a Kiev, perché minacciavano di indebolire l'impero
moscovita; li favoriva a Varsavia, per mantenere la discordia tra i polacchi.
Questi invece manifestavano solo odio e disprezzo per gli ebrei della
Polonia, ma la ragione era la stessa: per loro Israele non poteva integrarsi
alla collettività. Trattati da ebrei dallo zar, da ebrei dai polacchi, dotati, loro
malgrado di interessi ebraici nel seno di una comunità straniera, perché
stupirsi se queste minoranze si sono comportate in modo conforme alla
rappresentazione che si aveva di loro? In altre parole ciò che è essenziale in
questo caso non è il «dato storico», ma l'idea che dell'ebreo si facevano gli
agenti della storia. E quando i polacchi d'oggi serbano rancore agli israeliti
per la loro condotta passata, essi vi sono incitati da questa stessa idea:
perché si pensi di rimproverare ai nipoti le colpe dei nonni bisogna avere un
senso assai primitivo delle responsabilità. Ma non basta: bisogna formarsi
una certa concezione dei figli, conforme a quella degli antenati. Bisogna
credere che i cadetti siano capaci di fare ciò che hanno fatto i primogeniti:
bisogna essere persuasi che il carattere ebraico è ereditario. Così i polacchi
del 1940 trattavano gli israeliti da ebrei perché i loro antenati del 1848 si
erano comportati nello stesso modo coi loro contemporanei. E forse questa
rappresentazione tradizionale, in altre circostanze, avrebbe predisposto gli
ebrei d'oggi ad agire come quelli del '48. E' dunque l'idea che ci si fa
dell'ebreo che sembra determinare la storia, non il «dato storico» che fa
nascere l'idea. E poiché si parla anche di «dati sociali», esplorandoli meglio
troveremo lo stesso circolo: ci sono troppi avvocati ebrei, si dice. Ma ci si
lamenta forse che ci siano troppi avvocati normanni? Anche se tutti i bretoni
fossero medici, non ci si limiterebbe a dire che «la Bretagna fornisce di
medici la Francia intera?» Ah! si replicherà, questa non è la stessa cosa.
Senza dubbio, ma appunto perché noi consideriamo i normanni come
normanni e gli ebrei come ebrei. Così, da qualunque parte ci si volti, è l'idea
dell'ebreo che sembra la cosa essenziale. E' evidente per noi che nessun
fattore esterno può introdurre nell'antisemita il suo antisemitismo.
L'antisemitismo è una scelta libera, e totale di se stessi, un atteggiamento
globale che si adotta non solamente verso gli ebrei, ma verso gli uomini in
generale, verso la storia e la società; è, ad un tempo, una passione e una
concezione del mondo. Indubbiamente in un antisemita certi caratteri
saranno più marcati che in un altro, ma essi sono sempre tutti compresenti e
collegati tra loro. E' questa totalità sincretica che dobbiamo ora tentare di
descrivere. Ho notato poc'anzi che l'antisemitismo si presenta come una
passione. Tutti hanno compreso che si tratta d'un sentimento di odio o di
collera. Ma di solito l'odio e la collera sono provocati: io odio colui che mi
ha fatto soffrire, colui che mi disprezza o che mi insulta. Abbiamo visto che
la passione antisemita non ha un tale carattere; essa precorre i fatti che
dovrebbero farla nascere, li ricerca per alimentarsene, deve anzi interpretarli
a modo suo perché divengano veramente offensivi.
Cionondimeno se parlate dell'ebreo all'antisemita, questi dà tutti i segni di
una viva irritazione. Se d'altra parte ci rammentiamo che dobbiamo sempre
consentire ad una collera perché questa possa manifestarsi e che, secondo
un'espressione molto giusta, si monta in collera, dovremo convenire che
l'antisemita ha scelto di vivere in modo passionale. Non è raro che si opti
per una vita passionale piuttosto che per una vita ragionevole. Ma di solito
si amano gli oggetti della passione: le donne, la gloria, il potere, il denaro.
Poiché l'antisemita ha scelto l'odio, siamo costretti a concludere che è lo
stato passionale che egli ama. Di solito questo tipo d'affezione non piace:
chi desidera appassionatamente una donna è appassionato a causa della
donna e nonostante la passione: si diffida dei ragionamenti passionali, che
vogliono dare evidenza dimostrativa ad opinioni dettate dall'amore o dalla
gelosia o dall'odio; si diffida dei traviamenti passionali e di ciò che si è
chiamato monoideismo. E' questo invece ciò che l'antisemita appunto
sceglie. Ma come si può scegliere di ragionare falsamente? Il fatto è che si
ha la nostalgia dell'impermeabilità. L'uomo sensato cerca penosamente, egli
sa che i suoi ragionamenti sono soltanto probabili, che altre considerazioni
subentreranno a metterli in dubbio; non sa mai molto bene dove va; è
«aperto», può passare per esitante. Ma ci sono invece alcuni che sono
attratti dalla stabilità della pietra. Vogliono essere massicci ed
impenetrabili, non vogliono cambiare: dove li condurrebbe mai un
cambiamento? Si tratta di una originaria paura di se stessi e di una paura
della verità. E ciò che li spaventa non è il contenuto della verità, che essi
nemmeno sospettano, ma la forma stessa del vero, questo oggetto di
approssimazione indefinita. E' come se la loro stessa esistenza fosse
perennemente in sospeso. Ma essi vogliono esistere tutto in una volta e
subito. Non ne vogliono sapere di opinioni acquisite, le desiderano innate;
poiché hanno paura del ragionamento, vogliono adottare un modo di vita in
cui il ragionamento e la ricerca non abbiano che una parte subordinata, dove
si cerchi solo quello che si è già trovato, dove si diventi solo ciò che già si
era. Non resta che la passione. Solo una forte prevenzione sentimentale può
dare una certezza folgorante, solo essa può tenere il ragionamento al
margine, solo essa può rimanere impermeabile all'esperienza e sussistere per
tutta una vita. L'antisemita ha scelto l'odio perché l'odio è una fede; ha
scelto originariamente di svalutare le parole e le ragioni. Come si sente a
suo agio, ora; come gli sembrano futili e leggere le discussioni sui diritti
dell'ebreo: si è posto di colpo su un altro terreno. Se consente per cortesia a
difendere per un istante il suo punto di vista, si presta, ma non si dà: cerca
semplicemente di proiettare la sua certezza intuitiva sul piano del discorso.
Ho citato poco fa alcune «battute» di antisemiti, completamente assurde:
«Io odio gli ebrei perché insegnano l'indisciplina ai domestici, perché un
pellicciaio ebreo mi ha derubato ecc.». Non crediate che gli antisemiti si
ingannino sull'assurdità di queste risposte. Essi sanno che i loro discorsi
sono vacui, contestabili, ma ci si divertono. E' il loro avversario che ha il
dovere di usare seriamente le parole, dato che crede alle parole; essi hanno
il diritto di giocare. Amano anzi giocare col discorso perché dando delle
ragioni buffonesche gettano il discredito sulla serietà del 2loro
interlocutore; sono in malafede con voluttà, perché si tratta per loro non di
persuadere con buoni argomenti, ma di intimidire o disorientare. Se li
incalzate troppo vivacemente, si fermano, e vi dicono superbamente che è
passata l'epoca delle discussioni: non ch'essi abbiano paura d'essere
convinti: temono solo di avere un'aria ridicola o che il loro imbarazzo faccia
brutto effetto su un terzo che vogliono tirare dalla loro parte. Se dunque
l'antisemita è, come ognuno ha potuto vedere, impermeabile ai ragionamenti
e all'esperienza, ciò non vuol dire che la sua convinzione sia forte; ma
piuttosto la sua convinzione è forte perché egli ha scelto anzitutto d'essere
impermeabile Ha scelto anche d'essere terribile. Si teme d'irritarlo. Nessuno
sa a quali estremi lo porteranno i traviamenti della sua passione, egli lo sa:
perché questa passione non è provocata dall'esterno. La tiene stretta nelle
mani, la lascia andare esattamente come vuole, talvolta allenta le briglie
talvolta tira le redini. Non ha paura di se stesso: ma legge negli occhi degli
altri un'immagine inquietante, che è la sua, e conforma ogni proposito, ogni
gesto a quella immagine. Questo modello esterno lo dispensa dal cercare la
sua personalità in se stesso; ha scelto di essere completamente al di fuori, di
non fare mai ritorno su se stesso, di non essere altro che la paura che fa agli
altri: più ancora della Ragione, fugge l'intima consapevolezza che ha di sé.
Ma, si dirà, è così solo con gli ebrei? Se per caso, in tutto il resto, si
comportasse sensatamente? Rispondo che è impossibile: ecco un
pescivendolo che, nel 1942, irritato dalla concorrenza di due pescivendoli
ebrei, che dissimulavano la loro razza, un bel giorno ha preso la penna e li
ha denunziati. Mi si assicura che peraltro era dolce e gioviale, il miglior
uomo del mondo. Ma io non lo credo: un uomo che trova naturale
denunziare altri uomini non può avere la nostra concezione dell'umano;
anche quelli di cui si fa benefattore, non li può vedere con i nostri occhi; la
sua generosità, la sua dolcezza non sono simili alla nostra dolcezza, alla
nostra generosità; non si può circoscrivere la passione. L'antisemita
riconosce volentieri che l'ebreo è intelligente e lavoratore; confesserà
persino d'essergli inferiore, sotto questo aspetto. Questa concessione non gli
costa gran che: ha posto simili qualità tra parentesi. O piuttosto fa derivare il
loro valore da colui che le possiede: più l'ebreo sarà virtuoso, più sarà
pericoloso. Quanto all'antisemita, non si fa nessuna illusione su ciò ch'egli
è. Si considera un uomo medio, un essere qualunque, in fondo un mediocre;
non c'è esempio di Un antisemita che rivendichi sugli ebrei una superiorità
individuale. Ma non si deve credere che la sua mediocrità lo faccia
vergognare: se ne compiace invece; direi che l'ha scelta. Questo uomo
paventa ogni sorta di solitudine, tanto quella del genio, quanto quella
dell'assassino: è l'uomo della folla; per piccola che sia la sua statura, prende
ancora la precauzione di abbassarsi, per paura d'emergere dal branco e di
ritrovarsi faccia a faccia con se stesso. Se è diventato antisemita, è perché
non si può esserlo da soli.
La frase: «Io odio gli ebrei» è di quelle che si pronunziano in gruppo;
pronunziandola, ci si riattacca ad una tradizione e ad una comunità: quella
dei mediocri. Conviene altresì ricordare che non si è necessariamente umili
e nemmeno modesti, per aver consentito d'essere mediocri. Tutto al
contrario: esiste un orgoglio appassionato dei mediocri e l'antisemitismo è
un tentativo di valorizzare la mediocrità in quanto tale, di creare l'élite dei
mediocri. Per l'antisemita l'intelligenza è ebraica, può perciò disprezzarla
con tutta tranquillità assieme a tutte le altre virtù che possiede l'ebreo: esse
sono dei surrogati che gli ebrei utilizzano per sostituire questa mediocrità
equilibrata che sempre mancherà loro. Il vero francese radicato nella sua
provincia, nel suo paese, carico d'una tradizione di venti secoli, beneficiario
d'una saggezza ancestrale, guidato da consuetudini sperimentate non ha
bisogno d'intelligenza. Le sue virtù poggiano sull'assimilazione delle qualità
depositate dal lavoro di cento generazioni sugli oggetti che lo attorniano:
sulla proprietà. Ma va da sé che si tratta della proprietà ereditaria, non di
quella che si acquista. Esiste un'incomprensione di principio,
nell'antisemita, per le diverse forme della proprietà moderna: danaro, azioni,
ecc.; esse sono astrazioni, prodotti della ragione che assomigliano
all'intelligenza astratta del semita; l'azione non è di nessuno perché può
essere di tutti ed inoltre è un segno di ricchezza, non un bene concreto.
L'antisemita concepisce solo un tipo d'appropriazione primitiva e terriera,
fondato su un vero rapporto magico di possesso in cui l'oggetto posseduto e
il suo possessore sono uniti da un legame di partecipazione mistica, è il
poeta della proprietà fondiaria. Questa trasfigura il proprietario e gl'infonde
una sensibilità speciale e concreta. Beninteso, questa sensibilità non si
rivolge verso verità eterne, verso valori universali: l'universale è ebraico,
dato che è oggetto d'intelligenza. Ciò che sarà colto da questo senso sottile è
ciò che, al contrario, l'intelligenza non può vedere. Detto in altro modo, il
principio dell'antisemitismo è che il possesso concreto d'un oggetto singolo
dà magicamente il senso di tale oggetto. Maurras lo afferma: un ebreo non
sarà mai capace di comprendere questo verso di Racine: Dans l'Orient
desert, quel devint mon ennui. E perché io, io mediocre, posso intendere ciò
che l'intelligenza più sottile, più raffinata non ha potuto afferrare? Perché io
possiedo Racine. Racine e la mia lingua e la mia terra. Forse l'ebreo parla un
francese più puro del mio, forse conosce meglio la sintassi, la grammatica,
forse è anche uno scrittore; non importa. Questa lingua egli la parla solo da
vent'anni ed io da mille. La correttezza del suo stile è astratta, appresa; i
miei errori di francese sono conformi al genio della lingua.
Si riconosce in ciò il ragionamento che faceva Barres contro i banchieri.
Perché meravigliarsi. Gli ebrei non sono forse i banchieri della nazione?
Tutto ciò che può acquistare l'intelligenza, il danaro, glielo lascia; ma tutto
ciò è vento. Contano solamente i valori irrazionali e sono questi appunto
che si negano loro per sempre. Così l'antisemita aderisce, in partenza, ad un
irrazionalismo di fatto. Si oppone all'ebreo, come il sentimento si oppone
all'intelligenza, come il particolare all'universale, come il passato al
presente, come il concreto all'astratto, come il possessore di beni fondiari al
proprietario di valori mobiliari. Dopo tutto molti antisemiti - - la
maggioranza forse, appartengono alla piccola borghesia cittadina; sono
funzionari, impiegati, piccoli commercianti che non possiedono niente.
Ma appunto ergendosi contro l'ebreo prendono coscienza
improvvisamente d'essere dei proprietari: rappresentandosi l'israelita come
un ladro, si mettono nell'invidiabile posizione di chi potrebbe essere
derubato; poiché l'ebreo vuol rubargli la Francia, vuol dire che la Francia è
loro. L'antisemitismo è stato scelto come un mezzo per realizzare la loro
qualità di possidenti. L'ebreo ha più danaro? Tanto meglio: il danaro è
ebraico, potranno disprezzarlo come disprezzano l'intelligenza.
Hanno meno mezzi del signorotto del perigord, del grande fittavolo della
Beauce? Non importa: basterà che fomentino in loro una collera vendicativa
contro i ladri d'Israele e subito sentiranno la presenza del paese intero. I veri
francesi, i buoni francesi sono tutti eguali, poiché ciascuno di loro possiede
per sé solo la Francia indivisa. Così io chiamerei volentieri l'antisemitismo
uno snobismo del povero. Sembra infatti che la maggior parte dei ricchi
utilizzi ora questa passione piuttosto che abbandonarvisi; hanno altro da
fare. Si propaga di solito nelle classi medie, proprio perché queste non
possiedono né terre, né castelli, né case, ma soltanto danaro liquido e
qualche azione in banca.
Non è per caso che la piccola borghesia tedesca del 1925 era antisemita.
Questo «proletariato in solino» aveva soprattutto la preoccupazione di
distinguersi dal vero proletariato. Rovinato dalla grande industria, dileggiato
dagli Junker, il suo cuore batteva per gli Junker e per i grandi industriali. Si
è dato all'antisemitismo con la stessa disinvoltura con la quale portava i
vestiti borghesi: perché gli operai erano internazionalisti, perché gli Junker
possedevano la Germania ed esso pure voleva possederla. L'antisemitismo
non è soltanto la gioia d'odiare; procura piaceri positivi: trattando l'ebreo
come un essere inferiore e pernicioso, affermo ad un tempo che io
appartengo ad una élite. E questa, assai diversa in ciò dalle élites moderne
che si fondano sul merito o sul lavoro, assomiglia in ogni punto ad
un'aristocrazia della nascita. Non debbo far nulla per meritare la mia
superiorità, né potrò mai decaderne. E' concessa una volta per sempre: è una
cosa. Non confondiamo questa affermazione di principio col valore.
L'antisemita non ha troppa voglia di possedere un valore. Si cerca il valore
come si cerca la verità, lo si scopre difficilmente, bisogna meritarlo e, una
volta acquisitolo, è costantemente in forse: un passo falso, un errore, e
sparisce; così siamo sempre, senza respiro, da un capo all'altro della nostra
vita, responsabili di ciò che valiamo.
L'antisemita fugge la responsabilità come fugge la propria coscienza: e,
scegliendo per la sua persona la stabilità minerale, elegge a sua morale una
scala di valori pietrificati. Qualunque cosa faccia, egli sa che rimarrà alla
sommità della scala; qualunque cosa faccia l'ebreo, non salirà mai più in
alto del primo gradino. Incominciamo ora a intravedere il senso della scelta
che l'antisemita fa per se stesso: sceglie l'irrimediabile per paura della
libertà, la mediocrità per paura della solitudine e fa di questa mediocrità
irrimediabile un'aristocrazia congelata per orgoglio. Per queste diverse
operazioni gli è assolutamente necessaria l'esistenza dell'ebreo: a chi mai
sarebbe superiore, senza di quello? Ancor meglio: di fronte all'ebreo, e solo
all'ebreo, l'antisemita si realizza come soggetto di diritto. Se, per un
miracolo, tutti gli israeliti venissero sterminati come egli desidera, si
ritroverebbe portinaio o bottegaio in una società fortemente gerarchizzata in
cui la qualità di «autentico francese» sarebbe deprezzata, in quanto tutti la
possiederebbero; perderebbe il senso dei suoi diritti sul suo paese, perché
nessuno glieli contesterebbe e quella profonda eguaglianza che lo ravvicina
ai nobili e ai ricchi sparirebbe di colpo, perché era soprattutto negativa. I
suoi insuccessi, che attribuisce alla concorrenza sleale degli ebrei, dovrebbe
immediatamente imputarli ad un'altra causa, oppure, interrogando se stesso,
rischierebbe di cadere nell'acredine, in un odio melanconico verso le classi
privilegiate. Così l'antisemita ha la disgrazia d'avere vitale bisogno del
nemico che vuol distruggere. Questo egualitarismo che l'antisemita cerca
con tanto zelo non ha niente in comune con l'eguaglianza iscritta nel
programma delle democrazie. Questa deve realizzarsi in una società
economicamente gerarchizzata e deve restare compatibile con la diversità
delle funzioni. Ma è appunto contro la gerarchia delle funzioni che
l'antisemita rivendica l'eguaglianza degli ariani. Egli non comprende affatto
la divisione del lavoro e non se ne cura: per lui, se ogni cittadino può
rivendicare il titolo di francese, non è perché coopera, al proprio posto, nel
proprio mestiere e con tutti gli altri, alla vita economica, sociale e culturale
della nazione: ma perché ha, allo stesso titolo di ciascun altro, un diritto
imprescrittibile e innato sulla totalità indivisa del paese. Così la società
concepita dall'antisemita è una società di giustapposizione, come del resto si
poteva prevedere dato che il suo ideale di proprietà è la proprietà fondiaria.
E dato che, in realtà, gli antisemiti sono numerosi, ciascuno di essi
contribuisce a costituire, nel seno della società organizzata, una comunità
intesa come solidarietà meccanica. Il grado d'integrazione di ciascun
antisemita a questa comunità, come pure la sua sfumatura egualitaria, sono
determinati da quella che io chiamerei la temperatura della comunità. Proust
ha mostrato, per esempio, come l'antidreyfusismo avvicinava il duca al suo
cocchiere, come, grazie all'odio per Dreyfus, certe famiglie borghesi
avessero forzato le porte dell'aristocrazia. Il fatto è che la comunità
egualitaria cui si richiama l'antisemita è del tipo delle folle o di quelle
società istantanee che sorgono in occasione d'un linciaggio o d'uno
scandalo. L'eguaglianza è il frutto della mancata differenziazione delle
funzioni. Il legame sociale è la collera; la collettività non ha altro scopo che
quello d'esercitare su determinati individui una sanzione repressiva diffusa;
gli impulsi e le rappresentazioni collettive s'impongono tanto più fortemente
ai privati, in quanto nessuno di essi è difeso da una funzione specializzata.
Così le persone annegano nella folla e i modi di pensare, le reazioni del
gruppo sono di puro tipo primitivo. Certo, queste collettività non sorgono
soltanto dall'antisemitismo: una rivolta, un crimine, un'ingiustizia possono
farle sorgere bruscamente. Solo che in tal caso sono delle formazioni fugaci
che svaniscono presto senza lasciare traccia. Poiché l'antisemitismo
sopravvive alle grandi crisi d'odio contro gli ebrei, la società formata dagli
antisemiti continua ad esistere, allo stato latente, nei periodi normali e ogni
antisemita vi si richiama. Incapace di comprendere l'organizzazione sociale
moderna, sente nostalgia dei periodi di crisi, quando la comunità primitiva
riappare improvvisamente e raggiunge la sua temperatura di fusione. Egli
aspira a fondere senza residui la sua persona nel gruppo e ad essere
trascinato dalla corrente collettiva. E' quest'atmosfera di pogrom che ha
davanti agli occhi quando reclama «l'unione di tutti i francesi». In questo
senso l'antisemitismo, in una democrazia, è una forma mascherata di ciò che
si chiama la lotta del cittadino contro il potere. Interrogate qualcuno di
questi giovani turbolenti che infrangono placidamente la legge e si mettono
in molti per picchiare un ebreo in una strada deserta: vi dirà che aspira a un
potere forte che lo sollevi dalla schiacciante responsabilità di pensare con la
propria testa; poiché la repubblica è un potere debole egli è indotto
all'indisciplina per amore dell'obbedienza. Ma è proprio un potere forte ciò
che desidera? In realtà egli reclama per gli altri un ordine rigoroso e per se
stesso un disordine senza responsabilità; vuol mettersi al di sopra delle leggi
sottraendosi alla coscienza della sua libertà e della sua solitudine.
Si vale dunque d'un sotterfugio: l'ebreo partecipa alle elezioni, ci sono
ebrei al governo, perciò il potere legale è viziato alla base; meglio ancora,
non esiste più ed è cosa legittima non tener conto dei suoi decreti; non si
tratta neppure di disobbedienza: non si disobbedisce a ciò che non esiste.
Così per l'antisemita esisterà una Francia reale con un governo reale ma
diffuso e senza organi specializzati, e una Francia astratta, ufficiale,
ebraicizzata, contro cui sta bene sollevarsi. Naturalmente questa ribellione
permanente è cosa del gruppo: l'antisemita non saprebbe in nessun caso né
agire né pensare, da solo, E il gruppo stesso non saprebbe neppure
concepirsi sotto l'aspetto d'un partito di minoranza: poiché un partito è
obbligato a inventare il suo programma, a fissarsi una linea politica, ciò che
presuppone iniziativa, responsabilità, libertà. Le associazioni antisemite non
vogliono inventare niente, si rifiutano d'assumere delle responsabilità,
avrebbero orrore di presentarsi come una determinata frazione dell'opinione
pubblica francese, perché in tal caso bisognerebbe fissare un programma,
cercare mezzi d'azione legali.
Preferiscono presentarsi come quelle che esprimono con tutta purezza e
passivamente il sentimento del paese reale nella sua indivisibilità.
