Gli implaccabili

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Ci sono le vittorie. E ci sono le sconfitte. Ma soprattutto ci sono loro, gli “implaccabili” del rugby. Quelli che niente è riuscito a buttare giù.

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Progetto editoriale:Absolutely Free sas

Grafica:Nicoletta Azzolini

In copertina:foto di Filippo Venturi

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ISBN 978-88-97057-43-7

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I giganti che scrisserola Storia del Rugby

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GIORGIO CIMBRICO

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Ho avuto la fortuna di vivere il mondo del rugby ita-liano degli ultimi cinquant’anni ricoprendo moltepliciruoli: giocatore, dirigente di club, consigliere federale,presidente della FIR. Lungo questo lasso di tempo,inevitabilmente, ho incrociato la mia strada con un nu-mero di giornalisti superiore a quello che, per mia in-clinazione, avrei ritenuto sufficiente. Altrettanto inevi-tabilmente, mi sono spesso domandato quanti di loroavessero una comprensione effettiva del rugby inquanto gioco e quanti invece, magari per non averlopraticato, si limitassero ad apprezzarne la spettacola-rità, i valori, l’epos senza dare poi troppa importanza aitecnicismi che uno sport tanto complesso porta con se,oggi più ieri.

Credo di non fare un torto a nessuno nel dire che laseconda categoria è sensibilmente più nutrita della

Giancarlo DondiPresidente Federazione Italiana Rugby

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prima e ho la certezza che Giorgio Cimbrico non se neavrà a male se lo inserirò tra i più affezionati ed entu-siasti voyeur del nostro movimento. Questo libro, il suoprimo dedicato al rugby, è la prova lampante di unamore per la palla ovale nato non sul campo pietrosodel Carlini, nella Genova rugbistica di Marco Bollesanma, per sua stessa ammissione, davanti ad un televi-sore in bianco e nero negli anni carbonari del CinqueNazioni. Ed è un amore che, traspare capitolo dopo ca-pitolo, non di certo figlio di quello che un’altra pennadel nostro sport, Luciano Ravagnani, ama definire kilo-rugby.

Perché il rugby di Giorgio è quello di Alexander Obo-lenski, di Eric Liddell, di Marco Bollesan, di Paolo Rosi:lo stesso rugby che mi ha spinto, ragazzo, ad abbando-nare il salto in alto per affrontare l’avventura del pac-chetto di mischia, delle maglie infangate e dei calzet-toni pesanti per l’acqua assorbita. E che mi ha per-messo di cementare, giorno dopo giorno, placcaggiodopo placcaggio, amicizie che ancora oggi mi accom-pagnano.

Nel 2011, lo dico con la consapevolezza del dirigen-te sportivo moderno ma anche con la nostalgia dell’ap-passionato di lungo corso, quel gioco ha lasciato spa-zio a qualcosa di diverso: ma ogni pagina che vi aspet-ta, da qui in avanti, sarà un tuffo nel passato. Per noigiovanotti non più di primo pelo, è un ritorno alle no-stre origini e più a ritroso ancora, alla riscoperta diquella scintilla che ha fatto scoccare il nostro amoreper il rugby; per i ragazzi che conoscono il rugby me-diatico e luccicante dei giorni nostri, che lo seguonosui loro iPhone e sui loro computer sempre più piccoli,una splendida opportunità per comprendere quello che

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era il nostro mondo di qualche lustro fa. Un mondo si-curamente meno ricco, forse più felice, oggi ormaipassato, ma quanto mai vivo nei ricordi di tanti di noi,compresi quei giornalisti che magari non hanno maigiocato, ma che sono i più grandi sostenitori e narrato-ri della grande epopea di uno sport straordinario.

Grazie a Giorgio Cimbrico per averci ricordato, intempi in cui dimenticare sembra un po’ troppo facile,come eravamo e come, anche nei giorni di internet edei diritti televisivi milionari, ci piace ancora essere. Avoi tutti, buona lettura e buon rugby.

Giancarlo Dondi

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Di libri di rugby ne ho letti. Tanti. Fin dove la cono-scenza, spesso approssimativa, delle lingue mi consen-tiva. Francese e inglese, soprattutto (la letteratura rug-bistica è lì). E in italiano, ovviamente. Da noi, negli annipiù recenti, l’editoria non ha certo trascurato il rugby, ilche è già un bel segno di cambiamento.

