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Periodico bimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 2317 del 28.11.1973.
www.giunti.it – www.psicologiacontemporanea.it [email protected]
issn: 0390-346X – anno xli - settembre-ottobre 2015 – n. 251
fondatore: Giuseppe Martinelli
direzione scientifica: Anna Oliverio Ferraris (Università di Roma)
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Attribuzioni e diritti: 7 e 10: Sergiy Bykhunenko/Fotolia; 12-13: Gianni Fiorito/Medusa Film/Webphoto; 13 in alto: Medusa Film/Webphoto; 14-15: Full2Spectrum/Shutterstock; 16: Bojan Fatur/Getty Images; 17: Francis Pellier MI DICOM/Ministère de l’Intérieur/Getty Images; 19: Bro-stock/Shutterstock; 21 in alto: Atrik Stollar/AFP/Getty Images; 21 in basso: Patrick Aventurier/Getty Images; 23: MachineHeadz/Getty Images; 24: Andrew Fox/Corbis; 27 e 28: RealyEasy-Star; 30: Don Bayley/Getty Images; 33: famveldman/Fotolia; 34: Boeri Studio/Barcroft Media/Getty Images; 36: Andrey Kuzmin/Fotolia; 37: Olesia Bilkei/Fotolia; 38: Ljupco Smokovski/Fo-tolia; 40: iStockphoto/Getty Images; 42: The Power of Forever Photography/Getty Images; 44: Pgiam/Getty Images; 47, 48 e 50: Digital Vision Vectors/Getty Images; 53: Elvira Giannattasio; 54-55: Patrick Strattner/Brand X/Getty Images; 57: PM Images/Getty Images; 59: Nick Ballon/Getty Images; 60-61: Tara Moore/Getty Images; 63: Steve Proehl/Proehl Studios/Corbis; 64-65, 67 e 68: Elvira Giannattasio; 70: vladimirfloyd/Fotolia; 72-73: michaeljung/Fotolia; 75: Matthias Stolt/Fotolia; 76: JPC-PROD/Fotolia; 79: Valerio Muscella/NurPhoto/Corbis. Dove altrimenti non indicato le immagini appartengono all’Archivio Giunti. L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spet tanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
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direttore responsabile: Claudio Pescio
Stampata presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato
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ANNA OLIVERIO FERRARISUniversità di Roma
comitato scientifico
Luciano Arcuri (Università di Padova),
Silvia Bonino (Università di Torino), Cesare
Cornoldi (Università di Padova), Franco
Di Maria (Università di Palermo), Santo
Di Nuovo (Università di Catania), Mauro
Fornaro (Università di Chieti Pescara),
Tilde Giani Gallino (Università di Torino),
Fabio Lucidi (Università di Roma), Mauro
Maldonato (Università della Basilicata),
Massimiliano Oliveri (Università di Paler-
mo), Alberto Oliverio (Università di Roma),
Pio E. Ricci Bitti (Università di Bologna),
Guido Sarchielli (Università di Bologna),
Alessandro Zennaro (Università di Torino).
Psicologia contemporanea si avvale di uno speciale rapporto di collaborazione con Psychologie Heute (Germania) e sciences Humaines (Francia).
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La rivista è
Cari lettori,
si sente spesso parlare di “buona scuola”, ma poi capita di vedere edifci
fatiscenti dove i bambini e i ragazzi si trovano a trascorrere le lunghe ore
scolastiche in spazi angusti senza neppure la possibilità di fare la normale
ricreazione a metà mattina perché o mancano gli spazi all’aperto o il perso-
nale scolastico preferisce tenere i ragazzi in classe per timore delle denun-
ce dei genitori.
«Mia fglia al primo anno di primaria il tempo della ricreazione lo passa
in classe» mi ha spiegato una madre «e quando capita che la ricreazione
sia negata per punizione i bambini fanno solo merenda e poi tutti seduti!».
«La dirigente scolastica ci ha comunicato che il cortile non è a norma, per
cui in caso di incidente siamo noi insegnanti i responsabili» ha precisato
un’insegnante. Si è creato, dunque, un cortocircuito tra genitori, insegnanti
e dirigenti che priva i bambini di un loro fondamentale diritto, quello di
muoversi, quando invece sappiamo, anche dai risultati di studi scientifci,
che c’è un rapporto virtuoso tra attività aerobica (correre, ecc.) e rendimen-
to scolastico: si formano nuovi contatti sinaptici tra le cellule nervose, la
concentrazione aumenta, l’umore migliora, gli alunni si divertono e socializ-
zano.
Eppure esistono altri mondi possibili, altri spazi vivibili e progetti percorri-
bili, come emerge dal bell’articolo di Gianluca Mora, «La buona scuola ver-
de» in cui si racconta di scuole anche italiane dove i bambini non soltanto
possono fare la ricreazione all’aperto senza incorrere in pericoli, ma dove
all’aperto possono svolgere delle attività curricolari in un rapporto diretto
con erba, fori, piante, animali, ossia immersi in un ambiente naturale com-
posito che, come sappiamo, è stimolante e rigenerante e in più consente
quei giochi spontanei che fanno crescere, che alimentano un senso interio-
re di autonomia e di libertà e che hanno anche il pregio di “curare”, attra-
verso un processo del tutto naturale, piccole ferite e stress quotidiani.
La naturalizzazione degli spazi all’aperto delle scuole richiede certamente
un impegno economico, ma richiede anche che gli educatori compren-
dano quanto sia importante crescere a contatto della natura, il che non è
per nulla scontato in chi tende a sopravvalutare il ruolo del mondo digitale
fn dalla più tenera età. Le nuove generazioni devono avviarsi a “ibridare”
i vantaggi delle tecnologie con quelli che derivano dal mondo naturale da
cui continuiamo a dipendere: sarebbe errato ritenere che la nostra mente
possa svilupparsi soltanto in una dimensione astratta separata da un corpo
che ha le sue necessità e che continua a dipendere dallo stato di salute
dell’ambiente naturale e più in generale da quello del pianeta.
A distanza di quasi mezzo secolo dal fortunato libro di Gregory Bateson
sull’ecologia della mente, dobbiamo ora impegnarci concretamente a pro-
muovere un “pensiero verde” capace di cogliere la complessità del mondo
attuale in tutte le sue sfaccettature e una flosofa di vita rispettosa dell’am-
biente e quindi anche della nostra dimensione naturale.
Anna Oliverio Ferraris
[email protected] 16.07.2015 10:20
ALIMENTAZIONE
6 Per una corretta educazione alimentare
Alberto Pellai
PsIcOLOgIA AErONAuTIcA
14 come sono valutati i piloti dell’aviazione civile?
Andrea Castiello d’Antonio
Ecologia
24 La buona scuola “verde”
Gianluca Mora
30 L’importanza del “pensiero verde”
Albertina Oliverio
VIOLENZA
40 La tortura “bianca” Marialuisa Menegatto
Adriano Zamperini
FOrMAZIONE
46 I fatti di genova La preparazione
delle Forze dell’Ordine
Massimo Montebove
PsIcOLOgIA DELLA sALuTE
54 una vita più semplice Di cosa abbiamo
davvero bisogno?
Eva Tenzer
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[email protected] 16.07.2015 10:20
sommarioru
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Cinema e letteratura
12 Youth - La giovinezza Roberto Escobar
Cattivi Pensieri
22 Contro i bambini (e le loro mamme) Silvia Bonino
72
Discussioni
64 La famiglia Chiesa e psicologia a confronto
Fabrizio Mastrofni
Assistenza
72 Soli, ma non da soli Antonella Reffeuna
78 Vulnerabilità Catherine Halpern
Notizie Flash
36 Il cellulare: un’estensione di sé AoF
36 Lettura e attività cerebrale AoF
37 Anche i bambini prodigio devono esercitarsi Frank Luerweg
Il caso
52 Passare all’atto senza sapere il perché Anna oliverio Ferraris
Asterischi Storici
62 Il caso H. M. Alberto oliverio
Psicoscopio A cura di Guido Sarchielli
70 «Vuoi sempre aver ragione!» Quanto è diffcile lavorare con gli arroganti
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Per una corretta
educazione alimentare
Alberto PellAi
L’educazione alimentare è oggi
una vera priorità. Il cibo infatti è
un bisogno primario, una risorsa
ma anche un problema. L’approccio
ideale dovrebbe essere globale
e basato su differenti strategie
«Noi siamo ciò che mangiamo». Il
celebre aforisma di Feuerbach è
quanto mai attuale di questi tem-
pi in cui di cibo si parla moltissimo. In
particolare in Italia, che quest’anno è
la capitale mondiale dell’alimentazio-
ne grazie ad Expo 2015, evento mon-
diale che nella presente edizione è in-
teramente focalizzato su questo tema
e che è diventato anche un’occasione
per riflettere sull’uso e sul consumo
che le società moderne fanno del cibo.
Un uso altamente problematico, consi-
derato che intorno al cibo la modernità
[email protected] 13.07.2015 14:17
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ha generato problemi e aspetti disfun-
zionali che erano sconosciuti alle gene-
razioni passate. Per esempio, la nostra
epoca è quella in cui ogni giorno milioni
di persone rischiano di morire di fame,
ma in cui al tempo stesso lo spreco ali-
mentare è una questione che riguarda
l’intero mondo occidentale. Il Rapporto
2014 sullo spreco alimentare domesti-
co realizzato da Waste Watchers (www.
lastminutemarket.it/media_news/wp-
content/uploads/2014/07/RAPPORTO-
W-W-2014_comunicato.pdf) ha dimo-
strato che ogni famiglia italiana butta
in media 630 grammi di alimenti ogni
settimana e che ogni anno lo spreco do-
mestico costa agli italiani 8.1 miliardi
di euro, circa 6.5 euro settimanali a fa-
miglia.
Così come quello sprecato, anche il
cibo consumato è spesso fonte di pro-
blemi nel mondo occidentale. Ciò che
mettiamo nel piatto e connota il nostro
stile alimentare può essere in realtà fat-
tore di rischio per la salute e causa di
enormi problemi di sanità pubblica. So-
vrappeso, obesità, diabete di tipo due,
patologie di natura cardiovascolare su
base nutrizionale sono tutti aspetti con
incidenza e prevalenza in crescita nel
mondo occidentale e con una diffusio-
ne epidemica sempre più intensa anche
in età infantile, tanto che l’Organizza-
zione Mondiale della Sanità (OMS) ne
parla in termini di “epidemia globale”.
In Italia, il sistema di sorveglianza per i
bambini delle scuole primarie nato nel
2007 nell’ambito del Ministero della
Salute, “Okkio alla Salute” (www.epi-
centro.iss.it/okkioallasalute/pdf2015/
SINTESI_16gen.pdf), ha evidenziato
che nel 2014 nel nostro paese i bambi-
ni in sovrappeso sono risultati il 20.9%
e i bambini obesi il 9.8%, compresi
quelli severamente obesi che da soli co-
stituivano il 2.2% del campione totale.
Tra l’altro, un bambino su quattro non
[email protected] 13.07.2015 14:17
Figura 2 – Nel 2005 il
Dipartimento statunitense
dell’Agricoltura modificò
la piramide della Figura 1.
Nella nuova piramide furo-
no conservati i sei gruppi
di alimenti, ma le fasce
orizzontali furono sostitu-
ite con sei strisce verticali
colorate.
Da sinistra a destra:
•arancione: cereali
e derivati, preferibil-
mente integrali;
•verde: verdura fresca;
•rosso: frutta fresca;
•gialla: olio e grassi;
•blu: latticini;
•viola: carne, pesce
e legumi freschi.
(Fonte: USA - Dipartimento
dell’Agricoltura/Diparti-
mento della Salute e dei
Servizi Umani).
Figura 1 – La piramide
alimentare ideata dal
Dipartimento statunitense
dell’Agricoltura (USDA) nel
1992 che ha ispirato tante
altre piramidi simili a livel-
lo internazionale. È strut-
turata a fasce orizzontali e
in basso si trovano i gruppi
di alimenti da consumarsi
in maggior quantità e con
più frequenza.
Dalla base verso l’alto,
da destra a sinistra si
trova:
•6-11porzioni:pane,
cereali, riso e pasta;
•2-4porzioni:frutta
fresca;
•3-5porzioni:vegetali;
•2-3porzioni:carne,
pollame, pesce, uova,
legumi secchi e frutta
a guscio;
•2-3porzioni:latte,
yogurt e formaggi;
•usareconparsimonia:
zuccheri e grassi.
In alto a destra nel riqua-
dro: pallini = grassi (in
natura e aggiunti); trian-
golini = zuccheri (aggiun-
ti). Questi simboli mostra-
no i grassi e gli zuccheri
aggiunti negli alimenti.
(Fonte: USA - Dipartimento
dell’Agricoltura/Diparti-
mento della Salute e dei
Servizi Umani).
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consuma frutta e verdura tutti i giorni e gli stessi genitori sembrano avere poca consapevolezza dell’eccesso di peso e delle conseguenze che da esso derivano per la salute dei propri figli: infatti, tra le madri di bambini in sovrappeso od obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sottopeso-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui as-sunta sia eccessiva.
LINEE gUIdA PER UNA CORRETTA ALIMENTAZIONE
Educare al cibo, all’alimentazio-ne sana, al consumo sostenibile, alla scelta di comportamenti che
ci permettano di avere uno stile di vita orientato al benessere è oggigiorno una priorità soprattutto per chi vive e lavo-ra a contatto con i bambini. Per questo moltissime nazioni e numerose Istitu-zioni pubbliche e organismi scientifi-ci hanno redatto, negli ultimi decenni, standard e linee guida per aiutare le po-polazioni ad adottare uno stile alimen-tare adeguato. Quasi tutte si ispirano al modello proposto nella piramide ali-mentare (Fig.1), un grafico concepito per indicare con praticità ed immedia-tezza il modo corretto di alimentarsi e i criteri da adottare in una dieta “ideale”.
Introdotta dal dipartimento statu-nitense dell’Agricoltura (USdA) nel 1992, la piramide risulta di facile in-terpretazione perché insegna come ali-mentarsi basandosi su un principio vi-sivo-spaziale: gli alimenti da consumare in maggiore quantità, infatti, sono quel-li posti alla sua base. Ai livelli succes-sivi sono invece rappresentati alimenti il cui consumo è da limitare, con anda-mento decrescente. Il modello originale del 1992 è stato modificato nel 2005: le fasce orizzontali sono state rimpiaz-zate con sei strisce verticali integrate in una grafica che sottolinea l’importanza dell’attività fisica quotidiana, ritenuta elemento indispensabile per il raggiun-
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Coinvolgere gli alunni in progetti
educativi alimentari si rivela
di fondamentale importanza
gimento e il mantenimento del benes-
sere psicofisico (Fig. 2).
Anche in Italia, in continuità con
quanto presentato nella piramide ali-
mentare, nel 2003 sono state pubbli-
cate dall’INRAN (Istituto Nazionale di
Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizio-
ne, afferente al Ministero delle Politi-
che Agricole e Forestali) alcune “Linee
guida per una sana alimentazione ita-
liana”. Tali Linee sono riassumibili in 8
semplici regole generali (si veda il Box)
completate da alcune indicazioni spe-
cifiche dedicate alle “persone speciali”
e al controllo dei cibi, secondo un ap-
proccio globale che a fianco degli aspet-
ti puramente nutrizionali tiene conto dei
principi fondamentali sulla sicurezza
alimentare e sulle diversità individuali.
LA SCUOLA
La scuola è un ambito ideale per pro-
muovere l’educazione alimentare: lì
si trovano tutti i soggetti in età evo-
lutiva che stanno mettendo a punto lo
stile alimentare che li accompagnerà per
l’intera esistenza. Una buona educazio-
ne alimentare oggi necessita di un ap-
proccio olistico al tema del cibo. Proprio
perché l’alimentazione è una dimensio-
ne della nostra vita che incrocia le tre di-
mensioni che connotano la salute secon-
do la definizione dell’OMS (salute come
equilibrio tra corpo, mente e relazioni
dell’individuo), propongo tre direzioni di
educazione ad un corretto stile alimenta-
re che partono da tre differenti approcci,
tutti utili in età evolutiva e tutti da inte-
grare in un progetto di prevenzione che
si rivolge ai minori.
L’approccio nutrizionale
A scuola gli studenti consumano nu-
merosi pasti. Tutti infatti fanno la me-
renda di metà mattina, mentre una per-
centuale considerevole usufruisce del
servizio di mensa scolastica per il pran-
zo. I docenti possono perciò osservare gli
stili alimentari dei propri alunni, fare at-
tenzione ad eventuali abitudini scorrette
e promuovere interventi educativi fina-
lizzati alla loro modifica. Coinvolgere gli
alunni in progetti educativi che li aiutino
a seguire delle linee guide per una sana
alimentazione e ad applicarle al loro stile
di vita si rivela di fondamentale impor-
tanza. In questo senso l’approccio più
popolare a livello internazionale è quello
rappresentato dalla campagna educativa
“Five a day” (“Cinque al giorno”), che ha
cercato di favorire il consumo di alme-
no cinque porzioni quotidiane di frutta e
verdura sulla base di un’indicazione for-
nita dall’OMS che raccomanda il consu-
mo individuale di «un minimo di 400 g
di frutta e verdura al giorno (con l’esclu-
sione di patate e altri tuberi)».
L’approccio basato sull’educazione
ai media
Sono numerosissime le ricerche che
dimostrano come TV e nuovi media ab-
biano un impatto enorme sulla salute
linee guida per una sana
alimentazione italiana1. Controlla il peso e mantieniti sempre attivo.
2. Più cereali, legumi, ortaggi e frutta.
3. grassi: scegli la qualità e limita la quantità.
4. Zuccheri, dolci e bevande zuccherate:
nei giusti limiti.
5. Bevi ogni giorno acqua in abbondanza.
6. Il sale? Meglio poco.
7. Bevande alcoliche: se sì, solo in quantità
controllata.
8. Varia spesso le tue scelte a tavola.
(INRAN, 2003)
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Ogni nostro comportamento, anche
alimentare, è oggi il risultato di scelte
individuali potentemente influenzate
dalle strategie di marketing
dei soggetti in età evolutiva. Il tempo
trascorso davanti allo schermo, infatti,
influenza la salute nutrizionale dei mi-
nori in più modi:
• determinando uno squilibrio tra ap-
porto calorico e dispendio energetico,
dovuto all’inattività fisica e al cosid-
detto fenomeno del “multisnacking”,
ovvero l’abitudine di consumare
spuntini, mentre si rimane concen-
trati su quello che viene trasmesso;
• generando bisogni e desideri alimenta-
ri attraverso un martellamento pubbli-
citario continuo, che ha proprio negli
snack e in cibo dallo scarso valore nu-
trizionale e dall’alto potere calorico al-
cuni tra gli alimenti più rappresentati.
Ogni nostro comportamento è oggi
il risultato di scelte individuali poten-
temente influenzate dalle strategie di
marketing di multinazionali e di azien-
de locali al fine di favorire il consumo
dei propri prodotti. I consumi alimentari
non si sottraggono a questa regola. Il po-
tere di suggestione degli spot può e deve
essere ridimensionato, anche promuo-
vendo nei più piccoli un’analisi critica
dei molti messaggi pubblicitari che ogni
giorno compaiono, direttamente e indi-
rettamente, nei loro programmi televisivi
preferiti o nei siti web che frequentano.
Negli Stati Uniti questa emergenza
è stata affrontata attraverso curricola
educativi a diffusione nazionale, come
il “Media SmartYouth: Eat, Think and
BeActive” (Mangia, Pensa e Stai atti-
vo), sviluppato nel 2005 dal National
Institute of Child Health and Human
development, un programma rivolto agli
studenti delle scuole primarie e secon-
darie. Il focus di questo progetto, com-
pletamente basato sui principi dell’edu-
cazione ai media, consiste nell’aiutare i
giovanissimi a diventare consapevoli del
ruolo che questi ultimi hanno nell’in-
fluenzare le loro scelte alimentari e mo-
torie, a pensare criticamente rispetto ai
messaggi che ricevono, così da appren-
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Un corpo bello, secondo i canoni
imposti dal contesto socioculturale
attuale, non è un corpo sano,
bensì un corpo magro
Riferimenti bibliografici
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Alberto Pellai, medico, psicoterapeu-ta dell’età evolutiva, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Milano, si occupa di prevenzione in età evolutiva e tutela della salute materno-infantile. È stato post-doctoral fellow al National Committee for Prevention of Child Abuse degli Stati Uniti. Recentemente ha pubblicato Baciare. Fare. Dire. Cose che ai maschi nessuno dice (Feltrinelli).
dere competenze che permettano loro
di fare scelte informate rispetto ai com-
portamenti specifici del proprio stile di
vita che impattano sullo stato di salute.
In questa prospettiva, uno strumento
di grande utilità – disponibile anche nel
nostro paese – è il documentario Super
size me, diretto da Morgan Spurlock,
che denuncia il modo in cui la cultura
alimentare, imposta dal marketing del-
le catene di fast food presenti in tutto il
mondo, induce comportamenti nutrizio-
nali alquanto squilibrati nella popolazio-
ne e soprattutto nelle nuove generazioni.
L’approccio basato sull’immagine cor-
porea
In età evolutiva, in particolare in pre-
adolescenza e adolescenza, i compor-
tamenti alimentari dei giovanissimi
vengono potentemente condizionati dal
loro desiderio di avere un corpo bello e
che piaccia agli altri, condizione consi-
derata un pre-requisito per il successo
personale e sociale. Quella in cui vivia-
mo, tra l’altro, è una società ossessiona-
ta dal valore della bellezza, che sempre
più spesso viene declinata, soprattut-
to per le ragazze, in magrezza. Ovvero,
il corpo bello, secondo i canoni impo-
sti dal contesto socioculturale attuale,
non è un corpo sano, bensì un corpo
magro, per ottenere il quale molti sog-
getti in età evolutiva sono disposti an-
che a mal-nutrirsi, se non addirittura a
de-nutrirsi. In questo senso, educare a
una sana alimentazione – soprattutto
in preadolescenza e adolescenza – pre-
suppone ri-fondare e ridefinire insieme
agli alunni i pre-requisiti su cui ciascu-
no basa le caratteristiche della propria
autostima corporea e stabilizza a livello
intrapsichico la propria immagine cor-
porea ideale. Aiutare chi sta crescendo
a non interiorizzare – per sé – un’im-
magine corporea ideale troppo lontana
da quella reale e non eccessivamente
ispirata allo stereotipo corporeo propo-
sto dai media agli adolescenti si rivela
un pre-requisito che permette poi di po-
ter educare ad una sana alimentazione,
sulla base del principio che un corpo è
bello in quanto sano e non in quanto
magro. Molti dei progetti di educazione
alimentare rivolti oggi agli adolescenti
si muovono proprio in questa prospet-
tiva che privilegia alcuni aspetti psico-
logici e socioculturali rispetto ad altri
puramente nutrizionali.
CONCLUSIONI
L’educazione alimentare in età evo-
lutiva oggi si presenta come una
disciplina alquanto variegata che
deriva i propri strumenti e i propri obiet-
tivi educativi da molte differenti strate-
gie educative, quali l’educazione ai me-
dia, l’educazione emotiva e l’educazione
alla salute. Educare a mangiare sano im-
plica sostenere i soggetti in età evolutiva
non solo a scegliere il cibo migliore per il
proprio benessere, ma anche ad orienta-
re il proprio stile di vita verso valori etici
e verso la consapevolezza che l’alimenta-
zione è anche una strategia di consumo
etico e responsabile nel rispetto di sé,
degli altri e dell’ambiente.
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c i n e m a e l e t t e r a t u r a
Youth - La giovinezza
«Ciò che viene dopo la morte è futile, e
per chi sa di essere vivo, la sequela dei
giorni è tanto lunga». Così Albert Ca-
mus scrive a proposito di Don Giovanni in
L’uomo in rivolta. A quel tempo, nel 1951,
il più mediterraneo dei filosofi ha 38 anni.
La vecchiaia per lui è lontana (e non la rag-
giungerà, morendo nel 1960). Sa però che
l’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa
questo rimprovera al burlador: che non tema
il sopraggiungere nefasto della vecchiaia, an-
nuncio della morte, a sua volta fondamento
di ogni fede in Dio e di ogni moralità impau-
rita. E sa che solo liberandosi dal peso del
Convitato gli esseri umani possono trovare la
felicità leggera d’essere vivi. A questa stessa
felicità sembra alludere il recente film di Pa-
olo Sorrentino Youth - La giovinezza (2015).
Tutti abbiamo ceduto alla tentazione
della leggerezza, fa dire il regista a Jim-
my. Il trentenne divo hollywoodiano si
rivolge all’ormai ottantenne Fred, direttore
d’orchestra e compositore in pensione. La
sua tentazione, così sostiene Jimmy, sono
state le Simple songs che, trenta o qua-
rant’anni prima, gli sono valse un successo
troppo facile, mai di nuovo raggiunto con
opere ben più complesse. E ora Fred non
vuole tornare a dirigerle, quelle canzoni trop-
po semplici e leggere, nemmeno su richiesta
di sua maestà britannica.