Ogni antisemita è dunque, in misura variabile, nemico dei poteri regolari;
vuol essere il membro disciplinato d'un gruppo indisciplinato; adora
l'ordine, ma l'ordine sociale. Si potrebbe dire che egli vuol provocare il
disordine politico per restaurare l'ordine sociale, e l'ordine sociale gli appare
in veste d'una società egualitaria e primitiva di giustapposizione, a
temperatura elevata, da cui gli ebrei saranno esclusi. Questi principi lo
fanno beneficiare d'una strana indipendenza, che io chiamerei una libertà a
rovescio. La libertà autentica infatti assume le sue responsabilità, quella
dell'antisemitismo invece deriva dal fatto che esso si sottrae a tutte le sue
responsabilità. Oscillando tra una società autoritaria che non esiste ancora e
una società ufficiale e tollerante ch'egli rinnega, può permettersi tutto senza
temere di passare per anarchico, cosa che gli farebbe orrore. La serietà
profonda delle sue vedute che nessuna parola, nessun discorso, nessun atto
può esprimere, lo autorizza ad una certa leggerezza. E' un monello, ne fa di
tutti i colori, bastona, purga, ruba: ma lo fa per delle buone ragioni. Se il
governo è forte, l'antisemitismo decresce, a meno che non rientri nel
programma del governo stesso. Ma in questo caso muta la sua natura.
Nemico degli ebrei, l'antisemita ha bisogno di loro; antidemocratico, è un
prodotto naturale delle democrazie e può manifestarsi soltanto nel quadro
della repubblica. Incominciamo a comprendere che l'antisemitismo non è
una semplice «opinione» sugli ebrei e che investe la persona intera
dell'antisemita; ma c'è dell'altro. Esso infatti non si limita a fornire direttive
morali e politiche; è di per sé un modo di pensare e una concezione del
mondo. Non si potrebbe infatti affermare ciò ch'esso afferma senza riferirsi
implicitamente a determinati principi intellettuali. L'ebreo, esso dice, è
completamente cattivo, completamente ebreo; le sue virtù, se pur ne ha, dal
momento che sono sue si trasformano in vizi, le opere che escono dalle sue
mani portano necessariamente il suo marchio: e se costruisce un ponte,
questo ponte è cattivo, essendo ebreo, dalla prima arcata all'ultima. Una
medesima azione fatta da un ebreo e da un cristiano non ha il medesimo
significato nei due casi, egli infonde in tutto ciò che tocca non so che
esecrabile qualità. Fu l'accesso alle piscine che i tedeschi proibirono agli
ebrei per prima cosa: sembrava loro che se il corpo d'un israelita si fosse
immerso in quell'acqua non corrente essa sarebbe completamente insozzata.
l'ebreo insozza perfino l'aria che respira. Se proviamo a formulare con
proposizioni astratte il principio al quale ci si riferisce, esso diverrà il
seguente: un tutto è più e altro che la somma delle sue parti; un tutto
determina il senso e il carattere profondo delle parti che lo compongono.
Non esiste una virtù del coraggio che entri indifferentemente in un carattere
ebraico o in un carattere cristiano come l'ossigeno compone
indifferentemente l'aria con l'azoto e con l'argo, l'acqua con l'idrogeno; ma
ciascuna persona è una totalità indivisibile che ha il suo coraggio, la sua
generosità, la sua maniera di pensare, di ridere, di bere e di mangiare. Ciò
vuol dire che l'antisemita ricorre, per comprendere il mondo, allo spirito di
sintesi.
E' lo spirito di sintesi che gli permette di concepirsi come parte d'una
indissolubile unità con la Francia intera. E' in nome dello spirito di sintesi
che egli denuncia l'intelligenza puramente analitica e critica d'Israele. Ma
bisogna precisare: da qualche tempo, a destra e a sinistra, fra i tradizionalisti
e fra i socialisti, si fa appello ai principi sintetici contro lo spirito d'analisi
che presiedette alla fondazione della democrazia borghese. Non può trattarsi
dei medesimi principi per gli uni e per gli altri, o, per lo meno, gli uni e gli
altri fanno un uso diverso di codesti principi. Che uso ne fa l'antisemita?
Non c'è antisemitismo tra gli operai. Si dirà che ciò è dovuto al fatto che
non ci sono ebrei tra di loro. Ma la spiegazione è assurda: poiché,
supponendo che il fatto addotto fosse vero, dovrebbero proprio lamentarsi
di questa assenza. I nazisti lo sapevano bene, dato che quando vollero
estendere la loro propaganda al proletariato, lanciarono lo slogan del
«capitalismo ebreo». Anche la classe operaia pensa sinteticamente la
situazione sociale: solo che essa non si vale di metodi antisemiti. Non
divide gli insiemi secondo i dati tecnici, ma secondo le funzioni
economiche. La borghesia, i contadini, il proletariato: ecco le realtà
sintetiche di cui si occupa; e in queste totalità distinguerà delle strutture
sintetiche secondarie: sindacati operai, sindacati padronali, trusts, cartelli,
partiti. Perciò le spiegazioni che dà dei fenomeni storici sono perfettamente
convenienti alla struttura differenziata di una società fondata sulla divisione
del lavoro. La storia risulta, secondo essa, dal gioco degli organismi
economici e dall'interazione dei gruppi sintetici. La maggioranza degli
antisemiti si trova invece tra le classi medie, cioè tra gli uomini che hanno
un livello di vita uguale o superiore a quello degli ebrei, o, se si preferisce,
tra i non produttori (padroni, commercianti, professioni liberali, parassiti). Il
borghese infatti non produce: dirige, amministra, distribuisce, compra e
vende; la sua funzione è quella di entrare in rapporto diretto col
consumatore, la sua attività, cioè, si basa su un costante commercio con gli
uomini, mentre invece l'operaio, nell'esercizio del suo mestiere, è in
permanente contatto con le cose.
Ciascuno giudica la storia secondo la professione che esercita. Formato
dalla sua azione quotidiana sulla materia, l'operaio vede nella società il
prodotto di forze reali che agiscono secondo leggi rigorose. Il suo
«materialismo» dialettico significa che egli considera il mondo sociale nello
stesso modo in cui considera il mondo materiale. Il borghese invece e
l'antisemita in particolare hanno scelto di spiegare la storia con l'azione di
volontà individuali. Non è forse da queste stesse volontà che essi dipendono
nell'esercizio della loro professione '? Il loro comportamento rispetto ai fatti.
Faccio qui un'eccezione per l'ingegnere, l'imprenditore e lo scienziato, che
per i loro mestieri si avvicinano al proletariato e che d'altra parte non sono
frequentemente antisemiti. I fatti sociali è quello dei primitivi che
attribuiscono al vento o al sole una animula. Gli intrighi, le cabale, le
malvagità dell'uno, il coraggio e la virtù dell'altro: ecco ciò che determina il
corso del mondo. L'antisemitismo, fenomeno borghese, appare dunque
come scelta di spiegare gli avvenimenti collettivi con l'iniziativa
individuale. Senza dubbio il proletariato talvolta mette in caricatura «il
borghese» nei suoi manifesti e nei suoi giornali, nello stesso modo in cui
l'antisemita mette in caricatura «l'ebreo». Ma questa somiglianza esteriore
non deve ingannarci. Ciò che costituisce il borghese, per l'operaio, è la sua
posizione di borghese, cioè un insieme di fattori esterni; e il borghese stesso
si riduce all'unità sintetica delle sue manifestazioni esteriormente visibili. E'
un insieme collegato di comportamenti. Per l'antisemita, ciò che costituisce
l'ebreo è la presenza in lui della «ebraicità», principio analogo al flogisto o
alla «virtus dormitiva» dell'oppio. Non bisogna ingannarsi: le spiegazioni
fondate sull'eredità e la razza sono giunte più tardi, sono come il tenue
rivestimento scientifico di questa convinzione primitiva; molto prima di
Mendel e Gobineau esisteva un orrore dell'ebreo e coloro che lo sentivano
non avrebbero potuto spiegarlo che dicendo, come Montaigne della sua
amicizia per La Boétie, «perché è lui, perché sono io». Senza questa virtù
metafisica le attività che si attribuiscono all'ebreo sarebbero assolutamente
incomprensibili. Come concepire infatti la follia ostinata d'un ricco
mercante ebreo che dovrebbe (se fosse ragionevole) augurarsi la prosperità
del paese in cui esercita il suo commercio e che, si dice, si accanisce invece
a rovinarlo? Come comprendere l'internazionalismo nefasto di uomini che
la loro famiglia, i loro affetti, le loro abitudini, i loro interessi, la natura e la
fonte della loro fortuna dovrebbero legare al destino di un determinato
paese? I furbi parlano di una volontà ebraica di dominare il mondo: ma
anche in questo caso, se non ne abbiamo la chiave, le manifestazioni di
questa volontà rischiano di sembrarci inintelligibili; poiché ora ci viene
mostrato dietro all'ebreo il capitalismo internazionale, l'imperialismo dei
trusts e dei mercanti di cannoni, e ora il bolscevismo col suo coltello tra i
denti, e non si esita a rendere egualmente responsabili del comunismo i
banchieri israeliti, che dovrebbero averne orrore, e dell'imperialismo
capitalista gli ebrei miserabili che popolano la rue des Rosiers. Ma tutto si
chiarisce se rinunciamo a esigere da parte dell'ebreo una condotta
ragionevole e conforme ai suoi interessi, per discernere in lui, invece, un
principio metafisico che lo spinge a fare il male in ogni circostanza, anche a
costo di distruggere se stesso. Questo principio - lo si intuisce facilmente - è
un principio magico; da una parte è un'essenza, una forma sostanziale e
l'ebreo, qualunque cosa faccia, non la può modificare, così come il fuoco
non può evitare di bruciare. E, d'altra parte, dal momento che bisogna potere
odiare l'ebreo e poiché non si odia un terremoto o la fillossera, questa virtù è
anche libertà. Solo che la libertà di cui si tratta è accuratamente limitata:
l'ebreo è libero di fare il male, non il bene, ed ha il libero arbitrio soltanto
per portare la piena responsabilità dei crimini di cui è autore, ma non ne ha
abbastanza per potersi correggere. Strana libertà che, in luogo di precedere e
di costituire l'essenza, le resta completamente sottomessa, non è che una
qualità irrazionale e resta tuttavia libertà. Non c'è che una creatura, a quanto
so, che sia così totalmente libera e incatenata al male, ed è lo Spirito del
Male medesimo, è Satana. Così l'ebreo è assimilabile allo spirito del male.
La sua volontà, all'inverso della volontà kantiana, è una volontà che si vuole
puramente, gratuitamente ed universalmente malefica, è la volontà malefica.
Per causa sua il Male accade sulla terra, tutto ciò che c'è di male nella
società (crisi, guerre, carestie, rivolgimenti e rivolte) gli è direttamente o
indirettamente imputabile. L'antisemita ha paura di scoprire che il mondo è
fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l'uomo si
ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità
angosciosa ed infinita. Perciò localizza nell'ebreo tutto il male dell'universo.
Se le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l'idea di
nazionalità, nella sua forma presente, implica quella dell'imperialismo e del
conflitto di interessi. No, è l'ebreo che sta lì, dietro ai governi, e soffia la
discordia. Se c'è una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che
l'organizzazione economica lascia a desiderare: sono i caporioni ebrei, gli
agitatori dal naso adunco che traviano gli operai. Così l'antisemitismo è
originariamente un manicheismo; spiega il corso del mondo con la lotta del
principio del Bene contro il principio del Male. Tra questi due principi non
è concepibile nessun accordo: bisogna che uno dei due trionfi e che l'altro
sia annientato. Guardate Celine: la sua visione dell'universo è catastrofica;
l'ebreo è dovunque, la terra è perduta, l'ariano deve badare a non
compromettersi, a non venire mai a patti. Ma stia in guardia: se respira, ha
già perso la sua purezza, perché l'aria stessa che penetra nei suoi bronchi è
insozzata. Non si direbbe questa la predicazione di un cataro? Se Celine ha
potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, lo ha fatto perché pagato. Nel
fondo del suo cuore non ci credeva: per lui non c'è soluzione che nel
suicidio collettivo, nella non procreazione, nella morte. Altri, Maurras o il
PPF, sono meno scoraggianti, prevedono una lunga lotta, spesso incerta con
il trionfo finale del Bene: è Ormuzd contro Ahriman. Il lettore ha compreso
che l'antisemita non ricorre al manicheismo come ad un principio
secondario di spiegazione. Ma è invece la scelta originale del manicheismo
che spiega e condiziona l'antisemitismo. Bisogna perciò domandarsi che
cosa possa significare per un uomo d'oggi questa scelta originale.
Confrontiamo per un istante l'idea rivoluzionaria della lotta di classe con il
manicheismo antisemita. Agli occhi del marxista la lotta di classe non è in
nessun modo il combattimento tra il Bene e il Male: è un conflitto di
interessi tra gruppi umani. Ciò che induce il rivoluzionario ad adottare il
punto di vista del proletariato è anzitutto il fatto che questa classe è la sua,
poi il fatto che è la classe oppressa, che è la classe di gran lunga più
numerosa e la sua sorte, per conseguenza, tende a confondersi con quella
dell'umanità, infine che le conseguenze della sua vittoria necessariamente
comporteranno la soppressione delle classi. Lo scopo del rivoluzionario è
quello di cambiare l'organizzazione della società. E per ottenerlo occorre
senza dubbio distruggere il vecchio regime, ma questo non basterebbe:
prima di tutto conviene costruire un ordine nuovo. Se per assurdo la classe
privilegiata volesse concorrere alla costruzione socialista e si avessero
prove manifeste della sua buona fede, non ci sarebbe alcuna ragione valida
per respingerla. E se è assai improbabile che essa offra di buon grado il suo
concorso ai socialisti, è perché la sua stessa situazione di classe privilegiata
glielo impedisce, non certo per chissà quale demone interiore che la
spingerebbe suo malgrado ad agire male. In tutti i casi, delle frazioni di
questa classe, se se ne staccano, possono sempre essere aggregate alla classe
oppressa e queste frazioni saranno giudicate dai loro atti, non dalla loro
essenza. «Me ne infischio della vostra essenza eterna», mi diceva un giorno
Politzer.
Per il manicheista antisemita invece l'accento è posto sulla distruzione.
Non si tratta di un conflitto di interessi, ma dei danni che una potenza
malvagia causa alla società. Di conseguenza, il Bene consiste innanzitutto
nel distruggere il Male. Sotto l'acredine dell'antisemita si nasconde
l'ottimistica convinzione che l'armonia, una volta soppresso il Male, si
ristabilirà da sola. Il suo compito è dunque esclusivamente negativo. Non si
tratta di costruire una società, ma solamente di purificare quella che esiste.
Per ottenere questo scopo, il concorso degli ebrei di buona volontà sarebbe
inutile ed anzi nefasto e d'altra parte un ebreo non potrebbe essere di buona
volontà. Cavaliere del Bene, l'antisemita è sacro, l'ebreo è pure lui sacro a
suo modo: sacro come gli intoccabili, come gli indigeni colpiti da un tabù.
Così la lotta viene condotta su un piano religioso e la fine del
combattimento non può essere altro che una distruzione sacra. I vantaggi di
questa posizione sono molteplici: per prima cosa, essa favorisce la pigrizia
dello spirito. Abbiamo visto che l'antisemita non capisce niente della società
moderna, sarebbe incapace di concepire un piano costruttivo; la sua azione
non può collocarsi al livello della tecnica, ma si mantiene sul terreno della
passione. Ad una impresa di largo respiro egli preferisce un'esplosione di
rabbia analoga all'amok dei malesi. La sua attività intellettuale si rifugia
nell'interpretazione: cerca negli avvenimenti storici il segno della presenza
d'una potenza malvagia. Da ciò quelle invenzioni puerili e complicate che lo
rendono simile ai grandi paranoici. Ma d'altra parte l'antisemitismo
convoglia le spinte rivoluzionarie verso la distruzione di determinati
uomini, non delle istituzioni; una folla antisemita crederà d'aver fatto
abbastanza quando avrà massacrato alcuni ebrei e bruciato qualche
sinagoga.
Rappresenta dunque una valvola di sicurezza per le classi possidenti che
incoraggiandolo sostituiscono ad un odio pericoloso contro il regime un
odio benigno contro dei privati. E, soprattutto, questo dualismo ingenuo è
altamente rassicurante per l'antisemita stesso: se si tratta solo di togliere il
Male, ciò vuol dire che il Bene è già dato. Non c'è bisogno di cercarlo
nell'angoscia, di inventarlo, di contestarlo pazientemente quando lo si è
trovato, di provarlo nell'azione, di verificarlo nelle sue conseguenze e di
addossarsi finalmente le responsabilità della scelta morale che si è fatta.
Non a caso le grandi collere antisemitiche dissimulano un ottimismo:
l'antisemita ha deciso il Male per non dover decidere il Bene. Più mi
impegno a combattere il Male, meno sono tentato di occuparmi del Bene.
Non se ne parla, è sempre sottinteso nei discorsi dell'antisemita, e resta
sottinteso nel suo pensiero. Quando l'antisemita avrà compiuto la sua
missione di distruttore sacro, il Paradiso perduto si riformerà da sé. Per il
momento, tante faccende lo assorbono, che non ha il tempo di riflettervi: sta
sulla breccia, combatte e ciascuna delle sue indignazioni è un pretesto che
lo distoglie dal cercare il Bene nell'angoscia. Ma c'è di più, e qui tocchiamo
il campo della psicoanalisi. Il manicheismo maschera una profonda
attrazione verso il Male. Per l'antisemita il Male è il suo destino, il suo
«job». Altri verranno più tardi e si occuperanno del Bene, se ve ne sarà.
Quanto a lui, è agli avamposti della società, volge le spalle alle pure virtù
che difende: ha di fronte solo il Male, il suo dovere è di svelarlo,
denunciarlo, misurarne l'estensione. Eccolo dunque unicamente preoccupato
di ammassare gli aneddoti che rivelano la lubricità dell'ebreo, il suo appetito
di lucro, le sue scaltrezze e i suoi tradimenti. Si lava le mani nella lordura.
Si rilegga La France juive di Drumont: questo libro di un'«alta moralità
francese» è una raccolta di storie ignobili o oscene. Niente riflette meglio la
natura complessa dell'antisemita: poiché non ha voluto scegliere il suo Bene
e si è lasciato imporre, per paura di distinguersi dagli altri, quello di tutti, la
morale in lui non è mai basata sull'intuizione dei valori né su ciò che
Platone chiama l'Amore; si manifesta solamente con i tabù più rigidi, con
gli imperativi più rigorosi e più gratuiti. Ma ciò che egli contempla senza
riposo, ciò di cui ha l'intuizione e quasi il gusto, è il Male. Può così vagliare
e rivagliare sino all'ossessione la narrazione di azioni oscene o criminali che
lo turbano e soddisfano le sue tendenze perverse; ma poiché nello stesso
tempo le attribuisce a codesti ebrei infami che carica del suo disprezzo, si
sazia senza compromettersi. Ho conosciuto a Berlino un protestante nel
quale il desiderio prendeva la forma dell'indignazione. La vista di donne in
costume da bagno lo riempiva di furore; egli cercava volentieri quel furore e
passava il suo tempo nelle piscine.
Così è l'antisemita. Una delle componenti del suo odio è un'attrazione
profonda e sessuale per gli ebrei. Si tratta dapprima di una forma di
curiosità affascinata per il Male. Ma soprattutto, credo, essa sfocia nel
sadismo. Non si comprenderà niente dell'antisemitismo, infatti, se non ci si
ricorda che l'ebreo, oggetto di tanta esecrazione, è completamente innocente
e direi anzi inoffensivo. Così l'antisemita ha cura di parlarci di associazioni
ebraiche segrete, di massonerie temibili e clandestine. Ma se si incontra
faccia a faccia con un ebreo vede che si tratta, nella maggioranza dei casi, di
un essere debole e mal preparato alla violenza, non riesce nemmeno a
difendersi.
Questa debolezza individuale dell'ebreo, che lo consegna legato mani e
piedi al pogrom, l'antisemita non la ignora ed anzi se ne compiace. Così il
suo odio per l'ebreo non può paragonarsi a quello che gli italiani del 1830
avevano per gli austriaci, a quello che i francesi del 1942 avevano per i
tedeschi. In questi due ultimi casi si trattava di oppressori, di uomini duri,
crudeli e forti che possedevano armi, denaro, potenza e che potevano fare
del male ai ribelli più di quanto questi ultimi non potessero nemmeno
sognare di fare loro. In quegli odi le tendenze sadiche non c'erano. Ma
poiché per l'antisemita il Male si incarna in questi uomini disarmati e così
poco temibili, egli non si trova mai nella penosa necessità di essere eroico: è
divertente essere antisemita. Si può battere e torturare gli ebrei senza
timore: tutt'al più essi si appelleranno alle leggi della repubblica; ma le leggi
sono miti. Così l'attrazione sadica dell'antisemita per l'ebreo è tanto forte
che non è affatto raro vedere uno di questi nemici giurati di Israele
attorniarsi di amici ebrei. Naturalmente li battezzano «ebrei d'eccezione»,
affermano: «quelli non sono come gli altri». Nello studio del pittore di cui
ho parlato e che non disapprovava in nessun modo gli eccidi di Lublino,
c'era in evidenza il ritratto di un ebreo che gli era caro e che la Gestapo
aveva fucilato. Ma le loro proteste di amicizia non sono sincere, poiché non
giungono nemmeno a concepire il proposito di risparmiare gli «ebrei buoni»
e, pur riconoscendo alcune virtù a coloro che conoscono, non ammettono
che i loro interlocutori abbiano potuto trovare altri che fossero altrettanto
virtuosi. In realtà si compiacciono di proteggere alcune persone per una
specie di inversione del loro sadismo, si compiacciono di tenere sotto gli
occhi l'immagine vivente di quel popolo che esecrano. Le donne antisemite
hanno assai spesso un misto di repulsione e di attrazione sessuale per gli
ebrei.
Una di esse, che ho conosciuto, aveva rapporti intimi con un ebreo
polacco. Andava qualche volta a letto con lui e si lasciava carezzare il petto
e le spalle, ma niente più. Gioiva di sentirlo rispettoso e sottomesso, di
indovinare il suo violento desiderio frenato, umiliato. Con altri uomini ebbe
in seguito rapporti sessuali normali.
C'è nelle parole «una bella ebrea» un significato sessuale del tutto
particolare e assai diverso da quello che si troverà per esempio nelle parole
«bella rumena», «bella greca» o «bella americana». Hanno come un aroma
di stupro e di massacro. La bella ebrea è quella che i cosacchi dello zar
trascinavano per i capelli lungo le strade del suo villaggio in fiamme; e i
libri «per amatori» dedicati alle storie di flagellazione danno un posto
d'onore agli israeliti. Ma non c'è bisogno di andare a scartabellare nella
letteratura clandestina. Dalla Rebecca di Ivanhoe fino all'ebrea di Gilles,
passando per quelle di Ponson du Terrail, le ebree hanno anche nei romanzi
più seri una funzione ben definita: frequentemente violentate o bastonate di
santa ragione riescono talvolta ad evitare il disonore con la morte, ma di
stretta misura; e quelle che conservano la loro virtù sono le serve docili o le
amanti umiliate di cristiani indifferenti che sposano delle ariane. Non
occorre di più, io credo, per sottolineare il valore di simbolo sessuale che
l'ebrea assume nel folklore. Distruttore per funzione, sadico dal cuore puro,
l'antisemita è nel profondo del cuore un criminale. Ciò che desidera, che
prepara, è la morte dell'ebreo. Certamente non tutti i nemici dell'ebreo
reclamano la sua morte apertamente, ma le misure che propongono e che,
tutte, tendono a degradarlo, umiliarlo, bandirlo, sono succedanei di
quell'assassinio che essi meditano nella loro mente: sono assassini
simbolici. Solo che l'antisemita ha dalla sua parte la sua coscienza: è un
crimine per giusta causa. Non è colpa sua, dopo tutto, se ha la missione di
vincere il Male col Male; la Francia reale gli ha delegato i suoi poteri d'alta
giustizia. Senza dubbio, non tutti i giorni ha occasione di usarne; ma non
lasciatevi ingannare: quelle collere improvvise che lo assalgono tutt'a un
tratto, quelle apostrofi tonanti ch'egli lancia contro i «giudei» sono
altrettante esecuzioni capitali; la coscienza popolare l'ha indovinato, se ha
inventato l'espressione «mangiaebrei». Così l'antisemita si è scelto
criminale, e criminale bianco: anche in ciò rifugge le responsabilità, ha
censurato i suoi istinti d'assassino, ma ha trovato il modo di saziarli senza
confessarli. Sa d'essere perverso, ma poiché fa il Male per il bene, poiché
tutto un popolo attende da lui la liberazione, egli si considera come un
perverso sacro. Per una sorta di capovolgimento di tutti i valori, di cui si
trovano esempi in certe religioni e per esempio in India dove esiste una
prostituzione sacra, è alla collera, all'odio, al saccheggio, all'assassinio, a
tutte le forme di violenza che si collegano, secondo lui, la stima, il rispetto,
l'entusiasmo; e nel momento stesso in cui la perversità lo ubriaca, sente in
sé la leggerezza e la pace che danno la coscienza tranquilla e la
soddisfazione del dovere compiuto. Il ritratto è finito. Se molte persone che
di buon grado dichiarano di detestare gli ebrei non vi si riconoscono, lo si
deve al fatto ch'esse in realtà non detestano gli ebrei. Non li amano neppure.