Personaggi, ambienti, culture, questioni sociali, emi-grazione, sviluppo. E poi aggressività controllata, funzio-ne socializzante, comportamenti, tecnica, regole. Chegran terreno di coltivazione umana è il rugby! Forse lascuola francese si riferiva a tutto ciò quando lo ha defini-to “fenomeno vivente e umano, nel quale la vita coman-da…”, aggiungendo, a sostegno dell’interpretazione pra-tica, “… e l’ordine naturale precede l’ordine logico”.

Ma un libro come questo degli “Implaccabili” di Gior-gio Cimbrico non l’avevo mai letto. E mi mancava, loconfesso. Scrive Cimbrico alla fine del capitolo su Marco

Luciano Ravagnani

prefazione>

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Bollesan, che poi praticamente è la fine del suo libro:“Tutte le storie hanno una morale, da Esopo a Cervan-tes, per arrivare a Cormac McCarthy: ‘la storia siamonoi’, in questi mesi diventati un paio d’anni si era occu-pata del fondatore più o meno mitizzato di questa fac-cenda ovale che amiamo, di Eric Liddell campione emartire, di spaccamontagne irlandesi, di uno stravagan-te australiano che aveva la valigia sempre in mano, di unfrancese finito come Icaro, di un illustre e coraggiosoneozelandese, di una vivente leggenda gallese. Era ilmomento ed era il caso di parlare di noi. L’implaccabilesembrava il più adatto. Lo è”.

Penso che la morale sia anche un’altra, quella di uncompiuto avvicinamento - almeno nel rugby – tra la cul-tura anglosassone e la nostra, umanistica. “Il rugby – èstato scritto – ha suggerito di guardare le statue elleni-che con altro occhio, dopo secoli di codificazione dellabellezza”. La bellezza nuova del movimento dell’uomonel combattimento. Arthur Honegger per la sua sinfonia“Rugby 1928”, disse che il suo intento era “… opporre al-la progressione quasi matematica della macchina, la di-versità del movimento umano, i suoi bruschi slanci, isuoi arresti, le sue volate, i suoi rallentamenti”.

Nel libro di Cimbrico, e te ne accorgi presto ma lo as-sapori solo alla fine, c’è la nascita di tutto questo. Dap-prima tra suggestioni storiche di personaggi da Ruzante,poi con espressioni sincere di umanità applicata a ungioco complesso che all’uomo richiede molte virtù, piùdi quante non ne richieda la vita di ogni giorno. Il viaggioè lungo e si ferma sulla soglia del rugby come si giocaoggi. Ma aiuta a capire quello di oggi. Insomma un viag-gio dall’uomo a Lomu (Jonah Lomu, il già mitico gioca-tore degli All Blacks che alla Coppa del Mondo 1995 in

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Sudafrica, frantumò i codici di un atletismo naturale egenuino, proiettandolo nell’artefatto e – qualche volta –adulterato).

Giorgio Cimbrico “arriva” dall’atletica leggera che perlui è – come in un suo libro - “la Regina e i suoi amanti”,un titolo definito elisabettiano “per un tentativo di rotta,di circumnavigazione di un mondo così tondo da preve-dere ogni tipo di situazioni”. Un mondo che è anchequello del suo rugby, così come lo rilanciano i suoi “Im-placcabili”. La storia dell’Impero Britannico è fra i pre-minenti interessi culturali (che sono infiniti) di Cimbrico.E si capisce bene. Se il rugby è stato “il gioco dell’Impe-ro”, cioè esportazione di un’educazione, di conoscenza,di comportamenti, di quel cristianesimo muscolare chefiorì con Thomas Arnold nella public school di Rugby,era proprio necessario un cultore di quel periodo storicoper animare personaggi così diseguali e anticonformistie al tempo stesso così somiglianti, così conformi. Cosìfunzionali al rugby.

