Psicologia contemporanea 08 2015

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BIMESTRALE - POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN A. P. - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N. 46) - ART. 1, COMMA 1, DCB-C1-FI - ISSN 0390-346X - C.M. X5251B - DISTRIBUZIONE: ME.PE. MILANO. FOTO COPERTINA: © GETTYIMAGES/LAURENCE MONNERET Per una corretta educazione alimentare Come sono valutati i piloti dell’aviazione civile? La tortura “bianca” Una vita più semplice Soli, ma non da soli direttore Anna Oliverio Ferraris PENSIERO VERDE COLTIVIAMOLO DALL’INFANZIA SET.-OTT. 2015 N. 251 4,50 Seguici su Facebook

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Ci sono tanti modi di imparare: provare, sbagliare, riprovare. E poi c’è Psicologia contemporanea, la rivista di divul-gazione psicologica che ti aiuta a capire la mente umana e le dinamiche della società nei contesti più diversi, con articoli e approfondimenti a cura dei massimi esperti italiani e internazionali. Un’affascinante fonte di aggiornamento per specialisti e appassionati.

Transcript of Psicologia contemporanea 08 2015

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Page 3: Psicologia contemporanea 08 2015

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n.251

© 1974, 2015 – Giunti Editore s.p.a. Firenze – Milano

Periodico bimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 2317 del 28.11.1973.

www.giunti.it – www.psicologiacontemporanea.it [email protected]

issn: 0390-346X – anno xli - settembre-ottobre 2015 – n. 251

fondatore: Giuseppe Martinelli

direzione scientifica: Anna Oliverio Ferraris (Università di Roma)

n.251

Attribuzioni e diritti: 7 e 10: Sergiy Bykhunenko/Fotolia; 12-13: Gianni Fiorito/Medusa Film/Webphoto; 13 in alto: Medusa Film/Webphoto; 14-15: Full2Spectrum/Shutterstock; 16: Bojan Fatur/Getty Images; 17: Francis Pellier MI DICOM/Ministère de l’Intérieur/Getty Images; 19: Bro-stock/Shutterstock; 21 in alto: Atrik Stollar/AFP/Getty Images; 21 in basso: Patrick Aventurier/Getty Images; 23: MachineHeadz/Getty Images; 24: Andrew Fox/Corbis; 27 e 28: RealyEasy-Star; 30: Don Bayley/Getty Images; 33: famveldman/Fotolia; 34: Boeri Studio/Barcroft Media/Getty Images; 36: Andrey Kuzmin/Fotolia; 37: Olesia Bilkei/Fotolia; 38: Ljupco Smokovski/Fo-tolia; 40: iStockphoto/Getty Images; 42: The Power of Forever Photography/Getty Images; 44: Pgiam/Getty Images; 47, 48 e 50: Digital Vision Vectors/Getty Images; 53: Elvira Giannattasio; 54-55: Patrick Strattner/Brand X/Getty Images; 57: PM Images/Getty Images; 59: Nick Ballon/Getty Images; 60-61: Tara Moore/Getty Images; 63: Steve Proehl/Proehl Studios/Corbis; 64-65, 67 e 68: Elvira Giannattasio; 70: vladimirfloyd/Fotolia; 72-73: michaeljung/Fotolia; 75: Matthias Stolt/Fotolia; 76: JPC-PROD/Fotolia; 79: Valerio Muscella/NurPhoto/Corbis. Dove altrimenti non indicato le immagini appartengono all’Archivio Giunti. L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spet tanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

direzione, redazione, ammini strazione e pubblicità: giunti editore, via Bolognese, 165 – 50139 Firenze. Tel.: 055 50621. Fax: 055 5062298. in redazione: Glauco Renda (caporedattore), Maria Chiara Sarti (redattrice e segretaria di redazione).progetto grafico e impaginazione: Enrico Albisetti.collaborazione redazionale: Paola A. Sacchetti.pubblicità e marketing: Antonella Rapaccini, Cecilia Torrini.pubblicità interna: Angelica Dionisio, Edoardo Frascino e Giampaolo Semboloni (grafici).concessionaria esclusiva di pubblicità: Progetto srl: Milano, Corso Italia 10, tel. 02 8526800, fax 02 8526840; Roma, viale del Monte Oppio 30, tel. 06 4875522, fax 06 4875534; Trento via Grazioli, 67, tel. 0461 231056, fax 0461 231984; e-mail: [email protected] www.progettosrl.it

prezzi per l’italia

Prezzo di copertina: € 4,50Abbonamento annuo (6 numeri): € 21,60 Abbonamento biennale (12 numeri): € 37,80

iban: IT05L0760102800000000004523 CCP 4523 intestato a Psicologia contemporanea Firenzeservizio abbonati: da lunedì a venerdì orario 9 - 18. Tel.: 055 5062424. Fax: 055 5062397. www.giuntiabbonamenti.it – e-mail: [email protected] L’abbonamento può essere richiesto anche via SMS: scrivendo “psicologia” al 348 0976204 (costo del servizio pari ad un normale SMS)vendita diretta libri: da lunedì a venerdì orario 9 - 18. Tel.: 055 5062424. Fax: 055 5062543. www.giuntistore.it – e-mail: [email protected]

direttore responsabile: Claudio Pescio

Stampata presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato

direzione scientifica

ANNA OLIVERIO FERRARISUniversità di Roma

comitato scientifico

Luciano Arcuri (Università di Padova),

Silvia Bonino (Università di Torino), Cesare

Cornoldi (Università di Padova), Franco

Di Maria (Università di Palermo), Santo

Di Nuovo (Università di Catania), Mauro

Fornaro (Università di Chieti Pescara),

Tilde Giani Gallino (Università di Torino),

Fabio Lucidi (Università di Roma), Mauro

Maldonato (Università della Basilicata),

Massimiliano Oliveri (Università di Paler-

mo), Alberto Oliverio (Università di Roma),

Pio E. Ricci Bitti (Università di Bologna),

Guido Sarchielli (Università di Bologna),

Alessandro Zennaro (Università di Torino).

Psicologia contemporanea si avvale di uno speciale rapporto di collaborazione con Psychologie Heute (Germania) e sciences Humaines (Francia).

[email protected] 16.07.2015 10:21

Page 5: Psicologia contemporanea 08 2015

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La rivista è

Cari lettori,

si sente spesso parlare di “buona scuola”, ma poi capita di vedere edifci

fatiscenti dove i bambini e i ragazzi si trovano a trascorrere le lunghe ore

scolastiche in spazi angusti senza neppure la possibilità di fare la normale

ricreazione a metà mattina perché o mancano gli spazi all’aperto o il perso-

nale scolastico preferisce tenere i ragazzi in classe per timore delle denun-

ce dei genitori.