Non farebbero loro il benché minimo male, ma non alzerebbero nemmeno il
dito mignolo per impedire che si faccia loro violenza. Non sono antisemiti,
non sono niente, non sono nessuno e poiché bisogna pur sembrare qualche
cosa, si fanno eco, rumore, vanno ripetendo, ma senza pensare male, senza
proprio pensarci, alcune formule orecchiate che danno loro diritto d'accesso
in certi salotti. Così conoscono le delizie di non essere altro che un vano
rumore, d'avere la testa piena d'una affermazione enorme che a loro sembra
tanto più rispettabile in quanto è presa a prestito. In questo caso
l'antisemitismo non è altro che una giustificazione; la futilità di tali persone
è d'altra parte così grande che abbandonano volentieri questa giustificazione
per un'altra qualunque, purché «distinta».
L'antisemitismo infatti è distinto, come tutte le manifestazioni di un'anima
collettiva irrazionale tendente a creare una Francia occulta e conservatrice.
Ripetendo a gara che l'ebreo è nocivo al paese, a tutte queste teste vuote
sembra di compiere un rito d'iniziazione che le rende partecipi dei focolai
sociali d'energia e di calore; in questo senso, l'antisemitismo ha conservato
qualche cosa dei sacrifici umani. Presenta inoltre un serio vantaggio per
coloro che conoscono la propria profonda inconsistenza e si annoiano:
permette loro di attribuirsi l'apparenza della passione e, siccome è di
prammatica, dopo il romanticismo, confondere questa con la personalità,
codesti antisemiti di seconda mano si fregiano con poca spesa d'una
personalità aggressiva. Un mio amico mi citava spesso un vecchio cugino
che veniva a pranzo dai suoi e di cui si diceva con una cert'aria: «Giulio non
può soffrire gli inglesi». Il mio amico non ricorda che si sia mai detto altro
sul conto del cugino Giulio. Ma ciò bastava: c'era un tacito contratto tra
Giulio e la sua famiglia, si evitava ostensibilmente di parlare degli inglesi
davanti a lui e questa precauzione gli dava una sembianza d'esistenza agli
occhi dei suoi parenti, mentre nello stesso tempo procurava loro il piacevole
sentimento di partecipare ad una cerimonia sacra. E quando in determinate
circostanze qualcuno, con deliberata premeditazione, lanciava quasi
inavvertitamente un'allusione alla Gran Bretagna o ai suoi domini, il cugino
Giulio allora fingeva di andare su tutte le furie e per un momento si sentiva
esistere; tutti erano contenti. Molti sono antisemiti come il cugino Giulio era
anglofobo e, beninteso, non si rendono affatto conto di ciò che il loro
atteggiamento implica davvero.
Puri riflessi, canne agitate dal vento, certamente non avrebbero inventato
l'antisemitismo se l'antisemita cosciente non esistesse già.
Ma sono loro che con tutta indifferenza assicurano la continuità
dell'antisemitismo e il cambio delle generazioni. Questo tipo siamo ora in
grado di comprenderlo. E' un uomo che ha paura. Non degli ebrei,
certamente: ma di se stesso, della sua coscienza, della sua libertà, dei suoi
istinti, delle sue responsabilità, della solitudine, del cambiamento della
società e del mondo; di tutto meno che degli ebrei. E' un codardo che non
vuol confessarsi la sua viltà; un assassino che rimuove e censura la sua
tendenza al delitto senza poterla frenare e che pertanto non osa uccidere
altro che in effigie o nascosto dall'anonimato» d'una folla; uno scontento
che non osa rivoltarsi per paura delle conseguenze della sua rivolta.
Aderendo all'antisemitismo, non adotta semplicemente un'opinione, ma si
sceglie come persona.
Sceglie la permanenza e l'impenetrabilità della pietra, l'irresponsabilità
totale del guerriero che obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo.
Sceglie di non acquistare niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia
dovuto per nascita - e non è nobile.
Sceglie infine che il Bene sia bell'e fatto, fuori discussione, intoccabile:
non osa guardarlo per timore d'essere indotto a contestarlo e a cercarne un
altro. L'ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del negro, o del
giallo. La sua esistenza permette semplicemente all'antisemita di soffocare
sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da sempre
segnato nel mondo, che lo attende e che egli ha, per tradizione, il diritto
d'occuparlo. L'antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla
condizione umana. L'antisemita è l'uomo che vuole essere roccia spietata,
un torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo.
Capitolo secondo
Gli ebrei hanno però un amico: il democratico. Ma è un misero difensore.
Proclama, è vero, che tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti; ha fondato
la Lega dei diritti dell'uomo. Ma le sue stesse dichiarazioni palesano la
debolezza della sua posizione. Egli ha scelto una volta per tutte, nel secolo
XVIII, lo spirito analitico. Non ha occhi per le sintesi concrete che la storia
gli presenta. Non conosce l'ebreo, né l'arabo, né il negro, né il borghese, né
l'operaio: ma solamente l'uomo, in tutti i tempi e in tutti i luoghi uguale a se
stesso. Tutte le collettività le risolve in elementi individuali. Un corpo fisico
è per lui una somma di molecole, un corpo sociale una somma d'individui. E
per individuo egli intende un'incarnazione particolare dei caratteri universali
che compongono la natura umana. Perciò l'antisemita e il democratico
continuano instancabilmente il loro dialogo senza mai comprendersi né
accorgersi che non parlano delle stesse cose. Se l'antisemita rimprovera
all'ebreo la sua avarizia, il democratico risponderà che conosce ebrei che
non sono avari e cristiani che lo sono. Ma l'antisemita non ne rimane
convinto: ciò che voleva dire era che esiste un'avarizia «ebraica», cioè
influenzata da quella totalità sintetica che è la persona ebrea. E converrà
senza esitazione che alcuni cristiani possono essere avari, poiché per lui
l'avarizia cristiana e l'avarizia ebraica non sono della stessa natura. Per il
democratico, invece, l'avarizia è una determinata natura universale e
invariabile che può aggiungersi all'insieme dei caratteri che compongono un
individuo e che rimane identica a se stessa in tutte le circostanze; non
esistono due maniere d'essere avaro, lo si è o non lo si è. Perciò per il
democratico come per lo scienziato, non esiste il caso singolo: l'individuo
non è per lui se non una somma di caratteri universali. Ne segue che la sua
difesa dell'ebreo salva l'ebreo in quanto uomo e lo annienta in quanto ebreo.
A differenza dell'antisemita, il democratico non ha paura di se stesso: ciò
che teme sono le grandi forme collettive in cui rischia di dissolversi. Perciò
ha scelto lo spirito analitico, perché lo spirito d'analisi non vede queste
realtà sintetiche. Da questo punto di vista egli teme che si svegli nell'ebreo
una «coscienza ebraica», cioè una coscienza della collettività israelita, come
teme nell'operaio il sorgere della «coscienza di classe». La sua difesa
consiste nel persuadere gli individui che essi esistono allo stato isolato.
«Non esiste l'ebreo - dice - non esiste la questione ebraica». Ciò significa
che egli desidera separare l'ebreo dalla sua religione, dalla sua famiglia,
dalla sua comunità etnica, per infornarlo nel crogiuolo democratico, da cui
uscirà solo e nudo, particella individuale e solitaria, simile a tutte le altre
particelle. E' ciò che si chiamava, negli Stati Uniti, la politica
dell'assimilazione. Le leggi sull'immigrazione hanno provato il fallimento di
questa politica e, in definitiva, quello del punto di vista democratico. Come
potrebbe essere diversamente? Per un ebreo cosciente e fiero d'essere ebreo,
che rivendica la sua appartenenza alla comunità ebraica, senza disconoscere
per questo i legami che lo uniscono ad una collettività nazionale, non c'è
tanta differenza tra l'antisemita e il democratico. Quello vuole distruggerlo
come uomo per non lasciar sussistere in lui altro che l'ebreo, il paria,
l'intoccabile; questi vuole distruggerlo come ebreo per conservare in lui
soltanto l'uomo, il soggetto astratto e universale dei diritti dell'uomo e del
cittadino. Si può scorgere anche nel democratico più liberale una sfumatura
d'antisemitismo: è ostile all'ebreo nella misura in cui l'ebreo decide di
considerarsi come ebreo.
Questa ostilità si esprime con una specie d'ironia indulgente e divertita,
come quando dice d'un amico ebreo, la cui origine israelita è facilmente
riconoscibile: «E' veramente troppo ebreo», o quando dichiara: «La sola
cosa che rimprovero agli ebrei è il loro istinto gregario: se si permette ad
uno di loro di entrare in un affare, se ne porterà dietro una diecina». Durante
l'occupazione, il democratico era profondamente e sinceramente indignato
per le persecuzioni antisemitiche, ma di quando in quando sospirava: «Gli
ebrei ritorneranno dall'esilio con una scienza e una fame di vendetta tali che
temo una recrudescenza dell'antisemitismo». Ciò che temeva in realtà era
che le persecuzioni contribuissero a dare all'ebreo una autoconsapevolezza
più precisa. L'antisemita rimprovera all'ebreo di essere ebreo; il democratico
gli rimprovererebbe volentieri di considerarsi ebreo. Tra il suo avversario e
il suo difensore, l'ebreo sembra veramente a mal partito: sembra che non
abbia nient'altro da fare che scegliere l'albero a cui dovrà essere impiccato.
Conviene dunque porci a nostra volta la domanda: esiste l'ebreo? E se
esiste, chi è? E' prima di tutto un ebreo o prima di tutto un uomo? La
soluzione del problema sta nello sterminio di tutti gli israeliti o nella loro
totale assimilazione? Non si può intravedere un'altra maniera di porre il
problema e un'altra maniera di risolverlo?
Capitolo terzo
C'è un punto sul quale siamo d'accordo con l'antisemita: non crediamo
alla «natura» umana, non accettiamo di considerare una società come una
somma di molecole isolate o isolabili; crediamo che si debba considerare i
fenomeni biologici, psichici e sociali con spirito sintetico. Solo che ci
separiamo da lui rispetto alla maniera d'applicare questo spirito sintetico.
Non riconosciamo nessun «principio» ebraico e non siamo dei manichei,
non ammettiamo nemmeno che il «vero» francese sia l'immediato
depositario dell'esperienza e delle tradizioni lasciategli dai suoi antenati;
rimaniamo assai scettici riguardo all'eredità psicologica e non accettiamo
d'utilizzare i concetti etnici se non nei settori in cui hanno avuto conferme
sperimentali, e precisamente quelli della biologia e della patologia: per noi
l'uomo si definisce innanzitutto come un essere «in situazione». Ciò
significa che esso forma un tutto sintetico con la sua situazione biologica,
economica, politica, culturale, ecc.
Non si può distinguerlo da quella, poiché lo forma e decide le sue
possibilità, ma, inversamente, è lui che le dà un senso scegliendosi in quella
e mediante quella. Essere in situazione, secondo noi, significa scegliersi in
situazione e gli uomini differiscono tra di loro a seconda della differenza fra
le loro situazioni ed anche secondo la scelta che fanno della propria
persona. Ciò che c'è di comune tra tutti loro non è una natura, ma una
condizione, cioè un insieme di limiti e di necessità; la necessità di morire, di
lavorare per vivere, d'esistere in un mondo già abitato da altri uomini. E
questa condizione non è altro in fondo che la situazione umana
fondamentale o, se si preferisce, l'insieme dei caratteri astratti comuni a
tutte le situazioni. Concordo dunque col democratico sul fatto che l'ebreo
sia un uomo come tutti gli altri, ma ciò non m'insegna niente di particolare,
se non che egli è libero e allo stesso tempo è schiavo, che nasce, gode,
soffre e muore, che ama e che odia, come tutti gli uomini. Non posso
dedurre nient'altro da queste premesse troppo generali. Se voglio sapere chi
è l'ebreo, devo, poiché si tratta di un essere in situazione, interrogare
anzitutto la sua situazione. Premetto che limiterò la mia descrizione agli
ebrei della Francia, poiché è il problema dell'ebreo francese il nostro
problema. Non negherò che esiste una razza ebraica. Ma bisogna intendersi.
Se per razza s'intende quel complesso indefinibile in cui si fanno entrare alla
rinfusa caratteri somatici ed elementi intellettuali e morali, non posso
crederci più che ai tavolini a tre gambe. Ciò che chiamerò, in mancanza di
meglio, caratteri etnici, sono certe conformazioni fisiche ereditarie che si
incontrano più frequentemente presso gli ebrei che presso i non-ebrei. Ma
conviene essere ancora più prudenti: bisognerebbe piuttosto parlare di razze
ebraiche. Si sa che non tutti i semiti sono ebrei, ciò che complica il
problema; si sa pure che certi ebrei biondi della Russia sono ancor più
lontani da un ebreo crespo dell'Algeria che da un ariano della Prussia
orientale. In realtà ogni paese ha i suoi ebrei e la rappresentazione che
possiamo farci dell'israelita non corrisponde affatto a quella che se ne fanno
i nostri vicini. Quando abitavo a Berlino, al principio del regime nazista,
avevo due amici francesi, di cui uno era ebreo e l'altro no. L'ebreo
presentava un «tipo semita accentuato»: aveva il naso adunco, le orecchie a
sventola, le labbra tumide. Un francese lo avrebbe riconosciuto subito per
un israelita. Ma poiché era biondo, secco e flemmatico, i tedeschi non se ne
accorgevano affatto; egli si divertiva alle volte a uscire con delle SS che non
avevano il minimo dubbio sulla sua razza: un giorno uno di loro gli disse:
«Sono capace di riconoscere un ebreo a cento metri». L'altro amico mio,
invece, corso e cattolico, figlio e nipote di cattolici, aveva i capelli neri e un
po’ ricciuti, il naso borbonico, colorito pallido, era piccolo e grasso: i
monelli lo prendevano a sassate per strada chiamandolo «giudeo»:
assomigliava a un certo tipo d'ebreo orientale, la cui immagine è più
popolare presso i tedeschi. Comunque sia e pur ammettendo che tutti gli
ebrei abbiano in comune certi tratti fisici, non si può concluderne, se non
per la più vaga delle analogie, che essi debbano presentare anche i
medesimi elementi di carattere. Di più: i segni fisici che si possono
constatare nel semita sono spaziali, perciò giustapposti e separabili. Posso
trovarne uno in un ariano, a titolo isolato. Concluderei forse che questo
ariano ha quella tale qualità psichica ordinariamente attribuita all'ebreo? No,
evidentemente. Ma allora tutta la teoria razziale va a fondo: essa presuppone
che l'ebreo sia una totalità non scomponibile ed ecco che noi ne facciamo un
mosaico in cui ciascun elemento è una pietruzza che si può togliere e
collocare in un altro insieme; non possiamo né passare dal fisico al morale,
né postulare un parallelismo psicofisiologico. Se si dice che bisogna
considerare l'insieme dei caratteri somatici, risponderò: o questo insieme è
la somma dei tratti etnici e questa somma non può in nessun modo
rappresentare l'equivalente spaziale di una sintesi psichica, non più di
quanto un'associazione di cellule cerebrali possa corrispondere a un
pensiero; oppure, quando si parla dell'aspetto fisico dell'ebreo, s'intende una
totalità sincretica che si offre all'intuizione. In questo caso, infatti, può darsi
una Gestalt nel senso in cui intende Kohler la parola, ed a questo fanno
allusione gli antisemiti quando pretendono di «fiutare l'ebreo», «avere il
senso dell'ebreo», ecc. Solo che è impossibile percepire gli elementi
somatici, prescindendo dai significati psichici che vi si mescolano. Ecco un
ebreo seduto sulla soglia della sua porta, nella rue des Rosiers. Lo
riconoscono subito per un ebreo: ha la barba nera e ricciuta, il naso
leggermente adunco, le orecchie a sventola, gli occhiali di ferro, il tubino
affondato fino agli occhi, un vestito nero, gesti rapidi e nervosi, un sorriso
d'una strana bontà dolorosa. Come dividere il fisico dal morale? La sua
barba è nera e ricciuta: è un carattere somatico. Ma ciò che più mi colpisce è
il fatto che se la lascia crescere; con ciò esprime il suo attaccamento alle
tradizioni della comunità ebraica, designa se stesso come proveniente dalla
Polonia, come appartenente a una prima generazione di immigrati; suo
figlio è forse meno ebreo per il fatto che si è rasato? Altri elementi, come la
forma del naso, le orecchie a sventola, sono puramente anatomici e altri
ancora puramente psichici e sociali, come la scelta del vestito e degli
occhiali, l'espressione e la mimica. Che cosa dunque me lo segnala come
israelita se non questo insieme non scomponibile, in cui lo psichico e il
fisico, il sociale, il religioso e l'individuale si compenetrano, se non questa
sintesi vivente che evidentemente non potrebbe essere trasmessa per eredità
e che in fondo è identica alla sua persona tutta intera? Consideriamo quindi
i caratteri somatici ed ereditari dell'ebreo come uno dei fattori della sua
situazione, non come una condizione determinante della sua natura. Poiché
non possiamo determinare l'ebreo per la sua razza, lo definiremo per la sua
religione o per l'appartenenza ad una comunità nazionale strettamente
israelita?
La questione si complica. Certo, in un'epoca passata esisteva una
comunità religiosa e nazionale che si chiamava Israele. Ma la storia di
questa comunità è quella d'una dissoluzione di venticinque secoli.
Dapprima perdette la sovranità: ci fu la cattività babilonese, poi la
dominazione persiana, infine la conquista romana. Non si può sostenere che
questo sia effetto d'una maledizione, a meno che non ci siano maledizioni
geografiche: la posizione della Palestina, crocicchio di tutte le vie
commerciali dell'antichità, schiacciata tra potenti imperi, basta a spiegare
questa lenta perdita della sovranità. Tra gli ebrei della diaspora e quelli che
erano rimasti nel loro territorio i legami religiosi si rafforzarono, sino ad
assumere il senso e il valore d'un legame nazionale. Ma questo «transfert»
manifestò, senza dubbio, una spiritualizzazione dei legami collettivi; e
spiritualizzazione significa, nonostante tutto, indebolimento. Poco dopo,
d'altra parte ebbe luogo la scissione indotta dal cristianesimo: l'apparizione
della nuova religione provocò una grande crisi nel mondo israelita,
sollevando gli ebrei emigrati contro quelli della Giudea. Rispetto alla
«forma forte» assunta subito dal cristianesimo, la religione ebraica apparve
immediatamente come una forma debole, in via di disgregazione; si
mantenne solo con una complessa politica di concessioni e d'ostinazione.
Resiste alle persecuzioni ed alla grande dispersione degli ebrei nel mondo
medievale; molto meno resiste al progresso dell'illuminismo e dello spirito
critico. Gli ebrei che ci circondano hanno con la loro religione appena un
rapporto di cerimonia e di cortesia. Domandai ad uno di loro perché aveva
fatto circoncidere suo figlio. Mi rispose: «Perché faceva piacere a mia
madre, e poi perché è più igienico». «E vostra madre, perché ci teneva?».
«Per via dei suoi amici e dei suoi vicini.»
Comprendo che queste spiegazioni troppo razionali nascondono un
segreto e profondo bisogno di riattaccarsi alle tradizioni e di abbarbicarsi, in
mancanza d'un passato nazionale, a un passato di riti e di consuetudini.
Ma la religione qui non è altro, appunto, che un mezzo simbolico. Non ha
potuto resistere, almeno nell'Europa occidentale, agli attacchi congiunti del
razionalismo e dello spirito cristiano; gli ebrei atei che ho interrogato
riconoscono che il loro dialogo sull'esistenza di Dio prosegue con la
religione cristiana. La religione che attaccano e di cui vogliono sbarazzarsi è
il cristianesimo; il loro ateismo non si differenzia affatto da quello d'un
Roger Martin du Gard che dice di liberarsi della fede cattolica. Nemmeno
per un attimo sono atei contro il Talmud; e il prete, per tutti loro, è il curato,
non il rabbino.
Così dunque i dati del problema appaiono i seguenti: una comunità storica
concreta è essenzialmente nazionale e religiosa; ma la comunità ebraica, che
fu l'una e l'altra cosa, si è svuotata a poco a poco di questi caratteri concreti.
Sarebbe lecito definirla una comunità storica astratta. La sua dispersione
implica la disgregazione delle tradizioni comuni; e abbiamo notato più
sopra che i suoi venti secoli di dispersione e di impotenza politica le
impediscono d'avere un passato storico. Se è vero, come ha detto Hegel, che
una collettività è storica nella misura in cui ha la memoria della sua storia,
la collettività ebraica è la meno storica di tutte le società, poiché non può
serbare che la memoria d'un lungo martirio, cioè d'una lunga passività. Cosa
dunque mantiene alla comunità ebraica una parvenza d'unità? Per
rispondere a questa domanda, bisogna ritornare sull'idea di situazione.
Non è né il loro passato, né la loro religione, né il loro territorio ciò che
unisce i figli d'Israele. Se essi hanno un legame comune, se meritano tutti il
nome di ebrei, è perché hanno una posizione comune d'ebrei, cioè perché
vivono nel seno d'una comunità che li considera ebrei. In una parola, l'ebreo
è perfettamente assimilabile da parte delle nazioni moderne, ma si definisce
come colui che le nazioni non vogliono assimilare. Ciò che pesa su di lui
originariamente è il fatto che egli è l'assassino del Cristo '. Si è riflettuto
sulla posizione intollerabile di questi uomini condannati a vivere nel seno
d'una società che adora il Dio che essi hanno ammazzato? Originariamente
dunque l'ebreo è un omicida o figlio d'un omicida - ciò che, agli occhi d'una
collettività che concepisce la responsabilità sotto forma prelogica, è
assolutamente la stessa cosa - e come tale egli è tabù. Non è questa,
evidentemente, una spiegazione dell'antisemitismo moderno; ma se
l'antisemita ha scelto l'ebreo per oggetto del suo odio, è a causa dell'orrore
religioso che costui ha sempre ispirato. Quest'orrore ha avuto per
conseguenza un curioso fenomeno economico: la chiesa del Medioevo ha
tollerato gli ebrei, invece di assimilarli con la forza o farli massacrare, in
quanto compivano una funzione economica di prima necessità: maledetti,
essi esercitavano un mestiere maledetto, ma indispensabile; non potendo
possedere terre né servire negli eserciti, praticavano il commercio del
denaro, che un cristiano non poteva maneggiare senza contaminarsi. Così
alla maledizione originaria s'è ben presto aggiunta una maledizione
economica ed è stata soprattutto quest'ultima a produrre gli effetti più
persistenti. Oggi si rimprovera agli ebrei di esercitare mestieri improduttivi,
Notiamo subito che si tratta d'una leggenda creata dalla propaganda
cristiana della diaspora.