Giorgio Cimbrico è uno scrittore vero prestato al gior-nalismo, e le sue storie sono molto esemplari di chi hainterpretato il rugby facendo cadere in amore, in unosprofondare irrazionale, lui e altri come lui. Oggi è tuttomolto diverso (“Questo caffè non è più come quello diuna volta”, diceva il vecchio generale a John Wayne in“Rio Bravo”, del grande John Ford, ed eravamo appenanegli Anni Cinquanta) e, ovviamente, ora, naufragar èdolce in questo vecchio mare.

Sì, un libro così a me mancava. Oppure, molto piùsemplicemente, penso mancasse a tutti. Mancava sicu-ramente al Rugby.

Luciano Ravagnani

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Al tempo delle basette lunghe, dei colletti portati di-sinvoltamente all’insù, eravamo molto poveri e molto fe-lici, era la festa mobile del rugby e tutto questo l’abbia-mo vissuto non perché avessimo i soldi per andare al-l’Arms Park che era meravigliosamente grigio o aTwickenham che sembrava più distante di Shangri-la o aMurrayfield che con quelle sponde in erba pareva il tea-tro perfetto per la battaglia di Stirling o di Bannockburn.

L’abbiamo vissuto come i monelli di Ray Bradburyche amavano i razzi e li guardavano partire da lontano esognavano gli azzurri spazi. L’abbiamo vissuto più diquarant’anni fa, davanti a una vetrina di un negozio dielettrodomestici dove incautamente avevano lasciato ac-cesa una tv e la Rai, sì, la Rai, trasmetteva Galles-Inghil-terra, e quando il padrone venne per girare una mano-pola, noi lo pregammo con gesti muti: «No, no». Fu cle-mente e ci accontentò.

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>introduzione>

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E tutto questo, bene o male, l’abbiamo vissuto (e aquesto punto è bene precisare che questo “abbiamo”non è maiestatis, solo riferito a chi stava con me, incerti momenti e in altri che sono seguiti) e poi c’ètutto quello che non ho vissuto e ho tentato di vivereleggendo qua e là, andando, vedendo, commuoven-domi, invidiando i sedimenti storici e l’orgoglio altrui.E così sono andato a cercare queste storie, questiuomini, su una strada che, diversamente da quellaraccontata da Cormac McCarthy, non è disseminatadi simboli, di metafore trasparenti, ma di fatti e diuomini, e mi sono accorto che il rugby è proprio unafaccenda da grandi: lo guardava in tv Samuel Beckette chissà che trame dell’anima trovava in quelle bat-taglie; veniva usato da Nelson Mandela come stru-mento per continuare, faticosamente, il camminosulla lunga strada per la libertà; si trasformava inmomento spirituale quando gli All Blacks, prima diogni viaggio verso nord che questi neri rondoni sta-vano per intraprendere, cercavano la benedizione dichi aveva segnato la meta più alta: Edmund Hillary, ilconquistatore dell’Everest, offerto in dono a una gio-vane regina, Eisabetta II.

Il risultato non è equilibrato, lo so bene. A un libroche vede la luce nell’anno dei Mondiali si chiede unabella spruzzata di Nuova Zelanda, anche sotto il profiloambientale e culturale (la haka gode sempre di altequotazioni…), dosi opportune di Australia, Sudafrica, In-ghilterra, Francia, etc e, naturalmente, tanta Italia che,secondo gli schemi odierni, è l’argomento che interessadi più, che deve interessare di più. Inutile aggiungereche un capitolo dovrebbe essere dedicato ai valori delrugby: visto che se ne stanno attivamente occupando glisponsor, meglio lasciar perdere.

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Non essendo speziale, e non essendo callido né comeDiomede o come il suo sodale Ulisse, ho preferito segui-re la mia di road. Tortuosa, irrazionale, privilegiandoquelli che hanno dato la vita, quelli che, in pace o inguerra, non si sono imboscati, quelli che non hanno maifatto calcoli. O quelli così grandi che non si poteva fare ameno di avere. Non rimaneva che andare a ricercarequalche aspetto riposto, qualche cristallo non ben luci-dato. Il fatto che William Webb Ellis sia sepolto in unaspecie di appendice della mia regione – a Mentone – miha riempito di gioia e costretto a un pellegrinaggio al ci-mitero vecchio.