«Mia fglia al primo anno di primaria il tempo della ricreazione lo passa

in classe» mi ha spiegato una madre «e quando capita che la ricreazione

sia negata per punizione i bambini fanno solo merenda e poi tutti seduti!».

«La dirigente scolastica ci ha comunicato che il cortile non è a norma, per

cui in caso di incidente siamo noi insegnanti i responsabili» ha precisato

un’insegnante. Si è creato, dunque, un cortocircuito tra genitori, insegnanti

e dirigenti che priva i bambini di un loro fondamentale diritto, quello di

muoversi, quando invece sappiamo, anche dai risultati di studi scientifci,

che c’è un rapporto virtuoso tra attività aerobica (correre, ecc.) e rendimen-

to scolastico: si formano nuovi contatti sinaptici tra le cellule nervose, la

concentrazione aumenta, l’umore migliora, gli alunni si divertono e socializ-

zano.

Eppure esistono altri mondi possibili, altri spazi vivibili e progetti percorri-

bili, come emerge dal bell’articolo di Gianluca Mora, «La buona scuola ver-

de» in cui si racconta di scuole anche italiane dove i bambini non soltanto

possono fare la ricreazione all’aperto senza incorrere in pericoli, ma dove

all’aperto possono svolgere delle attività curricolari in un rapporto diretto

con erba, fori, piante, animali, ossia immersi in un ambiente naturale com-

posito che, come sappiamo, è stimolante e rigenerante e in più consente

quei giochi spontanei che fanno crescere, che alimentano un senso interio-

re di autonomia e di libertà e che hanno anche il pregio di “curare”, attra-

verso un processo del tutto naturale, piccole ferite e stress quotidiani.

La naturalizzazione degli spazi all’aperto delle scuole richiede certamente

un impegno economico, ma richiede anche che gli educatori compren-

dano quanto sia importante crescere a contatto della natura, il che non è

per nulla scontato in chi tende a sopravvalutare il ruolo del mondo digitale

fn dalla più tenera età. Le nuove generazioni devono avviarsi a “ibridare”

i vantaggi delle tecnologie con quelli che derivano dal mondo naturale da

cui continuiamo a dipendere: sarebbe errato ritenere che la nostra mente

possa svilupparsi soltanto in una dimensione astratta separata da un corpo

che ha le sue necessità e che continua a dipendere dallo stato di salute

dell’ambiente naturale e più in generale da quello del pianeta.

A distanza di quasi mezzo secolo dal fortunato libro di Gregory Bateson

sull’ecologia della mente, dobbiamo ora impegnarci concretamente a pro-

muovere un “pensiero verde” capace di cogliere la complessità del mondo

attuale in tutte le sue sfaccettature e una flosofa di vita rispettosa dell’am-

biente e quindi anche della nostra dimensione naturale.

Anna Oliverio Ferraris

[email protected] 16.07.2015 10:20

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ALIMENTAZIONE

6 Per una corretta educazione alimentare

Alberto Pellai

PsIcOLOgIA AErONAuTIcA

14 come sono valutati i piloti dell’aviazione civile?

Andrea Castiello d’Antonio

Ecologia

24 La buona scuola “verde”

Gianluca Mora

30 L’importanza del “pensiero verde”

Albertina Oliverio

VIOLENZA

40 La tortura “bianca” Marialuisa Menegatto

Adriano Zamperini

FOrMAZIONE

46 I fatti di genova La preparazione

delle Forze dell’Ordine

Massimo Montebove

PsIcOLOgIA DELLA sALuTE

54 una vita più semplice Di cosa abbiamo

davvero bisogno?

Eva Tenzer

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Cinema e letteratura

12 Youth - La giovinezza Roberto Escobar

Cattivi Pensieri

22 Contro i bambini (e le loro mamme) Silvia Bonino

72

Discussioni

64 La famiglia Chiesa e psicologia a confronto

Fabrizio Mastrofni

Assistenza

72 Soli, ma non da soli Antonella Reffeuna

78 Vulnerabilità Catherine Halpern

Notizie Flash

36 Il cellulare: un’estensione di sé AoF

36 Lettura e attività cerebrale AoF

37 Anche i bambini prodigio devono esercitarsi Frank Luerweg

Il caso

52 Passare all’atto senza sapere il perché Anna oliverio Ferraris

Asterischi Storici

62 Il caso H. M. Alberto oliverio

Psicoscopio A cura di Guido Sarchielli

70 «Vuoi sempre aver ragione!» Quanto è diffcile lavorare con gli arroganti

64

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A L I M E N TA Z I O N E

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Per una corretta

educazione alimentare

Alberto PellAi

L’educazione alimentare è oggi

una vera priorità. Il cibo infatti è

un bisogno primario, una risorsa

ma anche un problema. L’approccio

ideale dovrebbe essere globale

e basato su differenti strategie

«Noi siamo ciò che mangiamo». Il

celebre aforisma di Feuerbach è

quanto mai attuale di questi tem-

pi in cui di cibo si parla moltissimo. In

particolare in Italia, che quest’anno è

la capitale mondiale dell’alimentazio-

ne grazie ad Expo 2015, evento mon-

diale che nella presente edizione è in-

teramente focalizzato su questo tema

e che è diventato anche un’occasione

per riflettere sull’uso e sul consumo

che le società moderne fanno del cibo.

Un uso altamente problematico, consi-

derato che intorno al cibo la modernità

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ha generato problemi e aspetti disfun-

zionali che erano sconosciuti alle gene-

razioni passate. Per esempio, la nostra

epoca è quella in cui ogni giorno milioni

di persone rischiano di morire di fame,

ma in cui al tempo stesso lo spreco ali-

mentare è una questione che riguarda

l’intero mondo occidentale. Il Rapporto

2014 sullo spreco alimentare domesti-

co realizzato da Waste Watchers (www.

lastminutemarket.it/media_news/wp-

content/uploads/2014/07/RAPPORTO-

W-W-2014_comunicato.pdf) ha dimo-

strato che ogni famiglia italiana butta

in media 630 grammi di alimenti ogni

settimana e che ogni anno lo spreco do-

mestico costa agli italiani 8.1 miliardi

di euro, circa 6.5 euro settimanali a fa-

miglia.