I due sono in vacanza tra le montagne
svizzere, in un albergo di lusso che si prende
cura dei suoi ospiti, molti dei quali onerati
dagli anni, fardello greve almeno quanto il
marmo di cui è fatta la statua del Commen-
datore. Tra questi c’è
Mick, da sempre amico
di Fred. Sceneggiato-
re di talento e di fama,
Mick cerca di termi-
nare la scrittura di un
testo che immagina
sarà il suo testamento
professionale. Questa
sorta di monumento a se stesso dovrà conclu-
dersi con le parole pronunciate dal protagoni-
sta – in sostanza, da lui – in punto di morte.
O magari con il suo silenzio, suggello (artisti-
co) ancora più tragico e ancora più compia-
ciuto di una biografia.
Sono il precipitare del tempo e il declina-
re della vita il cuore del film di Sorren-
tino. Feroce, la macchina da presa mo-
stra l’uno e l’altro nei corpi sfatti di uomini
e donne persi tra i vapori densi delle saune,
abbandonati nell’acqua delle piscine terapeu-
tiche, consunti nei primi piani e nei troppi
sguardi senza luce. Feroce, ancora, indugia
sul corpo gonfio, irriconoscibile di un non
Da sinistra a destra:feroce, la macchina da presa mostra corpi sfatti e sguardi senza luce;spiando una felicità lontana;fuori dalla gabbia, una leggerezza nuova?
In alto a destra: la locandina del film.
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nizio della sua maturità d’autore, a metà cammi-no tra una promessa di futuro e un passato che inizia a delinearsi sullo sfondo. Questa sua “posizione” gli consente di guardare al compiersi della brevità del tempo, senza pagare il prezzo dell’autocom-miserazione.
RObERTO ESCObARUniversità di Milano
figli avrebbero voluto, o di non essere riusciti a far sentire ai loro figli quanto essi valessero per loro. E poi, certo, si difendono dalla brevi-tà crudele del tempo, del loro tempo. Per un giovane, dice Mick ai suoi giovani cosceneg-giatori, il tempo è come un cannocchiale che veda il futuro come una promessa vicina. Per un vecchio, invece, quel cannocchiale si rove-scia, mostrando solo il passato, lontanissimo.
Per quel che lo riguarda, Mick progetta di trasformare questa “visione” in un’opera d’ar-te, che del suo finire fissi e mostri un senso. Ma a chi potrà interessare, gli obietta brenda, l’amica di una vita che dovrebbe interpretare il film? E forse intende: a chi potrà interes-sare il ripiegarsi su se stesso di un vecchio, il suo raccontare la propria morte come un evento degno di esser celebrato?
Per paradosso, aggiungiamo, del decli-nare d’una vita può raccontare non un vecchio, ma un giovane. Forse un divo
trentenne come Jimmy, in un personaggio ipotetico di un ipotetico film. O un regista quarantacinquenne come Sorrentino, all’i-
più giovane ex campione (Diego Maradona, nella parte di se stesso). Poi, addirittura più crudele e diretta, la sceneggiatura racconta quel precipitare e quel declinare attraverso i dialoghi di Fred e Mick: parole ed espressioni percorsi da sarcasmi che hanno l’aria di na-scere da un’indifferenza coraggiosa di fronte all’avvicinarsi della fine, e che valgono invece come una paradossale ultima difesa.
Da che cosa si difendono, il vecchio musi-cista e il vecchio uomo di cinema? Forse dal rimpianto di non essere stati i padri che i loro
Che cosa vede nel suo cannocchiale rove-sciato l’autore di Youth - La giovinezza? A noi pare veda quello che, con la sua splendi-da leggerezza, vedeva sessantaquattro anni fa Albert Camus. Questo, alla fine, scopre Fred: oltre la porta dell’albergo, lontano dalla sua patetica messa in scena “terapeutica”, lo aspetta la giovinezza, almeno finché sarà capace di sentirsi vivo. È la leggerezza che glielo può di nuovo rammemorare. La stessa leggerezza con cui l’ex campione si fa pa-drone del suo corpo gonfio e dei suoi piedi appesantiti, facendo danzare nell’aria il giallo solare di una pallina da tennis. La stessa leg-gerezza, ancora, da cui Fred ha fatto nascere trenta o quarant’anni prima le sue “semplici canzoni”, che ora non esiterà a riportare in vita. L’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa può attendere.
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Come sono valutati i piloti dell’aviazione
civile?
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CAstiello
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Il 24 marzo 2015, il volo 9525
della compagnia tedesca Germanwings
si schianta sulle Alpi francesi.
Il ventottenne copilota, Andreas
Lubitz, lasciato solo ai comandi
per un breve lasso di tempo,
deliberatamente avvia un’inesorabile
discesa verso le vette delle Alpi e
lascia che l’aereo con 144 passeggeri
e 6 membri dell’equipaggio
si sfracelli sulle rocce.
Nessun superstite
nell’ambito delle applicazioni del-la psicologia ai contesti lavorativi è emersa, da tempo, una bran-
ca specifica denominata inizialmente Aviation Psychology e successivamente Space & Aviation Psychology, che po-ne al centro lo studio dell’essere umano nelle condizioni di volo, ma non soltan-to. È l’intero “mondo del volo” ad esse-re preso in considerazione: comandanti e piloti, assistenti di volo e tecnici, ma anche altre fondamentali figure profes-sionali come i controllori del traffico ae-reo, che potremmo definire gli “occhi dei cieli”, dato che il loro ruolo consi-ste nel monitorare le traiettorie e gestire il traffico aereo. la psicologia dell’ae-ronautica (e la sua stretta parente, la medicina aeronautica) si è sviluppata soprattutto per offrire risposte operati-ve al tema della scelta e della selezione dei piloti, ma ha ben presto ampliato il suo raggio di azione e oggi copre un campo esteso: dallo studio degli stress psicofisici durante il volo, all’analisi del cosiddetto fattore dell’errore umano nei casi di disastri aerei o delle più frequen-ti quasi-collisioni, dall’ergonomia degli spazi interni dei velivoli alla gestione della sicurezza, dalla formazione de-gli equipaggi ai modelli di leadership incarnati dai comandanti e dai primi ufficiali, fino ai temi del management
dell’equipaggio di condotta e di cabina e delle comunicazioni aria-terra e terra-aria.
sostanzialmente, si possono indivi-duare studi, ricerche e interventi indi-rizzati, di volta in volta, verso l’uno o l’altro dei macrosettori costituiti dall’a-viazione civile e da quella militare (tra-lasciando l’aspetto del volo al di fuori dell’atmosfera terrestre) e dalle situa-zioni specifiche che fanno riferimento ad aeromobili ad ala fissa e ad ala ro-tante (elicotteri).
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ulteriori aspetti indagati nell’ambito dell’aviazione civile sono il comporta-mento dei passeggeri nelle situazioni di emergenza o di dirottamento e l’impatto psicologico dei disastri aerei.
naturalmente, al centro di numero-se questioni rimangono le delicate fasi della scelta e selezione dei piloti (civi-li e militari), della loro formazione nel contesto dei programmi di training psi-cologico e tecnico-operativo, e della va-lutazione periodica cui sono sottoposti nel quadro dell’avanzamento di carriera.
le origini
«storicamente, la psicologia dell’a-viazione risale allo sviluppo di test di selezione per i piloti nel corso
della prima guerra mondiale» (Jensen, 1991) e un secondo, forte impulso all’evoluzione della disciplina si è avu-to in occasione del secondo conflitto mondiale. tali radici danno conto del maggiore interesse dedicato, finora, all’aviazione militare, da un lato, e al personale di condotta (piloti e coman-danti), dall’altro.
nel contesto italiano non si può di-menticare il fondamentale contribu-to del francescano agostino gemelli (1878-1959), psicologo e psichiatra, il quale, nel corso della grande guerra, fu chiamato dal comando supremo del regio esercito come consulente per la selezione psicologica dei piloti dell’ae-ronautica militare. nel 1916 gemelli assunse l’incarico in collaborazione con il professor amedeo Herlitzka (succes-sore di angelo Mosso nella cattedra di Fisiologia all’università di torino) e con l’asso dei cieli Francesco Baracca. Do-po aver studiato il ruolo professionale, intervistato i piloti al ritorno dalle mis-sioni e sperimentato personalmente la condizione del pilotaggio (negli anni trenta conseguì egli stesso il brevetto di volo), comprendendo l’importanza dell’esame psicologico e non solo me-
dico dei candidati istituì vari centri per le ricerche di psicofisiologia dell’avia-zione e a Milano il laboratorio di psico-logia (diretto da Herlitzka fino al 1924).
gemelli è considerato il fondatore della Psicologia dell’aviazione e del-la Medicina aeronautica in europa in quanto è stato tra i primi a considera-re non solo gli aspetti fisiologici di ido-neità al volo (età, peso, altezza), ma anche quelli psicologici e attitudinali, dando spazio alle pionieristiche inda-gini sulle motivazioni, le aspettative e l’equilibrio emotivo dei candidati (com-preso ciò che egli definì il possesso di “chiare qualità positive” necessarie per adempiere al ruolo di pilota). si deve infatti ricordare che in quei tempi gli unici requisiti richiesti al candidato pi-lota erano così declinati: «salute, vi-sta, udito, ottimi. Peso non superiore a kg 75». nel 1942, gemelli pubblicò La psicologia del pilota di velivolo, nel quale fornì l’impostazione metodologica alla materia e ne definì gli aspetti de-
ontologici; per primo parlò di sicurezza del volo e dell’importanza del rapporto uomo-macchina.
È trascorso un secolo da allora, ma non sembra che il suo insegnamento sia stato pienamente raccolto.
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si dovrebbe evitare di affidarsi
a valutazioni monodimensionali
e a poche tecniche di diagnosi
psicologica
le tecniche proiettive e semiproiettive,
e inserire le sessioni sociodinamiche di
assessment in gruppo che, uniche, pos-
sono offrire informazioni su un’ampia
gamma di capacità soggettive.
ciò che si dovrebbe evitare – e, dal-
le informazioni diffuse dalle istituzioni
competenti dopo il drammatico caso
del volo 9525 della germanwings, è
ciò che invece oggi costituisce il nu-
cleo delle operazioni selettive – è affi-
darsi a valutazioni monodimensionali
e a poche tecniche di diagnosi psico-
logica.
in italia l’iter per conseguire le diver-
se tipologie di “licenze aeronautiche” e
la selezione Dei Piloti
oggi disponiamo di tre grandi me-
todologie di valutazione psico-
logica che dovrebbero essere
utilizzate soprattutto per i ruoli di mag-
giore responsabilità, compresi quelli di
pilota e di comandante nell’aviazione
civile: il colloquio individuale clinico-
organizzativo, gli assessment di grup-
po e il testing psicologico. Per valutare
il candidato pilota sarebbe necessario
che fossero applicati tutti e tre questi
metodi, da parte di esaminatori psico-
logi diversi, al fine di integrare le in-
formazioni e costruire una rappresen-
tazione completa, globale, dinamica e
quindi sufficientemente affidabile del
candidato. nell’ottica dell’assessment
clinico-organizzativo occorrerebbe svol-
gere colloqui di psicodiagnosi approfon-
dita, ampliare la gamma dei questionari
e dei test psicologici utilizzando anche
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Germanwings: un caso non isolato
anche se può sembrare assurdo, vi sono stati diversi altri episodi di
suicidio compiuti da piloti al comando sia di ultraleggeri, sia di aerei di linea, nel con-testo dell’aviazione civile.
il 9 febbraio del 1982 un Dc-8 della Japan airlines pre-cipitò in mare poco prima di atterrare a tokyo: la commis-sione d’inchiesta accertò che il comandante (che aveva già manifestato “disturbi nervo-si”) aveva manovrato al fine di far precipitare l’aereo in mare, causando la morte di 24 persone mentre 150 rima-sero ferite. nel novembre del
2013, il jet Mozambique air-lines e-190 con 33 persone si schiantò in namibia: uno dei due piloti si era chiuso nel cockpit e aveva deliberata-mente modificato le imposta-zioni di volo. altri episodi so-no invece rimasti incerti. È il caso, per esempio, del Boeing 777 della Malaysia airlines in servizio fra Kuala lumpur e Pechino, dato per disperso l’8 marzo 2014 nell’oceano indiano dopo aver trasmesso una serie di dati in modalità automatica, che non è stato mai ritrovato.
cosa è possibile apprendere dal tragico evento dell’air bus
a320-200 della germanwings e da casi simili? sicuramen-te molto, e l’occasione non dovrebbe essere trascurata né persa. nella gestione di piloti e comandanti il primo passo fondamentale è certamente scegliere le persone adat-te, ma ciò non è sufficiente. una volta superata la fase di selezione iniziale il pilota, come evidenziamo anche nel paragrafo “oltre la selezione”, dovrebbe essere monitora-to ciclicamente dal punto di vista psicologico e non solo medico, osservandone la con-dotta durante l’aggiornamen-to professionale, facendogli
Da più parti viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla selezione psichiatrica rispetto
a quella psicologica
di “abilitazione” è di competenza degli iMl, i due istituti Medico-legali (ora iMas – istituti di Medicina aerospa-ziale) dell’aeronautica Militare, ange-lo Mosso di Milano e aldo di loreto di roma, o di un ambulatorio della sanità Marittima del Ministero della salute (ta-li istituti si occupano anche del control-lo periodico di piloti, navigatori, equi-paggi e assistenti di volo). le fasi delle procedure selettive e addestrative sono illustrate nei siti di enac e di alitalia, ma ciò che qui interessa ruota intorno all’accertamento della cosiddetta ido-
neità psicofisica, segnatamente nella dimensione psicologica. se è del tutto ragionevole concordare con gli obiettivi di tali accertamenti – per esempio, ac-certare la tendenza all’uso di sostanze
stupefacenti o psicotrope, il rischio di suicidio, la presenza di segnali di de-pressione, l’abuso di alcol – la questio-ne riguarda le modalità con le quali si realizza la valutazione, e la regolarità con la quale tale assessment è ripropo-sto al soggetto nel corso della sua car-riera di pilota.
Da più parti (anche a livello interna-zionale) viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla se-lezione psichiatrica rispetto a quella psi-cologica. nello specifico, la prassi di af-fidarsi sostanzialmente ad un unico test di personalità (il Minnesota Multiphasic Personality inventory-MMPi), inviare il candidato a colloquio psicologico solo in casi di “sospetto”, e su indicazione del medico/psichiatra, e ignorare del tutto la valutazione in gruppo, non ap-paiono procedure al passo con i tempi e con le attuali conoscenze elaborate nel contesto dell’assessment psicologico nei ruoli di responsabilità. inoltre, an-che nella documentazione europea, si fa specifico riferimento all’accertamen-
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ripetere regolarmente test e
colloqui psicologici, offrendo
il supporto del counseling psi-
cologico nei casi appropriati.
al fine di rendere davve-
ro sicuro il traffico aereo
commerciale si dovrebbe
predisporre, infatti, una rete
professionale di psicologi e
psichiatri, in veste di counse-
lor, da poter interpellare nei
momenti in cui il pilota vive
situazioni di difficoltà perso-
nale, relazionale ed esisten-
ziale. Questa rete dovrebbe
essere messa a disposizione
non soltanto di piloti e co-
mandanti, ma anche degli
assistenti di volo (senza con-
siderare una terza categoria,
che sembra essere del tutto
trascurata nell’attuale dibatti-
to, che è quella dei controllori
del traffico aereo).
infine, il caso germanwings
testimonia in modo eclatante
una realtà che è ben nota agli
addetti ai lavori. infatti, pres-
soché nessuno, sia tra i piloti
che tra il personale di cabina
(assistenti di volo), comunica
spontaneamente di avere pro-
blemi psicologici alla propria
struttura di appartenenza, pur
se normativamente sarebbe
obbligato a farlo, dato che la
risposta che tende ad attivarsi
in tali situazioni è di impedire
immediatamente al soggetto
di esercitare la propria profes-
sione (ritiro temporaneo del
permesso di volo, e/o messa a
terra). Vi è quindi un aspetto
di carattere normativo-puni-
tivo che induce a evitare il
possibile intervento di recu-
pero e cura della situazione
di sofferenza soggettiva ma-
nifestata, con la conseguenza
che la persona tace sulla pro-
pria condizione, adotta vari
sistemi di autocura, oppure
si rivolge privatamente a pro-
fessionisti esterni. Dunque,
la situazione paradossale che
si evidenzia è la seguente: da
un lato, il pilota in difficoltà
non comunica (o nasconde)
il proprio disagio psicologico
alla compagnia (compresa l’e-
ventuale angoscia per il volo,
o aerofobia), dall’altro, gli enti
preposti non attivano monito-
raggi psicologico-psichiatrici
regolari nel corso della sua
carriera.
to dell’idoneità psicofisica realizzata per
mezzo del rapporto, o certificato, “medi-
co”, come se la dimensione psicologica
fosse automaticamente compresa nella
dimensione medica.
oltre la selezione
come già accennato all’inizio, l’am-
bito della psicologia dell’aviazio-
ne va ben oltre la selezione e la
valutazione dei piloti. Per esempio, uno
dei suoi maggiori contributi ha riguar-
dato l’area della formazione: il crew re-
source Management (crM) è stato svi-
luppato, infatti, a fine anni settanta in
ambito nasa sulla base delle indagini
che avevano messo in rilievo importan-
ti fonti di errore umano nella catena di
cause che portano agli incidenti aerei.
nello specifico, furono individuate delle
“falle” nel processo di decision making,
nella comunicazione e nell’esercizio del
comando. Fu così organizzato un team
di psicologi al fine di ideare un nuovo ti-
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nei controlli medici periodici,
l’aspetto psicologico, esistenziale
e di vita organizzativa non è preso
in considerazione
po di training psicologico, da affiancare
all’addestramento tecnico. Da quando è
nata ad oggi, questa tipologia di Human
Factor training si è sviluppata ed evolu-
ta rapidamente, tanto che generalmen-
te ci si riferisce alla storia del crM in
termini di cinque “generazioni”.
Dal punto di vista del monitoraggio
delle condizioni psicologiche dei piloti,
il tema scottante che è emerso sull’on-
da del caso germanwings è rappresen-
tato dalla completa assenza di un cicli-
co controllo psicologico (non medico)
nel corso della vita professionale, e
dall’assenza di una precisa valutazione
psicodiagnostica nel momento in cui il
pilota assurge al ruolo di comandante.
ciò che caratterizza la vita del pilota è
il controllo medico cadenzato ogni anno
– successivamente ogni sei mesi – ef-
fettuato dalle stesse strutture medico-
legali che si sono occupate della sele-
zione iniziale e che hanno il compito
di rilasciare l’idoneità al volo. Dunque,
con l’inizio della carriera di pilota di li-
nea prendono il via i controlli medici
Aviation Psychology
la psicologia dell’aeronau-
tica è oggi internazional-
mente rappresentata da
diverse associazioni scienti-
fico-professionali in cui sono
presenti psicologi, medici,
ingegneri, piloti e altre figure
professionali. in europa l’as-
sociazione di riferimento è la
eaaP – european association
for aviation Psychology (www.
eaap.net/).
Diverse riviste internazionali
si occupano di una moltitudi-
ne di aree come l’ergonomia,
l’interazione uomo-macchina,
le tematiche di gestione e co-
municazione, la gestione dello
stress dei controllori del traf-
fico aereo, e di aspetti ancora
più specifici come i problemi
psicologici dei piloti milita-
ri abbattuti in combattimento
e fatti prigionieri, la situatio-
nal awareness, e l’influenza
sui passeggeri delle catastrofi
aeree civili. tra le riviste più si-
gnificative ricordiamo: Interna-
tional Civil Aviation Organisa-
tion Journal, Aviation, Space
and Environmental Medicine;
Journal of Travel Medicine;
Human Factors; The Interna-
tional Journal of Aviation Psy-
chology; Aviation Psychology
and Applied Human Factors.
annuali, ma si tratta di controlli medici
nei quali l’aspetto psicologico, esisten-
ziale e di vita organizzativa (poiché le
compagnie aeree sono a tutti gli effetti
organizzazioni di lavoro) non è preso in
considerazione. Perché i normali siste-
mi di gestione, valutazione e sviluppo
delle risorse umane utilizzati nel mondo
aziendale non sono applicati ai piloti e
al personale di volo? Perché per diven-
tare comandante non è prevista una va-
lutazione psicologica approfondita sulle
qualità di base della persona e sulle sue
capacità di leadership?
le domande che sorgono sono per-
tanto numerose, nonostante diversi
vertici istituzionali – all’indomani del
crash dell’airbus a320-200 della ger-
manwings – si siano affrettati a dichia-
rare che “il sistema funziona” e che
l’obbligo del doppio pilota in cabina
di comando “sicuramente” impedirà il
verificarsi di fatti come quello accadu-
to nel marzo del 2015. in realtà, per
appurare che un sistema funzioni vera-
mente, si dovrebbe innanzitutto esplici-
tare con trasparenza i suoi meccanismi,
e successivamente permettere a sogget-
ti indipendenti di verificarne il funzio-
namento (passato e attuale).
Vi sono dunque numerosi spunti che
potrebbero oggi essere presi in conside-
razione al fine di migliorare il mondo del
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occorrerebbe superare la dicotomia
tra medici/psichiatri e psicologi,
assegnando la medesima dignità
professionale allo psicologo clinico
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Andrea Castiello d’Antonio, psicologo cli-nico e psicoterapeuta, professore straordi-nario presso l’Università Europea di Roma. Ha pubblicato numerosi volumi e articoli principalmente sulle applicazioni sociali, cliniche e lavorative della psicologia.
volo e rendere l’aviazione civile più sicu-
ra. in primo luogo occorrerebbe supera-
re la dicotomia – e spesso l’incompren-
sione – tra medici/psichiatri e psicologi,
assegnando la medesima dignità profes-
sionale al lavoro dello psicologo clinico-
organizzativo rispetto a quelli del medi-
co e dello psichiatra, e realizzando dei
team multi-professionali in cui gli ope-
ratori possano davvero integrare le loro
conoscenze scientifiche professionali,
evitando le lotte di potere per chi deve
avere l’ultima parola sull’idoneità di un
candidato al ruolo di pilota.
in altri contesti culturali, diversi dal
nostro, psichiatri e psicologi collabora-
no allo scopo di studiare e intervenire su
ogni aspetto del volo che abbia un colle-
gamento con il cosiddetto “fattore uma-
no”. sarebbe utile e intelligente se nel
nostro paese la psicologia dell’aviazione
venisse almeno presa in qualche consi-
derazione da coloro che hanno l’autorità
di decidere come impostare i programmi
di selezione, formazione e valutazione
del personale dell’aria. se si vuole seria-
mente cercare di prevenire altri episodi
come quello del volo 9525 della ger-
manwings è necessario ripensare com-
pletamente la gestione del personale di
volo, dalle prime fasi di selezione fino
agli stadi conclusivi della carriera.
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Contro i bambini (e le loro mamme)
Nel nostro paese l’offerta di servizi per la
primissima infanzia, per quanto miglio-
rata negli ultimi vent’anni, è fortemente
carente e disomogenea, con vistose differenze
regionali. Nel 2010 le statistiche indicavano
che in media solo il 10% dei bambini italiani
frequentava il nido, con punte intorno al 30%
nelle zone maggiormente servite, situate per-
lopiù al Nord o nelle grandi città. Oggi queste
percentuali rischiano di ridursi ulteriormente,
poiché sono numerosi i comuni che stanno
chiudendo o accorpando i nidi. Non solo quin-
di diminuisce il numero dei posti disponibili,
ma questi rischiano di essere di difficile ac-
cesso, vista l’età dei bambini, le loro parti-
colari esigenze e le difficoltà di trasporto. La
giustificazione che viene data per la riduzione
del numero dei nidi è economica: la progres-
siva riduzione dei finanziamenti renderebbe
impossibile la continuazione del servizio.
Sulla motivazione unicamente economica
di queste decisioni è lecito avere dei dubbi.
Esse sottendono infatti una concezione dello
sviluppo infantile e del ruolo delle madri – e
più in generale degli adulti – che fa ritenere
il nido superfluo quando non addirittura no-
civo. Per quanto sia ormai chiaro da decenni
agli studiosi e operatori della prima infanzia
che il nido è un servizio non solo sociale e as-
sistenziale ma soprattutto educativo, questa
consapevolezza non si è ancora sufficiente-
mente diffusa né tra le famiglie né tra gli enti
pubblici. Ne sono la prova sia la scarsa diffu-
sione del servizio sul territorio nazionale, con
zone in cui esso è di fatto inesistente, sia lo
scarso interesse per tutte le forme alternative
o integrative al nido, come micronidi o tate
familiari. Sono forme che potrebbero venire
incontro alle esigenze sociali ed educative dei
bambini e delle famiglie, offrendo maggiore
flessibilità e minori costi di gestione. Solo po-
che regioni italiane si sono attivate in questi
anni per offrire questi servizi e la loro possi-
bilità non viene nemmeno presa in considera-
zione da chi pensa oggi solo a chiudere i nidi.