“Gli implaccabili con due c”, è il vero titolo che avreivoluto dare perché oggi i tentativi di allusione, di tene-ra ironia, ogni strizzare d’occhi, spesso cadono nel si-lenzio, nell’incomprensione, nell’imbarazzo. “Gli im-placcabili con due c” era più chiaro, ma anche così puòandar bene. Quella C appesa, nel titolo, sembra unpallone che rimbalza strano, sposa perfettamente sto-rie di gente che è stato difficile buttar giù, a meno cheil tackle sia stato premeditato, messo in atto dalle Par-che o dalle streghe di Macbeth. A quelle non resistenessuno.

Avrei altro da dire, e anche da lamentare, ma sareb-be una geremiade: dove è finito il nostro, vecchio, me-raviglioso rugby popolato di pastori e avvocati, minato-ri e medici condotti, guerrieri e missionari, principi eplebei, asceti e libertini, astemi e ubriaconi? Pareun’incisione di Hogarth, ed è un mondo distante quan-to quel pomeriggio di poco più di quarant’anni fa, pas-sato davanti a una vetrina, per quel Galles-inghilterrache diventò grotta del tesoro, magazzino dei mondi, ri-velazione. Visione, l’avrebbe chiamato Dylan Thomas

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che non è un caso fosse gallese. E allora non mi rima-ne che pensare e scrivere la cosa più banale: sperareche il libro cada tra le mani di chi sa amare storie così.In giro ce ne sono ancora, non ho dubbi.

Giorgio Cimbrico Genova, maggio 2011

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Tom aveva ancora le ossa rotte: quelli della valle delTamigi avevano picchiato duro ma erano tornati a casasotto di una palla. E così ora Tom e Geoff volevanometter su un altro scontro e pensavano che non sareb-be stato male per la terza domenica di aprile. Dove,avevano già deciso: St Martin in the Fields, bel pratogrande e piatto, intorno un po’ di siepi, poco frequenta-to. Nessuno che venisse a rompere i coglioni, a volerfare rispettare quel vecchio ordine del sindaco Farndo-ne che non aveva fatto altro che esprimere la volontàreale del vecchio Edoardo: «Bandito dalla città il giocodella palla con le mani e con i piedi, pena l’arresto».Tom il bottaio e Geoff il tintore non erano neanche natiquando il sindaco aveva fatto affiggere quell’ordine(mai capito quanto fosse utile farlo affiggere: a partequalche scrivano e qualche prete, nessuno sapeva leg-gere) e comunque la disposizione reale era chiara: ilgioco è proibito in città, mica in campagna e St Martin

capitolo 1Le origini di tutto. Tom il bottaio e Geoffi il tintore.

Gli scontri sul prato di St Martin al riparo dalla legge

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era campagna. La città finiva mezzo miglio più in làdella Torre se si guardava a ponente e anche meno sesi volgeva l’occhio a mezzogiorno.

«Ho incontrato uno di quelli di Sheperd’s Bush e miha detto che loro sono disponibili», disse Geoff quandola sera si incontrarono alla cantina di Sam, che facevaarrivare la birra da York e così aveva sempre il localeaffollato. «Quanti?». Loro sarebbero per cinquantacontro cinquanta».«Per me va bene. Ma che tipi so-no?». «Contadini, qualche pastore». «Quelli di Ham-mersmith sono peggio: dico che si può fare. E per ladata?». «A loro va bene quella che dicevi tu: terza diaprile». «Hanno la palla?». «Non credo». «Vado daGort e gliene faccio fare una: sono arrivati maiali dalleMidlands». «Non grande come l’altra volta, Tom. Facileche la facciano cadere. O che la rubino». «Tranquillo».

Per entrare in casa, Tom doveva passare dalla tet-toia dove lavorava alle botti. Già, le botti. Al solito, Lizrompeva e i bambini frignavano. «Ho ancora sette pa-tate e un po’ di verza. Poi, finito. E’ passato David e di-ce che sei in ritardo con la consegna e così quei seiscellini se li è tenuti in borsa. Si può sapere…». «Do-mani finisco il lavoro». Completamente dimenticato;era così quando sentiva scorrere dentro il fluido caldodella sfida. Lo riportava ai vecchi tempi, a quasivent’anni prima quando era un ragazzo e si era ritrova-to in Francia, con il re che doveva essere sui trent’anni– doveva ammetterlo, un bell’uomo - e con il principedi Galles, il Principe Nero, e avevano dato una sonoralezione a quei mangiarane che tutti eleganti e acchitta-ti, in corazza e con i cavalli che anche loro, poverini,portavano la corazza, li avevano caricati di fronte. «Oradico io – pensava Tom – si può essere più imbecilli?