Così come quello sprecato, anche il

cibo consumato è spesso fonte di pro-

blemi nel mondo occidentale. Ciò che

mettiamo nel piatto e connota il nostro

stile alimentare può essere in realtà fat-

tore di rischio per la salute e causa di

enormi problemi di sanità pubblica. So-

vrappeso, obesità, diabete di tipo due,

patologie di natura cardiovascolare su

base nutrizionale sono tutti aspetti con

incidenza e prevalenza in crescita nel

mondo occidentale e con una diffusio-

ne epidemica sempre più intensa anche

in età infantile, tanto che l’Organizza-

zione Mondiale della Sanità (OMS) ne

parla in termini di “epidemia globale”.

In Italia, il sistema di sorveglianza per i

bambini delle scuole primarie nato nel

2007 nell’ambito del Ministero della

Salute, “Okkio alla Salute” (www.epi-

centro.iss.it/okkioallasalute/pdf2015/

SINTESI_16gen.pdf), ha evidenziato

che nel 2014 nel nostro paese i bambi-

ni in sovrappeso sono risultati il 20.9%

e i bambini obesi il 9.8%, compresi

quelli severamente obesi che da soli co-

stituivano il 2.2% del campione totale.

Tra l’altro, un bambino su quattro non

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Figura 2 – Nel 2005 il

Dipartimento statunitense

dell’Agricoltura modificò

la piramide della Figura 1.

Nella nuova piramide furo-

no conservati i sei gruppi

di alimenti, ma le fasce

orizzontali furono sostitu-

ite con sei strisce verticali

colorate.

Da sinistra a destra:

•arancione: cereali

e derivati, preferibil-

mente integrali;

•verde: verdura fresca;

•rosso: frutta fresca;

•gialla: olio e grassi;

•blu: latticini;

•viola: carne, pesce

e legumi freschi.

(Fonte: USA - Dipartimento

dell’Agricoltura/Diparti-

mento della Salute e dei

Servizi Umani).

Figura 1 – La piramide

alimentare ideata dal

Dipartimento statunitense

dell’Agricoltura (USDA) nel

1992 che ha ispirato tante

altre piramidi simili a livel-

lo internazionale. È strut-

turata a fasce orizzontali e

in basso si trovano i gruppi

di alimenti da consumarsi

in maggior quantità e con

più frequenza.

Dalla base verso l’alto,

da destra a sinistra si

trova:

•6-11porzioni:pane,

cereali, riso e pasta;

•2-4porzioni:frutta

fresca;

•3-5porzioni:vegetali;

•2-3porzioni:carne,

pollame, pesce, uova,

legumi secchi e frutta

a guscio;

•2-3porzioni:latte,

yogurt e formaggi;

•usareconparsimonia:

zuccheri e grassi.

In alto a destra nel riqua-

dro: pallini = grassi (in

natura e aggiunti); trian-

golini = zuccheri (aggiun-

ti). Questi simboli mostra-

no i grassi e gli zuccheri

aggiunti negli alimenti.

(Fonte: USA - Dipartimento

dell’Agricoltura/Diparti-

mento della Salute e dei

Servizi Umani).

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consuma frutta e verdura tutti i giorni e gli stessi genitori sembrano avere poca consapevolezza dell’eccesso di peso e delle conseguenze che da esso derivano per la salute dei propri figli: infatti, tra le madri di bambini in sovrappeso od obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sottopeso-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui as-sunta sia eccessiva.

LINEE gUIdA PER UNA CORRETTA ALIMENTAZIONE

Educare al cibo, all’alimentazio-ne sana, al consumo sostenibile, alla scelta di comportamenti che

ci permettano di avere uno stile di vita orientato al benessere è oggigiorno una priorità soprattutto per chi vive e lavo-ra a contatto con i bambini. Per questo moltissime nazioni e numerose Istitu-zioni pubbliche e organismi scientifi-ci hanno redatto, negli ultimi decenni, standard e linee guida per aiutare le po-polazioni ad adottare uno stile alimen-tare adeguato. Quasi tutte si ispirano al modello proposto nella piramide ali-mentare (Fig.1), un grafico concepito per indicare con praticità ed immedia-tezza il modo corretto di alimentarsi e i criteri da adottare in una dieta “ideale”.

Introdotta dal dipartimento statu-nitense dell’Agricoltura (USdA) nel 1992, la piramide risulta di facile in-terpretazione perché insegna come ali-mentarsi basandosi su un principio vi-sivo-spaziale: gli alimenti da consumare in maggiore quantità, infatti, sono quel-li posti alla sua base. Ai livelli succes-sivi sono invece rappresentati alimenti il cui consumo è da limitare, con anda-mento decrescente. Il modello originale del 1992 è stato modificato nel 2005: le fasce orizzontali sono state rimpiaz-zate con sei strisce verticali integrate in una grafica che sottolinea l’importanza dell’attività fisica quotidiana, ritenuta elemento indispensabile per il raggiun-

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Coinvolgere gli alunni in progetti

educativi alimentari si rivela

di fondamentale importanza

gimento e il mantenimento del benes-

sere psicofisico (Fig. 2).

Anche in Italia, in continuità con

quanto presentato nella piramide ali-

mentare, nel 2003 sono state pubbli-

cate dall’INRAN (Istituto Nazionale di

Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizio-

ne, afferente al Ministero delle Politi-

che Agricole e Forestali) alcune “Linee

guida per una sana alimentazione ita-

liana”. Tali Linee sono riassumibili in 8

semplici regole generali (si veda il Box)

completate da alcune indicazioni spe-

cifiche dedicate alle “persone speciali”

e al controllo dei cibi, secondo un ap-

proccio globale che a fianco degli aspet-

ti puramente nutrizionali tiene conto dei

principi fondamentali sulla sicurezza

alimentare e sulle diversità individuali.

LA SCUOLA

La scuola è un ambito ideale per pro-

muovere l’educazione alimentare: lì

si trovano tutti i soggetti in età evo-

lutiva che stanno mettendo a punto lo

stile alimentare che li accompagnerà per

l’intera esistenza. Una buona educazio-

ne alimentare oggi necessita di un ap-

proccio olistico al tema del cibo. Proprio

perché l’alimentazione è una dimensio-

ne della nostra vita che incrocia le tre di-

mensioni che connotano la salute secon-

do la definizione dell’OMS (salute come

equilibrio tra corpo, mente e relazioni

dell’individuo), propongo tre direzioni di

educazione ad un corretto stile alimenta-

re che partono da tre differenti approcci,

tutti utili in età evolutiva e tutti da inte-

grare in un progetto di prevenzione che

si rivolge ai minori.