E' abbastanza evidente che la croce è un supplizio romano e che il Cristo
è stato giustiziato dai romani come agitatore politico. senza rendersi conto
che la loro apparente autonomia nel seno della nazione proviene appunto
dal fatto che li si è relegati a questi mestieri, interdicendo loro tutti gli altri.
Perciò non è esagerato sostenere che sono stati i cristiani a creare l'ebreo,
provocando un brusco arresto della sua assimilazione e addossandogli, suo
malgrado, una funzione in cui poi ha eccelso. Anche in questo caso,
d'altronde, non si tratta che di un ricordo: la differenziazione delle funzioni
economiche è oggi tale, che non si può assegnare all'ebreo un compito
definito; tutt'al più si potrebbe notare che la sua lunga esclusione da certi
mestieri l'ha distolto dall'esercitarli anche quando gliene si è presentata la
possibilità. Ma di questo ricordo le società moderne si sono impossessate e
ne hanno fatto il pretesto e la base del loro antisemitismo. Perciò, se si vuole
sapere che cos'è l'ebreo contemporaneo, bisogna interrogare la coscienza
cristiana: bisogna chiederle non «che cosa è un ebreo?», ma «che cosa hai
fatto degli ebrei?». L'ebreo è un uomo che gli altri uomini considerano
ebreo: ecco la verità semplice da cui bisogna partire. In questo senso il
democratico ha ragione contro l'antisemita: è l'antisemita che fa l'ebreo. Ma
si avrebbe torto a ridurre la diffidenza, la curiosità, l'ostilità mascherata che
circondano gli israeliti alle manifestazioni intermittenti di alcuni fanatici.
L'abbiamo già visto, l'antisemitismo è l'espressione d'una società primitiva,
cieca e diffusa, che si mantiene allo stato latente nella collettività legale.
Non bisogna dunque supporre che uno slancio generoso, qualche buona
parola, un tratto di penna bastino a sopprimerlo: sarebbe come se si
immaginasse d'aver soppresso la guerra perché se ne sono denunziati gli
effetti in un libro. Senza dubbio, l'ebreo apprezza nel suo giusto valore la
simpatia che gli viene testimoniata, ma questa non può trattenerlo dal
vedere l'antisemitismo come una struttura permanente della comunità in cui
vive; e dal sapere, anche, che i democratici e tutti coloro che lo difendono
hanno la tendenza a destreggiarsi con l'antisemitismo. Difatti noi siamo una
repubblica, e tutte le opinioni sono libere. D'altra parte il mito dell'«unione
sacra» esercita ancora una tale influenza sui francesi, da renderli pronti ai
maggiori compromessi pur di evitare conflitti interni, soprattutto nei periodi
di crisi internazionale che sono, beninteso, anche quelli di più virulento
antisemitismo. Naturalmente è il democratico, ingenuo e pieno di buona
volontà, che fa tutte le concessioni: l'antisemita non ne fa nessuna. Ha il
beneficio della collera; si dice: «Non irritiamolo...», si parla sottovoce
intorno a lui. Nel 1940, per esempio, molti francesi si sono schierati col
governo petain, che non mancava di predicare l'unione, con i secondi fini
che tutti sanno. In seguito questo governo prese misure antisemite. I
«petainisti» non protestarono. Si sentivano assai poco a loro agio, ma che
fare? Se la Francia poteva esser salvata al prezzo di qualche sacrificio, non
era forse meglio chiudere gli occhi? Certamente, non erano antisemiti, anzi
si rivolgevano agli ebrei che incontravano con una commiserazione piena di
cortesia. Ma questi ebrei, come non avrebbero capito che si sacrificava la
loro sorte al miraggio di una Francia unita e patriarcale? Oggi, quelli che i
tedeschi non hanno deportato e assassinato riescono a tornare in patria.
Molti parteciparono alla resistenza dalla prima ora; altri hanno un figlio, un
cugino nell'armata di Ledere. La Francia intera gioisce o fraternizza sulle
strade, le lotte sociali sembrano provvisoriamente dimenticate;
Nota: Scritto nell'ottobre del 1944.
I giornali dedicano intere colonne ai prigionieri di guerra, ai deportati. Si
parlerà degli ebrei? Si saluterà il ritorno tra noi dei superstiti, si rivolgerà un
pensiero a coloro che sono morti nelle camere a gas di Lublino? Non una
parola. Non una riga nei quotidiani.
Non bisogna irritare gli antisemiti. Più che mai la Francia ha bisogno di
unione. I giornalisti ben intenzionati vi dicono: «Nello stesso interesse degli
ebrei, non bisogna parlare troppo di loro in questo momento». Per quattro
anni la società francese è vissuta senza di loro, conviene non segnalare
troppo la loro riapparizione. Si crede forse che gli ebrei non si rendano
conto della situazione? Si crede forse che non comprendano le ragioni di
questo silenzio? Alcuni di loro approvano questo atteggiamento e dicono:
«Meno si parlerà di noi, meglio sarà». Un francese sicuro di sé, della sua
religione, della sua razza può arrivare a comprendere lo 'stato d'animo che
detta una simile affermazione? Non ci rendiamo conto che solo essendo
stati sopraffatti per anni, nel proprio paese, dall'ostilità, da una diffidenza
sempre sull'avviso, da un'indifferenza sempre pronta a volgersi al peggio, si
può giungere a questa saggezza rassegnata, a questa politica del silenzio?
Hanno fatto dunque un ritorno clandestino; la loro gioia d'esser liberati non
si è fusa con la gioia della nazione. Che ne abbiano sofferto, basta a
provarlo il seguente fatterello: avevo scritto nelle «Lettres Francaises»,
senza pensarci gran che, a titolo d'enumerazione completa, non so quale
frase sulle sofferenze dei prigionieri, dei deportati, dei detenuti politici e
degli ebrei. Alcuni israeliti mi hanno ringraziato in una maniera
commovente: in che stato di abbattimento dovevano trovarsi, per pensare di
ringraziare un autore di aver solamente scritto la parola ebreo in un articolo?
Dunque l'ebreo è in situazione d'ebreo perché vive nel seno d'una collettività
che lo considera ebreo. Ha nemici appassionati e difensori senza passione. Il
democratico fa professione di moderazione; biasima e ammonisce mentre si
dà fuoco alle sinagoghe. E' tollerante per natura; ha persino lo snobismo
della tolleranza, che intende sia estesa anche ai nemici della democrazia:
non fu forse di moda, nella sinistra radicale, considerare Maurras un genio?
Come negare comprensione all'antisemita? Il democratico è come
affascinato da tutti coloro che meditano la sua perdita. Forse, nel fondo di se
stesso, quasi rimpiange la violenza di cui ha voluto negarsi l'uso. E
soprattutto la partita non è uguale; perché il democratico mettesse un po’ di
calore per patrocinare la causa dell'ebreo, occorrerebbe che fosse manicheo
anche lui e parteggiasse per il Principio del Bene. Ma come sarebbe
possibile? Il democratico non è pazzo. Si fa avvocato dell'ebreo perché vede
in lui un membro dell'umanità; ma l'umanità ha anche altri membri, che
bisogna difendere nello stesso modo. Il democratico ha molto da fare: si
occupa dell'ebreo quando ne ha il tempo; l'antisemita non ha che un solo
nemico, può pensarvi continuamente; è lui che dà il tono. Attaccato
vigorosamente, debolmente difeso, l'ebreo non può non sentirsi in pericolo,
in una società in cui l'antisemitismo è la tentazione perpetua. Ecco ciò che
bisogna esaminare più da vicino. Gli ebrei francesi sono in maggioranza dei
piccoli o dei grossi borghesi. Esercitano per lo più mestieri che io chiamerei
d'opinione, nel senso che il successo dipende non dall'abilità di lavorare la
materia, ma dall'opinione che gli altri uomini hanno di voi. Siate avvocato o
cappellaio, la clientela verrà se voi piacete. Ne consegue che i mestieri di
cui parliamo sono pieni di cerimonie: bisogna sedurre, trattenere,
accattivarsi la fiducia; la correttezza nel modo di vestire, la severità
apparente del comportamento, l'onorabilità fanno parte di quelle cerimonie,
di quelle mille piccole danze che bisogna fare per attrarre il cliente. Perciò
la cosa più importante è la reputazione: ci si fa una reputazione, si vive di
essa, vale a dire che in fondo si è in completa balia degli altri, mentre il
contadino ha a che fare con la sua terra, l'operaio con la materia e i suoi
utensili.
Ora, l'ebreo si trova in una situazione paradossale; gli è lecito guadagnare,
come gli altri e con gli stessi procedimenti, una reputazione d'onestà. Ma
questa s'aggiunge a una prima reputazione precostituita e di cui non può
sbarazzarsi qualunque cosa faccia: quella d'essere ebreo. Un operaio ebreo
dimenticherà nella sua miniera, sul suo vagoncino, nella sua fonderia, di
essere ebreo. Un commerciante ebreo non può dimenticarlo. Per quanto
moltiplichi gli atti di disinteresse e di onestà, lo si chiamerà forse un buon
ebreo. Ma ebreo è e resterà.
Almeno, quando lo si qualifica onesto o disonesto, egli sa di che cosa si
tratta. Serba memoria degli atti che hanno valso queste qualifiche.
Ma quando lo si chiama ebreo, la cosa è completamente diversa: non si
tratta infatti d'una condizione speciale ma di un certo modo di fare comune
a tutti i suoi atti. Gli si è ripetuto che un ebreo pensa come un ebreo, dorme,
beve, mangia come un ebreo, è onesto o disonesto alla maniera ebraica.
Orbene, questo modo di fare, per quanto si esamini, non riesce a scoprirlo
nei suoi atti. Abbiamo forse coscienza del nostro stile di vita? In realtà,
siamo troppo aderenti a noi stessi per poter assumere su di noi un punto di
vista obiettivo, da testimoni. Nondimeno, questa breve parola «ebreo» è
apparsa un bel giorno nella sua vita e non ne è più uscita. Certi ragazzi
hanno fatto a pugni fin dall'età di sei anni con dei compagni di scuola che li
chiamavano «giudei». Altri sono stati tenuti per lungo tempo nell'ignoranza
della loro razza. Una giovinetta israelita, d'una famiglia di mia conoscenza,
giunse ai quindici anni ignorando perfino il significato della parola ebreo.
Durante l'occupazione un dottore ebreo di Fontainebleau, che viveva
chiuso in casa sua, allevava i nipoti senza dir loro una parola sulla loro
origine. Ma, comunque sia, bisogna che in un modo o nell'altro apprendano
un giorno la verità: a volte dai sorrisi della gente che li attornia, altre volte
da una diceria o da insulti. Più tardiva è la scoperta, più violenta ne è la
scossa: di colpo s'accorgono che gli altri sapevano qualche cosa di loro
ch'essi stessi ignoravano, che si applicava loro un epiteto losco ed
inquietante, non usato nelle loro famiglie. Si sentono divisi, separati dalla
società dei ragazzi normali che corrono e giocano tranquillamente intorno a
loro, e non hanno un nome speciale. Rientrano in casa, guardano il padre, e
pensano: «Anche lui è un ebreo?» ed il rispetto che gli portano ne viene
avvelenato. E' inevitabile che conservino per tutta la vita il marchio di
questa prima rivelazione. Si è cento volte descritto il turbamento che nasce
in un bambino quando d'un tratto scopre che i suoi genitori hanno rapporti
sessuali: analogo è il turbamento del piccolo ebreo che guarda furtivamente
i suoi genitori e pensa: «Sono ebrei». Nella sua famiglia invece gli si dice
che bisogna esser fiero d'essere ebreo. Non sa più a chi credere, oscilla tra
l'umiliazione, l'angoscia e l'orgoglio. Sente che è a parte, ma non comprende
ciò che lo mette da parte, non è sicuro che d'una cosa sola: che agli occhi
degli altri, qualunque cosa faccia, egli è e rimarrà ebreo. Ci si è indignati, e
a ragione, dell'immonda «stella gialla» che il governo tedesco imponeva
agli ebrei. Ciò che sembrava insopportabile era il fatto che si segnalasse
l'ebreo all'attenzione, che lo si obbligasse a sentirsi perpetuamente ebreo
sotto gli occhi degli altri. Si era arrivati al punto che si cercava in tutti i
modi di testimoniare una simpatia cortese ai disgraziati così segnati. Ma
avendo certe persone ben intenzionate incominciato a togliersi il cappello
incontrando degli ebrei, questi hanno dichiarato che quei saluti erano loro
assai penosi. Sotto gli sguardi protettivi, umidi di compassione che li
accompagnavano, sentivano di diventare degli oggetti. Oggetti di
commiserazione, di pietà, fin che si vuole: ma oggetti. I virtuosi liberali
avevano l'occasione di fare un gesto generoso, una manifestazione: gli ebrei
non erano se non un'occasione; i liberali erano liberi, completamente liberi,
di fronte all'ebreo, di stringergli la mano o di sputargli in faccia, decidevano
secondo la loro morale, secondo la scelta che avevano fatto di se stessi;
l'ebreo non era libero d'essere ebreo. Cosi le anime più forti preferivano
ancora il gesto d'odio a un gesto di carità, perché l'odio è una passione ed
essa sembra meno libera, mentre la carità si fa dall'alto in basso. Tutto ciò
noi l'abbiamo compreso così bene che, alla fine, volgevamo gli occhi
quando incontravamo un ebreo che portava la stella. Non ci sentivamo a
nostro agio, messi in soggezione dal nostro proprio sguardo che, se si
posava su di lui, lo marcava come ebreo, a dispetto suo, a dispetto nostro; la
risorsa suprema della simpatia, dell'amicizia, era in questo caso il fingere
d'ignorarlo: poiché, qualunque sforzo tentassimo per raggiungere la persona,
era l'ebreo che necessariamente dovevamo incontrare. Come non accorgersi
che l'ordinanza nazista non aveva fatto altro che spingere all'estremo una
situazione di fatto alla quale ci eravamo adattati assai bene già prima? Prima
dell'armistizio l'ebreo non portava la stella, ma il suo nome, il suo volto, i
suoi gesti, mille altri elementi lo designavano come ebreo; passeggiasse per
le strade, entrasse in un caffè, in un negozio, in un salotto, si sapeva marcato
come ebreo. Se qualcuno gli si avvicinava con un'aria troppo aperta e troppo
ridente, sapeva che diventava oggetto d'una manifestazione di tolleranza,
che il suo interlocutore l'aveva scelto come pretesto per dichiarare al mondo
e dichiarare a se stesso: io sono largo d'idee, io non sono antisemita, io
conosco solo gli individui e ignoro le razze.
Pure, dentro di sé, l'ebreo si reputa uguale agli altri: parla la loro lingua ed
ha gli stessi interessi di classe, gli stessi interessi nazionali, legge i giornali
che essi leggono, vota come gli altri, comprende le loro opinioni e le
condivide. Ma gli si lascia capire che non c'è niente da fare, poiché ha una
«maniera ebraica» di parlare, di leggere, di votare. Se domanda spiegazioni,
gli si traccia un ritratto in cui non si riconosce. Cionondimeno è il suo,
senza dubbio alcuno, poiché milioni di persone sono d'accordo nel
sostenerlo. Che cosa può fare? Vedremo ben presto che la radice
dell'inquietudine ebraica sta proprio in questa necessità in cui si trova
l'ebreo di interrogare se stesso senza posa e finalmente di prender partito sul
personaggio fantasma, sconosciuto e familiare, inafferrabile e vicinissimo,
che lo ossessiona e che non è altro che lui stesso, lui stesso come è per gli
altri. Si dirà che questo è il caso di ciascuno di noi, che tutti abbiamo un
carattere familiare per il nostro prossimo e che ci sfugge.
Senza dubbio: ciò non è in fondo che l'espressione della nostra relazione
fondamentale con l'Altro. Ma l'ebreo ha come noi un carattere e per di più è
ebreo. Si tratta per lui, in un certo senso, d'un raddoppiamento della
relazione fondamentale con gli altri. Egli è superdeterminato. Ciò che rende,
ai suoi occhi, la sua posizione ancora più incomprensibile è il fatto di
godere dei pieni diritti di cittadino, per lo meno fino a quando la società in
cui vive è in equilibrio. Nei periodi di crisi e di persecuzione, è cento volte
più disgraziato, ma per lo meno può rivoltarsi e, per una dialettica analoga a
quella descritta da Hegel nel «padrone e schiavo», ritrovare la sua libertà
contro l'oppressione, negare la sua natura maledetta d'ebreo resistendo con
le armi a coloro che vogliono imporgliela. Ma quando tutto è calmo, contro
chi può rivoltarsi? Egli accetta certamente la collettività che lo circonda,
poiché vuol stare al gioco e si piega a tutte le cerimonie d'uso, ballando
come gli altri il ballo dell'onorabilità e della rispettabilità; d'altra parte, non
è schiavo di nessuno: libero cittadino in un regime che autorizza la libera
concorrenza, nessuna dignità sociale, nessuna carica di stato gli è interdetta;
verrà decorato con la Legione d'onore, sarà grande avvocato, ministro. Ma
nel momento stesso in cui raggiunge la vetta della società legale, un'altra
società amorfa, diffusa ed onnipresente gli si discopre in un baleno e gli si
rifiuta. Egli avverte in maniera del tutto speciale la vanità degli onori e della
fortuna poiché il maggior successo non gli permetterà mai l'accesso a quella
società che pretende d'essere la vera: ministro, sarà un ministro ebreo, nello
stesso tempo un'eccellenza e un intoccabile. Beninteso, non trova nessuna
speciale resistenza: ma intorno a lui si crea come una fuga, si scava un
vuoto impalpabile e soprattutto una invisibile chimica toglie valore a tutto
ciò che tocca.
In una società borghese, infatti, il mescolarsi perpetuo degli individui, le
correnti di vita collettive, le mode, le consuetudini creano i valori. I valori
della letteratura, dei mobili, delle case, dei paesaggi provengono in gran
parte da queste condensazioni spontanee che si depositano sugli oggetti
come una leggera rugiada; sono strettamente nazionali e risultano dal
funzionamento normale d'una collettività tradizionalista e storica. Essere
francese non vuol dire solo essere nato in Francia, votare, pagare le imposte;
vuol dire soprattutto aver l'uso e l'intelligenza di questi valori. E quando si
partecipa alla loro creazione, si è in un certo senso rassicurati su se stessi, si
è giustificati d'esistere per una specie d'adesione all'intera collettività; saper
apprezzare un mobile Luigi XVI, la finezza d'un motto di Chamfort, un
paesaggio dell'Ile-de-France, un quadro di Claude Lorrain è affermare e
sentire la propria appartenenza alla società francese, è rinnovare un tacito
contratto sociale con tutti i membri di essa. Di colpo la vaga contingenza del
nostro esistere svanisce e le subentra la necessità d'un'esistenza di diritto.
Ciascun francese che si commuove alla lettura di Villon, alla vista del
palazzo di Versailles, diviene funzione pubblica e soggetto di diritti
imprescrittibili.
Orbene, l'ebreo è l'uomo cui si nega, per principio, l'accesso ai valori.
Anche l'operaio è nelle stesse condizioni. Ma la situazione è diversa: egli
può respingere con disprezzo i valori e la cultura borghesi, può pensare di
sostituirvi i propri valori. L'ebreo, in via di principio, appartiene alla stessa
classe delle persone che lo negano, ha gli stessi loro gusti e il loro modo di
vita: egli tocca questi valori, ma non li vede, essi dovrebbero essere suoi e
gli vengono rifiutati. Gli si dice che è cieco. Naturalmente ciò è falso: si
crede dunque davvero che Bloch, Cremieux, Suares, Schwob, Benda
comprendano meno le grandi opere francesi di un droghiere o d'un agente di
polizia cristiani? Si crede dunque davvero che Max Jacob sapesse
maneggiare meno bene la nostra lingua d'un segretario municipale
«ariano?» E Proust, mezzo ebreo, comprendeva forse Racine soltanto a
metà? E chi comprendeva meglio Stendhal fra l'ariano Chuquet, celebre
cacografo, e l'ebreo Leon Blum? Ma poco importa che ciò sia un errore, il
fatto è che questo errore è collettivo. E l'ebreo deve decidere da se stesso se
ciò è vero o falso, meglio ancora: bisogna che ne faccia la prova. Ci si potrà
sempre intendere, poi, per ricusare la prova che fornirà. Potrà andare tanto
oltre quanto vuole nella comprensione di un'opera, di un costume, di
un'epoca, di uno stile: ciò che formerà il vero valore dell'oggetto
considerato, valore accessibile ai soli francesi della Francia reale, sarà
proprio ciò che è «al di là», ciò che non può esprimersi con parole. Invano
argomenterà sulla sua cultura, sui suoi lavori: è una cultura ebraica, sono
lavori ebraici, egli è l'ebreo proprio per il fatto che non sospetta nemmeno
ciò che deve esser compreso. Così si tenta di persuaderlo che a lui sfugge il
vero senso delle cose, si forma intorno a lui una nebbia inafferrabile che è la
vera Francia, coi suoi veri valori, il suo vero tatto, la sua vera moralità, cui
egli non partecipa in alcun modo. Può, nondimeno, acquistare tutti i beni
che vuole, terre e castelli, se ne ha i mezzi: ma nel momento stesso in cui ne
diviene proprietario legale, la proprietà cambia sottilmente significato. Solo
un francese, figlio di francesi, figlio o nipote di contadini è capace di
possedere realmente.
Per possedere una casupola in un villaggio, non basta averla comperata
con moneta sonante, bisogna conoscere tutti i vicini, i loro parenti e avi, le
colture circostanti, i faggi e le querce del bosco, saper coltivare la terra,
pescare, cacciare, aver inciso delle tacche sugli alberi nell'infanzia e
ritrovarle ampliate nell'età matura. Si può esser sicuri che l'ebreo non
adempie a queste condizioni. Magari nemmeno il francese vi adempie, ma
esistono delle grazie di fatto, esiste una maniera ebraica e una maniera
francese di confondere l'avena col frumento. Così l'ebreo rimane lo
straniero, l'intruso, l'inassimilato nel seno stesso della collettività. Tutto gli è
accessibile e nondimeno non possiede niente: poiché ciò che si possiede -
gli si dice - non si compera. Tutto ciò che tocca, tutto ciò che acquista perde
valore tra le sue mani; i beni della terra, i veri beni, sono sempre quelli che
non ha. Cionondimeno egli sa di contribuire nella stessa misura degli altri a
forgiare l'avvenire della collettività che lo respinge. Ma se l'avvenire è suo,
per lo meno gli si rifiuta il passato. E d'altra parte, bisogna riconoscerlo, se
si volge al passato, vede che la sua razza non vi ha parte alcuna: né i re di
Francia, né i loro ministri, né i grandi capitani, né i grandi signori, né gli
artisti, né gli scienziati furono ebrei; non è l'ebreo che ha fatto la rivoluzione
francese. La ragione è semplice: fino al diciannovesimo secolo gli ebrei,
come le donne, erano sotto tutela, perciò il loro contributo alla vita politica
e sociale, come quello delle donne, è di data recente. I nomi di Einstein, di
Charlie Chaplin, di Bergson, di Chagall, di Kafka bastano a dimostrare ciò
che avrebbero potuto apportare al mondo, se fossero stati emancipati prima.