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Noi a cavallo avevamo solo il re, il principe e un po’ disignori, i lord. Poi, s’era tutta gente del popolo, noi equelle zucche dei gallesi: arco, frecce, pali di legnolunghi e appuntiti e coltellacci che erano per chi nonera morto di freccia o si era spezzato la schiena ca-dendo da quei loro cavalloni»

L’amicizia con Geoff era nata quel giorno, che se ri-cordava bene era d’estate, in un posto che si chiamavaCrecy. E alla fine il re, il comandante che era un nor-manno che si chiamava Geoffrey Harcourt ma era unodi cui ci si poteva fidare, e il principe, che era il babaudei francesi, avevano detto che si era visto di cosa sonocapaci gli inglesi e il principe aveva messo dentro ilconto anche i gallesi perché lui era il principe di Gallese per quei suoi zappaterra aveva in serbo anche un re-galo. E allora i gallesi si erano eccitati e avevano co-minciato a mormorare: «Finalmente allargherà i cor-doni della borsa». E invece niente. Tirò fuori uno stem-ma con tre piume e disse che glielo aveva donato il redi Boemia - che oltre che essere francese era anchemezzo cieco e chissà per chi lo aveva preso - e che d’o-ra in avanti sarebbe stato il simbolo del Galles. E unodi quelli che quel giorno aveva scoccato tanto e bene esi sentiva sicuro di sé, ebbe l’ardire di alzare la voce:«E il fiore di porro?». Il Principe Nero non lo degnò diuna risposta e tutto sommato fu un bene: Tom avevavisto tagliare una mano o la lingua o un par d’orecchiper molto meno.

Dicono sia difficile capire di aver vissuto la storia.Tom e Geoff, che non sapevano leggere né scrivere, nefurono capaci e così andarono da uno dei preti che se-guivano l’esercito inglese per benedire e assolverequelli che tiravano le cuoia e gli chiesero che giorno,

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mese e anno fosse e il prete, normanno anche lui (Si-mon? Può darsi…) rispose che sul giorno aveva qualchedubbio, ma che era agosto, e che tenendo conto dell’ar-co descritto dal sole, si doveva essere verso la fine, eche contando dalla nascita di Nostro Signore era il1346. Qualche giorno dopo, l’esercito fece dietrofront,andò verso la costa: assediarono Calais per un tempoche non finiva mai e quando tornarono in Inghilterradoveva essere il 1347: in certi calcoli i poveri vanno unpo’ a palmi.

A menar le mani Tom aveva imparato per il re e perl’Inghilterra, e piegar doghe e a conciar botti non era ilmassimo per chi aveva solcato i campi di Francia eaveva visto il re cucirsi i tre gigli accanto ai tre leoni.Sarà stato un anno che erano tornati quando vide Geoffsbarcare vicino alla Torre da uno di quei traghetti da unpenny: le mani rovinate dai colori che si usavano per ipanni che arrivavano dalla Fiandra, dall’Irlanda, e queisolchi lasciati dalla corda dell’arco. Una birra, due, i ri-cordi ancora freschi, il rimpianto per quella vita infa-me. «Un modo per tenere il sangue caldo c’è». «Già, civorrebbe qualche scellino per comprare quella robaforte che fanno in Scozia». «No, Tom. Io parlo del giocodella palla con le mani e con i piedi». «Il padre del re loha proibito». Geoff aveva sorriso e due mesi dopo era-no già su un prato verso sud, dalle parti di Greenwich,per sfidare i barcaioli e quelli dell’isola dei Cani. Conquell’infinità di spazio a disposizione, avevano giocatosulla lunghezza dei 500 passi e alla prima palla. Aveva-no vinto lasciando sul campo un po’ di denti e portandoa casa ossa rotte. Lui, due dita gonfie e scure comesalsicce di fegato, ma aveva fatto finta di niente e perrifinire le doghe si appoggiava con il gomito sinistro eci dava dentro con la destra. Era stato dannatamente

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divertente e non avevano più smesso: una partita ognidue mesi, d’estate anche una al mese. Le sfide veniva-no dai quartieri e dal contado. Qualche volta dovevanoanche aver perso ma Tom non aveva tenuto i conti.Erano diventati quelli della Torre.