L’approccio nutrizionale

A scuola gli studenti consumano nu-

merosi pasti. Tutti infatti fanno la me-

renda di metà mattina, mentre una per-

centuale considerevole usufruisce del

servizio di mensa scolastica per il pran-

zo. I docenti possono perciò osservare gli

stili alimentari dei propri alunni, fare at-

tenzione ad eventuali abitudini scorrette

e promuovere interventi educativi fina-

lizzati alla loro modifica. Coinvolgere gli

alunni in progetti educativi che li aiutino

a seguire delle linee guide per una sana

alimentazione e ad applicarle al loro stile

di vita si rivela di fondamentale impor-

tanza. In questo senso l’approccio più

popolare a livello internazionale è quello

rappresentato dalla campagna educativa

“Five a day” (“Cinque al giorno”), che ha

cercato di favorire il consumo di alme-

no cinque porzioni quotidiane di frutta e

verdura sulla base di un’indicazione for-

nita dall’OMS che raccomanda il consu-

mo individuale di «un minimo di 400 g

di frutta e verdura al giorno (con l’esclu-

sione di patate e altri tuberi)».

L’approccio basato sull’educazione

ai media

Sono numerosissime le ricerche che

dimostrano come TV e nuovi media ab-

biano un impatto enorme sulla salute

linee guida per una sana

alimentazione italiana1. Controlla il peso e mantieniti sempre attivo.

2. Più cereali, legumi, ortaggi e frutta.

3. grassi: scegli la qualità e limita la quantità.

4. Zuccheri, dolci e bevande zuccherate:

nei giusti limiti.

5. Bevi ogni giorno acqua in abbondanza.

6. Il sale? Meglio poco.

7. Bevande alcoliche: se sì, solo in quantità

controllata.

8. Varia spesso le tue scelte a tavola.

(INRAN, 2003)

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e 2015

Ogni nostro comportamento, anche

alimentare, è oggi il risultato di scelte

individuali potentemente influenzate

dalle strategie di marketing

dei soggetti in età evolutiva. Il tempo

trascorso davanti allo schermo, infatti,

influenza la salute nutrizionale dei mi-

nori in più modi:

• determinando uno squilibrio tra ap-

porto calorico e dispendio energetico,

dovuto all’inattività fisica e al cosid-

detto fenomeno del “multisnacking”,

ovvero l’abitudine di consumare

spuntini, mentre si rimane concen-

trati su quello che viene trasmesso;

• generando bisogni e desideri alimenta-

ri attraverso un martellamento pubbli-

citario continuo, che ha proprio negli

snack e in cibo dallo scarso valore nu-

trizionale e dall’alto potere calorico al-

cuni tra gli alimenti più rappresentati.

Ogni nostro comportamento è oggi

il risultato di scelte individuali poten-

temente influenzate dalle strategie di

marketing di multinazionali e di azien-

de locali al fine di favorire il consumo

dei propri prodotti. I consumi alimentari

non si sottraggono a questa regola. Il po-

tere di suggestione degli spot può e deve

essere ridimensionato, anche promuo-

vendo nei più piccoli un’analisi critica

dei molti messaggi pubblicitari che ogni

giorno compaiono, direttamente e indi-

rettamente, nei loro programmi televisivi

preferiti o nei siti web che frequentano.

Negli Stati Uniti questa emergenza

è stata affrontata attraverso curricola

educativi a diffusione nazionale, come

il “Media SmartYouth: Eat, Think and

BeActive” (Mangia, Pensa e Stai atti-

vo), sviluppato nel 2005 dal National

Institute of Child Health and Human

development, un programma rivolto agli

studenti delle scuole primarie e secon-

darie. Il focus di questo progetto, com-

pletamente basato sui principi dell’edu-

cazione ai media, consiste nell’aiutare i

giovanissimi a diventare consapevoli del

ruolo che questi ultimi hanno nell’in-

fluenzare le loro scelte alimentari e mo-

torie, a pensare criticamente rispetto ai

messaggi che ricevono, così da appren-

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Un corpo bello, secondo i canoni

imposti dal contesto socioculturale

attuale, non è un corpo sano,

bensì un corpo magro

Riferimenti bibliografici

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Man J. L. (2010), «Television food adver-tising and the prevalence of childhood overweight and obesity: A multicountry comparison», Public Health Nutrition, 13 (7),1003-1012.

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take in youth», Archieves of Pediatric & Adolescent Medicine,160,436-442.

Alberto Pellai, medico, psicoterapeu-ta dell’età evolutiva, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Milano, si occupa di prevenzione in età evolutiva e tutela della salute materno-infantile. È stato post-doctoral fellow al National Committee for Prevention of Child Abuse degli Stati Uniti. Recentemente ha pubblicato Baciare. Fare. Dire. Cose che ai maschi nessuno dice (Feltrinelli).

dere competenze che permettano loro

di fare scelte informate rispetto ai com-

portamenti specifici del proprio stile di

vita che impattano sullo stato di salute.

In questa prospettiva, uno strumento

di grande utilità – disponibile anche nel

nostro paese – è il documentario Super

size me, diretto da Morgan Spurlock,

che denuncia il modo in cui la cultura

alimentare, imposta dal marketing del-

le catene di fast food presenti in tutto il

mondo, induce comportamenti nutrizio-

nali alquanto squilibrati nella popolazio-

ne e soprattutto nelle nuove generazioni.

L’approccio basato sull’immagine cor-

porea

In età evolutiva, in particolare in pre-

adolescenza e adolescenza, i compor-

tamenti alimentari dei giovanissimi

vengono potentemente condizionati dal

loro desiderio di avere un corpo bello e

che piaccia agli altri, condizione consi-

derata un pre-requisito per il successo

personale e sociale. Quella in cui vivia-

mo, tra l’altro, è una società ossessiona-

ta dal valore della bellezza, che sempre

più spesso viene declinata, soprattut-

to per le ragazze, in magrezza. Ovvero,

il corpo bello, secondo i canoni impo-

sti dal contesto socioculturale attuale,

non è un corpo sano, bensì un corpo

magro, per ottenere il quale molti sog-

getti in età evolutiva sono disposti an-

che a mal-nutrirsi, se non addirittura a

de-nutrirsi. In questo senso, educare a

una sana alimentazione – soprattutto

in preadolescenza e adolescenza – pre-

suppone ri-fondare e ridefinire insieme

agli alunni i pre-requisiti su cui ciascu-

no basa le caratteristiche della propria

autostima corporea e stabilizza a livello

intrapsichico la propria immagine cor-

porea ideale. Aiutare chi sta crescendo

a non interiorizzare – per sé – un’im-

magine corporea ideale troppo lontana

da quella reale e non eccessivamente

ispirata allo stereotipo corporeo propo-

sto dai media agli adolescenti si rivela

un pre-requisito che permette poi di po-

ter educare ad una sana alimentazione,

sulla base del principio che un corpo è

bello in quanto sano e non in quanto

magro. Molti dei progetti di educazione

alimentare rivolti oggi agli adolescenti

si muovono proprio in questa prospet-

tiva che privilegia alcuni aspetti psico-

logici e socioculturali rispetto ad altri

puramente nutrizionali.