Perdura la radicata convinzione che sia
preferibile per i bambini essere accuditi
solo dalle mamme o da altri adulti della
famiglia. Di conseguenza, il ricorso ai non-
ni non è soltanto il frutto di una valutazione
economica, ma anche di una mentalità che
considera superflua, quando non nociva, la
presenza dei coetanei nei primi anni di vita.
Si dimentica che molte competenze sociali si
sviluppano non nella relazione diretta con
l’adulto, bensì con i coetanei. Almeno a par-
tire dall’anno e mezzo, il rapporto con i soli
adulti, per quanto necessario, non è sufficien-
te per lo sviluppo di capacità emotive e sociali
che saranno poi cruciali nelle età seguenti.
Ne è un chiaro esempio la cooperazione. Essa
non si può sviluppare nel solo rapporto con
l’adulto, a causa della condizione asimmetri-
ca di relazione educativa e di sviluppo psico-
logico che esiste tra questi e il bambino. Solo
dall’incontro, e anche dall’inevitabile scon-
tro, con chi ha le stesse capacità cognitive e
sociali, possono evolvere nel bambino le com-
petenze indispensabili per un buon svilup-
po della capacità cooperativa. Per esempio,
il fatto che un bambino rifiuti di condividere
un giocattolo con un compagno non è in sé
un’esperienza negativa e in ogni modo da evi-
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tare, come molti adulti ritengono. Al contra-
rio, in un contesto educativo adeguato essa è
un’esperienza positiva, che stimola la ricerca
di nuove soluzioni più creative, ben differen-
ti da quelle che potrebbero essere proposte
dagli adulti. Sono soluzioni piene di inventiva,
diverse sia dall’aggressione sia dalla rinun-
cia, in cui entrambi i piccoli possono diver-
tirsi condividendo il medesimo giocattolo. Il
confronto, anche conflittuale, con i coetanei
abitua quindi a tenere conto degli altri e delle
loro esigenze, ma nello stesso tempo a non ri-
nunciare alle proprie. Per quanto in genere gli
adulti siano poco disposti ad ammetterlo, lo
sviluppo sociale e l’educazione morale passa-
no, fin dalla primissima infanzia, attraverso la
relazione non solo con l’adulto ma anche con
il coetaneo. Il ruolo dell’adulto rimane impor-
tante, ma è indiretto, poiché è sempre sua la
responsabilità di organizzare un contesto edu-
cativo valido.
La possibilità di vivere al nido esperienze
sociali con i coetanei è oggi determinante
e unica per molti bambini. Fino a tempi
non molto lontani i piccoli crescevano con fra-
telli, cugini, vicini di casa, in una prossimità
che nulla toglieva alla profondità e ricchezza
della relazione con la madre, ma che non iso-
lava il bambino in un rapporto con soli adulti.
Oggi non è più così. Già da alcuni anni in Ita-
lia la maggior parte dei bambini (circa il 47%)
rientra nella categoria dei figli unici, mentre
il 43% ha un fratello e solo il 10% ne ha due
o più. In concreto, questo significa che molti
piccoli rischiano di avere come unico riferi-
mento, fino all’ingresso nella scuola dell’in-
fanzia a tre anni, soltanto i genitori e i nonni.
Ne risulta un rapporto numerico del tutto
sbilanciato, con sei adulti che si occupano di
un solo bambino, in assenza di continuative
relazioni sociali con altri coetanei.
Se si considerano questi aspetti, risulta
chiaro che l’esperienza con i coetanei nel
nido, o in altri servizi di qualità, non rappre-
senta un doloroso ripiego per i bisogni assi-
stenziali delle donne che lavorano, anche se
questo aspetto non va certo trascurato, in un
paese in cui l’occupazione fuori casa riguarda
meno della metà delle donne. Ancor più, essa
è una possibilità di crescita per tutti i bam-
bini, che rischiano oggi di trascorrere i primi
anni della loro vita, in particolare il secondo
e il terzo, in una condizione di preoccupante
deprivazione sociale con i pari.
SILvIA bONINODipartimento Di psicologia Università Di torino
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Birmingham: bambini
di scuola dell’infanzia
intenti alla cura di un
grande girasole.
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Anche in Italia, che pure sull’argo-
mento non primeggia in Europa, si
stanno moltiplicando le esperien-
ze e i casi, qualcuno veramente innovati-
vo, in cui il tema del “verde” nelle scuole
viene affrontato con serietà e impegno,
grazie soprattutto ad un lavoro svolto da
differenti ma complementari capaci-
tà professionali (insegnanti, progettisti,
pedagogisti, ecc.). Sono ormai diverse le
proposte progettuali che hanno rivisto il
senso dell’abitare lo spazio educativo e
in grado di far acquisire maggiore consa-
pevolezza agli alunni, alle famiglie e alla
stessa comunità.
La buona scuola
“verde”GianLuca mora
Il tema del “verde” nelle scuole, in
particolare nelle scuole primarie e
dell’infanzia, è ormai riconosciuto
come fondamentale e seguito
con grande interesse per tutta una
serie di motivazioni che includono
aspetti legati alla didattica e
al rispetto della natura ma non solo
Se è pur vero che in primo luogo la
scuola è fatta di contenuti, è altrettanto
vero che essa è fatta di spazi e di strut-
ture e quindi di edifici. Purtroppo siamo
tutti consapevoli che è necessario prov-
vedere ad un adeguamento degli spazi
scolastici alle esigenze della didattica
moderna e gli spazi esterni possono ri-
sultare ambiti importanti di didattica
ambientale e botanica. Occorre dunque
favorire gli interventi di riqualificazione
naturalistica ricercando una maggiore
integrazione e relazione con i cittadini
del quartiere e con le altre istituzioni
del territorio.
La riqualificazione naturalistica, me-
diante il rinverdimento nell’ambito de-
gli edifici scolastici, può essere otte-
nuta e attuata ogni qualvolta vi siano
interventi rivolti a nuove edificazioni,
a ristrutturazioni, messa in sicurezza o
anche mediante interventi mirati.
Attualmente la normativa in materia
non impone particolari soluzioni al ri-
guardo. Tuttavia le Linee guida di edili-
zia scolastica, elaborate dal MIUR nel
2013 e già in corso di revisione, indica-
no ai progettisti che «lo spazio esterno
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il miglioramento bioclimatico, l’impatto
ambientale, il risparmio energetico sono
solo alcuni dei molteplici vantaggi degli
interventi di naturalizzazione
costituisce parte integrante del progetto
e deve essere altrettanto curato ed at-
trezzato con formazione di prati, piantu-
mazioni, orti didattici… una occasione
per sfruttare meglio l’area esterna e gli
elementi naturali… i cortili possono di-
ventare giardini d’inverno… ed essere
utilizzati come serre e fornire un guada-
gno termico nelle stagioni fredde».
Recentemente, con il sostegno della
Lipu – Lega Italiana Protezione Uccelli –
è stato presentato al Senato un disegno
di legge rivolto proprio a inserire, nelle
scuole primarie, interventi di naturaliz-
zazione. Ma cosa intendiamo per “natu-
ralizzazione degli spazi verdi” all’inter-
no delle nostre scuole?
LA “nATURALIzzAzIOnE”
Gli interventi rivolti alla naturaliz-
zazione, cioè al rinverdimento,
consistono principalmente nei
tetti verdi e nei giardini pensili, negli
orti all’interno di cortili e terrazzi, nei
birdgarden (giardini per uccelli e non
solo), nei giardini verticali e nei giardi-
ni sensoriali.
Altri interventi possono riguardare la
realizzazione di piccoli specchi d’acqua
con ninfee e papiri, la casa sull’albero,
le vasche di sabbia, ecc.
I tetti verdi, sia di tipo estensivo
(spessori contenuti, ridotta manuten-
zione) che intensivo (comunemente
definito giardino pensile, con spessori
di terreno maggiore e che richiede una
maggiore manutenzione), sono ormai
soluzioni tecnologiche sempre più uti-
lizzate nelle coperture degli edifici di
nuova costruzione a destinazione preva-
lentemente residenziale e direzionale.
L’orto scolastico, realizzato il più delle
volte grazie alla volontà e all’impegno di
alcuni insegnanti e genitori, soprattutto
nell’ambito della scuola dell’infanzia e
della scuola primaria, aiuta a far com-
prendere ai bambini la provenienza del
cibo che trovano sulla tavola, a riscoprire
il senso e la misura del tempo e dell’at-
tesa, favorisce l’apprendimento tramite
l’esperienza e quindi la consapevolezza,
e infine risulta un bene collettivo che
deve essere rispettato da tutti.
Il birdgarden è uno spazio all’aper-
to pensato per attrarre e accogliere gli
uccelli e altri animali selvatici. Aiuta a
comprendere l’ambiente naturale attra-
verso l’osservazione, in ogni sua acce-
zione, valorizza l’educazione ambienta-
le e il rispetto della bio-diversità.
I giardini verticali, oggi sempre più
in voga, anche di piccole dimensioni,
hanno un’utilità indubbiamente di ca-
rattere estetico, ma anche di regolazio-
ne termica (la traspirazione delle piante
raffresca l’aria), di depurazione dell’aria
e di abbattimento acustico e riduzione
del riverbero (la massa vegetale assorbe
le onde sonore e luminose).
Anche i giardini sensoriali rientrano
tra gli interventi qualificanti. Il giardino
assume un ruolo ludico, sociale e di-
dattico, favorisce l’apprendimento, in
particolare degli alunni con disabilità,
promuove lo sviluppo sensoriale (espe-
rienze visive, tattili, olfattive) e la co-
noscenza del sé corporeo in relazione
all’ambiente circostante, stimola la co-
noscenza e il rispetto della natura con i
suoi ritmi e i suoi spazi.
Quali sono i vantaggi cosiddetti am-
bientali di questi interventi? Citiamone
solo alcuni: il miglioramento bioclima-
tico, l’impatto ambientale, l’isolamento
acustico, il trattenimento delle polveri,
l’isolamento termico e il risparmio ener-
getico. Evidentemente i vantaggi pos-
sono essere molteplici anche per altri
aspetti. Per esempio circondare gli edi-
fici scolastici di spazi verdi, in un dia-
logo “interno”-“esterno”, crea una con-
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un giardino, oltre a diventare
un luogo di gioco, può offrire un forte
contributo al complesso e appassionante
compito dell’educare
taminazione che aiuta la stimolazione
percettiva dei bambini, così come il lo-
ro sguardo che non viene vincolato alla
sola dimensione dell’aula ma rivolto al-
lo spazio aperto, verso l’orizzonte verde
circostante. Per questo non occorre im-
maginare grandi superfici da naturaliz-
zare a verde, può essere sufficiente uno
spazio magari già esistente, che si svi-
luppi tra le rientranze dei corpi edilizi e
nei cortili, di forme e dimensione varia,
anche semplici frammenti integrati con
l’edificio e attorno ad esso.
Oltre a questi aspetti di carattere per-
cettivo, il giardino, come già accenna-
to, può diventare un luogo di gioco, di
attività fisica all’aperto, ma soprattutto
diventa uno spazio in cui fare esperien-
za e condividerla con gli altri. In sostan-
za, potrebbe essere un forte contributo
al complesso e appassionante compito
dell’educare. L’osservazione della natu-
ra e la scoperta dell’alterità di specie, i
tempi di ambientamento e la gradualità
nella cura di un orto o di un giardino, la
collegialità e la scoperta dell’identità di
uno spazio e la sua capacità di orienta-
re gli scambi sociali, sono solo alcune
delle tante opportunità che uno spazio
verde può offrire.
QUALChE bUOn ESEMPIO
La scuola primaria di Piobesi Torine-
se, realizzata dallo studio Archiloco
nel 2010, ha nel proprio giardino
un piccolo stagno alimentato da acqua
piovana proveniente dal tetto della scuo-
la e filtrata attraverso un sistema di fi-
todepurazione. I bambini si affacciano
sul laghetto da una terrazza in legno che
simula la prua di una nave dal cui albe-
ro maestro, al posto delle vele, svettano
luccicanti pannelli fotovoltaici.
Il polo scolastico per l’infanzia, a La-
ma Sud (Ravenna), dello studio MTA
Giancarlo De Carlo e Associati, è stato
inaugurato nel 2008 ed è inserito in un
parco di oltre due ettari. Rappresenta
un esempio riconosciuto di architettu-
ra partecipata e integrata, oltre che di
modernità pedagogica nell’intendere il
rapporto fra il bambino e lo spazio che
lo circonda.
Piobesi Torinese, Scuola
primaria “Unità d’Italia”
(Scuola Green).
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sempre di più oggi nelle scuole di nuova
costruzione vengono adottati criteri
di progettazione sostenibile
Il giardino è un luogo di gioco e di
attività fisica all’aperto, progettato co-
me spazio di esperienze ludiche ma
anche legate al fare (coltivare, costrui-
re, allevare, manutenere...). La scuola
vi si inserisce in modo da farlo pene-
trare nelle rientranze dei corpi edilizi
e nei patii: di forme e dimensioni ete-
rogenee, questi frammenti di giardino
si compongono a mosaico in un’unica
configurazione organicamente integra-
ta con l’architettura.
occidentale di Parigi, nel 2014 è sta-
ta costruita una grande scuola “green”
dallo studio Architects Chartier-Dalix
in cui, oltre all’impiego del verde sulle
coperture, è stata realizzata una parete
“vivente” ricca di fessure, interstizi e
fori che possono ospitare vegetazione e
piccoli uccelli, per favorire la protezio-
ne della biodiversità animale e vegetale
anche in ambiente urbano.
PARTIRE DALLE SCUOLE ESISTEnTI
Sempre di più oggi nelle scuole di
nuova costruzione vengono adot-
tati criteri di progettazione soste-
nibile, integrati con una dotazione im-
piantistica rivolta al minor consumo di
energia e quindi al risparmio energeti-
co. L’impiego di materiali da costruzio-
ne adeguati, abbinato alla ricerca del
massimo comfort, alla scelta dei colo-
ri, all’orientamento dell’edificio, al rap-
porto tra gli spazi ed alla relazione tra
essi, e a tutta una lunga serie di fattori
di valutazione, rendono generalmente
necessaria nella progettazione la com-
presenza e la partecipazione di diversi
esperti nei vari ambiti coinvolti.
In Francia, a Rillieux-la-Pape, nei
pressi di Lione, è stata recentemente
realizzata una scuola elementare che
si armonizza con lo spazio esterno met-
tendo in relazione il verde del terreno
con il verde delle coperture. I tetti verdi
accolgono passeggiate educative, tran-
sennate e sicure, che diventano veri e
propri luoghi panoramici, mentre a ter-
ra si sviluppano sentieri pedagogici lun-
go il tragitto percorso giornalmente da-
gli alunni per raggiungere la mensa e
l’orto. Sempre in Francia, nella periferia
Un’altra immagine del
giardino della scuola
“Unità d’Italia” di Piobesi
Torinese.
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2010), Un percorso partecipato verso la sostenibilità. La scuola elementare di Piobesi Torinese, Alinea Editrice, Firenze.
Gianluca Mora è architetto libero professionista, esperto in tecnologie edi-lizie innovative rivolte al risparmio ener-getico e alla sostenibilità ambientale. Ha redatto progetti di edilizia scolastica di diverso ordine e grado. È intervenuto con un proprio contributo alla presentazione in Senato del disegno di legge sulla “Ri-qualificazione naturalistica dell’edilizia scolastica”. Collabora inoltre con asso-ciazioni no-profit.
Questo tipo di attenzione rivolta ai
nuovi edifici scolastici riguarda anche
lo spazio “esterno”, che a tutti gli effet-
ti, come negli esempi richiamati, parte-
cipa in maniera integrata insieme agli
spazi “interni” agli obiettivi di una vi-
sione contemporanea della didattica e
della scuola moderna.
Purtroppo siamo consapevoli che il
patrimonio edilizio scolastico in gene-
rale risulta obsoleto e più del 60% delle
scuole italiane è stato costruito da oltre
40 anni, il 37.6% necessita di interven-
ti di manutenzione urgente, il 40% è
privo del certificato di agibilità, mentre
il 60% non ha il certificato di preven-
zione incendi (Legambiente, 2013). Il
piano per l’edilizia scolastica lanciato
recentemente dal Governo e gli investi-
menti messi a disposizione per la messa
in sicurezza, il ripristino funzionale e il
risparmio energetico speriamo possano
recuperare il ritardo ingiustificabile e
l’indifferenza degli anni passati.
Tuttavia, anche negli edifici esisten-
ti, in particolare nelle scuole dell’in-
fanzia e primarie, occorrerebbe indivi-
duare le risorse per “naturalizzare” lo
spazio esterno laddove esiste ed è po-
tenzialmente usufruibile. Anzi, risul-
terebbe forse prioritario partire proprio
dalle scuole esistenti, dando per scon-
tato che, per quanto riguarda le scuole
nuove, spesso è più facile ottenere gli
obiettivi prefissati una volta stanziate le
risorse necessarie. buona parte delle ri-
sorse economiche occorrenti potrebbero
provenire proprio dal risparmio energeti-
co derivante dai contributi e dagli effetti
degli “interventi a verde” sull’esistente.
Sarebbe necessario, per quanto pos-
sibile, superare la dicotomia tra il “den-
tro” e il “fuori” degli spazi scolastici,
aula e cortile per intenderci, conside-
rando a pieno titolo lo spazio esterno
a verde, in funzione ovviamente delle
stagioni e delle condizioni meteorologi-
che, uno spazio utile all’apprendimento
e al miglioramento ambientale in piena
sintonia con lo spazio interno e le sue
caratteristiche. Un modo di vivere insie-
me la dimensione narrativa dello spazio
come luogo di vita, di incontri, di rela-
zioni ed apprendimenti.
La coscienza collettiva, in merito a
questo tema, sta rapidamente cambian-
do in positivo, anche grazie allo sforzo
che gli “addetti ai lavori” hanno fatto e
stanno facendo, soprattutto all’interno
del mondo della scuola. Gli strumenti
per poter creare spazi adeguati ci sono
e vediamo che la sensibilità e l’attenzio-
ne dei progettisti è spesso più che ade-
guata. Il problema sono le risorse, che
non bastano mai e spesso non sono suf-
ficienti per la manutenzione ordinaria,
anche se nella maggior parte dei casi
basterebbe poco. Pensiamo, per esem-
pio, alla sostituzione della pavimenta-
zione di un’area cortilizia all’interno di
una scuola, anche solo parzialmente,
con un prato erboso e delle essenze ar-
bustive adeguate, oppure alla realizza-
zione di un orto didattico o un piccolo
giardino sensoriale all’interno di casso-
ni in legno riempiti di terra. Evidente-
mente non avremmo utilizzato grandi
risorse, ma avremmo però fornito un
contributo alla cura e al rispetto dei bi-
sogni di esplorazione spaziale-cogniti-
va-emotiva dei bambini e offerto loro la
possibilità di molteplici esperienze per-
cettive e motorie mediante la suggestio-
ne e la bellezza che l’ambiente naturale
sa creare.
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In un’epoca come la nostra, l’intelli-genza naturalistica (Gardner, 1987) assume un’importanza particolare.
D’altra parte è una forma di intelligen-za che, per potersi esprimere al meglio, deve trovare un terreno favorevole ed essere coltivata nel corso della crescita dell’individuo. È stato, infatti, messo in luce come il sentimento di continuità con la natura generi risposte fisiologi-che e psicologiche positive negli esseri umani, inclusa la riduzione dello stress e una corroborante sensazione di benes-sere (Lewis, 1996). Inoltre, sono ormai decine e decine gli studi che mostrano come i giochi e le attività nell’ambiente naturale siano molto amati dai bambini e ne stimolino lo sviluppo.
Per una “sensIbILItà verDe”
anche se l’intelligenza naturalisti-ca e la sensibilità nei confronti della natura si sviluppano sin da
bambini, tuttavia, spesso e volentieri, il tipo di vita e di ambiente in cui sia adul-ti che bambini sono inseriti contrasta e rende difficile il realizzarsi di questo rapporto con il mondo naturale circo-stante. Già alcuni decenni fa, proprio in riferimento ai bambini, il celebre archi-tetto, urbanista, e pensatore anarchi-co britannico Colin Ward scriveva che nella società contemporanea ai bambi-ni viene sempre più spesso impedito di uscire di casa, di giocare liberamente
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L’importanza del “pensiero verde”
in strada e nel verde come avveniva un
tempo, di usare la bicicletta o di cam-
minare da soli magari per raggiungere
la propria scuola, in breve di fare quel-
le importanti esperienze che consento-
no anche di raggiungere indipendenza e
autonomia nel movimento. Ward ritene-
va che gli adulti dovessero essere consi-
derati responsabili di aver realizzato dei
centri urbani invasi dal traffico, proget-
tati per rispondere prevalentemente ai
bisogni degli automobilisti e, in quanto
tali, fonte di rischio per i bambini che
sarebbero sempre più indirizzati verso
un modello di società consumistico, ti-
pico degli adulti, che li tiene in casa
davanti a televisori e videogiochi invece
che all’aria aperta e nella natura.
Quanto sia importante nella vita e
nella crescita dei bambini il rappor-
to con la natura emerge chiaramente
da tutta una serie di esperienze reali
che originariamente hanno riguardato
soprattutto il nord europa (cultural-
mente più attento di noi al benessere
ecologico degli individui). In norvegia,
per esempio, la vita all’aria aperta, a
stretto contatto con la natura, fa par-
te dell’educazione e delle politiche
pubbliche. basti pensare al caso dello
skårungen kindergarten, uno dei primi
asili nido “outdoor” in norvegia, attivo
sino dal 1996. Questo si trova sull’iso-
la di bragdøya e viene raggiunto ogni
giorno dai bambini e dalle loro mae-
stre in barca. L’asilo è in una piccola
Tra le varie forme di intelligenza
messe in evidenza dallo studioso
della mente Howard Gardner,
ne troviamo una che spesso viene
sottovalutata: l’intelligenza
“naturalistica”
ALbertinA oLiverio
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L’aumento dell’attenzione nei confronti
della natura, e dell’ambiente in generale,
è collegato ad un ampio spettro di
“riflessioni ecologiste”
vallata delimitata da barriere naturali, cosa che facilita sia il controllo dei li-miti entro i quali si svolge il gioco dei bambini, che una serie di attività come l’arrampicarsi sulle rocce o lo scivolare sulla neve nei periodi invernali. In que-sto asilo i bambini giocano anche molto arrampicandosi sugli alberi, pescando nei periodi primaverili ed estivi e con dei coniglietti che vengono tenuti lì in alcune gabbiette.
Oggi l’importanza del rapporto con la natura nella crescita del bambino, nella sua educazione e nella proget-tazione dell’edilizia scolastica è, per fortuna, ormai oggetto di attenzione e studio anche in Italia (si veda l’artico-lo di Gianluca Mora «La buona scuola “verde”» in questo numero). È il caso degli “agrinidi” e “agriasili” che negli ultimi anni si sono diffusi soprattutto in veneto, Piemonte, trentino e Friuli. sono asili ideati nell’ambito di fattorie e aziende agricole in cui poter lasciare i propri bimbi sapendo che passeranno le loro giornate giocando all’aria aperta, a contatto con le piante e con gli animali, consumando prodotti dell’orto che es-si stessi magari hanno seminato e visto crescere, sviluppando nuove sensibilità e spirito di avventura. L’agriasilo è gene-ralmente un luogo con poco muro, poco soffitto e tanta natura.
La rIFLessIOne eCOLOGIsta
Ora, se da un lato questa crescen-te sensibilità “verde” poggia sulle importanti considerazioni
di pensatori quali Jean-Jacques rous-seau, Friedrich Froebel e Maria Mon-tessori, che hanno attribuito un posto
centrale al rapporto con la natura nell’e-ducazione del bambino, dall’altro lato, l’aumento dell’attenzione nei confronti della natura, e dell’ambiente più in ge-nerale, è collegato ad un ampio spet-tro di “riflessioni ecologiste”. Queste spaziano dalla politica all’etica, dall’e-conomia alla psicologia, dall’architet-tura all’educazione, appunto, e, a par-tire dall’inizio del ventunesimo secolo, si sono tramutate in una vera e propria ideologia molto influente nell’ambito delle società occidentali.