Ma le cose stanno così. Questi francesi non hanno a loro disposizione la
storia di Francia. La loro memoria collettiva non fornisce che oscuri ricordi
di pogrom, di ghetti, di esodi, di grandi sofferenze monotone, venti secoli di
ripetizione, non di evoluzione. L'ebreo non è ancora storico e nondimeno è,
o quasi, il più vecchio dei popoli: è questo a dargli quell'aria perpetuamente
anziana e sempre nuova; non manca di saggezza, manca di storia. Ciò non
ha importanza, si dirà: accogliamolo fra noi senza riserve: la nostra storia
sarà la sua o per lo meno quella di suo figlio. Ma è proprio ciò che non si
vuol fare. Così l'ebreo oscilla, incerto, sradicato. E non si azzardi, d'altra
parte, a volgersi verso Israele per trovare una comunità e un passato che
compensino quelli che gli sono rifiutati.
Questa comunità ebraica che non è basata né sulla nazione, né sulla terra,
né sulla religione, almeno nella Francia contemporanea, né su interessi
materiali, ma su un'identità di situazione, potrebbe rappresentare un legame
veramente spirituale di sentimento, di cultura, di mutuo aiuto. Ma subito i
suoi nemici diranno che si tratta di un legame etnico ed egli stesso, assai
imbarazzato, userà forse, per designarla, la parola razza. Di colpo darà
ragione all'antisemita: «Vedete bene che esiste una razza ebraica, essi stessi
lo riconoscono e tendono sempre a raggrupparsi insieme». E infatti se gli
ebrei vogliono attingere da questa comunità una legittima fierezza, poiché
non possono essere orgogliosi né di un'opera collettiva specificamente
ebraica, né di una civiltà propriamente israelita, né di un misticismo
comune, bisognerà pure che finiscano con l'esaltare delle qualità razziali.
Così l'antisemita vince tutte le partite. In una parola, si esige dall'ebreo,
intruso nella società francese, che egli vi viva isolato. Se non si adatta, lo si
insulta. Ma se obbedisce, non lo si assimila ugualmente, lo si tollera. Per di
più lo si mette sospettosamente alle strette in ogni occasione perché
«fornisca la prova». In caso di guerra o di rivolta, il «vero» francese non ha
da fornire nessuna prova: compie semplicemente i suoi obblighi militari o
civili. Ma per l'ebreo, non è la stessa cosa: egli può essere certo che
qualcuno conterà con animo malevolo il numero degli ebrei sotto le armi.
Così di colpo egli si troverà corresponsabile per tutti i suoi correligionari.
Anche se ha superato l'età per potersi battere, sentirà - - voglia o non voglia
- - la necessità di arruolarsi perché ovunque si pretende che gli ebrei
s'imboscano. Voce fondata, si dirà. Ma no: in un'analisi di Stekel su un
complesso giudaico di cui parlerò in seguito, leggo questa frase: «I cristiani
erano abituati a dire è un'ebrea che parla. Gli "ebrei quando possono si
tirano sempre indietro". Perciò mio marito volle arruolarsi volontario».
Orbene, eravamo all'inizio della guerra del '14 e l'Austria non aveva avuto
guerre dopo quella del 1866, condotta con un esercito di mestiere. La
reputazione che avevano gli ebrei in Austria, e che avevano pure in Francia,
è dunque semplicemente il frutto spontaneo della diffidenza verso l'ebreo.
Nel 1938, nel momento della crisi internazionale che si sciolse a Monaco, il
governo francese chiamò alle armi soltanto alcune categorie della riserva: la
maggior parte degli uomini atti alle armi non era stata ancora mobilitata. E
tuttavia già allora si gettavano pietre contro la vetrina d'un amico mio,
commerciante ebreo di Belleville, trattandolo da imboscato. Perciò l'ebreo,
per esser lasciato in pace, dovrebbe venir mobilitato prima degli altri,
dovrebbe, in caso di carestia, esser più affamato degli altri; se una disgrazia
collettiva colpisce il paese, deve essere il più colpito. Quest'obbligo
perpetuo di fornire la prova d'essere francese ha come conseguenza per
l'ebreo una situazione di colpevolezza: se non fa in tutte le occasioni più
degli altri, molto di più degli altri, è colpevole. E' uno sporco ebreo; e si
potrebbe dire, parodiando una frase di Beaumarchais: a giudicare dalle
qualità che si esigono da un ebreo per assimilarlo a un «vero» francese,
quanti francesi sarebbero degni d'essere ebrei nel loro proprio paese? Poiché
l'ebreo dipende dall'opinione degli altri per la professione che esercita, per i
suoi diritti e per la sua vita, la sua situazione è assolutamente instabile;
legalmente inattaccabile, egli è alla mercé degli umori, delle passioni della
società «reale». Spia i progressi dell'antisemitismo, prevede le crisi, i
parossismi, come il contadino spia e prevede i temporali: calcola senza
tregua le ripercussioni che gli avvenimenti esterni avranno sulla sua
posizione. Anche se accumula garanzie legali, ricchezze, onori, ciò lo fa
solo più vulnerabile; ed egli lo sa. Perciò gli sembra che i suoi sforzi siano
sempre coronati dal successo (poiché conosce i grandiosi successi della sua
razza) e che, contemporaneamente, una maledizione li renda vani; non
raggiunge mai la sicurezza del più umile cristiano. Questo è forse uno dei
significati del Processo dell'israelita Kafka: come l'eroe del romanzo, l'ebreo
è alle prese con un lungo processo, non conosce i suoi giudici, un po’
meglio i suoi avvocati, non sa ciò che gli si rimprovera, e nondimeno sa che
lo si considera colpevole; il giudizio viene costantemente rimandato di
settimana in settimana, di quindicina in quindicina, ed egli ne approfitta per
garantirsi in mille modi; ma ognuna di queste precauzioni prese alla cieca lo
sprofonda sempre un poco di più nella sua colpevolezza: la sua posizione
esteriore può sembrare brillante, ma l'interminabile processo lo rode
invisibilmente e accade alle volte, come nel romanzo, che degli uomini lo
afferrino, lo trascinino via, con la pretesa ch'egli ha perso il suo processo, e
lo massacrino in uno spiazzo deserto della periferia. Gli antisemiti hanno
ragione di dire che l'ebreo mangia, beve, legge, dorme e muore come un
ebreo. Come potrebbe fare diversamente? Hanno sottilmente avvelenato il
suo nutrimento, il suo sonno e perfino la sua morte; come potrebbe essere
diversamente, se ogni minuto è costretto a prendere posizione di fronte a
questo avvelenamento? E non appena mette il piede fuori, in un luogo
pubblico, non appena sente su di sé lo sguardo di coloro che un giornale
ebraico chiama «Loro», con un misto di timore, di disprezzo, di rimprovero,
d'amore fraterno, bisogna che si decida: accetta o non accetta la parte che gli
si fa rappresentare? E se accetta, in che misura? E se rifiuta, rifiuta anche
ogni parentela con gli altri israeliti? o solamente una parentela etnica?
Qualunque cosa faccia, è lanciato su questa strada. Può scegliere d'essere
coraggioso o vile, triste o gaio, può scegliere di ammazzare i cristiani
oppure di amarli.
Ma non può scegliere di non essere ebreo. O piuttosto, se sceglie questo,
se dichiara che l'ebreo non esiste, se nega violentemente, disperatamente in
sé il carattere ebraico, è precisamente in ciò che egli è ebreo. Poiché io, che
non sono ebreo, non ho niente da negare, né da provare, mentre invece se
l'ebreo ha deciso che la sua razza non esiste, deve egli stesso darne la prova.
Essere ebreo vuol dire venir gettato, abbandonato nella situazione ebraica, e
vuol dire, allo stesso tempo, essere responsabile nella e con la propria
persona del destino e della natura stessa del popolo ebraico. Qualunque cosa
dica o faccia l'ebreo, abbia una coscienza oscura o chiara delle sue
responsabilità, per lui è come se dovesse confrontare tutte le sue azioni con
un imperativo di tipo kantiano, come se dovesse domandarsi, in ogni caso:
«Se tutti gli ebrei agissero come me, che cosa avverrebbe della realtà
ebraica?». E alle domande che si pone («che cosa succederebbe se tutti gli
ebrei fossero sionisti o, al contrario, se si convertissero tutti al cristianesimo,
se tutti gli ebrei negassero di essere ebrei, ecc.») deve rispondersi da se
stesso e senza alcun aiuto, scegliendosi da solo. Se si è d'accordo con noi
che l'uomo è una «libertà in situazione», si concepirà facilmente che questa
libertà possa definirsi come autentica o non autentica, a seconda della scelta
che fa di se stessa nella situazione da cui sorge. L'autenticità, va da sé,
consiste nel prendere una coscienza lucida e veridica della situazione,
nell'assumere le responsabilità e i rischi che tale situazione comporta, nel
rivendicarla nella fierezza o nell'umiliazione, a volte nell'orrore e nell'odio.
Non c'è dubbio che l'autenticità richiede molto coraggio, e più che coraggio.
E non ci si meraviglierà che la non autenticità sia la più diffusa. I borghesi, i
cristiani, per la maggior parte non sono autentici, nel senso che rifiutano di
vivere fino in fondo la loro condizione borghese e cristiana, mascherandone
sempre qualche lato. E quando i comunisti mettono nel loro programma la
«radicalizzazione delle masse», quando Marx spiega che la classe proletaria
deve prender coscienza di se stessa, che cosa vuol dire ciò se non che
l'operaio, anche lui, è, in partenza, non autentico? L'ebreo non sfugge a
questa regola: l'autenticità, per lui, consiste nel vivere sino in fondo la sua
condizione d'ebreo, la non autenticità nel negarla o nel tentare di eluderla. E
la non autenticità è senza dubbio più allettante per lui che per gli altri
uomini, perché la posizione ch'egli deve rivendicare e in cui deve vivere è
semplicemente quella del martire. Gli uomini meno favoriti possono
scoprire nella loro situazione un legame di solidarietà concreta con altri
uomini: la condizione economica del salariato, vissuta in una prospettiva
rivoluzionaria, o quella di membro d'una chiesa, per quanto perseguitata,
comportano in sé una unità profonda di interessi materiali e spirituali. Ma
noi abbiamo dimostrato che gli ebrei non hanno tra loro né comunità
d'interessi, né comunità di credenze. Non hanno la stessa patria, non hanno
alcuna storia. L'unico legame che li unisce è il disprezzo ostile in cui li
tengono le società che li attorniano. Perciò l'ebreo autentico è colui che
rivendica se stesso nel e dal disprezzo che gli si porta; la situazione che
vuole pienamente comprendere e in cui vuol vivere è, in tempo di pace
sociale, quasi inafferrabile: è un'atmosfera, un senso sottile dei volti e delle
parole, una minaccia dissimulata nelle cose, un legame astratto che lo
unisce ad altri uomini, del resto assai diversi da lui. Ai suoi propri occhi,
tutto cospira invece a presentarlo come un qualsiasi francese: la prosperità
dei suoi affari dipende strettamente da quella del paese, la sorte dei suoi
figli è legata alla pace, alla grandezza della Francia, la lingua che parla e la
cultura che gli è stata data gli permettono di sorreggere i suoi calcoli e
ragionamenti su principi comuni a tutta una nazione. Non gli resterebbe
dunque che lasciarsi vivere per dimenticare la sua condizione d'ebreo, se,
come già abbiamo visto, non incontrasse dappertutto quel veleno quasi
impercettibile: la coscienza ostile degli altri. Ciò che può destar meraviglia
non è che esistano ebrei non autentici, ma che proporzionalmente ce ne
siano meno dei cristiani non autentici. Eppure, è proprio ispirandosi a certi
comportamenti degli ebrei non autentici che l'antisemita ha costruito la sua
mitologia dell'ebreo in generale. Ciò che li caratterizza infatti è che vivono
la loro situazione sfuggendola, hanno scelto di negarla, o di negare la loro
responsabilità o di negare il loro isolamento che giudicavano intollerabile.
Ciò non significa necessariamente che vogliano distruggere il concetto di
ebreo o che neghino esplicitamente l'esistenza di una realtà ebraica. Ma i
loro gesti, i loro sentimenti e i loro atti tendono sordamente a distruggere
quella realtà. In una parola, gli ebrei non autentici sono uomini che gli altri
uomini considerano ebrei e che hanno scelto di fuggire da questa situazione
insopportabile. Ne risultano comportamenti diversi, non tutti presenti nello
stesso tempo nella medesima persona, e ciascuno dei quali può
caratterizzarsi come una via d'uscita. L'antisemita ha raccolto e unito tutte
queste diverse vie d'uscita, talvolta incompatibili, ed ha così tracciato un
quadro mostruoso che pretende sia quello dell'ebreo in generale; nello
stesso tempo ha presentato quei liberi sforzi di evadere da una situazione
insostenibile come caratteri ereditari, incisi nel corpo stesso dell'israelita e
per conseguenza non modificabili. Se desideriamo vederci chiaro, bisogna
smembrare questo ritratto, rendere la loro autonomia alle «vie d'uscita»,
presentarle come iniziative invece di considerarle come qualità innate.
Bisogna comprendere che la nomenclatura di queste vie si applica
unicamente all'ebreo non autentico (il termine non autentico, beninteso, non
implica nessun biasimo morale) e che bisogna completarla con una
descrizione dell'autenticità ebraica. Occorre insomma convincersi che è la
situazione dell'ebreo a doverci servire, in ogni circostanza, da filo
conduttore. Se si è fatto proprio questo metodo e lo si applica
rigorosamente, forse si potranno sostituire al gran mito manicheo d'Israele
alcune verità più frammentarie ma più precise. Qual è la prima affermazione
della mitologia antisemita? Quella, ci si dice, che l'ebreo è un essere
complicato che passa il suo tempo ad analizzarsi e a sottilizzare.
Perciò lo si indica come «uno che spacca il capello in quattro», senza
nemmeno chiedersi se questa tendenza all'analisi e all'introspezione sia
compatibile con la durezza negli affari e il cieco arrivismo che d'altra parte
gli vengono attribuiti. Per parte nostra, riconosceremo che la scelta della
fuga produce in certi ebrei, per lo più intellettuali, un atteggiamento
abbastanza spesso riflessivo. Ma bisogna intendersi.
Questa riflessività non è un carattere ereditario: è una via d'uscita; e siamo
noi a costringere l'ebreo a fuggire. Stekel, seguito da molti altri psicanalisti,
parla a questo proposito di «complesso giudaico». E sono molti gli ebrei che
menzionano il loro complesso d'inferiorità. Non vedo nessun inconveniente
nell'utilizzare questa espressione, se resta ben fermo che tale complesso non
è stato ricevuto dall'esterno ma che l'ebreo si mette in condizione di averlo
quando sceglie di vivere la sua situazione in modo non autentico. Si è
lasciato persuadere dagli antisemiti, insomma, è la prima vittima della loro
propaganda. Ammette con loro che, se esiste l'ebreo, deve avere quei
caratteri che la malvagità popolare gli attribuisce e il suo sforzo consiste nel
farsi martire, nel vero senso della parola, cioè nel provare con la sua
persona che l'ebreo non esiste. L'angoscia assume in lui sovente una forma
speciale: diviene paura di agire o di sentire ebraicamente.
Esistono degli psicoastenici che sono ossessionati dalla paura di uccidere,
di gettarsi dalla finestra, o di proferire parole sconvenienti. In una certa
misura, benché la loro angoscia raggiunga di rado un livello patologico,
certi ebrei sono loro comparabili: si sono lasciati avvelenare da una
determinata rappresentazione che gli altri hanno di loro e vivono nel timore
che i loro atti vi si conformino.
Perciò potremmo dire, riprendendo un termine di cui ci siamo serviti poco
fa, che la loro condotta è perpetuamente sovradeterminata dall'interno. I loro
atti non hanno solamente i motivi che si possono attribuire a quelli dei non
ebrei - interessi, passione, altruismo, ecc. - ma in più tendono a distinguersi
radicalmente dagli atti catalogati come «ebraici». Quanti ebrei sono
deliberatamente generosi, disinteressati e anzi munifici perché di solito si
considera l'ebreo come un uomo attaccato al denaro? Intendiamoci bene, ciò
non significa affatto ch'essi debbano lottare contro una «tendenza»
all'avarizia. Non c'è nessuna ragione, a priori, perché l'ebreo sia più avaro
del cristiano. Vuol dire piuttosto che i loro gesti di generosità sono
avvelenati dalla decisione d'essere generosi. La spontaneità e la scelta
deliberata sono in questo caso inestricabilmente mescolate. Lo scopo
perseguito è ad un tempo di ottenere un certo risultato nel mondo esterno e
di provare a se stessi, di provare agli altri, che non c'è una natura ebraica.
Molti ebrei non autentici giocano insomma a non essere ebrei. Parecchi di
loro mi hanno riferito la loro curiosa reazione dopo l'armistizio: si sa che la
parte avuta dagli ebrei nella Resistenza è stata ammirevole; sono loro che,
prima che i comunisti entrassero in azione, ne hanno fornito i quadri
principali; hanno dato prova, per quattro anni, d'un coraggio e d'uno spirito
di decisione davanti ai quali bisogna inchinarsi. Nondimeno alcuni hanno
assai esitato prima di «resistere», sembrando loro la Resistenza talmente
conforme agli interessi degli ebrei, che avevano ripugnanza ad
impegnarvisi; avrebbero voluto esser sicuri di resistere non come ebrei ma
come francesi. Questo scrupolo dimostra abbastanza bene la qualità
particolare delle loro deliberazioni: il fattore ebraico vi interviene sempre ed
è loro impossibile decidere tranquillamente, dopo un puro e semplice esame
dei fatti. In una parola, si sono messi naturalmente sul terreno della
riflessività. L'ebreo, come il timido, come lo scrupoloso, non si accontenta
di agire o di pensare: si vede in azione, si vede pensare. E' opportuno
pertanto notare che la riflessività ebraica, non avendo come origine la
curiosità disinteressata o il desiderio d'una conversione morale, è per se
stessa pratica. Non è l'uomo, ma l'ebreo che gli ebrei cercano di riconoscere
in se stessi per mezzo dell'introspezione; e vogliono conoscerlo per negarlo.
Non si tratta, per loro, di riconoscere certi difetti e di combatterli, ma di
sottolineare con la loro condotta che non hanno questi difetti. Così si spiega
la qualità particolare dell'ironia ebraica, che tanto spesso viene praticata a
spese dell'ebreo stesso ed è un tentativo perpetuo di vedersi dall'esterno.
L'ebreo, sapendosi guardato, prende l'iniziativa e cerca di guardarsi con gli
occhi degli altri. Questa obiettività nei suoi stessi riguardi è anche un'astuzia
della non autenticità: mentre si contempla col «distacco» d'un altro, si sente
effettivamente staccato da se stesso, è un altro, un puro testimone.
Cionondimeno, egli lo sa molto bene, questo distacco da se stesso sarà
effettivo solo se verrà convalidato dagli altri. E' per questo che lo troviamo
frequentemente dotato della capacità di assimilare. Assorbe tutte le
conoscenze con una avidità che non va confusa con la curiosità
disinteressata. Il fatto è che pensa di diventare «un uomo», nient'altro che un
uomo, un uomo come gli altri, ingerendo tutti i pensieri dell'uomo ed
acquistando un punto di vista umano sull'universo. Si dà una cultura per
distruggere in se stesso l'ebreo; vorrebbe che gli si applicassero,
modificandole un po’, le parole di Terenzio: «Nil humani mihi alienum
puto, ergo homo sum». E, nello stesso tempo, tenta di perdersi tra la folla
dei cristiani: abbiamo già visto che i cristiani hanno avuto l'abilità e
l'audacia di pretendere, di fronte agli ebrei, che essi non erano un'altra razza,
ma puramente e semplicemente l'uomo. Se l'ebreo è affascinato dai cristiani
non lo è per le loro virtù, che apprezza poco, ma perché essi rappresentano
l'anonimato, l'umanità senza razza. Se cerca di infiltrarsi nei circoli più
chiusi non lo fa per quella sfrenata ambizione che spesso gli si rimprovera;
o meglio, questa ambizione ha un solo significato: l'ebreo cerca di farsi
riconoscere come uomo dagli altri uomini. Se vuole insinuarsi dappertutto,
lo fa perché non sarà tranquillo finché ci sarà un ambiente che gli resiste e
che resistendogli lo rende ebreo ai propri occhi. Il principio di questa corsa
all'assimilazione è eccellente: l'ebreo rivendica i suoi diritti di francese.
Disgraziatamente, però, la realizzazione della sua impresa è inficiata alla
base: vorrebbe essere accolto come «un uomo» e, anche nei circoli in cui ha
potuto penetrare, lo si riceve come ebreo: è l'ebreo ricco o potente che
«bisogna» frequentare o il «buon» ebreo, l'ebreo di eccezione che si
frequenta per amicizia malgrado la sua razza. Egli non l'ignora, ma se
confessasse a se stesso che è accolto come ebreo, la sua iniziativa
perderebbe ogni senso e si scoraggerebbe.
Perciò è in malafede: maschera la verità che nondimeno porta in fondo a
se stesso: conquista in quanto ebreo una posizione, la conserva con i mezzi
di cui dispone, cioè con i suoi mezzi di ebreo, ma considera ogni nuova
conquista come il simbolo di un grado più alto di assimilazione.
E' chiaro che l'antisemitismo, reazione quasi immediata degli ambienti in
cui è penetrato, non gli permette di ignorare per lungo tempo ciò che
vorrebbe così volentieri disconoscere. Ma le violenze dell'antisemita hanno
come risultato paradossale di spingere l'israelita alla conquista di altri
ambienti e di altri gruppi. Il fatto è che in realtà la sua ambizione è
fondamentalmente una ricerca di sicurezza, nello stesso modo che il suo
snobismo - quando è snob - è uno sforzo per assimilare i valori nazionali
(quadri, libri, ecc.). Perciò egli può attraversare rapidamente e
brillantemente tutti gli strati sociali, ma resta come un nocciolo duro negli
ambienti che lo accolgono. La sua assimilazione è altrettanto brillante
quanto effimera. Gliela si rimprovera a ogni passo: secondo l'osservazione
di Siegfried, gli americani credono che il loro antisemitismo abbia per
origine il fatto che gli immigranti ebrei, in apparenza assimilati per primi,
ridivengono ebrei alla seconda o alla terza generazione. Beninteso, si
interpreta il fatto come se l'ebreo non desiderasse sinceramente di
assimilarsi e come se dietro a una flessibilità fattizia si dissimulasse un
attaccamento deliberato e cosciente alle tradizioni della sua razza. Ma è
esattamente il contrario: è proprio perché non lo si accoglie mai come un
uomo ma sempre e dovunque come 'ebreo, che l'ebreo è inassimilabile. Da
questa situazione risulta un nuovo paradosso: l'ebreo non autentico vuole
confondersi nel mondo cristiano e contemporaneamente rimane inchiodato
agli ambienti ebraici. Ovunque l'ebreo si è introdotto per fuggire la realtà
ebraica, sente che lo si è accolto come ebreo e lo si pensa in tutti i momenti
come tale. La sua vita in mezzo ai cristiani non è un riposo, non gli procura
l'anonimato cui aspira; è al contrario una perpetua tensione; in questa fuga
verso l'uomo, egli porta sempre con 86 sé l'immagine che lo ossessiona.
Ecco quel che stabilisce fra tutti gli ebrei una solidarietà che non è
solidarietà di azione o di interesse, ma di situazione. Ciò che li unisce, più
ancora che una sofferenza di duemila anni, è l'ostilità presente dei cristiani.