CONCLUSIONI

L’educazione alimentare in età evo-

lutiva oggi si presenta come una

disciplina alquanto variegata che

deriva i propri strumenti e i propri obiet-

tivi educativi da molte differenti strate-

gie educative, quali l’educazione ai me-

dia, l’educazione emotiva e l’educazione

alla salute. Educare a mangiare sano im-

plica sostenere i soggetti in età evolutiva

non solo a scegliere il cibo migliore per il

proprio benessere, ma anche ad orienta-

re il proprio stile di vita verso valori etici

e verso la consapevolezza che l’alimenta-

zione è anche una strategia di consumo

etico e responsabile nel rispetto di sé,

degli altri e dell’ambiente.

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c i n e m a e l e t t e r a t u r a

Youth - La giovinezza

«Ciò che viene dopo la morte è futile, e

per chi sa di essere vivo, la sequela dei

giorni è tanto lunga». Così Albert Ca-

mus scrive a proposito di Don Giovanni in

L’uomo in rivolta. A quel tempo, nel 1951,

il più mediterraneo dei filosofi ha 38 anni.

La vecchiaia per lui è lontana (e non la rag-

giungerà, morendo nel 1960). Sa però che

l’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa

questo rimprovera al burlador: che non tema

il sopraggiungere nefasto della vecchiaia, an-

nuncio della morte, a sua volta fondamento

di ogni fede in Dio e di ogni moralità impau-

rita. E sa che solo liberandosi dal peso del

Convitato gli esseri umani possono trovare la

felicità leggera d’essere vivi. A questa stessa

felicità sembra alludere il recente film di Pa-

olo Sorrentino Youth - La giovinezza (2015).

Tutti abbiamo ceduto alla tentazione

della leggerezza, fa dire il regista a Jim-

my. Il trentenne divo hollywoodiano si

rivolge all’ormai ottantenne Fred, direttore

d’orchestra e compositore in pensione. La

sua tentazione, così sostiene Jimmy, sono

state le Simple songs che, trenta o qua-

rant’anni prima, gli sono valse un successo

troppo facile, mai di nuovo raggiunto con

opere ben più complesse. E ora Fred non

vuole tornare a dirigerle, quelle canzoni trop-

po semplici e leggere, nemmeno su richiesta

di sua maestà britannica.

I due sono in vacanza tra le montagne

svizzere, in un albergo di lusso che si prende

cura dei suoi ospiti, molti dei quali onerati

dagli anni, fardello greve almeno quanto il

marmo di cui è fatta la statua del Commen-

datore. Tra questi c’è

Mick, da sempre amico

di Fred. Sceneggiato-

re di talento e di fama,

Mick cerca di termi-

nare la scrittura di un

testo che immagina

sarà il suo testamento

professionale. Questa

sorta di monumento a se stesso dovrà conclu-

dersi con le parole pronunciate dal protagoni-

sta – in sostanza, da lui – in punto di morte.

O magari con il suo silenzio, suggello (artisti-

co) ancora più tragico e ancora più compia-

ciuto di una biografia.

Sono il precipitare del tempo e il declina-

re della vita il cuore del film di Sorren-

tino. Feroce, la macchina da presa mo-

stra l’uno e l’altro nei corpi sfatti di uomini

e donne persi tra i vapori densi delle saune,

abbandonati nell’acqua delle piscine terapeu-

tiche, consunti nei primi piani e nei troppi

sguardi senza luce. Feroce, ancora, indugia

sul corpo gonfio, irriconoscibile di un non

Da sinistra a destra:feroce, la macchina da presa mostra corpi sfatti e sguardi senza luce;spiando una felicità lontana;fuori dalla gabbia, una leggerezza nuova?

In alto a destra: la locandina del film.

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nizio della sua maturità d’autore, a metà cammi-no tra una promessa di futuro e un passato che inizia a delinearsi sullo sfondo. Questa sua “posizione” gli consente di guardare al compiersi della brevità del tempo, senza pagare il prezzo dell’autocom-miserazione.

RObERTO ESCObARUniversità di Milano

figli avrebbero voluto, o di non essere riusciti a far sentire ai loro figli quanto essi valessero per loro. E poi, certo, si difendono dalla brevi-tà crudele del tempo, del loro tempo. Per un giovane, dice Mick ai suoi giovani cosceneg-giatori, il tempo è come un cannocchiale che veda il futuro come una promessa vicina. Per un vecchio, invece, quel cannocchiale si rove-scia, mostrando solo il passato, lontanissimo.

Per quel che lo riguarda, Mick progetta di trasformare questa “visione” in un’opera d’ar-te, che del suo finire fissi e mostri un senso. Ma a chi potrà interessare, gli obietta brenda, l’amica di una vita che dovrebbe interpretare il film? E forse intende: a chi potrà interes-sare il ripiegarsi su se stesso di un vecchio, il suo raccontare la propria morte come un evento degno di esser celebrato?

Per paradosso, aggiungiamo, del decli-nare d’una vita può raccontare non un vecchio, ma un giovane. Forse un divo

trentenne come Jimmy, in un personaggio ipotetico di un ipotetico film. O un regista quarantacinquenne come Sorrentino, all’i-

più giovane ex campione (Diego Maradona, nella parte di se stesso). Poi, addirittura più crudele e diretta, la sceneggiatura racconta quel precipitare e quel declinare attraverso i dialoghi di Fred e Mick: parole ed espressioni percorsi da sarcasmi che hanno l’aria di na-scere da un’indifferenza coraggiosa di fronte all’avvicinarsi della fine, e che valgono invece come una paradossale ultima difesa.

Da che cosa si difendono, il vecchio musi-cista e il vecchio uomo di cinema? Forse dal rimpianto di non essere stati i padri che i loro

Che cosa vede nel suo cannocchiale rove-sciato l’autore di Youth - La giovinezza? A noi pare veda quello che, con la sua splendi-da leggerezza, vedeva sessantaquattro anni fa Albert Camus. Questo, alla fine, scopre Fred: oltre la porta dell’albergo, lontano dalla sua patetica messa in scena “terapeutica”, lo aspetta la giovinezza, almeno finché sarà capace di sentirsi vivo. È la leggerezza che glielo può di nuovo rammemorare. La stessa leggerezza con cui l’ex campione si fa pa-drone del suo corpo gonfio e dei suoi piedi appesantiti, facendo danzare nell’aria il giallo solare di una pallina da tennis. La stessa leg-gerezza, ancora, da cui Fred ha fatto nascere trenta o quarant’anni prima le sue “semplici canzoni”, che ora non esiterà a riportare in vita. L’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa può attendere.