Come è avvenuto che la riflessione ecologista sia divenuta una delle mag-giori preoccupazioni del nostro secolo? Per rispondere a tale quesito si pos-sono brevemente ricordare alcuni tra i nomi più significativi del pensiero eco-logista che hanno dato impulso al suo sviluppo e alla sua diffusione. In tal senso, centrale è stato senza dubbio il contributo di alcuni precursori, come per esempio quello del filosofo ame-ricano Henry D. thoreau che in Wal-
den, ovvero Vita nei boschi (1854) ha esplicitato tutto il suo impegno per la promozione dei parchi nazionali ame-ricani e ha posto l’accento sull’impor-tanza del rapporto dell’uomo con la natura. Ma è negli anni sessanta del secolo scorso che un ecologismo vero e proprio è diventato elemento centrale di una riflessione transdisciplinare la quale spesso e volentieri si è tradotta in critica radicale della società. tra i fautori di questa svolta si può ricordare innanzitutto la biologa americana ra-chel Carson, che in Primavera silen-
ziosa (1962) sostenne che i pesticidi erano nocivi per l’uomo e per la natura. La sua opera, tradotta in tutto il mon-do, è stata spesso ritenuta l’origine del movimento ecologista allora nascente e, all’epoca, sensibilizzò a tal punto l’opinione pubblica americana che gli stati uniti si videro successivamente costretti a vietare alcuni pesticidi co-me il DDt e a creare l’agenzia per la Protezione ambientale.
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È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro
Centrale per i sostenitori di un “pen-siero verde” è poi la critica radicale alla società industriale dei consumi e, più in generale, alle istituzioni del mondo moderno, sviluppata dall’austriaco Ivan Illich che, a coloro che ripongono gran-de fiducia nelle promesse dello sviluppo tecnologico e scientifico, contrappone i suoi effetti deleteri sia sul piano mate-riale che su quello morale. Secondo Il-lich, esiste un limite oltre il quale una produzione di beni e servizi illimitata si trasforma in oggetto di alienazione: il modello produttivo moderno diviene cioè controproduttivo e distrugge il le-game sociale. L’industrializzazione in qualsiasi ambito finisce per allontanare i propri utilizzatori dai fini per i quali essa è stata concepita. L’esempio dei trasporti è esemplare: Illich sostiene che l’americano medio passi 4 ore al giorno nella sua auto e 1600 ore ogni anno percorrendo 10 000 chilometri, cosa che rappresenta una media di sei chilometri all’ora.
Pilastro della riflessione ecologista è stata inoltre l’opera di Hans Jonas, allievo di Husserl e Heidegger. Nel ce-
lebre Il principio responsabilità (1979) egli ha cercato di fondare una nuova eti-ca per proteggere il futuro dell’umanità dalle minacce che possono scaturire da uno sviluppo scientifico e tecnologico sfrenato capace di mettere in pericolo sia la natura che lo stesso uomo. Se-condo il filosofo tedesco, l’etica tradi-zionale centrata sui rapporti tra gli uo-mini e il presente non è in grado di far fronte a questo pericolo. È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro cercando di allonta-nare i pericoli della tecnica e garantire una vita autenticamente umana. Que-sto ci aiuta a comprendere l’imperati-vo categorico secondo cui bisogna agire in modo tale che gli effetti delle nostre azioni non distruggano la possibilità fu-tura della vita.
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La “decrescita” è l’idea di una società
fondata sulla qualità piuttosto che sulla
quantità, sulla cooperazione piuttosto
che sulla competizione
anche il pensiero del filosofo francese
edgar Morin si articola in costante dialo-
go con l’ecologia, sia sul piano scientifi-
co che su quello politico, in base ad una
critica del capitalismo e dello sviluppo
industriale, così come avveniva in mo-
do simile nel caso del norvegese arne
naess che passando da baruch spinoza
a Mohandas Gandhi ha proposto una vi-
sione radicale dell’ecologia che pone al
centro la natura e non l’uomo e che non
dà alcuna priorità all’essere umano nel-
la difesa dei diritti delle specie viventi.
tra i pionieri mondiali dell’etica am-
bientale vi è poi il filosofo americano
John baird Callicott. Le sue ricerche
vertono sullo sviluppo di un’“etica della
terra”. Il suo progetto sarebbe quello di
sottomettere la potenza della coscienza
umana al mondo naturale inteso nel sen-
so della diversità del vivente e dei pae-
saggi. Mentre, tra coloro che pongono
l’accento sulla critica all’ortodossia eco-
nomica e all’utilitarismo, troviamo anco-
ra serge Latouche (2007), teorico della
“decrescita”, ossia di una società fonda-
ta sulla qualità piuttosto che sulla quan-
tità, sulla cooperazione piuttosto che
sulla competizione, su un’umanità libe-
ra dall’economizzazione della vita e che
si dà come obiettivo la giustizia sociale.
InIzIatIve MenO IDeOLOGICHe
L’interesse per simili tematiche
non ha smesso di coinvolgere un
numero sempre crescente di cit-
tadini nella causa ecologista. Questo
anche grazie a nuove voci che contribui-
scono ad alimentare la preoccupazione
ambientale. basti pensare a un al Gore
(ex vice-presidente degli usa) che con
il suo documentario Una scomoda veri-
tà (2006) ha mostrato in modo nitido
gli effetti deleteri del surriscaldamen-
Foto in alto:
elaborazione grafica di
come si presenterà tra
qualche anno il “Bosco
verticale”, realizzato sul-
la base del progetto degli
architetti Stefano Boeri,
Gianandrea Barreca e
Giovanni La Varra.
L’opera è stata inaugu-
rata a Milano nell’ottobre
del 2014.
[email protected] 13.07.2015 14:16
a piedi nudi
nel verde
Albertina OliverioAnna Oliverio Ferraris
Giocare per imparare a vivere
pag. 224 - e 10,00
ecologiae c o l o g i a
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Anche nel nostro paese ci sono
delle iniziative interessanti che
ci auguriamo possano ricevere
la massima attenzione dai politici
Riferimenti bibliografici
Carson r. (1962), Primavera silenziosa (trad. it.), Feltrinelli, Milano, 1999.
Gardner H. (1987), Formae mentis (trad. it.), Feltrinelli, Milano.
Jonas H. (1979), Il principio responsabilità (trad. it.), Einaudi, Torino, 1990.
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oLiverio a., oLiverio Ferraris a. (2011), A piedi nudi nel verde. Giocare per impara-re a vivere, Giunti, Firenze.
tHoreau H. D. (1954), Walden ovvero Vita nei boschi (trad. it.), BUR, Milano, 2013.
ward C. (1999), Il bambino e la città. Cre-scere in ambiente urbano (trad. it.), L’An-cora del Mediterraneo, Napoli.
Albertina Oliverio, professore di Filosofia delle Scienze Sociali all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, è autrice di articoli e saggi tra cui Strategie della scelta (Laterza, 2007), Dall’imitazione alla cooperazione (Bollati Boringhieri, 2012).
to globale, o a un barack Obama che,
al momento del suo insediamento alla
Casa bianca, ha voluto lanciare un for-
te messaggio ecologista circondandosi
della “Green Dream team” formata da
celebri scienziati e investita del compi-
to di affrontare le più spinose questioni
energetiche e ambientali.
Le filosofie e i movimenti ecologisti
propongono oggi un’agenda sempre me-
no ideologica, ma sempre più fondata
sul convincimento della necessità di un
ripensamento radicale di alcuni principi
ancora alla base di molte scelte econo-
miche e politiche tra cui quelle orienta-
te ad una modernizzazione forzata non
accompagnata da una adeguata valuta-
zione di tutte le sue conseguenze.
Questa evoluzione del pensiero eco-
logista si accompagna ad una sorta di
rivoluzione silenziosa: da bilbao a Oslo,
da vancouver a Magdeburgo, moltissi-
me città hanno anticipato le sfide dello
sviluppo sostenibile con tale efficacia
che nei quartieri sperimentali ci si avvi-
cina per esempio agli obiettivi di ridu-
zione dei gas serra che gli stati si sono
prefissati per il 2050. Queste città sono
partite dai problemi tecnici per risalire
ai sistemi sociali. Piuttosto che appli-
care una teoria generale del benessere
sociale a tutti i campi della vita, questa
via innovativa consiste nell’appoggiarsi
su tante leve assieme: dall’inserimento
di tasse (sulle automobili) e di sovven-
zioni (per i trasporti collettivi), al rin-
novamento dei piani di urbanizzazione,
dal finanziamento di tecnologie speri-
mentali, alla ripartizione dello spazio
in funzione dei diversi usi, dal concepi-
mento di forme di risparmio energetico
nell’edilizia pubblica (come per esem-
pio i tetti verdi, si veda ancora l’artico-
lo di Gianluca Mora), al potenziamen-
to degli orti cittadini e all’ampliamento
dell’edilizia scolastica verde. anche nel
nostro paese ci sono delle iniziative in-
teressanti che ci auguriamo possano ri-
cevere la massima attenzione da parte
di amministratori locali e politici e che,
se debitamente sviluppate e potenziate,
non potranno che giovare all’intelligen-
za naturalistica di grandi e piccini.
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IL CELLULARE: UN’ESTENSIONE DI Sé
Nel giro di pochi anni è comparso un nuovo tipo di fobia: il timore di separar-si dal proprio cellulare (in inglese
no mobile phobia). Uno studio sull’impat-to che la separazione dal proprio cellulare ha sull’emotività e la fisiologia, pubblicato nel gennaio del 2015, è stato condotto su 208 studenti di giornalismo. Un’équipe di psicologi delle Università della Florida, dell’Oklahoma e dell’Indiana ha misurato la pressione sangui-gna e la tensione arteriosa degli studenti men-tre stavano scrivendo una lista dei 50 Stati americani. A metà percorso, con una scusa, i ricercatori hanno annunciato agli studenti che dovevano separarsi dal loro cellulare e li han-no invitati a ricominciare il test da zero.
Ogni volta che i parteci-panti venivano sconnessi si verificava un aumento significativo dell’ansia, del ritmo cardiaco, del livello della pressione arteriosa e una diminu-zione significativa del rendimento al test.
Ecco le conclusio-ni a cui sono giunti i ricercatori: 1) il telefono è diventato “un’estensio-
ne di se stessi”, al punto che è possibile par-lare di un “sé connesso” o “iSelf”; 2) le per-sone che soffrono di no mobile phobia hanno l’impressione di aver perso una parte di sé, il che «può avere un impatto negativo sulle loro performance mentali».
R. Clayton, G. leshneR, a. almond (2015), «The extended iSelf. The impact of iphone separation on cognition, emotion and physiology», Journal of Computer-Mediated Communication, 20 (2), 119-135.
AOF
LETTURA E ATTIVITà CEREBRALE
Nel guardare un video o un filmato i bambini di età prescolare seguono il flusso delle immagini che il regista e i
suoi collaboratori hanno ideato, selezionato e confezionato per il pubblico. Diverso è invece il lavoro che fa il loro cervello quando, ascol-tando una storia raccontata o letta da qualcu-no ad alta voce, devono immaginarsela. Non potendo appoggiarsi a immagini esterne, de-vono costruirsi un proprio film interiore, che è diverso da un ascoltatore all’altro perché in questa costruzione di immagini mentali ognu-no ci mette qualcosa di sé: sentimenti, emo-zioni, esperienze personali.
Chi è attento, conosce i bambini ed è soli-to leggere loro delle storie, ha esperienza di questa realtà. Ma ora c’è anche un esperi-
notizie flash
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mento che la supporta. Nell’ospedale pedia-trico di Cincinnati (Ohio, Usa) un ricercato-re, John Hutton, e i suoi collaboratori hanno studiato 19 bambini fra i tre e i cinque anni avvalendosi della risonanza magnetica funzio-nale. Hanno così trovato che nel cervello dei bambini che ascoltano una storia si registra un’attivazione marcata di quelle aree cerebra-li che supportano le immagini mentali, quelle che aiutano il bambino a “vedere la storia al di là delle figure”. In altre parole, nel cervello di bambini di età prescolare a cui viene letta o raccontata una storia si accendono le aree preposte alla comprensione e alla fantasia.
I risultati di Hutton non si fermano qui, l’e-sperimento ha anche dimostrato che i bam-bini che a casa avevano maggiori opportunità di ascoltare storie lette dagli adulti, attivava-no in modo molto più significativo specifiche aree cerebrali che supportano l’elaborazio-ne semantica (l’estrazione di significato dal linguaggio), aree fondamentali per la lingua orale e in seguito per la lettura.
«Ci auguriamo che questo lavoro induca ulteriori ricerche sulla lettura condivisa e il cervello in via di sviluppo, così che si possa-no migliorare gli interventi in questo campo e identificare i bambini a rischio di difficol-tà il più presto possibile, aumentando le loro probabilità di avere un buon rapporto con il meraviglioso mondo dei libri», hanno conclu-so gli autori dell’esperimento.
J. s. hutton, t. hoRowitz-KRaus, t. dewitt, S. holland (2015), «Parent-child reading increases activation of brain networks supporting emergent literacy in 3-5 year-old children: An fMRI study», Abstracts Pediatric Academic Societies’ Annual Meeting.
AOF
ANCHE I BAMBINI pRODIgIO DEVONO ESERCITARSI
La violinista Anne-Sophie Mutter, il cal-ciatore Toni Kroos, lo scacchista Ma-gnus Carlsen: come fanno a essere così
bravi nel loro mestiere? È solo questione di esercizio, afferma da una ventina d’anni lo psicologo Anders Ericsson della Florida State University. Le prestazioni di eccellenza non sarebbero una questione di talento, ma solo il risultato di un duro lavoro. più esattamente, 10 000 ore di lavoro.
Tanto è il tempo che un grande musici-sta dedica a esercitarsi nei primi venti anni di vita, spiegava Ericsson in un’analisi del fenomeno che ha ottenuto grande risonan-za internazionale. Nel 2009, intervistato da Focus, ha enunciato una sorta di regola empi-rica, che dovrebbe valere nello sport come negli scacchi o nel gioco delle freccette: «Ci vogliono 10 000 ore di applicazione e circa dieci anni per conseguire prestazioni fuori dell’ordinario». E aggiungeva: «Il tentativo di spiegare capacità eccezionali con un talento innato si è rivelato finora talmente vano che si deve concludere che il talento è un fattore estremamente secondario». peraltro, lo stes-so Ericsson ha sottolineato ripetutamente che forse la capacità di auto-motivazione può avere un fondamento genetico: non sarebbe quindi innato il talento, ma la tendenza a im-pegnarsi allo spasimo in qualcosa.
La regola delle 10 000 ore ha goduto fino ad oggi di un’enorme popolarità. In fondo lascia intendere che chiunque è in grado di arrivare a tutto, purché ci lavori abbastanza
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u a te a l cos st n dav e sì
Nel m it scientifi s acces nel
attem una feroce lem ca sull’ gom n-
to. La ausa fr l’altr è un lavoro pubblicato
sulla ivista sychological Science.
In quelle pagine gli psicologi americani
Brooke Macnamara, David Hambrick e Fre-
derick Oswald analizzano un insieme di 88
ricerche su scala mondiale, fra cui anche il
lavoro originale di Anders Ericsson, tutte rela-
tive al rapporto fra esercizio e prestazioni. In
effetti anche da questa meta-analisi emerge
una forte correlazione: quanto più ci si eser-
cita, tanto migliori sono i risultati.
Tuttavia il duro lavoro non basta a creare
un campione. Mediamente il numero di ore
di esercizio spiega solo il 12% della varianza
nel livello delle prestazioni, mentre il restante
88% si basa su altri fattori. gli autori citano
a sostegno di questa tesi, per esempio, uno
studio sugli scacchi: ad alcuni degli scacchi-
sti esaminati erano bastate 3 000 ore di prati-
ca per ottenere il rango di maestro nazionale,
mentre altri non ci erano arrivati nemmeno
dopo 25 000 ore passate davanti alla scac-
chiera. «Che esercizio e prestazioni siano cor-
relati è fuori discussione», sottolineano Mac-
namara, Hambrick e Oswald, «ma l’esercizio
non è così determinante» come affermano
Ericsson e i suoi collaboratori. D’altra parte
l’influenza dell’esercizio è maggiore in certi
campi che in altri: per esempio nella musica
arriva a spiegare il 21% della varianza.
Questi dati tuttavia sono contestati da altri
colleghi: «L’esito di una meta-analisi
dipende dalla selezione delle fonti
primarie che vengono analizzate»,
spiega non senza ironia Reinhard
Kopiez, della scuola superiore
di musica, teatro e comuni-
cazione di Hannover. A suo
avviso i lavori analizzati da
Ma nam ra Hamb ick Osw so molt
p co omogenei e n p e m t o camente
discu ibili.
C me profe ore musicol ia Kopiez sa
bene di cos parla Di recent ha in gni caso
pubblicato a sua olta una meta-analisi, cir-
coscritta però al ambito musicale, dal quale
risulta una correlazione molto più chiara. An-
che ricalcolando i suoi risultati con il metodo
adottato dai ricercatori americani, il livello
delle prestazioni di un musicista dipende per
un 37% dall’applicazione nella pratica dello
strumento. L’accusa di Kopiez agli avversa-
ri di Ericsson è di sottovalutare sistematica-
mente l’importanza di un esercizio regolare,
anche mediante artifici retorici.
Basta allora l’esercizio a fare un maestro?
O piuttosto il talento innato? «Quello che al
momento manca del tutto sono studi longi-
tudinali a lungo termine», lamenta Kopiez.
«Dovremmo seguire i bambini per anni fin
dalla prima ora di musica e documentare sia
il numero di ore dedicate allo strumento, sia
i progressi nell’apprendimento». Un’impresa
tanto noiosa quanto inconcepibile. «per quan-
to ne so», conclude Kopiez, «non c’è nessuno
che abbia in mente un progetto del genere».
B. maCnamaRa, d. hamBRiCK, F. oswald (2014), «Deliberate prac-tice and performance in music, games, sports, education, end profession: A meta-analysis», Psychological Science, DOI: 10.1177/0956797614535810.F. Platz, R. KoPiez, a. lehmann, a. wolF (2014), «The influence of delibe-rate practice on musical achievement: A meta-analysis», Frontiers in Psychology, DOI: 10.3389/fpsyg.2014.00646.
FRANK LUERwEg
TiTolo originale: «auch Wubderkinder müssen üben», Psychologie heute, dic.
2014, 2.
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e 2015 La tortura
“bianca” MariaLuisa Menegatto
adriano ZaMperini
Nel passato la tortura era praticata
principalmente sui non-cittadini:
schiavi, nemici, membri di grup-
pi outsider. La tortura inflitta ai cittadi-
ni riguardava casi di reato, tradimento o
eresia.
L’epoca attuale è indubbiamente ca-
ratterizzata da un’attenzione globale sui
diritti umani. La tortura è infatti disci-
plinata a livello internazionale da con-
venzioni, trattati e leggi che definiscono
l’uso della forza legittima da parte dello
Stato e il tassativo divieto di tortura. Ne
sono un esempio le organizzazioni sovra-
nazionali come le Nazioni Unite e altri
organismi non governativi deputati a ve-
rificare il rispetto da parte degli Stati di
tali trattati e leggi; così come all’interno
di alcuni singoli paesi vi sono struttu-
re amministrative di vigilanza. Inoltre, i
mass media hanno adottato il principio
dei diritti umani come un metro per va-
lutare gli Stati e stilare classifiche eti-
che. In ogni caso, nonostante l’ascesa
della cultura dei diritti umani, la tortura
non è scomparsa, nemmeno in quei pae-
si che si professano democratici (Rejali,
2007). Secondo Amnesty International,
nel 2014, data di ricorrenza dei trent’an-
ni dall’adozione della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura, l’82%
dei paesi monitorati (131 su 160) ha
torturato o maltrattato persone. Dalla Si-
ria allo Sri Lanka, i leader politici hanno
giustificato la tortura in nome della si-
curezza. Lo stesso è accaduto negli Stati
Uniti: dopo gli attacchi dell’11 settem-
bre 2001, la tortura è stata teorizzata
e praticata contro i “nemici” terroristi.
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«Se un delitto è certo, inutili
sono i tormenti, perché inutile è
la confessione del reo; se è incerto,
non devesi torturare un innocente
perché tale è secondo le leggi un
uomo i cui delitti non sono provati»
(Cesare Beccaria)
TORTURA E DEmOCRAZIA
Se la tortura continua a essere pra-
ticata anche in democrazia, ha
comunque subito profondi cam-
biamenti. La tortura moderna si distin-
gue da quella classica per alcuni aspet-
ti essenziali. Le forme classiche erano
eseguite in pubblico ed erano comun-
que sempre ben note alla popolazio-
ne, quelle moderne sono sottratte alla
visione dei cittadini. Le torture classi-
che “scrivevano” il corpo del torturato,
per esempio lasciando vistose cicatrici;
quelle moderne, pur agendo attraverso
il corpo, non mirano a lasciare tracce
somatiche, bensì aggrediscono sistema-
ticamente la mente e la personalità del
torturato. Infine, se le prime erano gui-
date dalla tradizione e dalla religione, le
seconde attingono alla conoscenza cli-
nica (medica, psichiatrica e psicologi-
ca) e, grazie allo sviluppo di particolari
tecniche, sono difficili da documentare
perché raramente sanguinarie.
Le tecniche che non lasciano tracce
fisiche sulla vittima costituiscono la co-
siddetta “tortura bianca”, nota anche
come “tortura senza contatto”. Il suo
obiettivo primario è aggredire i sensi, la
percezione della realtà, gli schemi rela-
zionali, fino a causare stati psicotici (Ni-
ckerson et al., 2014). Infatti, gli esseri
umani riescono a muoversi nel mondo
non solamente perché possono contare
sulle proprie gambe, ma anche perché
nel corso del ciclo di vita hanno svilup-
pato una certa padronanza sociale. Un
capitale di abilità che viene annienta-
to da tecniche destabilizzanti, capaci di
confondere la segnaletica dei comuni
rapporti umani. Come se, d’improvviso,
per un automobilista il semaforo verde
non significasse più via libera e quello
rosso obbligo di fermarsi. Non essendoci
più alcun codice della strada condiviso
(analogo al patto sociale che governa le
interazioni quotidiane), la circolazione
diventerebbe caotica, imprevedibile, ri-
schiosa e sempre gravida di angoscia.
Per esempio, il metodo del “disorien-
tamento sensoriale” (mcCoy, 2006) è
costituito da pratiche di tortura a di-
stanza che compromettono gravemen-
te le capacità sensoriali della vittima,
violentandone l’udito, la vista, il senso
spazio-temporale. Le vittime sono tenu-
te per lunghe ore isolate in piccole celle,
talvolta al buio, in silenzio, al freddo e
senza indumenti. La reclusione può es-
sere soggetta a rotazione in vari luoghi,
per impedire al prigioniero di sviluppare
una certa familiarità ambientale. Pro-
prio l’ambiente è sottoposto a sistemati-
che manipolazioni: arbitraria alternanza
di silenzio/rumore, con urla improvvise
oppure musica ad alto volume; controllo
della luce, anche facendo ricorso all’in-
cappucciamento. L’equilibrio psicofi-
sico viene aggredito alterando il ritmo
sonno/veglia: il prigioniero viene tenuto
perennemente sveglio oppure ridestato
improvvisamente alle soglie della fase
REm, con musica o rumori improvvisi.
La “stress position” (essere costretti ad
assumere per lungo tempo determinate
posture) provoca dolore acuto a muscoli
e articolazioni. Anche le emozioni sono
manipolate con l’uso controllato della
paura, come quando si annunciano ese-
cuzioni sommarie. Note a tutti sono le
vicende di Abu Ghraib in Iraq, luogo di
detenzione dove i soldati nordamerica-
ni aizzavano cani senza museruola con-
tro prigionieri anche adolescenti, scom-
mettendo su chi per primo, dal terrore,
avrebbe perso il controllo di vescica e
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Per l’irruzione nella scuola Diaz a
Genova nel 2001, la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si è
trattato di tortura fisica
sfinteri. La CIA, nel suo manuale del
“buon torturatore”, parla della tecnica
di “Alice nel paese delle meraviglie”,
per descrivere le modalità con cui il tor-
turatore può rendere il mondo del tortu-
rato il più imprevedibile e caotico possi-
bile, così da gettarlo in una condizione
psicologica analoga alla catastrofe psi-
chica propria della patologia mentale.
Anche il nostro paese è chiamato a
fare i conti con pratiche che si vorreb-
bero lontane nello spazio e nel tempo.
Nel linguaggio quotidiano, l’espressio-
ne “i fatti di Genova” è un ombrello se-
mantico che copre le proteste di piazza
contro il Summit del G8 di Genova del
2001 e le violenze che si verificarono in
varie zone della città, e in particolare gli
scontri tra forze di polizia e manifestan-
ti che culminarono con l’uccisione di
Carlo Giuliani in piazza Alimonda. I fatti
di Genova, insieme a espressioni come
“zona rossa” o “black bloc” e a luoghi
simbolo, come la scuola Diaz e la pri-
gione di Bolzaneto, sono ormai lemmi di
un lessico della violenza che è stato tra-
smesso infinite volte dai mass media.