E a tutto questo pensava Tom Gaynor mentre Lizcontinuava a brontolare agitando sulle braci un venta-glio di piume annerite e i figli se ne stavano in un an-golo e la notte era calata portando umidità dal fiume.Alla terza di aprile mancava più o meno un mese.«Sarà bene che domani cominci ad avvertire gli uomi-ni». Tom non sapeva di preciso quand’era nato ma se ilgiorno della battaglia il prete aveva detto il vero, oradoveva avere tra i 35 e i 40 anni, e così doveva essereanche per Geoff. Si sentiva ancora forte, ma sapevache l’unica eredità che poteva trasmettere doveva es-sere affidata a chi alla banda si era unito di recente,specie a John il Gatto, chiamato così perché non eramassiccio e ingombrante come Tom, Geoff, i fratelliBrooks che facevano i fabbri o l’oste. John sgusciava,spariva, ricompariva venti yards più in là. Geoff pensa-va avesse sangue gallese. Probabile: parlava in un mo-do… Buono il consiglio sulla palla piccola: sarebbe an-dato da Gort il conciatore e ne avrebbero parlato. «E sequelli di Sheperd’s Bush vogliono la palla grande?» gliaveva domandato Geoff. «Mandali a farsi fottere».

E così la terza domenica di aprile dell’anno 1364, inuna mattina ancora fredda, con un residuo di brumache si alzava dal fiume, sul prato sul cui lato più orien-tale sorgeva una cappella intitolata al generoso sanMartin, i cinquanta di Sheperd’s Bush si trovarono difronte i cinquanta della Torre e capirono subito che sfi-darli era stato un azzardo. Bastava guardarli e degluti-

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re: Tom e Geoff avevano visi duri e segnati, mani stret-te da cinghie di Cuoio, ma anche gli altri non erano dameno: Gort il conciatore, Sam l’oste, Arthur il carpen-tiere. E poi quello strano tipo:John il Gatto, che soffiavae strizzava gli occhi. Tom aveva una voce bassa: «Pallaa voi per il primo attacco». Mica voleva fare il gentile,solo saggiare la solidità del loro impeto e lasciarequalche segno. E qualche dubbio. Il capo di quelli diSheperd’s Bush afferrò la palla dalla forma di grandeuovo: «Di solito giochiamo con una più grande». «Lapalla è questa». Bene, si trattava di muoverla: con uncalcio in mezzo a quella mezza centuria sgherra? Par-tendo con un assalto a testuggine? Fu durante quelbreve momento di riflessione tattica che, deposto ilsaio che lo mimetizzava, da dietro la cappella apparveun araldo con leoni, gigli e reale rotolo. Non era solo:dietro di lui, trenta armigeri del re.

Il nasuto araldo dalla voce resa stridula dall’impor-tanza dell’atto che stava compiendo, srotolò la perga-mena: «Facendo seguito al reale editto che nostro pa-dre Edoardo II promulgò nell’anno del Signore 1314,noi Edoardo III, re di Inghilterra e irlanda stabiliamoche i cittadini onesti che nei dì di festa vogliano svolge-re attività fisica, lo facciano non praticando il gioco del-la palla con i mani e con i piedi, ma il passatempodell’arco e delle frecce».Tom guardò verso Geoff e nontrattenne un sorriso: «Deve avere qualche affare inFrancia e vuole averci tutti in buona forma». «E con gliocchi acuti, non chiusi». Sam l’oste disse che se nonavevano paura della lunga camminata che li attendevasulla via di casa, era disposto a ospitare anche quelli diSheperd’s Bush nella sua cantina. «E per oggi è tuttoaffidato alla generosità di Dio e a me, che ci metto labirra che viene dal nord».