Potranno bensì sostenere che solo il caso li ha raggruppati negli stessi
quartieri, nelle stesse case, nelle stesse imprese: in realtà esiste tra di loro un
legame complesso e forte, che vale la pena di descrivere. L'ebreo infatti è
per l'ebreo il solo uomo con cui può dire noi; e ciò che hanno tutti in
comune (per lo meno tutti gli ebrei non autentici) è appunto la tentazione di
riconoscere che essi «non sono uomini come gli altri», la vertigine di fronte
all'opinione degli altri e la decisione cieca e disperata di fuggire questa
tentazione. Orbene, quando si trovano tra di loro, nell'intimità dei loro
appartamenti, eliminando il testimone non ebreo, eliminano di colpo la
realtà ebraica. Senza dubbio, agli occhi dei rari cristiani che sono penetrati
in questi interni, essi hanno l'aria più ebraica che mai, ma ciò dipende dal
fatto che allora si rilassano; e questo rilassarsi non significa che si
abbandonano con gioia, come li si accusa, alla loro «natura» ebraica, ma al
contrario che la dimenticano. Quando gli ebrei stanno tra di loro, infatti,
ciascuno non è per gli altri, e di conseguenza per se stesso, niente di più che
un uomo. E lo proverebbe, se mai fosse necessario, il fatto che assai spesso i
membri di una stessa famiglia non percepiscono i caratteri etnici dei loro
parenti (per caratteri etnici intendo qui i dati biologici ereditari che abbiamo
accettato come incontestabili).
Conoscevo una signora ebrea il cui figlio, verso il 1934, era costretto a
fare viaggi d'affari nella Germania nazista. Questo figlio presentava i
caratteri tipici dell'israelita francese: naso adunco, orecchie a sventola, ecc.;
ma a chi manifestava inquietudine per la sua sorte, durante una delle sue
assenze, sua madre rispondeva: «Sono tranquillissima, non ha per nulla
l'aria ebraica». Ma una dialettica propria della non autenticità ebraica fa sì
che questo ricorso all'interiorità, questo sforzo per costituire una immanenza
ebraica in cui ciascun ebreo invece di essere il testimone degli altri si
sprofonda in una soggettività collettiva e per eliminare il cristiano come
pupilla giudicante, tutte queste astuzie di fuga sono annientate dalla
presenza universale e costante del non ebreo. Anche nelle loro riunioni più
intime gli ebrei potrebbero dire di lui ciò che Saint-John Perse dice del sole:
«Non è nominato, ma la sua presenza è in mezzo a noi». Essi non ignorano
che la loro stessa propensione a frequentarsi li definisce come ebrei agli
occhi del cristiano. E quando riappaiono apertamente in pubblico, la loro
solidarietà coi correligionari li segna con un marchio di fuoco. L'ebreo che
incontra un altro ebreo nel salotto di un cristiano è un po’ come un francese
che incontra un compatriota all'estero. Di più, il francese ha piacere di
affermarsi come francese agli occhi del mondo; l'ebreo invece, se fosse il
solo israelita in una compagnia non ebrea, si sforzerebbe di non sentirsi
ebreo. Ma dato che c'è un altro ebreo con lui, si sente in pericolo in quel
punto, nell'altro. Ed egli, che poco fa non si accorgeva nemmeno dei
caratteri etnici di suo figlio o di suo nipote, ecco che spia il correligionario
con gli occhi di un antisemita, ecco che osserva in lui con un misto di
timore e di fatalismo i segni oggettivi della loro comune origine. Ha tanta
paura delle scoperte che i cristiani stanno per fare, che si affretta a
prevenirli: antisemita per impazienza e per conto degli altri. E ogni carattere
ebraico che crede di scoprire è per lui come un colpo di pugnale, poiché gli
sembra di trovarlo in se stesso ma fuori della sua portata, oggettivo,
incurabile, come un dato di fatto. Poco importa infatti chi manifesti la razza
ebraica: dal momento che è manifesta, tutti gli sforzi dell'ebreo per negarla
divengono vani. Si sa che i nemici di Israele affermano volentieri, in
appoggio alla propria opinione, che «non c'è peggior antisemita dell'ebreo».
In realtà l'antisemitismo dell'ebreo è preso a prestito, è l'ossessione dolorosa
di ritrovare nei suoi parenti, nei suoi vicini, i difetti di cui vuole liberarsi
con tutte le sue forze. Stekel, nell'analisi da noi già citata, ricorda i fatti
seguenti: «Dal punto di vista dell'educazione ed a casa tutto deve marciare
secondo le direttive (del marito ebreo).
Ancora peggio è in società: la tormenta (la donna che si fa psicanalizzare)
con i suoi sguardi e la critica, cosicché essa si confonde. Da nubile era
orgogliosa e tutti vantavano i suoi modi distinti e sicuri. Ora ha sempre il
timore d'aver fatto male; teme la critica di suo marito, che essa legge nei
suoi occhi... Al minimo sbaglio egli le rimprovera che il suo modo di fare è
ebraico». Pare di assistere a questo dramma a due personaggi: il marito
critico, quasi pedante, sempre sul piano della riflessività, che rimprovera
alla moglie di essere ebrea, perché muore dalla paura di sembrarlo; la
moglie, schiacciata da quello sguardo spietato e ostile, che si sente
invischiata suo malgrado nell'«ebreume», ed ha il presentimento, pur senza
capire, che ogni gesto, ogni frase stonerà un po’ e rivelerà agli occhi di tutti
la sua origine. Per l'uno come per l'altra, questo è un inferno. Ma
nell'antisemitismo dell'ebreo occorre anche vedere uno sforzo per non
essere solidale con i difetti riconosciuti alla sua «razza», facendosene ad un
tempo testimone oggettivo e giudice. Allo stesso modo, a molti succede di
giudicare se stessi con una severità lucida e spietata perché questa severità
opera uno sdoppiamento e sentendosi giudici sfuggono alla condizione di
colpevoli. Comunque, la manifesta presenza, nell'altro, di questa «realtà
ebraica» che egli rifiuta in sé contribuisce a creare nell'ebreo non autentico
un sentimento mistico e prelogico dei suoi legami con gli altri ebrei.
Questo sentimento è insomma il riconoscimento di una partecipazione: gli
ebrei «partecipano» gli uni degli altri, la vita di ciascuno è ossessionata
dalla vita degli altri. E questa comunione mistica è tanto più forte in quanto
l'ebreo non autentico cerca maggiormente di negarsi come ebreo. Do come
prova soltanto un esempio: si sa che le prostitute all'estero sono spesso
francesi. L'incontro con una francese in una casa equivoca in Germania o in
Argentina non è mai stato piacevole per un francese. Tuttavia il senso della
partecipazione alla realtà nazionale è in lui di tutt'altro tipo: la Francia è una
nazione, il patriota può dunque considerarsi come appartenente ad una
realtà collettiva le cui forme si esprimono con le attività economiche,
culturali, militari; se certi aspetti secondari sono spiacevoli, gli è permesso
di trascurarli.
Non è questa la reazione dell'ebreo che incontra un'ebrea nelle stesse
condizioni: nell'umiliata situazione della prostituta vedrà, a dispetto di se
stesso, come un simbolo della umiliata situazione di Israele.
Ricordo parecchi aneddoti a questo proposito. Non ne citerò che uno,
perché l'ho saputo direttamente da colui al quale è successo: un ebreo entra
in una casa di tolleranza, sceglie una prostituta e va con lei; essa gli rivela
che è ebrea. E' immediatamente colpito da impotenza e ben presto da una
intollerabile umiliazione che si traduce in violenti conati di vomito. Non è il
commercio sessuale con un'ebrea che gli ripugna, perché al contrario gli
ebrei si sposano tra di loro: è piuttosto il fatto di contribuire personalmente
alla umiliazione della razza ebraica nella persona della prostituta e, di
conseguenza, nella sua stessa persona. E' lui, in fondo, che si è prostituito,
umiliato, è lui e tutto il popolo ebraico. Perciò, qualunque cosa faccia,
l'ebreo non autentico è pervaso dalla coscienza di essere ebreo. Nel
momento stesso in cui si sforza con tutta la sua condotta di smentire i
caratteri che gli si attribuiscono, crede di ritrovarli negli altri ed in questo
modo se ne trova indirettamente in possesso. Cerca e fugge i suoi
correligionari; afferma di non essere che un uomo fra gli altri, come tutti gli
altri; non di meno si sente compromesso dall'atteggiamento del primo che
passa per la strada, se questi è un ebreo. E' antisemita per rompere tutti i
legami con la comunità ebraica e tuttavia la ritrova nel più profondo del
cuore, poiché risente nella sua propria carne le umiliazioni che gli antisemiti
fanno subire agli altri ebrei. Ed è propriamente un'carattere degli ebrei non
autentici questa perpetua oscillazione tra l'orgoglio e il senso di inferiorità,
tra la negazione volontaria e passionale dei caratteri della loro razza e la
partecipazione mistica e carnale alla realtà ebraica. Questa situazione
dolorosa e inestricabile può condurre una piccola parte di loro al
masochismo. Il masochismo si presenta come una soluzione effimera, come
una sorta di tregua, di riposo. Ciò che ossessiona l'ebreo è il fatto che egli è
responsabile di se stesso, come tutti gli uomini, che fa liberamente gli atti
che giudica bene fare e che, non di meno, una collettività ostile giudica,
ogni volta, che questi atti sono macchiati dal carattere ebraico. Perciò gli
sembra di creare in se stesso l'ebreo nel momento in cui si sforza di sfuggire
la realtà ebraica; gli sembra di essere impegnato in una lotta in cui sempre è
vinto ed in cui si rende nemico di se stesso; nella misura in cui ha coscienza
di essere responsabile di se stesso, gli sembra di avere la schiacciante
responsabilità di rendersi ebreo di fronte agli altri ebrei e di fronte ai
cristiani. Per mezzo suo, a dispetto di se stesso, la realtà ebraica esiste nel
mondo. Orbene il masochismo è il desiderio di farsi trattare come un
oggetto. Umiliato, disprezzato, o semplicemente negletto, il masochista ha
la gioia di vedersi disprezzato, manovrato, utilizzato come una cosa. Tenta
di realizzarsi come cosa inanimata e contemporaneamente abdica alle sue
responsabilità. Ciò che attira alcuni ebrei, stanchi di lottare contro questo
impalpabile ebreume sempre rinnegato, vessato e sempre rinascente, è
l'abdicazione completa. In realtà rivendicarsi come ebrei significa
raggiungere l'autenticità; ma essi non hanno afferrato il concetto che
l'autenticità si manifesta nella rivolta; desiderano soltanto che gli sguardi, le
violenze, il disprezzo altrui li costituiscano ebrei nella maniera stessa in cui
una pietra è pietra, attribuendo loro delle qualità e un destino; così saranno
alleviati un momento da questa libertà stregata che è la loro, che non
permette di sfuggire dalla loro condizione e sembra star lì soltanto per
renderli responsabili di ciò che respingono con tutte le forze. Bisogna però
sottolineare che questo masochismo ha anche altre cause. In un mirabile e
crudele passo dell''Antigone Sofocle scrive: «Tu hai troppa fierezza per uno
che si trova in disgrazia». Si potrebbe dire che uno dei caratteri essenziali
dell'ebreo- è che, al contrario di Antigone, una secolare familiarità con la
disgrazia lo rende modesto nella catastrofe. Non ne dedurremo, come si fa
spesso, che è arrogante quando ha successo e umile quando fallisce. La cosa
è diversa: egli ha assimilato il curioso consiglio che la saggezza greca dava
alla figlia di Edipo, ha compreso che la modestia, il silenzio, la pazienza
convenivano alla sfortuna, perché questa è già peccato agli occhi degli
uomini. E tale saggezza può certo trasformarsi in masochismo, in gusto di
soffrire. Ma la cosa essenziale resta questa tentazione di dimettersi da se
stesso ed essere finalmente segnato per sempre da una natura e da un
destino ebraici che lo liberino da ogni responsabilità e da ogni lotta. Perciò
l'antisemitismo dell'ebreo non autentico e il suo masochismo rappresentano,
in un certo senso, i due estremi del suo tentativo: col primo atteggiamento
giunge sino a rinnegare la sua razza per essere soltanto, a titolo strettamente
individuale, un uomo senza tare in mezzo ad altri uomini; col secondo
rinnega la sua libertà di uomo per sfuggire al peccato di essere ebreo e
tentare di raggiungere il riposo e la passività della cosa. Ma l'antisemita
aggiunge una nuova pennellata al ritratto: l'ebreo, ci dice, è un intellettuale
astratto, un puro ragionatore; ed è chiaro che nella sua bocca i termini
astratto, razionalista e intellettuale assumono un senso peggiorativo. Non
potrebbe essere altrimenti, dato che l'antisemita si definisce tramite il
possesso concreto e irrazionale dei beni della nazione. Ma se ricordiamo che
il razionalismo fu uno dei principali strumenti della liberazione degli
uomini, ci rifiuteremo di considerarlo come un puro gioco di astrazione e
insisteremo invece sulla sua potenza creatrice.
Due secoli - e non dei minori - hanno posto in esso tutta la loro speranza,
da esso sono nate le scienze e le loro applicazioni pratiche.
Fu un ideale e una passione, tentò di riconciliare gli uomini scoprendo
loro delle verità universali sulle quali potessero tutti essere d'accordo e, nel
suo ingenuo e simpatico ottimismo, confuse deliberatamente il Male con
l'errore. Non si comprenderà niente del razionalismo ebraico se si vuol
vedere in esso non so che gusto astratto per la discussione invece di
prenderlo per ciò che è: un giovane, vivace amore per gli uomini. Tuttavia,
esso è nello stesso tempo una via d'uscita - direi anzi la via maestra della
fuga. Fin qui abbiamo visto israeliti che si sforzavano di negare nella
persona e nella carne la loro situazione di ebrei. Ce ne sono altri che
scelgono una concezione del mondo in cui l'idea stessa di razza non
potrebbe trovare posto; certo, si tratta sempre di mascherare la propria
situazione di ebreo: ma se riuscissero a persuadersi e a persuadere gli altri
che l'idea di ebreo è contraddittoria, se riuscissero a costituire la loro visione
del mondo in maniera tale da diventare ciechi alla realtà ebraica, come il
daltonico è cieco per il rosso o per il verde, non potrebbero dichiarare in
buona fede che essi «sono uomini in mezzo agli uomini?» Il razionalismo
degli ebrei è una passione: la passione dell'Universale. Ed essi l'hanno
scelta, in luogo di un'altra, per combattere le concezioni particolaristiche
che fanno di loro degli esseri a parte. La Ragione è la cosa del mondo
meglio ripartita, è di tutti e di nessuno; è la stessa in tutti. Se la Ragione
esiste, non c'è una verità francese e una verità tedesca; non c'è una verità
negra o ebraica; non c'è che una Verità ed è il migliore che la scopre. Di
fronte alle leggi universali ed eterne l'uomo è egli stesso universale. Non
esistono più ebrei né polacchi, ma esistono uomini che vivono in Polonia,
altri che sono designati come «di religione ebraica» sulle carte di famiglia, e
tra di loro un accordo è sempre possibile, dato che si basa sull'universale.
Ricordiamoci il ritratto del filosofo che Platone traccia nel Fedone: come il
risveglio alla ragione sia per lui la morte per il corpo, per le particolarità del
carattere; come il filosofo disincarnato, puro amante della verità astratta e
universale, perda tutti i suoi tratti individuali per divenire uno sguardo
universale. Questa appunto è la disincarnazione che alcuni israeliti
ricercano. Il mezzo migliore per non sentirsi ebrei è quello di ragionare,
poiché il ragionamento è valevole per tutti e può essere rifatto da tutti: non
esiste una maniera ebraica di essere matematici; perciò l'ebreo matematico
si disincarna e diviene uomo universale quando ragiona. E l'antisemita che
segue il suo ragionamento diviene, a dispetto di ogni resistenza, suo fratello.
Il razionalismo al quale l'ebreo aderisce con tanta passione è appunto un
esercizio di ascesi e di purificazione, una evasione nell'universale: e nella
misura in cui il giovane ebreo prova piacere per le argomentazioni brillanti
e astratte è come il neonato che tocca il proprio corpo per conoscerlo:
esperimenta ed esamina la sua inebriante condizione di uomo universale,
realizza su un piano superiore quell'accordo e quella assimilazione che gli
sono rifiutati sul piano sociale. La scelta del razionalismo è per lui la scelta
di un destino dell'uomo e di una natura umana. Perciò è insieme vero e falso
che l'ebreo sia «più intelligente del cristiano».
Bisognerebbe piuttosto dire che ha il gusto dell'intelligenza pura, che ama
esercitarla a proposito di tutto e di niente, che l'uso che ne fa non è
contrastato dagli innumerevoli tabù che un cristiano trova in se stesso come
dei residui, né da un certo tipo di sensibilità particolaristica che il non ebreo
coltiva volentieri. Bisognerebbe aggiungere che c'è in lui una specie di
imperialismo passionale della ragione: poiché egli non vuole solo
convincere che è nel vero, il suo scopo è di persuadere i suoi interlocutori
che c'è un valore assoluto e incondizionato nel razionalismo. Egli si
considera come un missionario dell'universale; di fronte all'universalità
della religione cattolica, dalla quale è escluso, vuole stabilire la «cattolicità»
del razionale, strumento per raggiungere il vero e legame spirituale tra gli
uomini.
Non è per caso che Leon Brunschvieg, filosofo israelita, assimila i
progressi della ragione a quelli dell'unificazione (unificazione delle idee,
unificazione degli uomini). L'antisemita rimprovera all'ebreo di «non essere
creatore», di avere «uno spirito dissolvente». Questa accusa assurda
(Spinoza, Proust, Kafka, Milhaud, Chagall, Einstein, Bergson non sono
forse ebrei?) è potuta sembrare speciosa perché l'intelligenza ebraica
assume volentieri un tono critico; ma anche in questo caso non si tratta di
una disposizione delle cellule cerebrali, ma della scelta di un'arma. Contro
l'ebreo infatti si sono istigate le forze irrazionali della tradizione, della
razza, del destino nazionale, dell'istinto. Si pretende che queste forze
abbiano edificato dei monumenti, una cultura, una storia, dei valori pratici
che conservano largamente in sé l'irrazionalità delle loro cause e che sono
accessibili solo all'intuizione. La difesa dell'israelita è di negare l'intuizione
e assieme l'irrazionale; è di fare svanire i poteri oscuri, la magia,
l'irragionevolezza, tutto ciò che non si può spiegare partendo da principi
universali, tutto ciò che lascia intravedere delle tendenze alla singolarità,
all'eccezione. Egli diffida, per principio, dei blocchi totalitari che di quando
in quando lo spirito cristiano fa apparire: egli contesta. E indubbiamente a
questo proposito si può parlare di distruzione: ma ciò che l'ebreo vuole
distruggere è strettamente localizzato, è l'insieme dei valori irrazionali che
sono in balia di una coscienza immediata e senza garanzia. L'ebreo reclama
una cauzione, una garanzia per tutto ciò che pretende il suo avversario,
perché così egli garantisce se stesso. Diffida dell'intuizione perché questa
non si discute e per conseguenza finisce col separare gli uomini.
Se ragiona e discute col suo avversario è per realizzare in partenza l'unità
degli spiriti: prima di ogni discussione, desidera che ci si metta d'accordo
sui principi dai quali si parte. Mediante questo accordo preliminare egli
offre di costruire un ordine umano fondato sull'universalità della natura
umana. La perpetua critica che gli si rimprovera nasconde l'amore ingenuo
di una comunione con gli avversari nel nome della ragione e la credenza
ancora più ingenua che la violenza non è in nessun modo necessaria nei
rapporti fra gli uomini. Mentre l'antisemita, il fascista, ecc., partendo da
intuizioni incomunicabili e assunte come tali, devono necessariamente
ricorrere alla forza per 96 imporre illuminazioni che non possono far
condividere, l'ebreo non autentico si affretta a dissolvere con l'analisi critica
tutto ciò che può separare gli uomini e condurli alla violenza; di questa
violenza infatti egli sarebbe la prima vittima. Sappiamo bene che Spinoza,
Husserl, Bergson hanno fatto posto all'intuizione nella loro dottrina; ma
quella dei primi due è razionale, cioè è fondata sulla ragione, garantita dalla
critica e ha per oggetto verità universali. Non assomiglia per niente all'esprit
de finesse di Pascal: quell'esprit de finesse incontestabile e mutevole,
fondato su mille percezioni impercettibili, che sembra all'ebreo il suo
peggior nemico. Quanto a Bergson, la sua filosofia offre l'aspetto curioso di
una dottrina antintellettualistica edificata interamente con l'intelligenza più
raziocinante e più critica. E' un'argomentazione che gli consente di stabilire
l'esistenza di una durata pura, di una intuizione filosofica; e la stessa
intuizione che scopre la durata o la vita è universale in quanto ciascuno può
praticarla ed essa si riferisce all'universale, dato che i suoi oggetti possono
essere nominati e concepiti. E' vero, Bergson fa mille acrobazie prima di
servirsi del linguaggio; ma finalmente riconosce che le parole hanno la
funzione di guide, di indicatori, di messaggeri semifedeli. E chi può
chiedere loro qualcosa di più? E guardate come egli si trova a suo agio nelle
contestazioni: rileggete nel primo capitolo dell'Essai sur les données
immediate, la classica critica del parallelismo psicofisiologico, quella della
teoria di Broca sull'afasia. Come si è potuto dire, con Poincaré, che la
geometria non euclidea era un problema di definizione e che nasceva nel
momento in cui si era deciso di chiamare rette un certo tipo di curve, per
esempio le circonferenze che si possono tracciare sulla superficie di una
sfera, nello stesso modo la filosofia di Bergson è un razionalismo che si è
scelto un linguaggio particolare. Ha scelto infatti di chiamare vita, durata
pura, ecc., ciò che la filosofia anteriore denominava «il continuo», ed ha
battezzato «intuizione» la comprensione di questo continuo. Considerato
che questa comprensione deve essere preparata da ricerche e critiche, che
essa coglie un universale e non delle particolarità incomunicabili, è lo stesso
chiamarla intuizione irrazionale o funzione sintetica della ragione. Se si
chiama - a buon diritto - irrazionalismo il pensiero di Kierkegaard o di
Novalis, diremo che il sistema di Bergson è un razionalismo sbattezzato.
Per parte mia vi vedo come la difesa suprema di un perseguitato: attaccare
per difendersi, conquistare l'irrazionalismo dell'avversario in quanto tale,
cioè renderlo inoffensivo e assimilarlo ad una ragione costruttrice. E difatti
l'irrazionale di Sorci conduce dritto alla violenza e per conseguenza
all'antisemitismo; mentre quello di Bergson è perfettamente inoffensivo e
può servire solo alla riconciliazione universale. Questo universalismo,
questo razionalismo critico lo ritroviamo di solito nel democratico. Il suo
liberalismo astratto afferma che ebrei, cinesi, neri, devono avere gli stessi
diritti degli altri membri della collettività, ma reclama questi diritti per loro
in quanto uomini, non in quanto prodotti concreti e singolari della storia.
Perciò certi ebrei volgono verso la loro persona lo sguardo del democratico.