Ora, per uno di questi fatti, l’irruzione
nel cuore della notte nella scuola Diaz
(adibita a dormitorio) da parte di circa
300 agenti dei Reparti mobili della Po-
lizia di Stato che infierirono brutalmen-
te su persone inermi, riducendone al-
cune in fin di vita, la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si
è trattato di tortura (nella fattispecie fi-
sica). E ulteriori analoghi procedimenti
sono in corso per altri fatti di Genova,
come per la prigione di Bolzaneto.
[email protected] 13.07.2015 14:16
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La tortura, sia fisica che “bianca”,
è sempre un trauma per chi la subisce
e comporta alcuni elementi tipici del
Disturbo Post Traumatico da Stress
LA TORTURA BIANCA A BOLZANETO
Bolzaneto era una caserma adatta-
ta a luogo di transito per il rico-
noscimento dei fermati e il loro
smistamento ai carceri di destinazio-
ne. In teoria il transito doveva durare
qualche ora, il tempo delle operazioni
di triage, identificazione e schedatura.
A tutti gli effetti, divenne invece una
prigione nella quale gli arrestati speri-
mentarono tempi di attesa fino e oltre
le trenta ore, senza la possibilità di con-
sultare un avvocato o un familiare, e in
cui subirono trattamenti che possono
essere definiti atti di tortura. Proprio su
questa vicenda, abbiamo recentemente
presentato una relazione tecnico-scien-
tifica alla Corte di Strasburgo a seguito
di un ricorso avanzato dalle parti lese.
Pur non mancando episodi di violenza
fisica, dentro la prigione di Bolzaneto
è possibile evidenziare un sistematico
ricorso alla tortura bianca. I principali
trattamenti perpetrati furono:
Stress position. I prigionieri erano ob-
bligati a rimanere in piedi contro il mu-
ro (pratica detta anche wall standing) o
al centro della cella senza potersi ap-
poggiare ad alcunché, con braccia alza-
te, mani dietro la nuca, oppure obbliga-
ti a stare seduti o in ginocchio. Posture
forzate che concentrano e fanno grava-
re il peso del corpo su pochi muscoli e
articolazioni determinando prima dolo-
re, poi cedimento muscolare e infine il
blocco delle informazioni tattili e moto-
rie al cervello.
Interdizione visiva. L’obbligo di te-
nere costantemente la testa china, sia
all’interno delle celle sia durante i vari
spostamenti, impedendo qualsiasi con-
tatto visivo, sia con gli agenti di custo-
dia che tra i prigionieri (si pensi, per
esempio, alla correlazione con la tecni-
ca dell’incappucciamento praticata ad
Abu Ghraib).
Trattamento silenzioso. Il divieto asso-
luto di parlare, sia con gli agenti di cu-
stodia (se non per rispondere a doman-
de), sia con i propri compagni di cella.
Manipolazione ambientale. Le celle
erano piccole, fredde durante la notte,
sovraffollate, e in alcuni momenti senza
distinzione di genere. Aggressioni acu-
stiche intense e prolungate, rumori im-
provvisi, come porte che sbattevano, e
ordini impartiti urlando producevano
un senso psicologico di “stato d’asse-
dio”. Violenze verbali, minacce di mor-
te e sessuali, appellativi delegittimanti
inducevano emozioni negative di pau-
ra, tensione, ansia. Infine, l’esposizione
costante alla luce artificiale delle celle
privava gli organi di senso delle infor-
mazioni adeguate sul ritmo giorno/notte,
indebolendo la percezione temporale.
Simili trattamenti puntano a modifi-
care la percezione che le persone hanno
di sé stesse e dell’ambiente circostan-
te, così da indurre uno stato alterato di
coscienza.
LE CONSEGUENZE PSICOLOGIChE
La tortura, sia fisica che “bianca”, è
sempre un trauma per chi la subi-
sce. E come tutti i traumi, sul pia-
no strettamente clinico il quadro delle
conseguenze comporta alcuni elementi
tipici che hanno assunto un’importanza
centrale nella diagnosi psichiatrica di Di-
sturbo Post Traumatico da Stress (PTSD):
tendenza compulsiva a rivivere l’espe-
rienza traumatica; evitamento difensivo
di rappresentazioni interne o esterne che
ricordano l’episodio della tortura; ipera-
rousal e intorpidimento emotivo.
ma la tortura è una pratica particolar-
mente complessa e le sue conseguenze
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La tortura è un evento catastrofico, ma
non è solo il singolo individuo a soffrire.
Ne pagano le conseguenze madri e padri,
mogli e mariti, figli, parenti e amici
non sono esauribili tramite una diagnosi
di PTSD. Infatti, bisogna sempre tenere
presente che il sopravvissuto alla tortu-
ra è una vittima molto diversa da chi,
per fare solo un esempio, sperimenta un
trauma a seguito di un disastro natura-
le, come un terremoto. Nel caso della
tortura bianca a Bolzaneto, l’elemento
centrale del “trauma” è aver subito una
violenza collettiva di natura politica.
D’altra parte, tali pratiche aumentano il
loro impatto negativo sulla persona per-
ché improvvise, e soprattutto impensa-
bili per un cittadino di un paese demo-
cratico inserito nella Comunità Europea
che dovrebbe tutelare i diritti inviolabili
della persona.
Per comprendere appieno le conse-
guenze della tortura bianca di Bolzaneto
serve allargare la prospettiva d’analisi,
considerando, insieme alle componenti
personali, anche quelle socio-politiche.
Le persone sono indubbiamente tortu-
rate per uno scopo e subito si pensa alla
necessità di carpire informazioni o con-
fessioni. In realtà, in molte situazioni
lo scopo è quello di punire o reprime-
re particolari gruppi umani; nel caso di
Bolzaneto (e anche della Diaz), perso-
ne che parteggiavano per determinate
idee politiche. Pertanto, un individuo
percepito come membro di simili grup-
pi, diventa un candidato a trattamen-
ti disumani e degradanti (Zamperini e
menegatto, 2015).
Il tema della perdita, multiforme e
ricorrente nei torturati, qui diventa so-
prattutto perdita di cittadinanza, che ha
lasciato forti emozioni di panico e impo-
tenza davanti alle diverse autorità, dal
poliziotto al controllore dei treni, così
che per molti la libertà di movimento ha
subito limitazioni (per esempio, rinun-
cia a usare mezzi pubblici di traspor-
to; astensione dal frequentare luoghi di
aggregazione politica). Senza contare il
fatto che, per essere state fortemente
delegittimate, alcune vittime hanno per-
so il lavoro, i legami affettivi e talvolta
la propria reputazione. Come sempre, la
tortura subita innesca nelle biografie in-
numerevoli e indesiderati punti di svolta
e frequenti sono le reazioni depressive.
La tortura è sicuramente un evento
esistenziale catastrofico, ma non è solo
il singolo individuo a soffrire. Analoga-
mente ad altri eventi traumatici, per ogni
persona torturata ci sono madri e padri,
mogli e mariti, figli, parenti e amici che
attendono nell’incertezza di avere notizie
e sono costretti a convivere prima con la
paura e poi con il trauma. Sicché, la tor-
tura espande i suoi effetti negativi sulla
comunità e sull’intera società.
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Oggi, la tortura è sempre più “bianca”:
uno sviluppo tecnico che richiede un
attento monitoraggio sociale per impedire
la proliferazione di trattamenti disumani
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Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta e dottoran-da di ricerca all’Università di Verona, si occupa di violenza e trauma, vittimologia, esclusione e disagio sociale, conflitti sociali e pratiche di riconciliazione, diritti umani e giustizia sociale. Fra i suoi scritti ricordiamo: La società degli indifferen-ti (con A. Zamperini; Carocci, 2011) e Memoria viva (con A. Zamperini; Florence University Press, 2015).
Adriano Zamperini è professore di Psico-logia della violenza, di Psicologia del di-sagio sociale e di Relazioni interpersonali all’Università di Padova. Fra i suoi scritti: Prigioni della mente (Einaudi, 2004), L’in-differenza (Einaudi, 2007), L’ostracismo (Einaudi, 2010), La bestia dentro di noi. Smascherare l’aggressività (Il Mulino, 2014). È tra i curatori e autori dell’opera Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (2 voll., Einaudi, 2006-2007). È Direttore del CIRSIM (Centro Interdipartimentale di Stu-di Interculturali e sulle Migrazioni) presso l’Ateneo di Padova.
CONCLUSIONI
La tortura moderna persegue molti
scopi: può essere usata per racco-
gliere informazioni così come per
intimidire e annichilire particolari grup-
pi umani. Come nel passato, continua a
essere un “marcatore civico”. La vicen-
da della prigione di Bolzaneto ne è un
esempio paradigmatico: essere etichet-
tati come sovversivi è la precondizione
per subire un trattamento degradante,
il quale, a sua volta, nel momento stes-
so in cui viene praticato, segnala che la
persona che lo riceve in qualche modo
“se lo merita” perché si pone al di fuo-
ri dei confini della tutela legale propria
della cittadinanza (Zamperini e mene-
gatto, 2011).
Diversamente dal passato, oggi la
tortura è sempre più “bianca”: uno svi-
luppo tecnico che richiede un attento
monitoraggio sociale per impedire la
proliferazione di (impercettibili) trat-
tamenti disumani. Per esempio, certe
pratiche, perché viste al di fuori dell’or-
dinario (come la deprivazione sensoria-
le), sono maggiormente assimilate al-
la tortura, mentre altre, più intrecciate
con la vita quotidiana (pensiamo allo
sviluppo delle tecniche di stordimento
elettrico nell’ordine pubblico), appaio-
no viceversa, ed erroneamente, più ac-
cettabili.
Di fronte alla tortura, compito degli
psicologi è offrire le proprie competen-
ze professionali, prestando particolare
attenzione all’articolazione della soffe-
renza individuale con il contesto sociale
di riferimento. Inoltre, come ricercatori,
gli psicologi sono chiamati a testimo-
niare il dramma della tortura, invitando
il nostro paese a dotarsi il più rapida-
mente possibile di un’adeguata norma-
tiva per realizzare il triplice compito di
prevenirla, condannare i torturatori e ri-
abilitare i torturati.
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I fatti
di GenovaLa preparazione delle Forze dell’Ordine
massImo
montebove
La recente sentenza della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo,
che ha condannato l’Italia per i reati
di tortura consumatisi a Genova
nel 2001, ha riaperto la discussione
su alcune questioni come la
preparazione delle nostre Forze
di Polizia e la necessità di avere
donne e uomini in divisa “pronti”
anche dal punto di vista psicologico
Alcune premesse di ordine gene-
rale, anche socio-psicologico,
sono necessarie. Innanzitutto,
rispetto alle drammatiche giornate del
G8 a Genova nel 2001, la preparazio-
ne degli operatori delle Forze dell’Or-
dine italiane è molto migliorata, an-
che per quel che riguarda discipline
in passato poco o nulla curate nell’am-
bito dei corsi di formazione. Penso, in
particolare, al Centro di formazione
per funzionari di polizia istituito da
una decina d’anni a Nettuno dove, in
collaborazione con importanti atenei
italiani, il personale in divisa che ha
il compito di comandare e dirigere i
servizi di ordine pubblico viene pre-
parato, con seminari, workshop e real
experience, ad affrontarne i disagi e i
vari fattori di stressor.
Si lavora, in particolare, sulle proble-
matiche inerenti al job context che van-
no dagli orari di lavoro fino al rapporto
con i colleghi, passando per situazioni
di mobbing, scarsa comunicazione e as-
senza di riconoscimento professionale.
Si analizzano, inoltre, anche altri aspetti
come quello del job content, cioè le si-
tuazioni stressogene che il personale in
divisa vive e sopporta ogni giorno: oltre
all’ordine pubblico, si pensi al continuo
confronto con abusi, violenze e situa-
zioni pericolose per quel che concerne
gli uffici investigativi e operativi, fino ai
rilievi di incidenti che interessano, per
esempio, la polizia stradale, senza con-
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tare la comunicazione di un decesso ai
familiari (Montebove, 2011).
Tornando ai “fatti di Genova”, occorre
dire che Polizia e Forze dell’Ordine han-
no riflettuto ampiamente su quel che è
accaduto, condannando eccessi e abusi
intollerabili e ingiustificabili. Va da sé,
ad ogni buon conto, che i fatti e le sto-
rie di quei terribili giorni debbano essere
inquadrati in un contesto di guerriglia
urbana e violenze di piazza che non si
verificavano nel nostro paese dagli “anni
di piombo”; un contesto dove poche mi-
gliaia di persone, agguerrite ed armate,
hanno saputo tenere in scacco manife-
stanti pacifici e tutori dell’ordine, cau-
sando devastazioni, incidenti e feriti, fi-
no ad arrivare alla morte di un ragazzo.
A distanza di 14 anni da quegli av-
venimenti, in ogni caso, non è possibi-
le sottacere le responsabilità, gli errori, i
tentativi di falsificazione e le omissioni
che hanno caratterizzato in particolare
l’irruzione alla scuola Diaz e che, a mio
avviso, attengono a condotte personali,
pur gravi e inqualificabili: da poliziotto
non posso, infatti, accettare l’idea di un
“sistema marcio” nella Polizia, come pu-
re è stato ingenerosamente sostenuto.
Anche per quel che riguarda i gravi
fatti che si sono verificati all’interno
della caserma di Bolzaneto, molte re-
sponsabilità personali sono state accer-
tate, mentre in tanti altri casi, a causa
della prescrizione, la verità processuale
non si è potuta scrivere. Errori indivi-
duali e funzionali, mancanza di adegua-
ta preparazione professionale e soprat-
tutto psicologica, elementi stressogeni
e un contesto unico nella storia della
Repubblica del dopoguerra hanno de-
terminato una delle pagine più buie per
la democrazia italiana (anche se non bi-
sogna dimenticare che le responsabilità
processualmente accertate hanno coin-
volto poche persone).
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Il primo aspetto su cui in questi anni
si è lavorato molto nell’ambito del
Dipartimento della pubblica sicurezza è
quello della formazione della decisione
LA FORMAZIONE DELLA DECISIONE
Entrando più dettagliatamente nel
merito dei comportamenti che gli
operatori delle Forze di Polizia as-
sumono in determinati contesti critici
e operativi, direi che il primo aspetto
su cui in questi anni si è lavorato molto
nell’ambito del Dipartimento della pub-
blica sicurezza è quello della formazio-
ne della decisione. Da tempo ci si sta
adoperando per distinguere tra eventi
“ordinari”, dove il poliziotto può e de-
ve essere in grado di assumere prima-
riamente decisioni personali, ed eventi
cosiddetti “straordinari”, cioè ad alto
rischio, nei quali il manifestarsi di si-
tuazioni critiche richiede – per evitare
che la sfera emotiva prevalga su quella
razionale – quasi esclusivamente l’ado-
zione di disposizioni prese in una sala
operativa dove funzionari preparati pos-
sono raccogliere tutti i dati provenienti
dal contesto operativo (di cui parlere-
mo più avanti), per farne poi una lucida
valutazione. Qui insorge un altro fatto-
re, che è consustanziale al processo di
formazione della decisione: la comuni-
cazione della decisione. Il poliziotto, il
carabiniere e il militare che agiscono
nello scenario operativo ad alto rischio
devono ricevere ordini chiari e rapidi e,
soprattutto, devono essere dotati di tut-
ti i moderni strumenti che la tecnologia
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può offrire. A Genova, nel 2001, que-
sto non si è sempre verificato. Al di là
di comportamenti singoli che hanno as-
sunto rilevanza penale, talvolta si è re-
gistrato un duplice difetto di decisione
e di comunicazione che, in un contesto
ad alto livello critico, ha prodotto con-
seguenze devastanti per l’attività di chi
allora era preposto a garantire l’ordine
e la sicurezza pubblica.
La mia convinzione, dunque, è che
nel 2001 nel capoluogo ligure ci siano
stati anche alcuni errori di comunicazio-
ne: le violenze alla scuola Diaz si sareb-
bero potute forse evitare se fossero sta-
te corrette le informazioni relative a chi
davvero era presente all’interno dell’e-
dificio (non pericolosi sovversivi, ma
studenti e manifestanti), se i funzionari
preposti al comando e al coordinamen-
to degli agenti che sono entrati avesse-
ro comunicato ordini e disposizioni con
maggiore cautela e attenzione, con la
conseguenza che alcuni operatori – in
un contesto di dinamiche di gruppo e di
“cultura del nemico” ben noti nell’am-
bito della psicologia – hanno poi ecce-
duto rispetto al da farsi. Ripeto: nessu-
na giustificazione può essere addotta,
ma certamente quei fatti hanno influito
non poco sulle Forze dell’Ordine e sulla
Polizia di Stato in particolare.
IL CONTESTO OPERATIVO
Anche per questo, nell’ambito
dell’innovativo percorso di for-
mazione che i poliziotti italiani
hanno intrapreso dopo il G8 di Geno-
va, hanno avuto e hanno ancora rilievo
le analisi e gli studi relativi al conte-
sto operativo, a cui si è fatto cenno. Si
tratta, in buona sostanza, dello scenario
nel quale si verificano gli eventi critici.
Nei servizi di ordine pubblico le cose
possono mutare rapidamente: un corteo
pacifico con un percorso concordato tra
Questura e organizzatori può facilmente
trasformarsi in un inferno se poche de-
cine di persone decidono all’improvviso
– e in maniera preordinata – di travi-
sare il proprio volto, armarsi di bastoni
e scudi, proteggersi con caschi e ma-
gari deviare dal percorso concordato. Il
contesto operativo (che comprende per
esempio le vie di fuga, il punto in cui
c’è maggiore possibilità di infiltrazioni
nel corteo, la zona dove poter incana-
lare nel modo migliore i manifestanti)
deve essere conosciuto bene da chi è
destinato a operare in quello scenario.
Oggi è possibile farlo anche attraverso
la realtà virtuale, con l’utilizzo di teleca-
mere per analizzare precedenti eventi,
con briefing specifici che permettano,
soprattutto a chi ha la responsabilità di
impartire ordini, di “vivere nella men-
te” e per certi versi concretamente (so-
prattutto preventivamente) il contesto
operativo nel quale si svolgerà la pro-
pria mission. Si tratta di un percorso
di lavoro che nei prossimi anni andrà
implementato.
LA FORMAZIONE PSICOLOGICA
La formazione in ambito psicologi-
co del personale in divisa resta co-
munque, a mio avviso, il tema dei
temi. Proprio lo scorso anno si è svolto
un interessante convegno a Roma (“21
anni di Psicologia di Polizia”) che ha
fornito numerosi spunti di riflessione,
sottolineando primariamente l’esigenza
di promuovere la formazione in ambi-
to psicologico non solo per i ruoli dei
direttivi e dirigenti, ma anche per tutti
gli altri operatori della Polizia di Stato:
una formazione finalizzata – è stato det-
to – sempre più anche alle conoscenze
di tecniche specifiche come la capaci-
Occorre promuovere la formazione in
ambito psicologico non solo per i ruoli
di direttivi e dirigenti, ma per tutti gli
operatori della Polizia di Stato
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tà di ascolto, i processi comunicativi, la gestione delle emozioni. La Polizia di Stato è certamente un’eccellenza tra le Forze dell’Ordine italiane da questo punto di vista, considerato che negli ul-timi anni si è lavorato per cercare di ga-rantire la presenza degli psicologi nelle Questure, anche se il loro numero è an-cora esiguo (si veda il Box).
LA FuNZIONE DEL POLIZIOTTO
Credo che occorra interrogarsi se-riamente sul ruolo e sulla fun-zione del poliziotto nella socie-
tà attuale. È stato detto e scritto che una della evoluzioni rispetto al passato è costituita dal passaggio concettuale tra una sicurezza intesa essenzialmen-te come repressione e prevenzione di reati a un nuovo modello cosiddetto “di prossimità”, dove l’approccio tra opera-tore in divisa e cittadino finisce al cen-tro della scena. Questo pone una nuova sfida: quella di uscire da una visione del
Lo psicologo in polizia
Importanti collaborazioni tra gli psicologi della Polizia e il personale che svolge
attività operative sono state avviate a Roma e a Foggia. Proprio dalla città pugliese ar-rivano alcuni dati interessanti relativi alle situazioni di di-sagio del personale in divisa: il 34.2% di coloro che hanno chiesto sostegno psicologico ha manifestato problematiche coniugali (50 casi trattati); il 26% situazioni di difficol-tà relative ai figli (38 casi); il 24.6% problematiche lavo-rative o legate alla gerarchia (36 casi); il 6.1% situazioni connesse ad eventi luttuosi
(9 casi, per i quali, quando la morte riguardava il coniuge, sono stati aiutati anche i figli dei poliziotti); il 5.4% proble-matiche relative a preoccu-pazioni riguardanti malattie personali di rilievo (8 casi); infine, il 3.4% situazioni lega-te alla lontananza da casa e a disagi dei figli minori (5 casi). In questi casi il lavoro dello psicologo ha permesso di non lasciare solo il poliziotto du-rante tutto il delicato iter sa-nitario che ne consegue e che – pur finalizzato al “ripristino” dello stato di benessere psico-emotivo – comporta necessari processi di “ospedalizzazione”
e “medicalizzazione” che pos-sono portare al temporaneo ri-tiro del tesserino e della pisto-la di servizio. Da notare che l’esperienza di Foggia – e non solo – ci consegna un quadro in cui circa il 50% dei casi di disagio psicologico scaturisce da problematiche coniugali. Per questo, laddove è stato possibile, considerando l’esi-guo numero di psicologi e la mole di lavoro affrontata per il personale in divisa, si è cerca-to e si cerca tutt’oggi di offrire sostegno non solo ai poliziotti, ma, quando necessario, anche al loro nucleo familiare.
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Formazione, preparazione,
consapevolezza: questi tre sostantivi
devono essere e diventare il nuovo
paradigma delle Forze di Polizia
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Massimo Montebove, giornalista pubblici-sta, cultore di psicologia, è dirigente nazio-nale del Sap, Sindacato autonomo di polizia.
poliziotto, del carabiniere o dell’agen-
te della municipale condizionata solo
dagli aspetti tecnico-giuridico-operati-
vi, che interessano ancora oggi in larga
parte anche la formazione e l’aggiorna-
mento. Occorre investire e porre l’at-
tenzione, invece, sull’identità profes-
sionale e sulle competenze trasversali,
per spostare l’asse, come ha sostenuto
Graziano Lori (presidente del “Cerchio
Blu”, un’associazione che si dedica al
supporto psicologico e alla formazione
degli operatori di polizia, dell’emergen-
za e del soccorso), dalle abilità giuridi-
che a quelle comunicative e preventive.
D’altra parte, una maggiore prepara-
zione inter e multidisciplinare, soprat-
tutto una formazione continua, sono il
presupposto basilare per una maggiore
consapevolezza di sé che potrebbe por-
tare, in determinati contesti e situazioni,
a mettere in discussione anche un even-
tuale ordine illegittimo. Da questo punto
di vista, è fondamentale una sentenza
della Corte Costituzionale del 2008 che,
in ordine alla responsabilità di un auti-
sta della Polizia a cui era stato ordinato
di tenere un’andatura elevata (che di-
venne causa di un incidente), ha sancito
e ribadito un principio importante: esi-
ste un campo di autonomia decisionale
del “sottoposto” che deve privilegiare,
rispetto ad un ordine palesemente ille-
gittimo, i principi generali dell’ordina-
mento giuridico, proprio in funzione del-
le possibili conseguenze dannose che ne
potrebbero derivare e che il soggetto può
e deve rappresentarsi.
Un nUOvO mODeLLO?
non dimentichiamo, infine, quello
che molti paventano come un ri-
schio opposto rispetto alle espe-
rienze certamente non positive del G8 di
Genova. Basti pensare agli scontri in val
di Susa del 2011 dove 200 poliziotti e
carabinieri rimasero feriti o alle recenti
devastazioni milanesi avvenute il primo
maggio di quest’anno all’inaugurazione
di expo. In questi casi la catena di “co-
mando” è stata in qualche modo impo-
stata su una sorta di “laissez-faire”, su
una gestione della piazza che prevede
una risposta minima delle Forze dell’Or-
dine, sulla necessità di evitare il più
possibile il contatto fisico, sulla facoltà
di lasciare sostanzialmente “sfogare” i
manifestanti più facinorosi, limitandosi
a contenere le azioni maggiormente vio-
lente. Può essere una strada, anche se
tortuosa e piena di rischi. Personalmen-
te sono convinto che servano soprattut-
to regole condivise per tutti, sia per chi
porta una divisa, sia per chi manifesta.