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Come sono valutati i piloti dell’aviazione

civile?

AndreA

CAstiello

d’Antonio

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Il 24 marzo 2015, il volo 9525

della compagnia tedesca Germanwings

si schianta sulle Alpi francesi.

Il ventottenne copilota, Andreas

Lubitz, lasciato solo ai comandi

per un breve lasso di tempo,

deliberatamente avvia un’inesorabile

discesa verso le vette delle Alpi e

lascia che l’aereo con 144 passeggeri

e 6 membri dell’equipaggio

si sfracelli sulle rocce.

Nessun superstite

nell’ambito delle applicazioni del-la psicologia ai contesti lavorativi è emersa, da tempo, una bran-

ca specifica denominata inizialmente Aviation Psychology e successivamente Space & Aviation Psychology, che po-ne al centro lo studio dell’essere umano nelle condizioni di volo, ma non soltan-to. È l’intero “mondo del volo” ad esse-re preso in considerazione: comandanti e piloti, assistenti di volo e tecnici, ma anche altre fondamentali figure profes-sionali come i controllori del traffico ae-reo, che potremmo definire gli “occhi dei cieli”, dato che il loro ruolo consi-ste nel monitorare le traiettorie e gestire il traffico aereo. la psicologia dell’ae-ronautica (e la sua stretta parente, la medicina aeronautica) si è sviluppata soprattutto per offrire risposte operati-ve al tema della scelta e della selezione dei piloti, ma ha ben presto ampliato il suo raggio di azione e oggi copre un campo esteso: dallo studio degli stress psicofisici durante il volo, all’analisi del cosiddetto fattore dell’errore umano nei casi di disastri aerei o delle più frequen-ti quasi-collisioni, dall’ergonomia degli spazi interni dei velivoli alla gestione della sicurezza, dalla formazione de-gli equipaggi ai modelli di leadership incarnati dai comandanti e dai primi ufficiali, fino ai temi del management

dell’equipaggio di condotta e di cabina e delle comunicazioni aria-terra e terra-aria.

sostanzialmente, si possono indivi-duare studi, ricerche e interventi indi-rizzati, di volta in volta, verso l’uno o l’altro dei macrosettori costituiti dall’a-viazione civile e da quella militare (tra-lasciando l’aspetto del volo al di fuori dell’atmosfera terrestre) e dalle situa-zioni specifiche che fanno riferimento ad aeromobili ad ala fissa e ad ala ro-tante (elicotteri).

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ulteriori aspetti indagati nell’ambito dell’aviazione civile sono il comporta-mento dei passeggeri nelle situazioni di emergenza o di dirottamento e l’impatto psicologico dei disastri aerei.

naturalmente, al centro di numero-se questioni rimangono le delicate fasi della scelta e selezione dei piloti (civi-li e militari), della loro formazione nel contesto dei programmi di training psi-cologico e tecnico-operativo, e della va-lutazione periodica cui sono sottoposti nel quadro dell’avanzamento di carriera.

le origini

«storicamente, la psicologia dell’a-viazione risale allo sviluppo di test di selezione per i piloti nel corso

della prima guerra mondiale» (Jensen, 1991) e un secondo, forte impulso all’evoluzione della disciplina si è avu-to in occasione del secondo conflitto mondiale. tali radici danno conto del maggiore interesse dedicato, finora, all’aviazione militare, da un lato, e al personale di condotta (piloti e coman-danti), dall’altro.

nel contesto italiano non si può di-menticare il fondamentale contribu-to del francescano agostino gemelli (1878-1959), psicologo e psichiatra, il quale, nel corso della grande guerra, fu chiamato dal comando supremo del regio esercito come consulente per la selezione psicologica dei piloti dell’ae-ronautica militare. nel 1916 gemelli assunse l’incarico in collaborazione con il professor amedeo Herlitzka (succes-sore di angelo Mosso nella cattedra di Fisiologia all’università di torino) e con l’asso dei cieli Francesco Baracca. Do-po aver studiato il ruolo professionale, intervistato i piloti al ritorno dalle mis-sioni e sperimentato personalmente la condizione del pilotaggio (negli anni trenta conseguì egli stesso il brevetto di volo), comprendendo l’importanza dell’esame psicologico e non solo me-

dico dei candidati istituì vari centri per le ricerche di psicofisiologia dell’avia-zione e a Milano il laboratorio di psico-logia (diretto da Herlitzka fino al 1924).

gemelli è considerato il fondatore della Psicologia dell’aviazione e del-la Medicina aeronautica in europa in quanto è stato tra i primi a considera-re non solo gli aspetti fisiologici di ido-neità al volo (età, peso, altezza), ma anche quelli psicologici e attitudinali, dando spazio alle pionieristiche inda-gini sulle motivazioni, le aspettative e l’equilibrio emotivo dei candidati (com-preso ciò che egli definì il possesso di “chiare qualità positive” necessarie per adempiere al ruolo di pilota). si deve infatti ricordare che in quei tempi gli unici requisiti richiesti al candidato pi-lota erano così declinati: «salute, vi-sta, udito, ottimi. Peso non superiore a kg 75». nel 1942, gemelli pubblicò La psicologia del pilota di velivolo, nel quale fornì l’impostazione metodologica alla materia e ne definì gli aspetti de-

ontologici; per primo parlò di sicurezza del volo e dell’importanza del rapporto uomo-macchina.

È trascorso un secolo da allora, ma non sembra che il suo insegnamento sia stato pienamente raccolto.