Ossessionati dallo spettro della violenza, residui inassimilati di società
particolaristiche e guerriere, essi sognano una comunità contrattuale in cui
anche il pensiero si stabilisca sotto forma di contratto - poiché esso sarebbe
dialogo, poiché i disputatori sarebbero d'accordo in partenza sui principi -
ed in cui il «contratto sociale» sia l'unico legame collettivo. Gli ebrei sono
gli uomini più dolci; sono appassionatamente nemici della violenza. E
l'ostinata dolcezza che conservano in mezzo alle più atroci persecuzioni, il
senso della giustizia e della ragione che oppongono come loro unica difesa
ad una società ostile, brutale e ingiusta, sono forse la parte migliore del
messaggio che ci rivolgono e il vero segno della loro grandezza. Ma
l'antisemita si appropria anche questo libero sforzo dell'ebreo per vivere e
dominare la sua situazione; ne fa un dato caratteristico che manifesta
l'incapacità dell'ebreo all'assimilazione. L'ebreo non è più un razionalista ma
un ragionatore. La sua indagine non è più una ricerca positiva
dell'universale, ma manifesta l'incapacità di cogliere i valori vitali razziali e
nazionali; lo spirito di libera critica cui attinge la speranza di difendersi
contro le superstizioni e i miti diviene spirito satanico di negazione, virus
dissolvente; invece di apprezzarlo come uno strumento di autocritica
spontaneamente nato nell'intimo delle società moderne, vi si vuole vedere
un pericolo permanente per i legami nazionali e i valori francesi. Piuttosto
che negare l'amore di certi ebrei per l'esercizio della Ragione, ci è parso più
vero e più utile tentare una spiegazione del loro razionalismo. E' ancora
come un tentativo di evasione che bisogna interpretare l'atteggiamento di
alcuni di loro verso il proprio corpo. Si sa infatti che i soli caratteri etnici
dell'ebreo sono caratteri fisici. L'antisemita si è impadronito di questo fatto
e l'ha trasformato in un mito: pretende di scoprire il suo nemico con un
semplice colpo d'occhio. La reazione di alcuni israeliti tende dunque a
negare questo corpo che li tradisce.
Naturalmente la negazione varierà d'intensità a seconda che il loro aspetto
fisico sia più o meno rivelatore; in ogni caso essi non aderiscono al loro
corpo con quel compiacimento, quel sentimento tranquillo della proprietà
che caratterizzano la maggior parte degli «ariani». Per costoro il corpo è un
frutto della terra francese; lo possiedono in grazia di quella partecipazione
magica e profonda che già assicura loro il godimento della propria terra e
della propria cultura.
Poiché ne sono fieri, gli hanno attribuito un certo numero di valori
strettamente irrazionali, destinati ad esprimere gli ideali della vita in quanto
tale. Scheler li ha giustamente chiamati valori vitali; essi non concernono
infatti né i bisogni elementari del corpo né le richieste dello spirito, ma un
certo tipo di affermazione di sé, un certo stile biologico che sembra
manifestare l'intimo funzionamento dell'organismo, l'armonia e
l'indipendenza degli organi, il metabolismo cellulare e soprattutto il
«proposito di vivere», quel proposito cieco e scaltro che è il senso stesso
della finalità vivente. Grazia, nobiltà, vivacità sono fra questi valori. Si
constaterà infatti che li possiamo cogliere anche negli animali: si parlerà
della grazia del gatto, della nobiltà dell'aquila. E' chiaro che nel concetto di
razza la gente fa entrare un gran numero di questi valori biologici. La razza
stessa non è un puro valore vitale; non congloba forse, nella sua struttura
profonda, un giudizio di valore, dato che l'idea stessa di razza implica quella
di ineguaglianza? Perciò il cristiano, l'ariano, sente il suo corpo in un modo
speciale: non c'è in lui la pura e semplice coscienza delle modificazioni
massicce dei suoi organi; gli indizi che il corpo gli invia, i suoi appelli e
messaggi gli pervengono carichi di un certo coefficiente di idealità, sono
sempre più o meno simboli di valori vitali. Egli dedica persino una parte
della sua attività a procurarsi delle percezioni di sé che corrispondano al suo
ideale vitale. La noncuranza dei nostri ceti eleganti, la vivacità e la
spigliatezza che caratterizzò la moda di certe epoche, l'andatura feroce
dell'italiano fascista, la grazia delle donne, tutti questi comportamenti
biologici tendono ad esprimere l'aristocrazia del corpo. A questi valori sono
naturalmente legati degli antivalori, come il discredito gettato sulle basse
funzioni del corpo, e i connessi comportamenti e sentimenti sociali: il
pudore per esempio. Questo infatti non è soltanto la vergogna di mostrare la
propria nudità, ma è anche una certa maniera di considerare il corpo come
cosa preziosa, un rifiuto di vedervi un semplice strumento, un modo di
nasconderlo nel santuario degli abiti come un oggetto di culto. L'ebreo non
autentico è spogliato dal cristiano dei suoi valori vitali. Se il suo corpo si
ridesta, subito il concetto di razza insorge ad avvelenargli queste sensazioni
intime. I valori della nobiltà e della grazia sono stati accaparrati dagli ariani,
che glieli rifiutano. Se accettasse questi valori, forse sarebbe indotto a
riconsiderare la nozione di superiorità etnica con tutte le conseguenze che
essa implica. Nel nome stesso dell'idea di uomo universale egli rifiuta di
prestare l'orecchio a questi messaggi così particolari che gli invia il suo
organismo; in nome della razionalità respinge i valori irrazionali ed accetta
solo i valori spirituali; essendo per lui l'universalità al sommo della scala dei
valori, concepisce una specie di corpo universale e razionalizzato. Non ha
per il suo corpo il disprezzo degli asceti, non ne fa un «cencio» o una
«bestia», ma non lo vede mai sotto l'aspetto di un oggetto di culto: nella
misura in cui non lo dimentica, lo tratta come uno strumento, preoccupato
solamente di adattarlo con precisione ai suoi fini. E come si rifiuta di
considerare i valori irrazionali della vita, così non accetta di stabilire una
gerarchia tra le funzioni naturali. Questo rifiuto ha due scopi: da un lato
implica la negazione della specificità etnica di Israele, dall'altro è un'arma
imperialista e offensiva diretta a persuadere i cristiani che i loro corpi sono
soltanto degli utensili.
La «mancanza di pudore» che l'antisemita non si perita di rimproverare a
certi ebrei non ha altre origini. E' innanzitutto un'affettazione di trattare il
corpo razionalmente. Se il corpo è un meccanismo, perché mettere il veto
sui suoi bisogni di escrezione?
Perché esercitare su di esso un perpetuo controllo? Bisogna curarlo,
pulirlo, conservarlo senza gioia, senza amore e senza vergogna, come una
macchina. Vero è che nel fondo di questa impudicizia si deve
indubbiamente scorgere, almeno in alcuni casi, una sorta di disperazione:
perché coprire la nudità di un corpo che lo sguardo degli ariani ha svestito
una volta per tutte; essere ebreo non è forse peggio ai loro occhi che essere
nudo? Beninteso, questo razionalismo non è esclusivo appannaggio degli
israeliti; si può trovare un buon numero di cristiani, i medici ad esempio,
che hanno adottato sul proprio corpo o su quello dei loro bambini questo
punto di vista razionale; ma si tratta allora di una conquista, di una
liberazione che coesiste quasi sempre con molte sopravvivenze prelogiche.
L'ebreo invece non si è affatto esercitato a criticare i valori vitali: si è reso
tale da non averne il senso. Bisognerebbe aggiungere d'altra parte, contro
l'antisemita, che questo disagio corporale può produrre risultati
completamente opposti e portare ad una vergogna del corpo e ad un estremo
pudore. Mi sono stati segnalati molti israeliti che superano in pudore i
cristiani e hanno per cura costante di coprire il loro corpo; altri si
preoccupano di spiritualizzarlo, cioè - poiché gli si rifiutano i valori vitali -
di vestirlo di significati spirituali. Per il cristiano il volto ed i gesti di certi
ebrei sono spesso molesti a forza di significare. Essi esprimono troppo e
troppo a lungo l'intelligenza, la bontà, la rassegnazione, il dolore. Si è soliti
canzonare i gesti rapidi e per così dire volubili che l'ebreo fa con le mani
quando parla.
Intanto, questa vivacità mimica è meno diffusa di quanto si pretende. Ma
ciò che importa soprattutto è di distinguerla da certe mimiche che in
apparenza le assomigliano: quella del marsigliese, per esempio. Nel
marsigliese la mimica vivace, rapida, inesauribile, si accompagna ad un
fuoco interiore, una nervosità costante, un desiderio di rendere con tutto il
suo corpo ciò che vede o ciò che sente. Nell'ebreo invece c'è anzitutto il
desiderio di essere totalmente significativo, di sentire il suo organismo
come un segno al servizio dell'idea, di trascendere questo corpo che gli pesa
per volgersi agli oggetti o alle verità che si svelano alla sua ragione.
Aggiungiamo che, in un campo così delicato, la descrizione deve attorniarsi
di molte precauzioni: ciò che abbiamo detto non si confà a tutti gli ebrei non
autentici e soprattutto presenta una importanza variabile nell'atteggiamento
generale dell'ebreo, secondo la sua educazione, la sua origine e soprattutto
l'insieme del suo comportamento. Mi sembra che nello stesso modo si
potrebbe spiegare la famosa «mancanza di tatto» degli israeliti. Beninteso,
c'è in questa accusa una considerevole parte di malevolenza. Ma è vero che
ciò che noi diciamo tatto si richiama all'esprit de finesse e che l'ebreo diffida
dell'esprit de finesse. Agire con tatto vuol dire valutare con un colpo
d'occhio la situazione, abbracciarla sinteticamente, sentirla più ancora che
analizzarla; ma nello stesso tempo vuol dire guidare la propria condotta
riferendosi ad un cumulo di principi indistinti di cui alcuni concernono i
valori vitali ed altri esprimono delle tradizioni di cortesia e cerimoniosità
assolutamente irrazionali. Così l'atto compiuto «con tatto» implica per il suo
autore l'adozione di una certa concezione del mondo tradizionale, sintetica e
rituale; non si può darne ragione; implica pure un senso particolare delle
situazioni psicologiche; non è in nessun modo critico; infine, acquista tutto
il suo significato solo in una comunità strettamente definita che 103
possiede i suoi ideali, i suoi usi e i suoi costumi. L'ebreo ha altrettanto tatto
naturale di chicchessia, se con ciò si intende la comprensione originale
dell'Altro; ma egli non cerca di averne.
Accettare di basare la propria condotta sul tatto sarebbe riconoscere che la
ragione non è una guida sufficiente nelle relazioni umane e che la
tradizione, le potenze oscure dell'intuizione possono esserle superiori,
quando si tratti di adattarsi agli uomini o di imporsi ad essi; sarebbe
ammettere una casistica, una morale dei casi particolari, quindi rinunciare
all'idea di una natura umana universale che reclama una norma di rapporti
universale; implicherebbe la confessione che le situazioni concrete sono
incomparabili tra di loro come incomparabili sono gli uomini concreti;
insomma significherebbe sprofondare nel particolarismo. Ma da quel
momento l'ebreo segna la sua perdita: poiché appunto in nome del tatto
l'antisemita lo denuncia come un caso particolare e lo esclude dalla
comunità nazionale. C'è dunque nell'ebreo una forte inclinazione a credere
che le peggiori difficoltà si possono risolvere con la ragione; egli non vede
l'irrazionale, il magico, la sfumatura concreta e particolare; non crede alle
singolarità dei sentimenti; per una comprensibile reazione di difesa,
quest'uomo che vive dell'opinione che gli altri hanno di lui cerca di negare i
valori dell'opinione, ed è tentato di applicare agli uomini i ragionamenti che
convengono alle cose; si avvicina al razionalismo analitico dell'ingegnere e
dell'operaio: non perché sia formato o attirato dalle cose, ma perché è
respinto dagli uomini. E la psicologia analitica da lui costruita sostituisce
volentieri alle strutture sintetiche della coscienza il gioco degli interessi, la
composizione degli appetiti, la somma algebrica delle tendenze. L'arte di
dominare, di sedurre o di persuadere si trasforma in un calcolo razionale. E'
chiaro però che una spiegazione del comportamento umano per via di
nozioni universali rischia di condurre all'astrazione. Infatti, è appunto il
gusto dell'astrazione che permette di comprendere lo speciale rapporto
dell'ebreo con il danaro. Si dice che l'ebreo ama il danaro. Nondimeno la
coscienza collettiva, che spesso lo dipinge come avido di guadagno,
raramente lo confonde con un altro mito popolare, quello dell'avaro: anzi,
uno dei temi di imprecazione favoriti dell'antisemita è proprio la munifica
prodigalità dell'ebreo. In realtà, se l'ebreo ama il danaro non lo fa per un
particolare gusto per la moneta di bronzo o d'oro o per i biglietti di banca:
spesso il danaro prende per lui la forma astratta di azioni, di assegni o di
conto in banca. Egli non si riferisce dunque alla figurazione sensibile, ma
alla forma astratta. Ad interessarlo è in realtà il potere d'acquisto. Se
preferisce a qualunque altra questa forma di proprietà, è dovuto soltanto al
fatto che essa è universale. Il modo di appropriazione tramite l'acquisto non
dipende infatti dalla razza dell'acquirente, non varia con la sua idiosincrasia;
il prezzo dell'oggetto rinvia ad un acquirente qualunque, definito solamente
dal fatto che possiede la somma indicata sull'etichetta. E quando la somma è
versata, l'acquirente è legalmente proprietario dell'oggetto. Perciò la
proprietà per acquisto è una forma astratta e universale di proprietà che si
oppone all'appropriazione singolare e irrazionale per via di partecipazione.
C'è qui un circolo vizioso: quanto più l'ebreo è ricco tanto più l'antisemita
tradizionalista tenderà ad insistere sul fatto che la vera proprietà non è la
proprietà legale, ma un adattamento del corpo e dello spirito all'oggetto
posseduto: in tal modo, come abbiamo visto, il povero recupera la terra e i
beni spirituali francesi. La letteratura antisemita brulica di fiere risposte
indirizzate ad ebrei da virtuosi orfani o da vecchi nobili decaduti, il cui
senso è in sostanza che l'onore, l'amore, la virtù, il gusto, ecc., «non si
comprano». Ma quanto più l'antisemita insisterà su questo genere di
appropriazione che tende ad escludere l'ebreo dalla comunità, tanto più
l'ebreo sarà tentato di affermare che l'unica forma di proprietà è la proprietà
legale che si ottiene con l'acquisto. In opposizione a questo possesso magico
che gli viene rifiutato e che gli sottrae persino gli oggetti da lui acquistati,
egli si attacca al danaro come al legittimo potere di appropriazione
caratteristico dell'uomo universale e anonimo che aspira ad essere. E se
insiste sulla potenza del danaro, lo fa per difendere i suoi diritti di
consumatore in una comunità che glieli contesta, e ad un tempo per
razionalizzare il legame del possessore con l'oggetto posseduto, in modo da
far entrare la proprietà nel quadro di una concezione razionale dell'universo.
L'acquisto infatti, come atto commerciale razionale, legittima la proprietà e
questa si definisce semplicemente come diritto d'uso. Nello stesso tempo il
valore dell'oggetto acquistato, invece di apparire come non so quale mana
mistico che si rivelerebbe ai soli iniziati, si identifica con il suo prezzo, che
è pubblico e può essere conosciuto immediatamente da chiunque. Ecco i
sottintesi che implica il gusto dell'ebreo per il danaro: se il danaro definisce
il valore, questo è universale e razionale, non emana dunque da oscure fonti
sociali, è accessibile a tutti: da quel momento l'ebreo non potrebbe essere
escluso dalla società; vi si integra come acquirente e come consumatore
anonimo. Il danaro è fattore di integrazione. E alle belle formule
dell'antisemita «il danaro non può tutto» oppure «ci sono cose che non si
possono comprare», egli risponde a volte affermando l'onnipotenza del
danaro: «Si possono comprare tutte le coscienze, basta dare loro un prezzo».
Non si tratta né di cinismo, né di bassezza: siamo soltanto di fronte a un
contrattacco. L'ebreo vorrebbe persuadere l'antisemita che i valori
irrazionali sono pure apparenze e che non c'è nessuno che non sia pronto a
monetizzarli. Se l'antisemita si lascia comperare, la prova è fatta: è segno
che anch'egli preferisce in fondo l'appropriazione legale per acquisto
all'appropriazione mistica per partecipazione. Di colpo, eccolo rientrare
nell'anonimato; non è più che un uomo universale, definito unicamente dal
suo potere d'acquisto. Così si spiega ad un tempo «l'avidità di guadagno»
dell'ebreo e la sua effettiva generosità. Il suo «amore per il danaro»
manifesta soltanto la deliberata decisione di considerare valevoli
esclusivamente i rapporti razionali, universali e astratti che l'uomo ha con le
cose; l'ebreo è utilitarista perché l'opinione pubblica gli rifiuta ogni altra
maniera di godere gli oggetti all'infuori dell'uso. Nello stesso tempo, egli
desidera acquistare col danaro i diritti sociali che gli vengono rifiutati a
titolo individuale.
Non lo urta il fatto di essere amato per il suo danaro: il rispetto,
l'adulazione che la sua ricchezza gli procurano sono indirizzati all'essere
anonimo che possiede un tale potere d'acquisto; orbene, è precisamente
questo anonimato che egli cerca: in forma abbastanza paradossale, vuole
essere ricco per passare inosservato. Queste indicazioni dovrebbero
permetterci di tracciare i caratteri principali della sensibilità ebraica. Essa è
senza dubbio profondamente segnata dalla scelta che l'ebreo fa di se stesso e
del senso della sua situazione. Ma non ci interessa delineare un ritratto. Ci
contenteremo dunque di evocare la lunga pazienza dell'ebreo e quell'attesa
della persecuzione, quel presentimento della catastrofe che egli cerca di
mascherare a se stesso durante gli anni felici e che scaturisce
improvvisamente, quando il cielo si copre, sotto forma di aura profetica;
sottolineeremo la natura particolare del suo umanesimo, quella volontà di
fratellanza universale destinata a scontrarsi con il più ostinato dei
particolarismi, e il miscuglio bizzarro di amore, disprezzo, ammirazione,
diffidenza che nutre per quegli uomini che non vogliono saperne di lui. Non
crediate che basti andare verso di lui a braccia aperte perché vi conceda la
sua fiducia: ha appreso a discernere l'antisemitismo sotto le più rumorose
manifestazioni di liberalismo. E' altrettanto diffidente verso i cristiani
quanto gli operai verso i giovani borghesi che «vanno verso il popolo». La
sua psicologia utilitarista lo porta a cercare dietro le testimonianze di
simpatia che alcuni gli prodigano il gioco di interessi, il calcolo, la
commedia della tolleranza. E del resto rare volte si sbaglia. Ma ciò
nondimeno cerca appassionatamente queste testimonianze, ama gli onori di
cui diffida, desidera essere dall'altra parte della barricata con loro, in mezzo
a loro, accarezza il sogno impossibile di essere subitamente guarito del suo
sospetto universale ad opera di qualche evidente prova di affetto, di buona
volontà. Bisognerebbe descrivere questo mondo a due poli, questa umanità
scissa in due e notare che ciascun sentimento ebraico ha una qualità diversa
secondo che si rivolga ad un cristiano o ad un ebreo. L'amore di un ebreo
per una ebrea non è della stessa natura dell'amore che egli porta ad una
«ariana»; c'è uno sdoppiamento profondo nella sensibilità ebraica,
mascherato sotto l'apparenza di un umanesimo universalistico.
Bisognerebbe notare infine la freschezza disarmata e la spontaneità incolta
dei sentimenti ebraici: occupato interamente a razionalizzare il mondo,
l'israelita non autentico può senza dubbio analizzare i suoi affetti, ma non li
può coltivare; può essere Proust ma non Barres. La cultura dei sentimenti e
dell'io presuppone un tradizionalismo profondo, un gusto del particolare e
dell'irrazionale, un ricorso a metodi empirici, il godimento tranquillo di ben
meritati privilegi: principi tutti di una sensibilità aristocratica.
Basandosi su di essi, il cristiano si darà ogni cura per trattarsi come una
pianta di lusso o come quei fusti di buon vino che venivano mandati sino
nelle Indie per riportarli poi in Francia perché l'aria marina li penetrava e
dava al vino un incomparabile sapore. La cultura dell'io è del tutto magica e
partecipazionista, ma questa attenzione perpetuamente rivolta verso di sé
finisce per portare qualche frutto. L'ebreo, che fugge se stesso e concepisce i
processi psicologici come operazioni meccaniche piuttosto che come le
attività di un organismo, assiste bensì al gioco delle sue inclinazioni, poiché
si è posto sul piano riflessivo, ma senza intervenire attivamente; non è
nemmeno sicuro di afferrarne il vero senso: l'analisi riflessiva non è il
migliore strumento d'indagine psicologica. Perciò il razionalista è
continuamente sopraffatto da una massa mobile e fresca di passioni e di
emozioni. Egli somma una sensibilità bruta alle raffinatezze della cultura
intellettuale. C'è una sincerità, una giovinezza, un calore nelle
manifestazioni di amicizia di un ebreo come raramente si potrà trovare
presso un cristiano, invischiato nelle sue tradizioni e nelle sue cerimonie.
Da ciò deriva anche il carattere disarmato della sofferenza ebraica, la più
sconvolgente delle sofferenze. Ma non rientra nel nostro compito insistervi.
Ci basta avere indicato le conseguenze che può avere la non autenticità
ebraica. Ci contenteremo, per finire, di delineare a grandi tratti ciò che si
chiama inquietudine ebraica. Gli ebrei infatti sono spesso inquieti. Un
israelita non è mai sicuro del suo posto o delle sue proprietà; non potrebbe
nemmeno affermare che domani sarà ancora nel paese che abita oggi; la sua
situazione, i suoi poteri e persino il suo diritto di vivere possono essere
messi in discussione da un momento all'altro; inoltre, come abbiamo già
visto, egli è ossessionato dall'immagine inafferrabile e umiliante che le folle
ostili hanno di lui. La sua storia è la storia di un errare di venti secoli; ad
ogni istante deve attendersi di riprendere il suo bastone. Si trova a disagio
persino nella sua pelle, nemico irriconciliabile del suo corpo, intento a
perseguire il sogno impossibile di una assimilazione che si allontana via via
che egli tenta di raggiungerla. Non ha mai la sicurezza ottusa dell'«ariano»,
solidamente stabilito sulle sue terre e così certo dei suoi titoli di proprietà da
poter anche dimenticare che è proprietario e trovare naturale il legame che
lo unisce al suo paese. Ma non bisogna credere che l'inquietudine ebraica
sia metafisica. Sarebbe sbagliato assimilarla all'angoscia che provoca in noi
la considerazione della condizione umana. Direi che l'inquietudine
metafisica è un lusso che l'ebreo, come l'operaio, non può oggi permettersi.
Bisogna essere certi dei propri diritti e profondamente radicati nel mondo,
bisogna non avere nessuno dei timori che assalgono ogni giorno le classi o
le minoranze oppresse, per permettersi di interrogarsi sul posto dell'uomo
nel mondo e sul suo destino. In una parola, la metafisica è appannaggio
delle classi dirigenti ariane. Non si veda in queste osservazioni un tentativo
di screditarla: essa ritornerà la preoccupazione essenziale dell'uomo, quando
gli uomini si saranno liberati. L'inquietudine dell'ebreo non è metafisica, è
sociale. L'oggetto consueto della sua preoccupazione non è ancora il posto
dell'uomo nel mondo, ma il suo posto nella società: non vede l'abbandono di
ciascuno in mezzo ad un universo muto, perché non emerge ancora dalla
società nel mondo. E' in mezzo agli uomini che egli si sente abbandonato; il
problema razziale gli chiude l'orizzonte. La sua inquietudine non è di quelle
che vogliono perpetuarsi; egli non se ne compiace: vuole essere rassicurato.
Mi si faceva notare che non vi sono stati in Francia degli ebrei surrealisti.
La ragione è che il surrealismo pone, a suo modo, la questione del destino
umano. Le sue imprese di demolizione e il gran rumore fattovi intorno
erano dei giochi lussuosi di giovani borghesi a proprio agio in un paese
vittorioso che loro apparteneva.