Regole semplici e chiare. Regole che, se
trasgredite, portino a conseguenze. Per
ciascuno dei soggetti in campo.
Rimango convinto che soltanto la cre-
scita professionale e psicologica possa
cambiare davvero le cose tra le donne
e gli uomini in divisa. Formazione, pre-
parazione, consapevolezza: questi tre
sostantivi devono essere e diventare
il nuovo paradigma delle Forze di Po-
lizia italiane che oggi operano già con
maggiore professionalità e competenza,
avendo certamente appreso da alcuni
errori del passato. ma la strada intra-
presa non può fermarsi qui.
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Passare all’atto senza sapere il perché
Prima di riabbracciare suo padre, fini-
to in carcere anni prima per rapina a
mano armata, Luigi era vissuto alterna-
tivamente con una madre tossicodipendente
e con i nonni depressi. All’età di dieci anni,
dopo aver saputo per caso della clamorosa ra-
pina compiuta da suo padre in una nota gio-
ielleria del centro (per lui un mito come altri
delinquenti famosi la cui storia viene raccon-
tata nei telefilm), era andato alla ricerca di
tutti gli articoli di giornale che avevano parla-
to di quell’evento e aveva atteso l’uscita dal
carcere del padre come una rinascita, come
l’inizio di una filiazione.
Una volta tornato in libertà il padre aveva
preso con sé Luigi, che ora, a quattordici an-
ni, era un ragazzone alto e robusto ma ancora
molto ingenuo e dipendente. Insieme avreb-
bero incominciato una nuova vita. Questo era
stato il messaggio di speranza che il padre
aveva inviato al figlio. Dopo qualche tempo
però, insofferente del ruolo paterno e delle
responsabilità e restrizioni che esso compor-
tava, il padre aveva cominciato a mostrare
irritazione nei confronti di tutto ciò che Luigi
faceva o diceva. Oltre a insultarlo e umiliar-
lo era arrivato anche a picchiarlo, finché un
giorno, in preda all’ira, lo aveva cacciato di
casa a calci.
Ospite in una casa famiglia a seguito
di questo drammatico evento, Luigi si
comportava a volte come un bimbo do-
cile e bisognoso d’affetto, a volte in maniera
scostante e violenta. E quando il padre ave-
va confermato il suo rifiuto di riprenderlo di
nuovo con sé, Luigi, invece di rientrare nella
casa famiglia, aveva assaltato una piccola
gioielleria del quartiere periferico in cui vive-
va, aveva minacciato all’arma bianca l’anzia-
no proprietario ed era scappato con alcuni
orologi e gioielli che era riuscito ad arraffare.
Dopo avere vagato per ore, confuso e senza
meta, all’una di notte si era presentato alla
casa famiglia, aveva svegliato il direttore e gli
aveva consegnato il bottino nella speranza di
essere riaccolto.
In seguito, nei colloqui con lo psicologo,
Luigi scoprì che era stato spinto a quell’at-
to dalla convinzione che suo padre non lo
volesse con sé e lo disprezzasse perché non
era diventato un vero delinquente come lui.
Quel bottino che aveva arraffato nella gio-
ielleria avrebbe dovuto essere la prova, da
offrire al padre, che anche lui era un delin-
quente, impavido e capace, di cui la gente
parla e che segretamente ammira. Spostan-
do questo “fantasma” dalla relazione con il
padre a quella che Luigi aveva con il direttore
della casa famiglia (da lui percepito come un
genitore), era poi stato spinto a provargli il
contrario, ossia che non era diventato un vero
delinquente e poteva quindi essere riaccolto
in casa.
Invece di pensare e parlare, Luigi agisce,
ossia passa all’atto, in quanto non è in gra-
do di decriptare le proprie emozioni e tanto
meno di gestirle e di comunicarle in maniera
accettabile e condivisa. In realtà non pen-
sa proprio di poterne parlare con qualcuno.
Questo succede quando un bambino non si
sente amato e quindi riconosciuto e valo-
rizzato. L’azione diventa allora un modo per
imporre la propria presenza, ma anche per
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AnnA OLIvErIO fErrArISOrdinariO di PsicOlOgia dellO sviluPPO “saPienza” – università di rOma
(o “terapeutico”), si vergogna del suo insuc-
cesso e invidia coloro che, al contrario di lui,
sono amati e accettati dai genitori; ma rischia
anche di cadere nella compulsione della ripe-
tizione e, prima o poi, di finire in galera.
Come un bambino all’alba della vita, Luigi
ha dunque bisogno di qualcuno che creda in
lui, che lo sostenga e lo aiuti, in un percor-
so di crescita, a trovare modalità riparatrici
nuove, diverse e più efficaci di quanto non
sia stata l’emulazione del genitore rapinato-
re, tali cioè da consentirgli di inserirsi in un
mondo e in una mentalità diverse da quelle
di suo padre.
Quel qualcuno Luigi lo ha già indicato, sen-
za saperlo, nel momento in cui ha restituito il
bottino della gioielleria al direttore della casa
famiglia.
inviare un messaggio d’aiuto sia
pure confuso e paradossale. Il
paradosso in questo caso sta nel
fatto che, avendo ammirato suo
padre che si era imposto media-
ticamente per la sua carriera di
delinquente, Luigi, per ottenerne
l’attenzione, la stima ed essere
accettato da lui, aveva cercato di
piacergli emulandolo.
Queste dinamiche emotive ci
mostrano come al di là di una
condotta manifesta, facilmen-
te inquadrabile in una griglia di
lettura puramente sociale, sia
presente in realtà un mondo sot-
terraneo complesso e turbolento
in cui si agitano affetti, bisogno
di riconoscimento, un fisiologico
narcisismo adolescenziale e an-
che una forte spinta ad affermare
la propria individualità di fronte
agli adulti per ottenere la loro sti-
ma, nei modi che il ragazzo co-
nosce, nel caso specifico quelli
della malavita.
Dopo questo passaggio all’atto – dopo
questo fallimento dettato dal bisogno di
farsi accettare da suo padre e ristabilire
con lui un legame – Luigi può ancora crede-
re che qualcosa di benefico possa nascere da
lui e dalle sue iniziative? Secondo una felice
intuizione dello psicoanalista Harold Searles i
bambini sono degli “psicoterapeuti precoci”,
nel senso che cercano di riuscire a ottenere
ciò di cui hanno bisogno per crescere, di farsi
amare e di trovare i mezzi per alleviare le sof-
ferenze proprie e altrui. Tra le forze innate più
potenti che spingono l’uomo verso i propri
simili – ha spiegato Searles nel suo volume
Il controtransfert (2000) – c’è, dai primi anni
di vita, la tendenza psicoterapeutica; ma se
questa tendenza resta insoddisfatta, se non è
riconosciuta e viene troppe volte frustrata, es-
sa produce patologia e disadattamento.
Dopo un passaggio all’atto di quel tipo, do-
po aver tentato di stringere un legame con suo
padre comportandosi come lui, Luigi non solo
dubita fortemente del suo potere riparatore
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P S I C O L O G I A D E L L A S A L U T E
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Una vita più semplice
Di cosa abbiamo davvero bisogno?
eva tenzer
La domanda se una riduzione
dei consumi e del possesso di beni
possa aumentare il benessere
personale e dare più senso alla vita
comincia a interessare terapeuti,
ricercatori e psicologi del lavoro
Il gioco ideato dal blogger americano
Dave Bruno, The 100 thing challen-
ge, consiste nel ridurre a un totale di
100 oggetti l’insieme dei propri ave
ri. Per Bruno, fra le cose irrinunciabili
restano la chitarra e la tavola da surf.
Questa forma di ascesi volontaria tro
va molti seguaci, che nei loro blog pro
pongono ognuno la propria lista ridotta
all’osso. Il minimalismo è un culto e i
suoi seguaci l’hanno battezzato LOVOS:
Lifestyle Of VOluntary Simplicity. Qua
le che sia l’etichetta – minimalisti,
downsizer, semplificatori, lifehacker,
organizzatori – l’idea è sempre quella
di limitarsi volontariamente, in mezzo
a una sovrabbondanza crescente, allo
strettamente necessario, per praticare
uno stile di vita più semplice. Un mae
stro riconosciuto di questa disciplina,
molto prima che inventassero i blog, è
stato il Mahatma Gandhi, che oltre alla
veste possedeva solo cinque cose: gli
occhiali, un orologio da tasca, i sanda
li, una ciotola e un piatto. Né accettare
né possedere ciò che non serve davvero
per vivere, era il suo motto.
Ma quante sono esattamente queste
cose, cento, cinquanta, o ne bastano
cinque? E se uno si sente bene in mez
zo a una sontuosa raccolta di migliaia
di oggetti, e solo il pensiero di rinun
ciarvi lo mette in crisi? E soprattutto,
come si capisce quando basta e quando
invece gli oggetti, i desideri, gli status
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Impossibile aumentare
la felicitˆ oltre un certo limite
Il cosiddetto “paradosso di Easterlin”, che prende il nome da una ricerca dello
studioso americano Richard Easterlin, dice che l’aumento di reddito produce aumento del benessere solo entro un certo limite: una volta soddisfatti i bisogni fondamentali, la curva del benessere si stabilizza e poi, malgrado l’aumento ulteriore della ricchezza, ha addirittura un lieve calo. Così sappiamo, per esempio, che in Giappone negli ultimi 60 anni il reddito medio si è quadruplicato, ma il vissuto soggettivo di soddisfazione personale è rimasto invariato. Anche uno studio recente del GESIS, il Leibnitz Institute of Social Sciences, mette in evidenza i chiari limiti della ricchezza come fattore di felicità: la soddisfazione legata ai consumi non aumenta in maniera lineare, ma si riduce tendenzialmente con il crescere del potenziale di spesa.
Una spiegazione di questo paradosso la danno i ricercatori guidati da Eugenio Proto all’Università di Warwick, nel Regno Unito. Secondo lo studio pubblicato nel 2013, la causa di questo ristagno è nelle aspettative create dall’aumento del reddito: «Con un reddito più alto crescono le aspettative di un benessere ancora maggiore. E una discrepanza fra quelle aspettative e l’effettiva capacità di spesa è percepita negativamente. Ciò riduce la soddisfazione per la propria
situazione di vita e impedisce l’ulteriore crescita del livello soggettivo di benessere», spiega Proto.
È impossibile aumentare a piacere soddisfazione e felicità mediante un aumento di ricchezza e consumi sempre maggiori. A partire dal punto in cui si ha tutto quanto serve per vivere, l’aspettativa si ribalta in fastidio e frustrazione. Proto descrive questo meccanismo come «una rincorsa fra aspettative crescenti e loro realizzazione», per cui si perdono gli effetti psicologici positivi di una maggiore affluenza. Un interessante risultato collaterale dello studio del GESIS, inoltre,è che una riduzione dei consumi, non causata dalla necessità ma basata sulla rinuncia volontaria, non influisce negativamente sulla soddisfazione nella vita.
Gli psicologi Elizabeth Dunn e Jordi Quoidbach si sono occupati degli effetti di una disponibilità illimitata di generi voluttuari. Hanno sottoposto per una settimana due gruppi di studenti a regimi alimentari opposti: gli uni potevano consumare cioccolata ad libitum, gli altri erano obbligati a un’astinenza totale. Al termine della settimana, quando hanno ricevuto un pezzo di cioccolata, i soggetti sottoposti al regime di astinenza l’hanno gustata con molta più gioia, mentre gli altri non erano più capaci di apprezzarla: è l’effetto di “as
suefazione edonistica” ad attenuare il piacere. Una rinuncia almeno temporanea è quindi proprio la strada per aumentare la capacità di godimento.
Neppure una grande disponibilità di tempo libero serve a farci davvero felici, ci dicono le ricerche. Gli psicologi Chris Manolis e James Roberts hanno esaminato di recente un campione di 1 300 giovani adulti, per accertare in che misura un atteggiamento materialistico e consumistico molto spiccato, unito a una grande quantità di tempo libero, contribuisca alla soddisfazione e al benessere generale. È risultato che ciò tende semmai a peggiorare le cose. Interessante in particolare è che, per quanto riguarda il tempo libero, non solo averne poco ma anche averne troppo danneggia la qualità della vita: ottimale, a parere dei ricercatori, è una misura intermedia di tempo libero da impegni di lavoro.
Mathias Binswanger, professore di economia alla Scuola Superiore della Svizzera nordoccidentale, ha condotto ricerche in tema di benessere e sostenibilità, da cui viene fuori chiara la correlazione fra sovrabbondanza e disgusto: «L’uomo contemporaneo economizza tempo, e questo tempo risparmiato lo spreca nel percorrere distanze sempre più lunghe, o per orientarsi a fatica in un assortimento eccessivo di prodotti di consumo. Imprigionato com’è negli ingranaggi del sistema economico, che lo induce a sopravvalutare sistematicamente il piacere del consumo materiale, non si rende
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conto del fatto che il benessere
soggettivo è strettamente lega
to a un comportamento misu
rato e sostenibile». Un numero
sempre crescente di prodotti
non potrà certo dar luogo a una
soddisfazione crescente, per
ché da tempo l’enorme scelta
del mercato si è tradotta in
una forma di tirannia. Non da
ultimo, a causa dell’effetto di
assuefazione è impossibile un
aumento di piacere.
Anche per queste ragioni,
ma soprattutto in vista dell’in
quinamento ambientale e
dell’esaurimento delle risor
se, negli ultimi tempi il tema
della sostenibilità è in primo
piano nella discussione fra gli
economisti: com’è pensabile
un’economia senza l’obbligo di
una crescita continua, e com’è
possibile, nelle condizioni
attuali, conseguire la sosteni
bilità come obiettivo generale
delle società moderne? Sono
domande difficili, ammette
Binswanger: «Finché l’econo
mia è organizzata solo in fun
zione della crescita, e senza
crescita va in crisi, la giostra si
potrà rallentare, ma scendere
sarà impossibile».
symbol diventano troppi? E come fare,
in questa situazione, non solo a frena
re, ma a inserire la retromarcia e ridur
re la sovrabbondanza? Per il benessere
mentale il tentativo è vantaggioso. Alcu
ne ricerche dimostrano infatti che per
la nostra psiche il crescente benessere
materiale e la scelta sempre più ampia
di prodotti di consumo sono contropro
ducenti: anziché arricchirla rischiano di
sovraccaricarla (si veda il Box).
Marcel Hunecke insegna psico
logia generale e dell’ambiente
all’Università di scienze e arti
applicate di Dortmund e nelle sue ricer
che si occupa soprattutto di sostenibi
lità: «Lo stress da consumo si aggiunge
alle altre cause di stress», osserva, «nel
lavoro, in famiglia e nel tempo libero.
Siamo costretti di continuo a prendere
decisioni, padroneggiare sviluppi nuo
vi, affrontare il confronto sociale: chi ha
più successo, chi possiede di più, chi è
più attraente? Questo continuo insegui
mento di valutazioni e di ranghi socia
li somiglia alla giostra di un topino in
gabbia. E il numero di coloro che non lo
reggono più è in grande crescita».
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Sta crescendo negli ultimi anni la
richiesta di vere e proprie figure
professionali che assistano nell’impresa
di sgombero e riordino, i life-coach
tono il bisogno di ridurne il numero e
di ricostituire un ordine sensato». La
sua clientela è variegata, per età, li
vello d’istruzione e condizioni sociali.
Dopo anni di consumo intensivo, molti
sono sopraffatti dalla quantità degli og
getti acquistati: «Non sono veri e propri
messie, ma hanno capitolato di fronte
all’impresa di mettere in ordine le loro
cose. Alcuni hanno perso totalmente il
controllo e non hanno la minima idea di
dove andare a cercare questa o quella
cosa, ma non se ne separano per paura
di doversene pentire in seguito».
Che questo eccesso di oggetti sia cau
sa di stress è evidente, osserva Ehlers,
in particolare per il ripetersi quotidiano
di piccoli fastidi, rabbie, incidenti: «In
mezzo a quel caos non si riesce a tro
vare documenti importanti, si perdono
di continuo le chiavi, si deve rinunciare
a intere stanze perché sono totalmen
te ingombre». Una volta terminato lo
sgombero, per lo più i soggetti provano
un grande sollievo: «Il processo di rior
dino educa alla consapevolezza di ciò
che è davvero utile. Motiva a guardare
con maggiore chiarezza la vita quotidia
na, e la maggior parte delle persone si
rallegra alla prospettiva di accumulare
d’ora in poi meno cose e di potersi go
dere l’armonia riconquistata».
Il passo verso una riduzione consape
vole di proprietà, pretese, aspettative e
status symbol, per una migliore qualità
della vita, presenta anche altri aspet
ti. Un incoraggiamento in questo sen
so lo troviamo nelle persone che hanno
già avviato l’esperimento con successo.
Nel mercato editoriale dell’ultimo an
no troviamo ai primi posti in classifica
autori che hanno dichiarato guerra alla
sovrabbondanza quotidiana: Judith Le
vine, che per un anno intero ha rinun
ciato a ogni consumo, John Lane, che
da anni conduce una vita semplicissi
ma in campagna, lo stesso Dave Bruno,
il blogger di The 100 thing challenge,
mettono a parte il pubblico dei loro per
sonali esperimenti.
Sempre più diffuso, specie negli stra
ti intermedi della società, è il desiderio
di sfuggire a questa ruota malsana. Ciò
avviene spesso drammaticamente, sot
to forma di una sindrome da stress, di
burnout o di esaurimento totale. Cresce
però il numero di coloro che tracciano
una linea netta, prima di arrivare alla
crisi: «Sono soprattutto le persone più
portate a riflettere quelle che si accor
gono per tempo di dover scendere dal
la giostra consumistica all’insegna del
“sempre di più”, e rinunciano volonta
riamente, con la sensazione piacevole
di potere infine, almeno in questo cam
po, decidere liberamente», dice Hunec
ke. Sgombrano la vita quotidiana di tut
to il superfluo e riducono drasticamente
i consumi.
Non sono pochi tuttavia quelli che
hanno bisogno di un sostegno specifi
co. Sta crescendo negli ultimi anni la
richiesta di vere e proprie figure pro
fessionali che assistano nell’impresa
di sgombero e riordino, i life-coach,
specialisti che aiutano a riorganizzare
e semplificare la vita quotidiana. Una
di loro è, per esempio, Anja Ehlers, psi
cologa che da anni lavora con le perso
ne che non riescono a rimettere ordine
nel loro contesto quotidiano. A questa
scelta professionale è arrivata dopo es
sersi occupata dei cosiddetti “messie”
(da “mess”, “disordine”), pazienti che
soffrono di una sindrome di accumulo
di oggetti, una forma particolare di di
sturbo ossessivocompulsivo. Ma non
solo, in questi casi patologici è richie
sto un sostegno pratico e psicologico
per lo sgombero: «Sono sempre di più
le persone che hanno perso il controllo
della massa di cose che hanno raccol
to in casa», osserva Ehlers, «ma sen
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L’attore e scrittore austriaco Ro
land Düringer si è proposto l’o
biettivo di fare a meno di tutto
ciò che non aveva durante la sua infan
zia, negli anni Settanta: in altre parole,
vivere senza cellulare, carta di credito,
televisione, supermercati, computer.
In questo modo reagisce alla sensazio
ne di totale sovraffaticamento da con
sumismo, cui era stato esposto finora,
con la rincorsa ad auto sempre più co
stose e potenti e altri prodotti di pre
stigio: «Volere sempre di più mi faceva
star male». L’accelerazione folle della
vita quotidiana, il “sempre di più”, lo
viveva come uno «sviluppo sganciato
dal senso». Mette in guardia Düringer:
«La quantità abolisce il valore. Ci sono
innumerevoli cose belle che ci perdia
mo, perché l’eccesso di consumi inge
nera la noia».
Questa nuova vita viene sentita non
come una rinuncia, ma come un arric
chimento. Non solo grazie alla liberazio
ne da status symbol come la macchina
o il cellulare, ma addirittura limitando
drasticamente il consumo di normali
prodotti voluttuari, come il caffè: «In
questo modo il consumo diventa qual
cosa di speciale, un’esperienza partico
lare del gusto», racconta. Ai possibili
imitatori Düringer raccomanda peral
tro di riflettere attentamente su quello
cui intendono rinunciare, come e per
ché, possibilmente senza accettare idee
precostituite: «Non si tratta di lasciarsi
dettare regole da altri, ma di decidere
ognuno per proprio conto come si usano
o non si usano certe cose». Solo così è
possibile scoprire cosa davvero è impor
tante per noi.
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Una serena riduzione dei bisogni passa
attraverso tre strategie, utili al benessere
psichico: un sano edonismo, la ricerca
di significato e uno scopo personale
Una strada simile per una riduzio
ne radicale è quella proposta dal
giornalista Leo Babauta: «Il no
stro corpo e la nostra psiche sono fatti
per una vita più lenta. Viviamo senza
limiti e non possiamo reggere la ten
sione causata dal fatto di voler avere e
fare tutto. Questo ci logora sotto molti
aspetti». Babauta consiglia di porsi da
sé dei limiti in ogni azione, di concen
trarsi sull’essenziale, di usare consa
pevolmente e con parsimonia le risor
se sia mentali che materiali. Bisogna
inoltre avere ben chiaro dove sono in
agguato distrazione, stress e sprechi:
una sola attività alla volta invece del
multitasking, concentrarsi sul presente
anziché sul passato o sul futuro, svuo
tare la casella postale delle email al
massimo due volte al giorno, mangiare
con attenzione, guidare più lentamen
te, sono alcuni dei suoi consigli pratici.
Nel suo blog “Zen Habits”, diventato
nel frattempo uno dei più letti al mon
do, presenta una serie di checklist utili
per rallentare il ritmo, sgombrare il su
perfluo e semplificarsi la vita.
Quanto facili e anche divertenti pos
sono sembrare questi esperimenti, al
trettanto difficile è spesso mettere in
pratica nella vita quotidiana le strategie
di riduzione. Un ostacolo, per esempio,
è nel fatto che attribuiamo alle nostre
proprietà un grande valore, spesso su
periore a quello reale. L’americano Da
niel Kahneman, premio Nobel per l’eco
nomia, ha documentato questo “effetto
di possesso”, che ci fa tendere a so
pravvalutare nettamente una cosa, se
questa ci appartiene. Ciò, accanto ad
altri fattori, rende più difficile separarsi
dalle cose già acquisite.
E tuttavia, ai fini di una durevole pre
venzione dello stress, vale la pena di
tentare: «Si può stimolare l’individuo a
una maggiore indipendenza. Sappiamo
quali sono le risorse psichiche neces
sarie e ciascuno può svilupparle per vi
vere meglio, sia da solo che con l’aiu
to di un’esperienza di gruppo o di un
trattamento individuale», afferma Mar
cel Hunecke. La via per una serena ri
duzione dei bisogni passa a suo avviso
per tre strategie collaudate, tutte utili al
benessere psichico: un sano edonismo,
la ricerca di significato, l’impegno per
uno scopo personale. Esse danno forza
e attivano risorse importanti contro le
lusinghe del consumismo.
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Riuscire ad accettare le cose per
quello che sono, saper cogliere le
buone piccole cose di ogni giorno,
accontentarsi di meno
Riferimenti bibliografici
BaBauta L. (2009), The power of less. The fine art of limiting yourself to the es-sential in Business and in life, Hyperion, New York.
Binswanger M. (2006), Die Tretmühlen des Glücks. Wir haben immer mehr und werden nicht glücklicher. Was können wir tun?, Herder, Freiburg.
Bruno D. (2011), The 100 thing challenge. How I got rid of almost everything, remade my life and regained my soul, Harper, Col-lins, New York.
Düringer r., arvay C. G. (2013), Leb wohl, Schlaraffeland. Die Kunst des We-glassens, Edition a.
Hunecke M. (2013), Psychologie der Nach-haltigkeit. Psychosche Ressourcen für Postwachstumgesellschaften, Oekom, München.
Jay F. (2010), The joy of less. A minimalist living guide, Anja Press, www.anjapress.com.
Lane J. (2012), Das einfache Leben. Vom Glück des Wenigen, Aurum, Herbst.
Edonismo. Invece di voler acquistare
e possedere sempre di più, quello che
conta è ricavare dalle cose e dalle espe
rienze un autentico godimento dei sen
si. Possono servire allo scopo esperienze
di educazione del gusto (per esempio,
i seminari Slow Food), che affinano la
sensibilità: «Questi training fanno sì che
l’intensità dell’esperienza possa mettere
in ombra la pura e semplice quantità dei
consumi». Anche Tim Jackson, che in
segna sviluppo sostenibile all’Universi
tà del Surrey e da anni studia modelli
di vita non consumistici, invita a questo
tipo di edonismo alternativo, che mette
in primo piano aspetti come significa
to condiviso, relazioni interpersonali e
qualità della vita, riducendo i consumi e
i tempi di lavoro. Le sue ricerche dimo
strano che, avendo possibilità di spen
dere senza problemi, è meglio concen
trarsi su cose immateriali, come teatro,
concerti, hobby e buon cibo, cioè su tut
to ciò che offre godimento e bei ricordi:
un tipo di consumo capace di dare sod
disfazioni durevoli.