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si dovrebbe evitare di affidarsi

a valutazioni monodimensionali

e a poche tecniche di diagnosi

psicologica

le tecniche proiettive e semiproiettive,

e inserire le sessioni sociodinamiche di

assessment in gruppo che, uniche, pos-

sono offrire informazioni su un’ampia

gamma di capacità soggettive.

ciò che si dovrebbe evitare – e, dal-

le informazioni diffuse dalle istituzioni

competenti dopo il drammatico caso

del volo 9525 della germanwings, è

ciò che invece oggi costituisce il nu-

cleo delle operazioni selettive – è affi-

darsi a valutazioni monodimensionali

e a poche tecniche di diagnosi psico-

logica.

in italia l’iter per conseguire le diver-

se tipologie di “licenze aeronautiche” e

la selezione Dei Piloti

oggi disponiamo di tre grandi me-

todologie di valutazione psico-

logica che dovrebbero essere

utilizzate soprattutto per i ruoli di mag-

giore responsabilità, compresi quelli di

pilota e di comandante nell’aviazione

civile: il colloquio individuale clinico-

organizzativo, gli assessment di grup-

po e il testing psicologico. Per valutare

il candidato pilota sarebbe necessario

che fossero applicati tutti e tre questi

metodi, da parte di esaminatori psico-

logi diversi, al fine di integrare le in-

formazioni e costruire una rappresen-

tazione completa, globale, dinamica e

quindi sufficientemente affidabile del

candidato. nell’ottica dell’assessment

clinico-organizzativo occorrerebbe svol-

gere colloqui di psicodiagnosi approfon-

dita, ampliare la gamma dei questionari

e dei test psicologici utilizzando anche

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Germanwings: un caso non isolato

anche se può sembrare assurdo, vi sono stati diversi altri episodi di

suicidio compiuti da piloti al comando sia di ultraleggeri, sia di aerei di linea, nel con-testo dell’aviazione civile.

il 9 febbraio del 1982 un Dc-8 della Japan airlines pre-cipitò in mare poco prima di atterrare a tokyo: la commis-sione d’inchiesta accertò che il comandante (che aveva già manifestato “disturbi nervo-si”) aveva manovrato al fine di far precipitare l’aereo in mare, causando la morte di 24 persone mentre 150 rima-sero ferite. nel novembre del

2013, il jet Mozambique air-lines e-190 con 33 persone si schiantò in namibia: uno dei due piloti si era chiuso nel cockpit e aveva deliberata-mente modificato le imposta-zioni di volo. altri episodi so-no invece rimasti incerti. È il caso, per esempio, del Boeing 777 della Malaysia airlines in servizio fra Kuala lumpur e Pechino, dato per disperso l’8 marzo 2014 nell’oceano indiano dopo aver trasmesso una serie di dati in modalità automatica, che non è stato mai ritrovato.

cosa è possibile apprendere dal tragico evento dell’air bus

a320-200 della germanwings e da casi simili? sicuramen-te molto, e l’occasione non dovrebbe essere trascurata né persa. nella gestione di piloti e comandanti il primo passo fondamentale è certamente scegliere le persone adat-te, ma ciò non è sufficiente. una volta superata la fase di selezione iniziale il pilota, come evidenziamo anche nel paragrafo “oltre la selezione”, dovrebbe essere monitora-to ciclicamente dal punto di vista psicologico e non solo medico, osservandone la con-dotta durante l’aggiornamen-to professionale, facendogli

Da più parti viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla selezione psichiatrica rispetto

a quella psicologica

di “abilitazione” è di competenza degli iMl, i due istituti Medico-legali (ora iMas – istituti di Medicina aerospa-ziale) dell’aeronautica Militare, ange-lo Mosso di Milano e aldo di loreto di roma, o di un ambulatorio della sanità Marittima del Ministero della salute (ta-li istituti si occupano anche del control-lo periodico di piloti, navigatori, equi-paggi e assistenti di volo). le fasi delle procedure selettive e addestrative sono illustrate nei siti di enac e di alitalia, ma ciò che qui interessa ruota intorno all’accertamento della cosiddetta ido-

neità psicofisica, segnatamente nella dimensione psicologica. se è del tutto ragionevole concordare con gli obiettivi di tali accertamenti – per esempio, ac-certare la tendenza all’uso di sostanze

stupefacenti o psicotrope, il rischio di suicidio, la presenza di segnali di de-pressione, l’abuso di alcol – la questio-ne riguarda le modalità con le quali si realizza la valutazione, e la regolarità con la quale tale assessment è ripropo-sto al soggetto nel corso della sua car-riera di pilota.

Da più parti (anche a livello interna-zionale) viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla se-lezione psichiatrica rispetto a quella psi-cologica. nello specifico, la prassi di af-fidarsi sostanzialmente ad un unico test di personalità (il Minnesota Multiphasic Personality inventory-MMPi), inviare il candidato a colloquio psicologico solo in casi di “sospetto”, e su indicazione del medico/psichiatra, e ignorare del tutto la valutazione in gruppo, non ap-paiono procedure al passo con i tempi e con le attuali conoscenze elaborate nel contesto dell’assessment psicologico nei ruoli di responsabilità. inoltre, an-che nella documentazione europea, si fa specifico riferimento all’accertamen-

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ripetere regolarmente test e

colloqui psicologici, offrendo

il supporto del counseling psi-

cologico nei casi appropriati.

al fine di rendere davve-

ro sicuro il traffico aereo

commerciale si dovrebbe

predisporre, infatti, una rete

professionale di psicologi e

psichiatri, in veste di counse-

lor, da poter interpellare nei

momenti in cui il pilota vive

situazioni di difficoltà perso-

nale, relazionale ed esisten-

ziale. Questa rete dovrebbe

essere messa a disposizione

non soltanto di piloti e co-

mandanti, ma anche degli

assistenti di volo (senza con-

siderare una terza categoria,

che sembra essere del tutto

trascurata nell’attuale dibatti-

to, che è quella dei controllori

del traffico aereo).

infine, il caso germanwings

testimonia in modo eclatante

una realtà che è ben nota agli

addetti ai lavori. infatti, pres-

soché nessuno, sia tra i piloti

che tra il personale di cabina

(assistenti di volo), comunica

spontaneamente di avere pro-

blemi psicologici alla propria

struttura di appartenenza, pur

se normativamente sarebbe

obbligato a farlo, dato che la

risposta che tende ad attivarsi

in tali situazioni è di impedire

immediatamente al soggetto

di esercitare la propria profes-

sione (ritiro temporaneo del

permesso di volo, e/o messa a

terra). Vi è quindi un aspetto

di carattere normativo-puni-

tivo che induce a evitare il

possibile intervento di recu-

pero e cura della situazione

di sofferenza soggettiva ma-

nifestata, con la conseguenza

che la persona tace sulla pro-

pria condizione, adotta vari

sistemi di autocura, oppure

si rivolge privatamente a pro-

fessionisti esterni. Dunque,

la situazione paradossale che

si evidenzia è la seguente: da

un lato, il pilota in difficoltà

non comunica (o nasconde)

il proprio disagio psicologico

alla compagnia (compresa l’e-

ventuale angoscia per il volo,

o aerofobia), dall’altro, gli enti

preposti non attivano monito-

raggi psicologico-psichiatrici

regolari nel corso della sua

carriera.