L'ebreo non si sogna di demolire, né di considerare la condizione umana
nella sua nudità. E' l'uomo sociale per eccellenza, perché il suo tormento è
un tormento sociale. E' la società, non il decreto di Dio, che ha fatto di lui
un ebreo, che ha fatto nascere il problema ebraico; obbligato a scegliersi
intieramente entro le prospettive definite da questo problema, è nella e dalla
socialità che l'ebreo sceglie la sua stessa esistenza; il suo progetto
costruttivo di integrarsi nella comunità nazionale è sociale, sociale lo sforzo
che fa per pensarsi, cioè per situarsi in mezzo agli altri uomini, sociali le sue
gioie e le sue pene; così è, perché la maledizione che pesa su di lui è sociale.
Di conseguenza se gli si rimprovera la sua inautenticità metafisica, se gli si
fa notare che la sua perpetua inquietudine è accompagnata da un radicale
positivismo, non si dimentichi che i rimproveri si ritorcono contro chi li
formula: l'ebreo è sociale perché l'antisemita l'ha fatto tale. Tale è dunque
quest'uomo braccato, condannato a scegliersi sulla base di falsi problemi e
in una situazione falsa, privato del senso metafisico dall'ostilità minacciosa
della società che lo attornia, ridotto ad un razionalismo della disperazione.
La sua vita non è che una lunga fuga davanti agli altri e davanti a se stesso.
Gli si è tolto persino il suo proprio corpo, si è tagliata in due la sua vita
affettiva, lo si è ridotto a perseguire, in un mondo che lo respinge, il sogno
impossibile di una fraternità universale. Di chi la colpa? Sono i nostri occhi
che gli rispecchiano l'immagine inaccettabile che egli vuole dissimulare.
Sono le nostre parole e i nostri gesti - tutte le nostre parole e tutti i nostri
gesti, il nostro antisemitismo ma anche il nostro liberalismo condiscendente
- che lo hanno avvelenato fino al midollo; siamo noi che lo costringiamo a
scegliersi ebreo, sia che fugga, sia che si rivendichi, siamo noi che lo
abbiamo costretto al dilemma della non autenticità o della autenticità
ebraica. Noi abbiamo creato questa specie di uomini che non ha senso se
non come prodotto artificiale di una società capitalistica (o feudale), che
non ha altra ragion d'essere che di servire da capro espiatorio di una
collettività ancora prelogica. Questa specie di uomini che testimonia
dell'uomo più di tutte le altre perché è nata da reazioni secondarie
nell'interno dell'umanità, questa quintessenza d'uomo, disgraziata, sradicata,
originariamente votata alla non autenticità o al martirio. Non c'è uno tra di
noi che non sia, in questa circostanza, totalmente colpevole e anzi
criminale; il sangue ebraico che i nazisti hanno versato ricade su tutte le
nostre teste. Resta vero, si dirà, che l'ebreo è libero: può scegliere di essere
autentico. E' vero, ma bisogna appunto comprendere che ciò non ci
riguarda: il prigioniero è sempre libero di evadere, restando inteso che
rischia la morte oltrepassando i reticolati; forse il suo carceriere è perciò
meno colpevole? L'autenticità ebraica consiste nello scegliersi come ebreo,
cioè nel realizzare la propria condizione ebraica. L'ebreo autentico
abbandona il mito dell'uomo universale: si riconosce e si vuole nella storia
come creatura storica e condannata; ha smesso di fuggire e di avere
vergogna dei suoi. Ha compreso che la società è cattiva; al monismo
ingenuo dell'ebreo non autentico sostituisce un pluralismo sociale; sa di
essere a parte, intoccabile, maledetto, proscritto, ed è come tale che si
rivendica.
Rinunzia al suo ottimismo razionalista: vede che il mondo è smembrato in
divisioni irrazionali ed accettando questo smembramento, almeno per
quanto lo concerne, proclamandosi ebreo, fa suoi alcuni di cedesti valori e
di codeste divisioni; sceglie i suoi fratelli e i suoi pari: sono gli altri ebrei;
ambisce alla grandezza umana poiché accetta di vivere in una condizione
che si definisce precisamente come impossibile a viversi, poiché trae il suo
orgoglio dalla sua umiliazione. Toglie ogni potere ed ogni virulenza
all'antisemitismo nel momento stesso in cui cessa di essere passivo. Infatti
l'ebreo non autentico fuggiva la sua realtà ebraica ed era l'antisemita che lo
faceva ebreo suo malgrado: mentre invece l'ebreo autentico si fa ebreo egli
stesso e da se stesso, a dispetto di tutti; accetta tutto fino al martirio e
l'antisemita, disarmato, deve accontentarsi di abbaiare al suo passaggio
senza poterlo azzannare. Di colpo l'ebreo, come ogni uomo autentico,
sfugge alla descrizione: i caratteri comuni che abbiamo rilevato negli ebrei
non autentici provenivano dalla loro comune non autenticità. Non ne
ritroveremo nessuno nell'ebreo autentico: questi è ciò che si fa, ecco tutto
quanto ne possiamo dire. Si ritrova nel suo abbandono consentito, come
uomo, un uomo intero, con gli orizzonti metafisici che comporta la
condizione umana. Le anime belle non possono però tranquillizzarsi
dicendo: «Ebbene, poiché l'ebreo è libero, che sia dunque autentico e
avremo pace». La scelta dell'autenticità non è una soluzione sociale del
problema ebraico; non è nemmeno una soluzione individuale. Certo, gli
ebrei autentici sono oggi assai più numerosi di quanto non si immagini. Le
sofferenze che hanno dovuto sopportare durante questi ultimi anni hanno
contribuito non poco ad aprire loro gli occhi, e a me sembra anzi probabile
che esistano più ebrei autentici che autentici cristiani. Ma la scelta che
hanno fatto di se stessi non facilita per nulla la loro azione individuale, al
contrario. Ecco per esempio un ebreo francese «autentico» il quale, dopo
essersi battuto nel 1940, dirige a Londra una rivista di propaganda francese
durante l'occupazione. Scrive sotto pseudonimo, perché vuole evitare che
sua moglie, «ariana», residente in Francia, venga molestata. Lo stesso fanno
molti francesi emigrati; e quando si tratta di loro, lo si giudica ben fatto. Ma
quanto all'ebreo, gli si rifiuta questo diritto: «Ah! - si dice - ecco un altro
giudeo che vuole dissimulare la sua origine».
Sceglie gli articoli che pubblica tenendo conto unicamente del loro valore.
Se la percentuale degli articoli di ebrei è, per caso, considerevole, i lettori
sogghignano e gli scrivono: «Ecco la grande famiglia che si ricostituisce».
Se invece rifiuta un articolo di un ebreo, si dice che «fa dell'antisemitismo».
Ebbene, si dirà, se ne infischi, dal momento che è autentico. E' presto detto:
non può infischiarsene perché, precisamente, la sua è una azione di
propaganda; dipende dunque dalla opinione pubblica. «Benissimo: allora
vuol dire che questo genere di azione è proibito agli ebrei; che se ne
astenga». Ci risiamo: accettereste l'autenticità se conducesse dritta al ghetto.
E siete voi che rifiutate di vedere in ciò una soluzione del problema.
Socialmente poi le cose non vanno meglio; le circostanze che abbiamo
creato sono tali che l'autenticità finisce per disseminare la divisione tra gli
stessi ebrei. Sceglierla può infatti condurre a decisioni politiche opposte.
L'ebreo può scegliersi autentico per rivendicare il suo posto d'ebreo, coi
suoi diritti e il suo martirio entro la comunità francese; può darsi cura prima
di tutto di provare che la miglior maniera d'essere francese per lui è quella
di affermarsi come ebreo francese. Ma può anche esser indotto dalla sua
scelta a rivendicare una nazione ebraica che possieda una terra e
un'autonomia, può persuadersi che l'autenticità ebraica esiga che l'ebreo sia
sostenuto da una comunità israelita. Non sarebbe impossibile concepire che
queste scelte opposte possano accordarsi e completarsi come due
manifestazioni della realtà ebraica. Ma sarebbe perciò necessario che gli atti
degli ebrei non fossero spiati e non corressero il rischio Continuo di fornire
ai loro avversari armi contro di loro. Se noi non avessimo creato all'ebreo la
sua situazione d'ebreo, si tratterebbe insomma di un'opzione sempre
possibile tra Gerusalemme e la Francia; l'immensa maggioranza degli
israeliti francesi sceglierebbe di rimanere in Francia, un piccolo numero
andrebbe ad ingrossare la nazione ebraica in Palestina; ciò non
significherebbe affatto che l'ebreo integrato nella collettività francese
conserverebbe un legame con Tel Aviv; tutt'al più la Palestina potrebbe
rappresentare ai suoi occhi una sorta di valore ideale, un simbolo, e
l'esistenza d'una comunità ebraica autonoma sarebbe infinitamente meno
pericolosa per l'integrità della società francese di quella, per esempio, d'un
clero ultramontano, che tolleriamo perfettamente. Ma lo stato attuale degli
spiriti fa di una scelta così legittima una fonte di conflitto tra gli israeliti.
Agli occhi dell'antisemita la costituzione d'una nazione ebraica fornisce la
prova che l'ebreo nella comunità francese è uno spostato. Prima gli si
rimproverava la sua razza, ora lo si considera come proveniente da un paese
straniero; non ha niente da fare tra noi, se ne vada dunque a Gerusalemme.
Perciò l'autenticità, quando conduce al sionismo, è nociva agli ebrei che
vogliono rimanere nella loro patria d'origine, perché fornisce argomenti
all'antisemita. L'ebreo francese si irrita contro il sionista che Complica
ancora di più una situazione già di per sé delicata e il sionista si irrita contro
l'ebreo francese che accusa a priori di inautenticità. Così la scelta di
un'autenticità appare come una determinazione morale che apporta all'ebreo
una certezza sul piano etico, ma non potrebbe in nessun modo servire come
soluzione sul piano sociale e politico: la situazione dell'ebreo è tale che tutto
quanto egli fa gli si rivolge contro.
Capitolo quarto
Naturalmente, le osservazioni che siamo venuti facendo non pretendono
di portare ad una soluzione del problema ebraico. Ma non è impossibile
precisare, partendo da esse, le condizioni nelle quali una soluzione può
essere tentata.
Abbiamo visto infatti che, contrariamente ad una opinione diffusa, non è
il carattere ebraico a provocare l'antisemitismo ma, al contrario, è
l'antisemita a creare l'ebreo. Il fenomeno primo è dunque l'antisemitismo,
struttura sociale regressiva e concezione del mondo prelogica. Premesso
questo, che si vuole? Bisogna osservare infatti che la soluzione del
problema comporta la definizione dello scopo da raggiungere e dei mezzi
per raggiungerlo. Assai spesso si discute sui mezzi quando si è ancora
incerti sullo scopo. Che cosa possiamo volere?
L'assimilazione? Questo è un sogno: il vero avversario dell'assimilazione,
l'abbiamo visto, non è l'ebreo ma l'antisemita. Dopo la sua emancipazione,
cioè da un secolo e mezzo circa a questa parte, l'ebreo tenta di farsi
accettare da una società che lo respinge. Sarebbe perciò vano agire su di lui
per affrettare questa integrazione che si allontana continuamente davanti ai
suoi occhi: finché ci sarà dell'antisemitismo l'assimilazione non potrà
realizzarsi. E' vero che si può pensare di impiegare i grandi mezzi: alcuni
ebrei chiedono che si muti il nome a tutti gli israeliti e li si obblighi a
chiamarsi Durand o Dupont. Ma questa misura è insufficiente: bisognerebbe
aggiungervi una politica di matrimoni misti e di divieti rigorosi per quanto
concerne le pratiche della religione e particolarmente la circoncisione.
Dirò chiaramente che queste misure mi sembrano inumane. Può essere
che Napoleone abbia pensato di ricorrervi: ma Napoleone pensava
precisamente di sacrificare la persona alla comunità. Nessuna democrazia
può accettare di realizzare l'integrazione degli ebrei al prezzo di simili
coercizioni. D'altra parte un procedimento del genere può essere
magnificato soltanto da ebrei non autentici in preda ad una crisi di
antisemitismo; non tenderebbe ad altro che a liquidare la razza ebraica;
rappresenta, spinta alle estreme conseguenze, la tendenza, che abbiamo
notato nel democratico, a sopprimere puramente e semplicemente l'ebreo a
profitto dell'uomo. Ma l'uomo non esiste: esistono ebrei, protestanti,
cattolici; esistono francesi, inglesi, tedeschi; esistono bianchi, neri e gialli.
Si tratta insomma di annullare una comunità spirituale fondata sui costumi e
l'affetto, a vantaggio di una collettività nazionale. La maggior parte degli
ebrei coscienti rifiuterà l'assimilazione, se gliela si presenta sotto questo
aspetto. Certo, essi sognano di integrarsi alla nazione, ma in guanto ebrei: e
chi oserebbe rimproverarli per questo?
Sono stati costretti a pensarsi ebrei, li si è indotti a prendere coscienza
della loro solidarietà con gli altri ebrei; perché stupirsi se oggi essi si
oppongono a misure che tendono a distruggere Israele?
Vanamente si obietterà che essi formano una nazione entro la nazione.
Abbiamo cercato di mostrare che la comunità ebraica non è né nazionale,
né internazionale, né religiosa, né etnica, né politica: è una comunità quasi
storica. Ciò che fa l'ebreo è la sua situazione concreta; ciò che lo unisce agli
altri ebrei è l'identità della situazione. Questo corpo quasi storico non può
essere considerato come un elemento estraneo nella società. Tutt'al
contrario, le è necessario. Se la chiesa, in un tempo in cui era onnipotente,
ne ha tollerato l'esistenza, lo ha fatto perché esso aveva assunto delle
funzioni economiche che lo rendevano indispensabile. Oggi queste funzioni
sono accessibili a tutti, ma ciò non significa che l'ebreo, come fattore
spirituale, non contribuisca a dare alla nazione francese il suo carattere
particolare e il suo equilibrio. Abbiamo descritto oggettivamente,
severamente forse, i caratteri dell'ebreo non autentico: non ce n'è uno che si
opponga alla sua assimilazione come tale nella società nazionale. Al
contrario, il suo razionalismo, il suo spirito critico, il suo sogno di una
società contrattuale, di una fraternità universale, il suo umanesimo, fanno di
lui un indispensabile lievito di questa società. Ciò che proponiamo qui è un
liberalismo concreto. Intendo con ciò che tutte le persone che collaborano
col loro lavoro alla grandezza di un paese hanno pieni diritti di cittadinanza
in questo paese. Ciò che dà loro questo diritto non è il possesso di una
problematica ed astratta «natura umana», ma la loro partecipazione attiva
alla vita della società. Ciò significa dunque che gli ebrei, come gli arabi o i
neri, dal momento che sono associati all'impresa nazionale hanno il diritto
di interloquire sul suo funzionamento; sono cittadini. Ma hanno questi diritti
a titolo di ebrei, neri o arabi, cioè come persone concrete. Nelle società in
cui la donna vota, non si domanda alle elettrici di cambiare sesso
avvicinandosi all'urna: il voto della donna vale esattamente quanto quello
dell'uomo, ma ella vota in quanto donna, con le sue passioni e
preoccupazioni di donna, col suo carattere di donna. Quando si tratta dei
diritti legali dell'ebreo e dei diritti più oscuri, ma altrettanto indispensabili,
che non sono scritti in nessun codice, non bisognerà riconoscerglieli in
quanto c'è in lui un possibile cristiano, ma in quanto egli è un ebreo
francese: noi dobbiamo accettarlo col suo carattere, i suoi costumi, i suoi
gusti, la sua religione se ne ha una, col suo nome e coi suoi caratteri fisici.
Questa accettazione, se è totale e sincera, dapprima faciliterà all'ebreo la
scelta dell'autenticità ed in seguito a poco a poco renderà possibile senza
violenza, per il corso stesso della storia, quell'assimilazione che si vorrebbe
imporre per costrizione. Ma il liberalismo concreto che abbiamo definito è
un fine; e rischia di diventare un semplice ideale se non determiniamo i
mezzi per raggiungerlo. Orbene, l'abbiamo già dimostrato, non si tratta di
agire sull'ebreo. Il problema ebraico è nato dall'antisemitismo; perciò è
l'antisemita che deve essere soppresso per risolverlo. Il problema si
trasforma quindi così: come agire sull'antisemitismo? I procedimenti
ordinari, ed in particolare la propaganda e l'istruzione, non devono essere
trascurati: sarebbe desiderabile che il bambino ricevesse a scuola una
educazione che gli permettesse di evitare gli errori passionali. Ma è
legittimo dubitare che i risultati sarebbero puramente individuali. Allo
stesso modo, non bisogna temere di proibire con leggi permanenti i
propositi e gli atti che tendono a gettare il discredito su una categoria di
francesi. Ma non facciamoci troppe illusioni sull'efficacia di simili misure:
le leggi non hanno mai disturbato e mai disturberanno l'antisemita, che ha
coscienza di appartenere ad una società mistica al di fuori della legalità. Si
possono accumulare decreti ed interdizioni: verranno sempre dalla Francia
legale, e l'antisemita pretende di rappresentare la Francia reale.
Ricordiamoci che l'antisemitismo è una concezione del mondo manichea e
primitiva in cui l'odio per l'ebreo prende posto a titolo di grande mito
esplicativo. Abbiamo visto che non si tratta di una opinione isolata, ma della
scelta globale che un uomo in una determinata situazione fa di se stesso e
del senso dell'universo. E' l'espressione di un senso selvaggio e mistico della
proprietà immobiliare. Se vogliamo rendere questa scelta impossibile, non
basta rivolgersi con la propaganda, l'educazione e le interdizioni legali alla
libertà dell'antisemita. Dato che questi è, come ogni altro uomo, una libertà
in situazione, è la sua situazione che va modificata radicalmente. Basta
infatti cambiare le prospettive della scelta perché tale scelta si trasformi.
Non è che in questo modo si attenti alla libertà: ma la libertà decide su altre
basi, in riferimento ad altre strutture. Il politico non può mai agire sulla
libertà dei cittadini; la sua posizione stessa gli impedisce di curarsene
altrimenti che in forma negativa, cioè prendendo cura di non ostacolarla:
egli agisce solo sulle situazioni. Abbiamo constatato che l'antisemitismo è
uno sforzo passionale per realizzare una unione nazionale contro la
divisione della società in classi. Si tenta di sopprimere la frammentazione
della comunità in gruppi ostili gli uni agli altri portando le passioni comuni
ad una temperatura tale da far fondere le barriere: e poiché ciò nonostante le
divisioni sussistono, in quanto le loro cause economiche e sociali non sono
state toccate, si tenta di riunirle tutte in una sola: le distinzioni tra ricchi e
poveri, tra classi lavoratrici e classi possidenti, tra poteri legali e poteri
occulti, tra cittadini e rurali, ecc., vengono riassunte tutte in quella di ebreo
e non ebreo. Ciò significa che l'antisemitismo è una rappresentazione mitica
e borghese della lotta di classe e che non potrebbe esistere in una società
senza classi. Dimostra la separazione degli uomini e il loro isolamento nel
seno della comunità, il conflitto degli interessi, lo smembramento delle
passioni: può esistere solo nelle collettività in cui un debole legame di
solidarietà unisce delle pluralità fortemente strutturate; è un fenomeno di
pluralismo sociale. In una società i cui membri sono tutti solidali, perché
tutti impegnati nella stessa impresa, non ci sarebbe posto per esso. Infine,
dimostra un certo legame mistico e partecipazionista dell'uomo al suo
«bene» che risulta dal regime attuale della proprietà. In una società senza
classi e fondata sulla proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, quando
l'uomo liberato dalle allucinazioni del mondo sotterraneo si lancerà infine
nella sua impresa, quella di fare esistere il regno umano, l'antisemitismo non
avrà più alcuna ragione di esistere: lo si sarà colpito alla radice. Perciò
l'ebreo autentico, che si pensa come ebreo perché l'antisemita l'ha messo
nella situazione di ebreo, non si opporrà all'assimilazione più di quanto
l'operaio che prende coscienza di appartenere ad una classe non si oppone
alla liquidazione delle classi. Al contrario, in entrambi i casi è proprio con
la presa di coscienza che si accelererà la soppressione della lotta di classe e
del razzismo. L'ebreo autentico rinuncia per sé ad una assimilazione oggi
impossibile e l'attende per i suoi figli dalla liquidazione radicale
dell'antisemitismo. L'ebreo di oggi è in pieno regime di guerra. La
rivoluzione socialista è necessaria e sufficiente per sopprimere l'antisemita:
è anche per gli ebrei che faremo la rivoluzione. E intanto? E' infatti una
soluzione oziosa quella di affidare alla rivoluzione futura la liquidazione del
problema ebraico. Esso ci interessa tutti direttamente; siamo tutti solidali
con l'ebreo perché l'antisemitismo conduce direttamente al
nazionalsocialismo. E se non rispettiamo la persona dell'israelita, chi ci
rispetterà? Se siamo coscienti di questi pericoli, se siamo vissuti nell'onta
della nostra complicità involontaria con gli antisemiti, che ha fatto di noi dei
carnefici, forse cominceremo a comprendere che bisogna lottare per l'ebreo
né più né meno che per noi stessi. Mi dicono che è da poco rinata una lega
ebraica contro l'antisemitismo. Ne sono lietissimo: ciò prova che il senso
dell'autenticità si sviluppa presso gli israeliti. Ma questa lega sarà poi
efficace? Molti ebrei - e dei migliori - esitano ad entrarvi per una sorta di
modestia: «Ne sentiremo delle belle!», mi diceva uno di loro recentemente,
ed aggiungeva, piuttosto goffamente ma con un sincero e profondo pudore:
«L'antisemitismo e le persecuzioni sono cose senza importanza». Questa
ripugnanza è ben comprensibile. Ma noi che non siamo ebrei, dobbiamo
condividerla? Richard Wright, lo scrittore nero, diceva recentemente: «Non
esiste un problema nero negli Stati Uniti, esiste solo un problema bianco».
Allo stesso modo, diremo che l'antisemitismo non è un problema ebraico: è
il nostro problema. Dato che ne portiamo la colpa e che rischiamo di esserne
anche noi le vittime, dobbiamo essere ben ciechi per non vedere che
riguarda essenzialmente e prima di tutto noi. Non spetta dunque agli ebrei
fare una lega militante contro l'antisemitismo, ma a noi. Va da sé che una
lega del genere non sopprimerà il problema.
Ma se si ramificasse in tutta la Francia, se ottenesse di essere
ufficialmente riconosciuta dallo stato, se la sua esistenza facesse nascere in
altri paesi altre leghe analoghe alle quali si unisse per formare
un'associazione internazionale, se intervenisse efficacemente in tutti quei
casi in cui le venissero segnalate delle ingiustizie, se operasse con la
stampa, la propaganda e l'insegnamento, essa otterrebbe un triplice risultato:
per prima cosa permetterebbe agli avversari dell'antisemitismo di contarsi e
di unirsi in una collettività attiva; in secondo luogo riunirebbe, con la forza
di attrazione che esercita ogni gruppo organizzato, un buon numero di
esitanti che non pensano niente sul problema ebraico; offrirebbe infine ad
un avversario che oppone volentieri il paese reale al paese legale l'immagine
di una comunità concreta impegnata, al di là dell'astrazione universalistica
della legalità, in un combattimento particolare. Così toglierebbe
all'antisemita il suo argomento favorito, che poggia sul mito del concreto.
La causa degli israeliti sarebbe vinta a metà, solo che i loro amici trovassero
per difenderla un po’ della passione e della perseveranza che vi mettono i
loro nemici per batterla. Per svegliare questa passione non bisognerà
indirizzarsi alla generosità degli ariani: si tratta di una virtù che anche nei
migliori può andare soggetta ad intermittenze. Ma bisognerà dimostrare a
ciascuno che il destino degli ebrei è il suo destino. Non ci sarà un francese
libero, finché gli ebrei non godranno la pienezza dei loro diritti; non un
francese vivrà sicuro, finché un ebreo in Francia e nel mondo intero potrà
temere per la propria vita.