Scopi. Hunecke fa notare che «le per
sone cambiano il loro comportamento
quotidiano solo se possono ricavarne
qualcosa». In questo senso è d’aiuto
proporsi degli scopi, il cui consegui
mento susciti emozioni positive, co
me la fierezza di essere riusciti a cor
rere una maratona o la soddisfazione
di mangiare i prodotti del proprio or
to: «Secondo la ricerca, realizzare tali
progetti contribuisce al benessere psi
cologico. Il senso di autoefficacia e la
maggiore autostima danno la forza di
sottrarsi al consumo fine a se stesso».
Significato. Gli scopi orientati verso
una comunità solidale aprono orizzon
ti nuovi. Comunque sia, in un gruppo,
sul piano spirituale o nella ricerca di
un significato del tutto individuale, la
concentrazione su un’esperienza signi
ficante protegge da quella perdita di
senso che affligge la società dei consu
mi. Ultimamente la stessa industria si
sforza di vendere significati, attraverso
la pubblicità e l’immagine dei prodotti.
Ma qui un’importante funzione di cer
niera spetta all’attenzione: riuscire ad
accettare le cose per quello che sono,
saper cogliere le buone piccole cose di
ogni giorno, accontentarsi di meno, tut
to serve. Imparare a lasciar perdere, ri
portare il consumo a una misura saluta
re, ricominciare a fare le cose da soli e
proporsi obiettivi in proprio, sono aspet
ti decisivi, sotto il profilo psicologico,
per un vissuto di autoefficacia. Tutto ciò
aumenta la capacità di resistenza alle
seduzioni consumistiche.
In questa ampia rete di risorse psi
chiche ciascuno può cercare il punto
d’accesso più adatto a lui, partendo da
lì per un lavoro sistematico di revisione
anche negli altri ambiti, così da sfuggi
re alla routine e alla giostra senza fine
dei consumi.
TiTolo originale: «einfacher
leben: was brauchen wir wirklich?»,
Psychologie heute, dicembre 2014,
20-25. Traduzione di gabriele noferi.
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Il caso H. M.
Forse nessun campo della psicobiologia, come quello della memoria, ha portato in breve tempo a conoscenze così approfon-
dite. Eppure, la storia della memoria passa attraverso alcuni casi clinici che hanno con-sentito di comprendere i rapporti tra struttu-ra e funzione e, aspetto non meno importan-te, l’impatto che i ricordi hanno sulla nostra identità personale.
Il primo caso clinico è quello descritto nel 1973 da Alexander R. Lurija in Un mondo
perduto e ritrovato. È il caso, quasi lettera-rio nella sua coinvolgente narrazione, di una devastante, pressoché totale, perdita della memoria, il «racconto di un solo attimo che distrusse una vita intera. È il racconto di come una pallottola, perforato il cranio di un uomo, penetrò nel suo cervello e spezzò il suo mondo in migliaia di frammenti che egli non riuscì più a riunire. Questo è il libro di un uomo che ha dedicato tutte le sue forze per recuperare il suo passato e conquistare il suo futuro».
Lurija scelse volutamente di raccontare il “caso clinico numero 3712”, il caso appunto del tenente Zasetskij, come se esso fosse un romanzo, la ricca cronaca di una vita indivi-duale, la cronistoria di una «lotta cui non ha arriso la vittoria e della vittoria che non ha impedito la lotta». Colpito da una gravissima amnesia, non soltanto Zasetskij non ricordava nulla del proprio passato, cioè aveva perduto la memoria episodica, ma non poteva né leg-gere né ricordare ciò che aveva scritto: le pa-role scritte erano per lui prive di significato, così come gran parte delle informazioni che gli venivano fornite, con pazienza, dall’infer-
miera. Egli poteva soltanto mettere insieme dei pensieri, così come avvenivano, a caso, veri brandelli della sua memoria che affiora-vano disordinatamente dagli abissi del suo cervello scompaginato. Eppure, nella tragedia che lo colpì, il tenente Zasetskij riuscì a com-prendere che, anche se la sua vita non sareb-be mai stata normale, essa avrebbe potuto avere un significato se egli si fosse sforzato di ricordare, di concatenare ciò che affiorava dalle profondità della sua mente. Così, per ol-tre venti anni, egli scrisse ogni giorno frasi o pagine disorganizzate, nel disperato tentativo di riorganizzare la sua memoria, di dare con-tinuità al suo passato, di comprendere attra-verso quali tappe si fosse svolta la sua vita.
Quando Lurija descrisse il caso di Zasetskij, le tecniche di brain imaging non esistevano, ma sulla base dei dati clinici e radiografici, è possibile attribuire i deficit della memoria e della lettura a danni a carico della corteccia temporale, parietale e delle aree associative parieto-occipitali-temporali.
Diverso è invece il caso ancor più noto di H. M. (Henry Gustave Molaison), forse l’acronimo più pervasivo di tutta
la letteratura neuroscientifica. H. M. sin da piccolo cominciò a soffrire di gravi crisi epi-lettiche resistenti ai farmaci: quando ebbe 26 anni, nel 1952, il neurochirurgo William B. Scoville decise che l’unico modo per alle-viare la condizione del giovane era un’opera-zione al cervello volta a rimuovere il focolaio epilettico, vale a dire la parte di corteccia da cui prendeva inizio l’attività convulsiva. L’in-tervento neurochirurgico, documentato dagli
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schemi operatori tracciati dallo stesso Sco-
ville, portò a una remissione delle gravissime
crisi epilettiche, ma ben presto il giovane ma-
nifestò una severa amnesia anterograda, vale
a dire l’incapacità di ricordare gli eventi della
sua vita successivi all’operazione, al punto da
non riconoscere le persone che lo circonda-
vano, medici compresi. Venne chiamata una
grande esperta delle funzioni del lobo tempo-
rale, Brenda Milner, che si trattenne per tre
giorni insieme ad H. M. e si rese conto che il
giovane era, per esempio, in grado di impara-
re a eseguire nuovi compiti (come il disegna-
re una stella agendo attraverso uno spec-
chio), ma non conservava traccia mnemonica
di quanto si era verificato in quei tre giorni,
compresi i test cui era stato sottoposto. Mil-
ner arrivò alla conclusione che nel caso di H.
M., come in tutti i casi di lesioni bilaterali del
lobo temporale mediale, si verificava una per-
dita delle memorie recenti se la lesione inte-
ressava anche parti dell’ippocampo anteriore
e del giro ippocampale. Le ipotesi di Milner
furono confermate quando H. M. fu sottopo-
sto a studi di neuroimaging. Oggi sappiamo
con certezza che è proprio questa struttura,
insieme alla corteccia temporale inferiore,
che consente le trasformazioni delle memorie
a breve termine in memorie durature.
Il caso di H. M. è descritto in ogni testo di
neuropsicologia e, a differenza di quello di
Zasetskij, si basa su una massiccia documen-
tazione di tipo neuropsicologico e strumen-
tale: documentazione su cui è basato un bel
libro di Suzanne Corkin, una neuroscienzia-
ta che per quasi mezzo secolo ha avuto una
frequentazione professionale e umana con
Henry Molaison. In Prigioniero del presente
Corkin nota che «il cervello di Henry ha rispo-
sto a più domande sulla memoria di quanto
abbiano fatto gli studi neuroscientifici dei
cento anni precedenti», anche se, a mio pa-
rere, il caso di Zasetskij non è da sottovaluta-
re. Ma la testimonianza della Corkin è impor-
tante anche perché è la testimonianza di una
psicologa che si pone degli interrogativi sulla
propria identità alla luce dell’identità del pa-
ziente. Un complesso e inquietante gioco di
specchi sul ruolo della memoria.
ALBERtO OLIVERIO“SapIenza” – UnIverSItà dI roMa
Corkin S. (2015), Prigioniero del presente, Adelphi, Milano.Lurija A. R. (1973), Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma, 1991.SCoviLLe W. B., MiLner B. (1957), «Loss of recent memory after bilateral
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La famigliaChiesa e psicologia a confronto
Fabrizio mastroFini
Il matrimonio per la Chiesa cattolica è
un sacramento, è indissolubile, e la
rottura di questo ordine fondato sul
Vangelo non è riparabile. Se viene viola
to l’uno o l’altro dei comandamenti (per
esempio il «non uccidere» oppure «ono
ra il padre e la madre»), tramite la pe
nitenza è possibile riaccostarsi ai sacra
menti. Nel caso del matrimonio no. In
effetti all’interno della posizione mono
litica di questi ultimi cinquant’anni, a
partire dall’enciclica Humanae Vitae di
Paolo VI (1968), qualche voce difforme
si è fatta sentire. Alcuni – pochi – bibli
sti e storici della Chiesa notano che nel
la prassi del Primo millennio e nel mon
do ortodosso orientale (Cereti, 2014),
si danno dei percorsi penitenziali per
riammettere divorziati e risposati. Per
la Chiesa cattolica, finora, è prevalsa in
vece una posizione rigorista. In passato
esistevano posizioni ancora più rigori
ste. Sant’Agostino, per esempio, pensa
va che le seconde nozze erano lecite nel
caso della morte di un coniuge anche
se la vedovanza casta veniva conside
rata migliore; Tertulliano, d’altra parte,
proibiva le seconde nozze perché a suo
parere l’indissolubilità superava la fine
della vita.
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La Chiesa si interroga sulla realtà
della famiglia. Forse si arriverà
ad una revisione della legge canonica
che prevede l’esclusione
dalla comunione per i divorziati.
Si tratta di un tema che interessa
tante persone ed entra nelle
dinamiche della vita matrimoniale
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L’impostazione fortemente ideologica della visione familiare non consente di considerare le dinamiche proprie
della relazione fra le persone
LA reLAzIoNALITà
Il percorso immaginato da Papa Francesco attraverso il Sinodo dei Vescovi (si veda il Box) dovrebbe portare
ad una normativa più aperta e realistica. Tuttavia la modifica delle posizioni dogmatiche si rivelerà opera lenta e complessa. La famiglia è definita come l’istituzione sociale derivante dal matrimonio tra un uomo e una donna, dove la sessualità è esercitata per dare vita a dei figli e sarebbe inscritta nell’«ordine
naturale» voluto da Dio. Gesù interviene contro il ripudio della donna da parte dell’uomo anche nel caso di “porneia” (“concubinato”), previsto dalla legge ebraica come unica eccezione ammessa. Un ulteriore inciso del Vangelo di Matteo rende lecito il ripudio nel caso di concubinato, ma forse si riferisce a relazioni tra ebrei e non ebrei.
Grande assente in Vaticano è il tema della “relazionalità” e del problematico costruirsi dei rapporti umani, come ben sa chi si occupa di psicologia relazionale e come insegnano le scuole di terapia della famiglia. Nel Sinodo straordinario dell’ottobre 2014 troviamo soltanto due brevi passaggi in questo senso. Nell’intervento introduttivo il cardinale ungherese Peter erdo ha notato che le relazioni «che si stabiliscono in famiglia sono punto di incrocio tra la dimensione privata e quella sociale». Tuttavia «attraverso i coniugi, il loro concreto aprirsi alla generazione della vita, si fa l’esperienza di un mistero che ci trascende.L’amore che unisce i due coniugi e che diventa principio di nuova vita, è l’amore di Dio». Nel documento conclusivo si parla di «rilevanza della vita affettiva», evidenziando che «la sfida per la Chiesa è di aiutare le coppie nella maturazione della dimensione emozionale e nello sviluppo affettivo attraverso la promozione del dialogo, della virtù e della fiducia nell’amore misericordioso di Dio».
UNA VISIoNe PLUrIDIMeNSIoNALe
L’impostazione fortemente “ideologica” della visione familiare non consente di considerare le dina
miche proprie della relazione fra le persone. Tra i partecipanti al Sinodo non erano presenti psicoterapeuti impegnati nella terapia della famiglia, dunque i problemi specifici delle relazioni interpersonali sono risultati assenti oppure stereotipizzati. Del resto l’enciclica Hu-
il sinodo sulla famiglia
2014-2015
ottobre 2014 è stato il mese del Sinodo dei vescovi dedicato alla famiglia. Il Sinodo è lo strumento ideato da Papa Paolo VI per aumentare la
“collegialità” gestionale della Chiesa. Si è trattato di un Sinodo “straordinario” al quale hanno partecipato i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo, vescovi e cardinali della Curia, esperti di nomina papale; in tutto 230 persone. L’assise è stata preceduta da una consultazione sulla base di un questionario, le cui risposte hanno portato al «Documento di lavoro» alla base dell’assemblea. Un Sinodo “straordinario” in genere serve a una “rapida definizione” dei problemi. In realtà, vista la posta in gioco e la rigidità dottrinale da modificare, Papa Francesco ha ritenuto opportuno un percorso in due tappe. La prossima imminente tappa di ottobre vedrà una nuova riunione del Sinodo dei vescovi, questa volta un’assemblea “ordinaria” alla quale, oltre agli esperti di nomina papale, parteciperanno vescovi eletti dalle diverse conferenze episcopali. Con i due Sinodi si è voluta garantire la più ampia rappresentatività e al termine della seconda assemblea si può immaginare che arriveranno decisioni concrete.
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Promettenti sono gli sviluppi che
considerano le diverse dimensioni
della famiglia, integrando punti
di vista e approcci teorici diversi
manae Vitae al paragrafo 8 recita: «Il
matrimonio […] è stato sapientemente
e provvidenzialmente istituito da Dio
creatore per realizzare nell’umanità il
suo disegno di amore» (Paolo VI, 1968).
La relazione interpersonale analizza
ta secondo le coordinate della Scuola
di Palo Alto, dei terapisti della famiglia
(anche in prospettiva trigenerazionale)
e integrata da una visione umanistica,
in dialogo con la teoria dell’attaccamen
to, consente una visione pluridimensio
nale dei rapporti familiari (Mastrofini,
2014). Promettenti sono, infatti, gli svi
luppi che considerano le diverse dimen
sioni della famiglia, integrando punti
di vista e approcci teorici diversi. Per
esempio, si parla sempre più spesso del
“patto” che è all’origine di ogni nuova
famiglia e si tratta di portare alla luce
ciò che davvero ognuno dei due com
ponenti della coppia desidera dall’al
tro. Nei fallimenti della relazione emer
ge la rottura, spesso inconsapevole, del
“patto” operata perlopiù da uno ai dan
ni dell’altro e che si scopre essere spes
so nascosto, mai esplicitato e verifica
to. La dimensione intergenerazionale è
molto importante: ogni nuova famiglia
incrocia a sua volta le rispettive famiglie
di origine, la nuova che viene costituita,
quella ancora diversa che si realizza nel
tempo quando nascono dei figli (Framo,
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Spesso la maturità è solo anagrafica e
andando a vedere meglio ci troviamo di
fronte individui profondamente immaturi
dal punto di vista relazionale
1996). Qui si innestano delle conside
razioni sul “ciclo di vita” della famiglia,
in verità tema poco considerato (Minu
chin, 1978). Negli anni i due genitori
cambiano, invecchiano, intercettano le
dinamiche proprie del loro specifico ci
clo di vita le quali si riflettono sull’insie
me dei rapporti familiari; lo stesso acca
de per i figli nel passaggio dall’infanzia
all’adolescenza, alla giovinezza che per
i genitori rappresenta il passaggio ver
so la maturità e la vecchiaia. Un altro
aspetto di grande interesse riguarda la
separazione dalla famiglia di origine e
la verifica dell’esistenza di una maturità
affettiva ed emotiva (Whitaker e Napier,
1981). Spesso si ha una maturità solo
anagrafica e andando a vedere meglio
ci troviamo di fronte individui profonda
mente immaturi dal punto di vista psi
cologico e relazionale, a tal punto di
pendenti dalla famiglia di origine, che
il nuovo nucleo non riesce a darsi una
consistenza autonoma, intaccando la
tenuta della coppia (Andolfi, 1999). Un
altro aspetto ancora è di natura socia
le, con il grande impatto delle difficol
tà economiche e lavorative sulla fami
glia, e riguarda la caratteristica italiana
di tenersi in casa i figli anche quando
sono oramai in età adulta, prolungando
il ciclo di vita di un nucleo in maniera
anomala e non sana per l’autonomia e
lo sviluppo psichico delle persone che
ne fanno parte.
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WhitAker C., nAPier A. (1981), Il crogiolo del-la famiglia, Astrolabio, Roma.
Fabrizio Mastrofini, psicologo, giornali-sta, lavora con le famiglie in difficoltà ed è specializzato nell’analisi organizzativa delle strutture complesse.
SI rIChIeDe UN SALTo DI QUALITà
Considerata in questo modo la famiglia non è più un’entità astratta, bensì un “sistema” che in
teragisce con i singoli elementi al suo interno e con gli altri “sistemi” che impattano sulla sua esistenza. e un’analisi di questo tipo non può prescindere da una visione psicodinamica che registri le influenze di ogni elemento sugli altri, prendendo in considerazione l’evolversi del legame nei diversi cicli di vita della coppia. Dal canto suo la Chiesa, anche se a parole sostiene di avere a cuore la famiglia, nucleo fondante della società, tuttavia si sofferma soltanto sugli aspetti “formali” del legame e tanto meno parla di “coppia”.
Portiamo un esempio che deriva da una consultazione. Nel colloquio, marito e moglie (entrambi cinquantenni e sposati da venti anni) fanno emergere la loro situazione altamente conflittuale e problematica. È il marito in particolare a dire espressamente di «non poterne più». «Non posso andare avanti in una situazione di scontro e conflitto continuo, molto spesso con esiti violenti». Una confessione drammatica, resa con una forte connotazione emotiva. Di fronte a tanto la moglie con estrema calma risponde: «Credo nell’indissolubilità del matrimonio», chiudendo così ogni ulteriore dialogo. Il confronto tra i coniugi in quel momento riguardava
il loro rapporto; la risposta evidenziava un elemento estrinseco e ideologico, coprendo ogni responsabilità individuale per impedire la presa di coscienza del ruolo che tutti svolgono nella riuscita o nel venir meno del rapporto stesso.
Torniamo alla Chiesa. Stando ai documenti in campo – le relazioni preparatorie, le relazioni e gli interventi durante le tre settimane di Sinodo in Vaticano – la Chiesa sembra distante dal considerare la famiglia dal punto di vista delle relazioni. esistono i “corsi prematrimoniali”, ma nessun aiuto per le difficoltà relazionali successive, lasciate ai confessionali nel migliore dei casi. Il vero salto di qualità consisterebbe nell’abbandonare gli aspetti teologicoformali – basati su una visione idealizzata della famiglia di Nazareth, di cui peraltro nulla si conosce – e prendere sul serio la prospettiva sistemica.
Marina Balbo
EMDR E DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONETra Passato, Presente e Futuro
pp. 224 - € 22,00
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p s i c o s c o p i oa c u r a d i g u i d o s a r c h i e l l idipartimento di psicologia , università di bologna
«vuoi sempre aver ragione!»Quanto è difficile lavorare con gli arroganti
«Lavoro in una squadra di 6 ragazze oltre ai due proprietari in un grande negozio di articoli sportivi. Tutti noi dipendenti
siamo alla pari, ma Laura si comporta come se fosse la padrona. Secondo lei nessuno la supera in intelligenza e nel record di vendi-te. Quando sei in turno con lei ti fa sembrare un’incapace per fare bella figura con i pro-prietari e magari ricevere qualche gratifica personale. Quando può cerca di screditarti o anche di sgridarti ad alta voce per qualche piccolo errore. Si sente l’unica brava vendi-trice, la più brillante. Parla sempre di sé, si vanta di continuo dei suoi meriti e non dà spazio alle colleghe. Non ascolta nessuno e spesso risulta sgarbata e poco rispet-tosa degli sforzi degli altri. Mi è difficile parlare con lei anche di questioni di lavoro perché vuole sempre aver ragione. Non ammette mai di sbagliare o che si poteva fare qualcosa diversamen-te. Non si scusa mai e non è capace di riconoscere il merito delle colleghe, né di dire loro un grazie. Per un po’ ho cer-
cato di farla ragionare e di farmela amica, ma ormai il clima di lavoro è diventato indi-sponente, mi costa troppo far finta di niente e sto pensando di andarmene».
È un esempio di vita lavorativa che rende evidente l’arroganza che spesso con-nota le relazioni di lavoro rendendole
sgradevoli. Si tratta di un esagerato senso di superiorità, una tracotanza esplicitata nelle parole spesso sarcastiche o offensive e nelle condotte di tendenziale svalutazione delle colleghe. Tali comportamenti non sono rari anche se risultano più eclatanti e bia-simati quando la persona arrogante riveste posizioni di responsabilità (tanto è vero che l’arroganza è un tratto ormai riconosciuto
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di una cattiva leadership). Qui si manifesta un’“arroganza tra pari grado” che minac-cia la cooperazione sul lavoro e che risulta talvolta giustificata dall’eccessiva compe-tizione stimolata dalle stesse imprese per ottenere una più elevata produttività. L’ar-rogante vuole apparire “invincibile” in ogni situazione, “tutto deve girare intorno a lui”, si sente sempre il migliore e si aspetta un trattamento speciale e privilegi; non si cura di leggere i segnali concreti della situazione particolare di lavoro, di diagnosticarla bene per adattare le proprie risposte e renderle appropriate.
La ricerca psicologica ha fatto emerge-re due tipi di evidenze: a) gli arroganti, nonostante gli sforzi di apparire miglio-
ri, spesso mostrano livelli di intelligenza (so-prattutto emotiva) non elevati e capacità di prestazione non superiori a quelle degli altri. Dunque, l’arroganza anche sui luoghi di la-voro sembra mascherare, in realtà, una bas-sa fiducia in sé stessi, un’insicurezza nelle relazioni interpersonali e prestazioni mo-deste, compensate appunto con l’esagera-zione del proprio modo di presentarsi come più competenti. È considerata una strate-gia auto-difensiva, più o meno consapevo-le, che prevede: la mancanza di rispetto per le idee altrui, la pretesa di essere sempre meglio informati e più capaci, il prendersela con gli altri e incolparli se le cose non van-no, l’essere insensibili ai punti di vista e ai commenti altrui; b) si è visto che quanto più elevata è l’arroganza, anche nelle relazioni lavorative tra colleghi, tanto più si riduco-no la qualità delle prestazioni lavorative e dei risultati del lavoro, i comportamenti di “cittadinanza organizzativa” (cioè l’aiuto tra colleghi o il sostegno ai più giovani o agli apprendisti, ecc.) e quelli in favore dell’or-ganizzazione in generale (per esempio, cala l’attenzione per gli obiettivi organizzativi di fondo o per la preservazione degli strumenti e ambienti di lavoro; prevale l’attenzione ai propri interessi rispetto a quelli collettivi); infine tende a crearsi un clima sociale irri-tante e velenoso.
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Non fare nulla di fronte all’arroganza lavorativa rischia di stabilizzare un cir-colo vizioso dagli effetti organizzativi
preoccupanti: l’iniziale paura della propria inadeguatezza stimola l’adozione di condotte arroganti. Esse richiamano risposte negati-ve da parte dei colleghi (non sempre dispo-sti a sopportare o lasciar perdere) che via via accentuano nell’arrogante la percezione di doversi battere per confermare la propria presunta superiorità, sviluppando ulteriori ri-sposte di prevaricazione.
Per contrastare l’arroganza lavorativa le organizzazioni intelligenti devono operare in modo che le situazioni interpersonali difficili rientrino nel loro normale sistema di gestione delle risorse umane. Esso dovrebbe prevedere espliciti piani di prevenzione con “tolleranza zero” per i comportamenti arroganti, aggres-sivi e di prevaricazione nonché la riduzione di una eccessiva competitività tra i lavoratori. Sul piano pratico non vale la pena assume-re una condotta di opposizione a tutto campo verso il collega arrogante (poiché si rinfocola un’escalation aggressiva). Ciò non significa però “fare da zerbino” che sopporta tutto. Oc-corre chiarire e ben circoscrivere – sin dai pri-mi incontri – le relazioni con la persona arro-gante concentrandosi sugli obiettivi di lavoro comuni e senza concedere di mettere in crisi sé stessi e il proprio valore. Andrebbe inol-tre incoraggiata la capacità delle persone di discriminare le singole situazioni per rendersi conto di quando le condotte arroganti derivino da insicurezza e bassa stima di sé del collega arrogante e, in tal caso, creare l’opportunità di ascoltare e di far intravedere i vantaggi reci-proci dell’essere più tolleranti.
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Nonostante la diffusione dei social
network, la solitudine oggi è una
delle condizioni che maggiormente
sembrano affliggere le persone.
Particolarmente significativa è
la solitudine delle persone che
assistono parenti malati
ziani affetti da Alzheimer o da demenza senile (Beeson et al., 2000), con i quali risultano impossibili le forme di comuni-cazione che normalmente si mettono in atto nel rapporto con altri esseri umani. Si tratta, infatti, di anziani perseguitati da allucinazioni che non sempre i me-dicinali riescono a eliminare; che han-no perduto del tutto la propria identità o che conservano un’identità riferita però esclusivamente agli anni della propria infanzia; incapaci di empatia, se non per pochi secondi, in quanto la comprensio-ne della condizione dell’altro viene qua-si immediatamente neutralizzata dall’as-senza di memoria; non più in grado di esercitare il benché minimo supporto nei confronti di chi vive con loro; non in gra-do di chiedere aiuto neppure attraverso i sistemi di telesoccorso dall’uso estre-mamente semplificato.
Le cause della solitudine sono molte-plici. Una di queste, però, non è an-cora sufficientemente indagata, an-
che perché riferita a situazioni che solo da alcuni decenni sono venute accen-tuandosi. È la solitudine delle persone sole (cioè senza una propria famiglia e spesso anche senza parenti stretti) co-strette a vivere quotidianamente con an-
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assistenzaa s s i s t e n z a
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e 2015soli, ma
non da soliAntonellA
reffieunA
assistenziale”. Purtroppo queste soluzio-ni non sempre sono possibili o comunque semplici da attuare. Da qui il senso sog-gettivo di solitudine provato dal caregiver, che risulta essere profondamente distrut-tivo (Cacioppo et al., 2011).
Nel nostro paese le strutture assisten-ziali sono numericamente molto ridotte e per le persone non autosufficienti pre-vedono rette elevate, a cui è impossibile far fronte, tant’è vero che molte famiglie sono costrette a indebitarsi o addirittura a vendere la propria abitazione. Tenere in casa un anziano malato di demenza non è quindi una scelta: è una necessità.
Anche l’assunzione di una badante non è priva di problemi: a parte i costi, che anche in questo caso sono piuttosto elevati, qualora l’anziano non disponga di una propria abitazione il caregiver si trova costretto a condividere totalmen-te la propria vita con una persona scelta non sulla base di bisogni emotivi o rela-zionali personali, ma unicamente sulla base dei bisogni di cura dell’anziano.
I dati disponibili nell’ultimo rappor-to Censis segnalano come nel 33% dei casi la cura della persona anziana oggi ricada su una persona a propria volta anziana, in quanto una persona su tre di circa 60 anni ha un genitore di età compresa tra gli 80 e i 90 anni. Inoltre, aspetto ancora più grave, il 36% degli anziani non autosufficienti vive con un figlio adulto che generalmente è una fi-glia (fattore “di genere” non sufficien-temente indagato finora).
CAregIver BUrDeN
Anche nel Manifesto per i familiari
caregiver (elaborato su iniziativa dell’ASL di Brescia, presentato a
Milano l’8 novembre 2013 e sottoscritto da molti soggetti istituzionali e assisten-ziali) si sottolinea come oggi ci si trovi in presenza di una progressiva difficoltà nell’espletamento delle funzioni di cura, perché è aumentata la gravità clinico-assistenziale delle persone bisognose e perché è cambiata la struttura della fa-miglia: da una pluralità di attori dell’as-sistenza alla sostanziale solitudine della diade curante-curato. Di conseguenza, si afferma nel Manifesto, i vissuti più frequenti del caregiver, «ingravescenti con il protrarsi dell’assistenza nel tem-po, sono la solitudine, l’incertezza sul futuro, le conseguenze emotive del con-tatto costante con una sofferenza pro-lungata e spesso molto grave». Non a caso si definisce tutto ciò come “care-giver burden”, condizione che compren-de sofferenza, oneri, carichi, pressioni, responsabilità, fardelli, gravi preoccupa-zioni, stress (essandor, 2012).
Ne costituisce una conferma il fatto che la quasi totalità dei caregiver finisce con l’assumere psicofarmaci. È vero che esistono gruppi di sostegno per i familiari dei malati di demenza. Ma tutto ciò non risolve il problema. D’altra parte, amici e parenti affermano con faciloneria che è sufficiente “assumere una badante” op-pure “inserire il malato in una struttura
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l’anziano è continuamente presente
nella mente del caregiver figlio o figlia,
anzi, possiamo dire che la occupa
quasi totalmente
CoMe UN vIrUS
Il caregiver (ma forse sarebbe meglio dire la caregiver), pertanto, è costret-to a ristrutturare la propria vita in sen-
so totalizzante poiché non dispone qua-si più né di tempi né di spazi propri. Non a caso oltre il 50% dei familiari che assistono un anziano non autosuf-ficiente va incontro a sindromi da disa-dattamento. La tendenza all’isolamen-to che contraddistingue la situazione di solitudine di un caregiver è pertanto un’imposizione che deriva dal contesto, non una scelta personale.
Non ci risulta che finora queste si-tuazioni siano state analizzate secondo i principi della psicologia ecologica di Bronfenbrenner. La ragione è facilmen-te comprensibile: l’anziano demente è esattamente il contrario di una persona in sviluppo, in quanto tutte le sue fun-zioni vanno deteriorandosi e perdendo-si e non si verifica alcun incremento di capacità, ma anzi il progressivo scivola-mento verso uno stato di vita pressoché vegetativo. Nonostante ciò, rifarsi all’e-cologia dello sviluppo umano potrebbe forse far meglio comprendere la situa-zione di questa categoria di caregiver.
Apparentemente non sembrereb-be possibile constatare l’esistenza di una diade primaria: l’anziano non ha per nulla presente nella propria men-te la persona che si prende cura di lui, neppure quando è fisicamente presen-te. Ma l’anziano è invece continuamen-te presente nella mente del caregiver figlio o figlia, anzi, possiamo dire che la occupa quasi totalmente: anche nel mezzo di un’attività lavorativa, di una situazione ricreativa quale un film o un concerto, della spesa al supermercato,
si presenta improvvisamente la neces-sità di ricordarsi di chiamare il medico piuttosto che di acquistare un medici-nale oppure la riflessione su come sa-rebbe più opportuno modificare il modo di trattare l’anziano. Senza sembrare of-fensivi o poco sensibili, non si può non pensare all’analogia con uno di quei vi-rus informatici che si installano nelle parti più profonde di un computer e che si manifestano all’improvviso.
BeNeSSere e qUALITà DI vITA DeL CAregIver
Tutto ciò influenza negativamente il benessere e la qualità di vita del caregiver. Analizzare il benessere
di un caregiver, che affronta da solo la cura di un anziano demente, significa in primo luogo richiamarsi al concetto di benessere soggettivo, considerato uni-versalmente tra gli indicatori di qualità della vita. Il benessere soggettivo è frutto di percezioni personali ed è il risultato di valutazioni delle proprie condizioni di vi-ta che si rifanno a tutte le dimensioni più importanti dell’esistenza di una persona (cognitiva, emotiva, sociale, biologica). In un interessante lavoro svolto nel 2011 da una commissione formata da Joseph Stiglitz, dal premio Nobel Amartya Sen e da Jean-Paul Fitoussi, volto a eviden-ziare la necessità di trovare indicatori del progresso sociale e delle performance economiche che andassero oltre le leg-gi di mercato, si evidenzia come la di-mensione soggettiva della qualità di vita comprenda diversi aspetti.
Il primo di essi è rappresentato dal-la valutazione che la persona fa della propria vita sulla base di ragionamenti di carattere cognitivo riferiti alla fami-glia, al lavoro e alle condizioni finanzia-rie. Il secondo aspetto è rappresentato dai sentimenti provati, come il dolore, la preoccupazione e la rabbia, oppure il piacere, l’orgoglio, il rispetto. Se per quanto riguarda il primo aspetto il care-
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a s s i s t e n z a
giver in genere valuta la propria situa-zione come decisamente negativa, priva di sicurezze sia in termini di supporti sociali sia in termini economici, la pres-sione sociale fa sì che i sentimenti nega-tivi siano decisamente negati o tenuti in secondo piano: la rabbia, in particolare, viene scarsamente riferita come senti-mento primario oppure viene indirizza-ta apparentemente solo verso le carenze delle istituzioni sanitarie e assistenzia-li. In realtà, il caregiver può attraversare una fase (che in genere è quella iniziale) in cui la rabbia si indirizza anche verso lo stesso anziano, come se quest’ultimo fosse ritenuto in qualche modo perso-nalmente responsabile delle limitazioni conseguenti alla sua malattia. Comun-que, la quasi totalità dei caregiver, spe-cie se “soli”, vive quotidianamente il conflitto tra la volontà di non lasciare l’anziano che dipende da loro e il biso-gno di espressione personale, di svilup-po e di socializzazione presente in ogni essere umano. questo conflitto è fonte di stress, se non di vero e proprio burn-out, ed è spesso causa nel caregiver di problemi di salute (Mcrae et al., 2009).
È vero che molti caregiver si dichia-rano felici di poter assistere totalmente
e per lunghi periodi di tempo il proprio genitore. Ciò non toglie che per altri il sacrificio personale, prolungato nel tem-po, possa pesare perché impedisce ogni possibilità di condurre la propria vita se-condo altri parametri, a cui essi attribu-iscono valore. L’elemento che influenza i diversi atteggiamenti e comportamenti è il tipo di legame preesistente in fami-glia. In particolare, legami forti possono diventare ancora più forti, mentre legami deboli possono richiamare alla memoria del caregiver precedenti torti, favoriti-smi, emozioni negative, dando così ori-gine a sentimenti di ambivalenza verso il genitore anziano.
Molte associazioni americane di sup-porto ai caregiver di anziani mettono in evidenza come in numerose situazioni si possa addirittura configurare un abu-so da parte dell’anziano, il quale mette in atto comportamenti violenti o sottil-mente ricattatori per impedire che il ca-regiver si allontani da lui anche soltanto per brevi periodi di tempo. Ma mentre non vi è alcun dubbio che alcuni anzia-ni subiscano abusi in molti modi, si è in genere meno propensi a credere che a volte l’aggressore possa essere l’anziano malato cronico.
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MANCANzA DI SUPPorTo eD evITAMeNTo
Le scelte dei caregiver non sono per-tanto frutto di opzioni autonome e quindi non possono essere consi-
derate positive in termini di sviluppo umano e di diritti della persona, come avverrebbe se fossero operate in con-testi di pari opportunità e di sostegno equo (Deneulin e Shahani, 2009).
Alla diade anziano-caregiver viene spesso a mancare anche il supporto costituito da terze persone. Seguendo sempre la teoria di Bronfenbrenner, la presenza di altri con cui il caregiver po-tesse avere relazioni positive dovrebbe rendere più adeguate le sue interazioni con l’anziano. Il problema sta nel fatto che, al di là delle dichiarazioni retori-che di buone intenzioni, gli “altri” han-no difficoltà a rapportarsi con chi non
dispone più della lucidità mentale. Nel libro di Lisa genova dal titolo Still Ali-
ce. Perdersi, ciò viene detto molto bene in riferimento alla protagonista, malata di Alzheimer: «Chi era malato di can-cro poteva contare sul sostegno della comunità. […] Persino le persone più istrui te e meglio intenzionate tendevano a tenersi a timorosa distanza dai malati mentali. [… gli altri] si dileguavano il più velocemente possibile. […] affron-tare lei significava affrontare la sua fra-gilità mentale e l’inevitabile riflessione che, in un batter d’occhio, sarebbe po-tuto succedere anche a loro. Affrontarla era inquietante. Perciò fin che potevano […] la evitavano».
Il rapporto diadico, pur se monodire-zionale, che si viene a creare tra malato e caregiver influenza in qualche modo tutte le situazioni sociali e determina per il secondo una sorta di “contagio”, per cui anche a lui spesso si estende l’evitamento. Non si tratta di un evita-mento dovuto alle sue caratteristiche intrinseche di personalità né ai suoi comportamenti, ma al fatto che non può mai presentarsi da solo: anche se l’an-ziano demente non è presente fisica-mente, influenza e condiziona comun-que profondamente il comportamento del caregiver e ciò viene percepito dalle altre persone.
L’INTegrITà DeL CAregIver
Il problema della demenza senile non può pertanto essere affrontato foca-lizzandosi unicamente sulla perdita
dell’integrità del malato. richiede che ci si focalizzi anche sulla perdita inevi-tabile di almeno una parte di integrità del caregiver. Anch’egli perde in parte quello che è stato e non può più essere; può perdere addirittura alcuni dei suoi ruoli perché gli altri non nutrono più nei suoi confronti le aspettative prece-denti.
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Riferimenti bibliografici
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BRonFenBRenneR u. (1979), The ecology of human development. Experiments by na-ture and design, Harvard University Press, Cambridge (trad. it. Ecologia dello svilup-po umano, Il Mulino, Bologna, 1986).
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Antonella Reffieuna è attualmente for-matore in corsi per insegnanti e dirigenti scolastici. È stata dirigente scolastico e docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Torino. Ha pubblicato nume-rosi articoli su riviste italiane e straniere e i seguenti volumi: Il bambino a scuola (2002), Le relazioni sociali in classe (2004), Psicologia dello sviluppo e scuola primaria (con S. Bonino, 2007), Come fun-ziona l’apprendimento (2012).
il problema della demenza senile non può
essere affrontato focalizzandosi unicamente
sulla perdita dell’integrità del malato
Anche per il caregiver, quindi, e non solo per l’anziano demente, valgono le parole finali del libro di Lisa genova: «Sento la mancanza di me stessa».
Ci si può allora chiedere se per ri-spondere a tale mancanza siano suf-ficienti le misure consigliate da asso-ciazioni, ASL e reti di cura. In genere, infatti, viene consigliato di far parte di gruppi di sostegno, di chiedere aiuto a parenti e amici, di prendersi pause di una certa lunghezza, di ricorrere a un terapista. Alcune di queste misure risultano di fatto difficili da realizza-re per un caregiver che già non dispo-ne di una rete sociale adeguata e che non può permettersi il costo di struttu-re di accoglienza per l’anziano, anche se indubbiamente esplicitare i propri stati d’animo, poter condividere i pro-pri sentimenti con persone che vivono situazioni analoghe, concedersi anche soltanto delle brevi pause durante la giornata può essere di aiuto. Ci si deve però chiedere se sono comunque suffi-cienti, se davvero modificano l’assolu-tismo della particolare relazione tra an-ziano malato cronico e caregiver solo e, soprattutto, se consentono a quest’ulti-mo di ritrovare se stesso.
È significativo, comunque, che le va-rie proposte abbiano spesso come sco-po dichiarato e non secondario quello di consentire al caregiver di riprendere le sue mansioni di cura in modo più ef-ficiente, confermando così la non cen-tralità dei suoi bisogni e della sua vita. Nessuna di queste misure, in ogni ca-so, permette al caregiver di recuperare il benessere soggettivo necessario per una buona qualità di vita.
occorrerebbe invece che il caregiver potesse recuperare la sua rete di rela-zioni sociali “gratuite”, fatta di amici sinceramente preoccupati della sua in-tegrità fisica e psicologica, disponibili a contatti, anche solo telefonici, in ogni momento della giornata; fatta di occa-sioni di incontro non necessariamente programmate con largo anticipo e non
vissute con la preoccupazione di rima-nere entro tempi prestabiliti; fatta di at-tività finalizzate non soltanto a “distrar-si” o a impedire stress e burnout, ma tali da consentire lo sviluppo ulteriore della personalità. occuparsi del caregi-ver dovrebbe significare occuparsi del suo ulteriore sviluppo come persona, in-dipendentemente dall’anziano assistito.
Le carenze strutturali e sanitarie, sempre più accentuate, non depongo-no certo a favore di questa possibilità.
Ancora una volta, si dovrebbe fare ri-ferimento a Bronfenbrenner e adatta-re all’anziano quanto egli affermava a proposito dello studio del bambino, da effettuarsi con riferimento all’ambien-te ecologico e non soltanto al soggetto isolato, posto in situazioni artificiose e per brevi periodi di tempo. Predisporre, infatti, condizioni di cura adeguate per l’anziano non può non comportare la ne-cessità di prendere contemporaneamen-te in considerazione anche chi di lui si occupa quotidianamente e che non può essere inteso come un semplice esecu-tore di prescrizioni terapeutiche.
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Disoccupati, immigrati senza per-messo di soggiorno, giovani cre-sciuti nei ghetti urbani, lavoratori
precari, disabili, senzatetto: la vulnera-bilità nel nostro mondo sociale ha molte facce. Ognuna di esse costituisce un’e-sperienza particolare della fragilità, del-la dipendenza, della sopraffazione, in una società individualista che scarica sul singolo la responsabilità della sua vita e del suo destino. Nel corso dell’ul-timo decennio quello della vulnerabi-lità è diventato un tema centrale del-la riflessione politica e sociale. Essere vulnerabile vuol dire essere esposto al rischio di ferite: fisiche, morali, psichi-che, o la ferita sociale dell’emargina-zione.
In questa nuova attenzione per la vul-nerabilità umana, le teorie della cura hanno avuto un ruolo molto importante, portando alla luce quello che la nostra società tende a occultare, cioè la presa in carico delle persone dipendenti e vul-
ziché farne una condizione permanen-te», spiega Joan Tronto, una delle figure più in vista in questo orizzonte teorico. È una prospettiva condivisa dalla filo-sofa Martha Nussbaum, che per una sana concezione della giustizia ritiene indispensabile combinare autonomia e vulnerabilità. A questo scopo pensa sia necessario valorizzare l’agency delle persone, cioè la loro potenzialità di farsi soggetti attivi, agenti delle proprie scel-te e della propria liberazione. È molto critica verso la teoria della giustizia di John Rawls, che vede l’uomo astratta-mente, come essere autonomo e razio-nale. Nussbaum sostiene, sulla scia di Amartya Sen, che si debba ragionare partendo dalle capacità reali d’azione dell’individuo, cioè dalle possibilità che effettivamente gli sono offerte. Si devo-no dare a tutti i mezzi per essere liberi e attivi, il che implica la necessità di tener conto delle condizioni d’esistenza reali di ciascuno.
Vulnerabilitànerabili, anziani, bambini, disabili, ma-lati. Il lavoro di cura, gratuito quando è all’interno della famiglia, mal retribuito quando è svolto da altri, per lo più da badanti immigrate, è spesso invisibile o deprezzato. I teorici del lavoro di cu-ra invocano una società capace di rico-noscere e valorizzare non solo la figura del caregiver, ma anche quella di chi le cure le riceve. Qual è l’ottica giusta? Si tratta certo di persone fragili, in difficol-tà, bisognose di aiuto. Dobbiamo forse parlare a loro nome? Ma come evitare il paternalismo e una visione puramente assistenziale? «Una delle sfide che de-ve affrontare l’etica della cura è infatti quella di porre fine alla dipendenza, an-
TUTTI vUlNERAbIlI
Sulla stessa linea si pone l’uso sempre più esteso e pregnan-te del concetto di empower-
ment. Come ci spiegano Marie-Hélène bacqué e Carole biewener (2013), «nell’empowerment si articolano due dimensioni distinte, quella del potere, che è la radice stessa della parola, e quella del processo di apprendimento che permette di accedervi». valorizza-re l’empowerment significa pensare il processo che permette, a soggetti fra-gili, precari, emarginati e dominati, di arrivare a essere parte attiva nelle de-cisioni che li riguardano, fino ad agi-
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re in proprio. Resta comunque il fatto
che il concetto di empowerment, atti-
vato nei campi più diversi, dal lavoro
sociale allo sviluppo internazionale, dal
femminismo alle politiche pubbliche,
può andare incontro a derive inattese.
Nella prospettiva del neoliberismo, per
esempio, per empowerment si tende a
pensare lo smantellamento dello stato
sociale, così da responsabilizzare indi-
vidualmente i soggetti più vulnerabili in
nome della libertà individuale. Peraltro
bisogna stare attenti a non imprigiona-
re certe persone particolari nella cate-
goria della vulnerabilità. vulnerabili lo
siamo tutti, come ci ricorda con forza
Joan Tronto (2009): «Se è vero che non
abbiamo bisogno dell’aiuto altrui in tut-
te le circostanze, sta di fatto però che
la nostra autonomia l’acquistiamo solo
dopo un lungo periodo di dipendenza
e, a ben guardare, restiamo dipendenti
dall’altro per tutta la vita. Ciò fa par-
te della condizione umana. Allo stesso
tempo, siamo spesso chiamati ad aiu-
tare gli altri e a prendercene cura. Poi-
ché siamo talvolta autonomi e talvolta
dipendenti, il modo migliore di descri-
vere gli esseri umani è sottolineare la
loro condizione di interdipendenza».
Anche per il filosofo Axel Honneth la
vulnerabilità è costitutiva della condi-
zione umana, a causa del nostro biso-
gno fondamentale di riconoscimento da
parte dell’altro.
Il tema della vulnerabilità è
in primo piano nella produzione
filosofica recente. La posta in gioco
è ripensare l’interdipendenza
umana in una società che
emargina i più fragili
Catherine halpern
In alto: giugno 2015,
Ventimiglia. Migranti
accampati al confine tra
Italia e Francia.
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Riferimenti bibliografici
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tique émancipatrice, La Découverte.
TronTo J. (2009), Un monde vulnérable. Pour une politique
du care, La Découverte.
l’ESClUSIONE COMUNE
Tutti siamo vulnerabili perché ognuno di noi si costituisce nel rapporto con l’altro. Questa inter-
dipendenza è sottolineata anche da Ju-dith butler, che insiste sulla grande pre-carietà, anche fisica, della nostra vita. Intesa sotto queste varie prospettive, la vulnerabilità umana suggerisce un’altra concezione della giustizia e dello stato, dove la solidarietà e l’aiuto sociale sono elementi costitutivi e centrali di una so-cietà giusta, non un’azione marginale a favore delle “vittime della vita”. Ripren-
Cinque teorici della vulnerabilità
Axel Honneth
Filosofo tedesco, erede della scuola di Francoforte, Honneth ripensa il concetto di giustizia partendo da quel-lo di riconoscimento, che si articola in tre principi: amore, eguaglianza e solidarietà. In una società giusta ognuno deve poter ottenere affetto e avere accesso paritario ai dirit-ti e alla stima sociale. È autore di varie opere, fra cui Reifi-
cazione. Uno studio in chiave
di teoria del riconoscimento (Meltemi, 2007).
Judith Butler
Docente di letteratura comparata all’Università di berkeley, femminista impe-gnata nel movimento gay e lesbico e conosciuta soprat-tutto per i suoi lavori sul gene-re e sulla sessualità, si occupa anche della precarietà fonda-
mentale dell’esistenza umana. Su questo tema ha pubblicato fra l’altro A chi
spetta una buona vita? (Notte-tempo, 2013).
Martha Nussbaum
Filosofa all’Università di Chicago, ha posto al centro delle sue riflessioni il proble-ma della vulnerabilità. I temi sono quelli della po-vertà, dei diritti delle donne, della dignità delle persone che versano in una condizione di dipendenza. Nussbaum pone l’accento soprattutto sui diritti reali e le autentiche risorse d’azione, cioè sulle “capa-
bilities”, concetto ripreso da Amartya Sen, Nobel per l’eco-nomia, cui è molto vicina. Ha pubblicato, fra gli altri titoli, Creare capacità. Liberarsi dal-
la dittatura del Pil (Il Mulino, 2013).
Joan Tronto
Docente di scienze politiche all’Università del Minnesota, rifiuta l’idea che il lavoro di cura sia espressione di una “voce morale delle donne”, benché finora siano state so-prattutto le donne a fornirlo. Al di là dell’etica, Tronto mira a elaborare una politica della cura. È autrice di Confini mo-
rali. Un argomento politico per
l’etica della cura (Diabasis, 2006).
Guillaume Le Blanc
Professore di filosofia all’Università di bordeaux-III, sviluppa una filosofia sociale che mette in questione la so-cietà e le sue norme attraverso le posizioni marginali: lo stra-niero, il precario, l’escluso. È autore, fra l’altro, di Que faire
de notre vulnérabilité? (ba-yard, 2011).
dendo le parole di Guillaume le blanc, possiamo concludere che «riconoscen-doci vulnerabili, ognuno a suo modo, in quanto esposti a tutte le forme di vio-lenza, fisica, sociale e psicologica, co-minciamo a comprendere l’esclusione come problema comune e generale, che non riguarda solo gli emarginati».
© ScienceS HumaineS. TiTolo origina-le: «la vulnérabiliTé en force», 270, mag. 2015, 38-39. Traduzione di gabriele noferi.
la vulnerabilità umana suggerisce un’altra
concezione della giustizia e della stato
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