to dell’idoneità psicofisica realizzata per

mezzo del rapporto, o certificato, “medi-

co”, come se la dimensione psicologica

fosse automaticamente compresa nella

dimensione medica.

oltre la selezione

come già accennato all’inizio, l’am-

bito della psicologia dell’aviazio-

ne va ben oltre la selezione e la

valutazione dei piloti. Per esempio, uno

dei suoi maggiori contributi ha riguar-

dato l’area della formazione: il crew re-

source Management (crM) è stato svi-

luppato, infatti, a fine anni settanta in

ambito nasa sulla base delle indagini

che avevano messo in rilievo importan-

ti fonti di errore umano nella catena di

cause che portano agli incidenti aerei.

nello specifico, furono individuate delle

“falle” nel processo di decision making,

nella comunicazione e nell’esercizio del

comando. Fu così organizzato un team

di psicologi al fine di ideare un nuovo ti-

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nei controlli medici periodici,

l’aspetto psicologico, esistenziale

e di vita organizzativa non è preso

in considerazione

po di training psicologico, da affiancare

all’addestramento tecnico. Da quando è

nata ad oggi, questa tipologia di Human

Factor training si è sviluppata ed evolu-

ta rapidamente, tanto che generalmen-

te ci si riferisce alla storia del crM in

termini di cinque “generazioni”.

Dal punto di vista del monitoraggio

delle condizioni psicologiche dei piloti,

il tema scottante che è emerso sull’on-

da del caso germanwings è rappresen-

tato dalla completa assenza di un cicli-

co controllo psicologico (non medico)

nel corso della vita professionale, e

dall’assenza di una precisa valutazione

psicodiagnostica nel momento in cui il

pilota assurge al ruolo di comandante.

ciò che caratterizza la vita del pilota è

il controllo medico cadenzato ogni anno

– successivamente ogni sei mesi – ef-

fettuato dalle stesse strutture medico-

legali che si sono occupate della sele-

zione iniziale e che hanno il compito

di rilasciare l’idoneità al volo. Dunque,

con l’inizio della carriera di pilota di li-

nea prendono il via i controlli medici

Aviation Psychology

la psicologia dell’aeronau-

tica è oggi internazional-

mente rappresentata da

diverse associazioni scienti-

fico-professionali in cui sono

presenti psicologi, medici,

ingegneri, piloti e altre figure

professionali. in europa l’as-

sociazione di riferimento è la

eaaP – european association

for aviation Psychology (www.

eaap.net/).

Diverse riviste internazionali

si occupano di una moltitudi-

ne di aree come l’ergonomia,

l’interazione uomo-macchina,

le tematiche di gestione e co-

municazione, la gestione dello

stress dei controllori del traf-

fico aereo, e di aspetti ancora

più specifici come i problemi

psicologici dei piloti milita-

ri abbattuti in combattimento

e fatti prigionieri, la situatio-

nal awareness, e l’influenza

sui passeggeri delle catastrofi

aeree civili. tra le riviste più si-

gnificative ricordiamo: Interna-

tional Civil Aviation Organisa-

tion Journal, Aviation, Space

and Environmental Medicine;

Journal of Travel Medicine;

Human Factors; The Interna-

tional Journal of Aviation Psy-

chology; Aviation Psychology

and Applied Human Factors.

annuali, ma si tratta di controlli medici

nei quali l’aspetto psicologico, esisten-

ziale e di vita organizzativa (poiché le

compagnie aeree sono a tutti gli effetti

organizzazioni di lavoro) non è preso in

considerazione. Perché i normali siste-

mi di gestione, valutazione e sviluppo

delle risorse umane utilizzati nel mondo

aziendale non sono applicati ai piloti e

al personale di volo? Perché per diven-

tare comandante non è prevista una va-

lutazione psicologica approfondita sulle

qualità di base della persona e sulle sue

capacità di leadership?

le domande che sorgono sono per-

tanto numerose, nonostante diversi

vertici istituzionali – all’indomani del

crash dell’airbus a320-200 della ger-

manwings – si siano affrettati a dichia-

rare che “il sistema funziona” e che

l’obbligo del doppio pilota in cabina

di comando “sicuramente” impedirà il

verificarsi di fatti come quello accadu-

to nel marzo del 2015. in realtà, per

appurare che un sistema funzioni vera-

mente, si dovrebbe innanzitutto esplici-

tare con trasparenza i suoi meccanismi,

e successivamente permettere a sogget-

ti indipendenti di verificarne il funzio-

namento (passato e attuale).

Vi sono dunque numerosi spunti che

potrebbero oggi essere presi in conside-

razione al fine di migliorare il mondo del

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occorrerebbe superare la dicotomia

tra medici/psichiatri e psicologi,

assegnando la medesima dignità

professionale allo psicologo clinico

Riferimenti bibliografici

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Andrea Castiello d’Antonio, psicologo cli-nico e psicoterapeuta, professore straordi-nario presso l’Università Europea di Roma. Ha pubblicato numerosi volumi e articoli principalmente sulle applicazioni sociali, cliniche e lavorative della psicologia.

volo e rendere l’aviazione civile più sicu-

ra. in primo luogo occorrerebbe supera-

re la dicotomia – e spesso l’incompren-

sione – tra medici/psichiatri e psicologi,

assegnando la medesima dignità profes-

sionale al lavoro dello psicologo clinico-

organizzativo rispetto a quelli del medi-

co e dello psichiatra, e realizzando dei

team multi-professionali in cui gli ope-

ratori possano davvero integrare le loro

conoscenze scientifiche professionali,

evitando le lotte di potere per chi deve

avere l’ultima parola sull’idoneità di un

candidato al ruolo di pilota.

in altri contesti culturali, diversi dal

nostro, psichiatri e psicologi collabora-

no allo scopo di studiare e intervenire su

ogni aspetto del volo che abbia un colle-

gamento con il cosiddetto “fattore uma-

no”. sarebbe utile e intelligente se nel

nostro paese la psicologia dell’aviazione

venisse almeno presa in qualche consi-

derazione da coloro che hanno l’autorità

di decidere come impostare i programmi

di selezione, formazione e valutazione

del personale dell’aria. se si vuole seria-

mente cercare di prevenire altri episodi

come quello del volo 9525 della ger-

manwings è necessario ripensare com-

pletamente la gestione del personale di

volo, dalle prime fasi di selezione fino

agli stadi conclusivi della carriera.

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Contro i bambini (e le loro mamme)

Nel nostro paese l’offerta di servizi per la

primissima infanzia, per quanto miglio-

rata negli ultimi vent’anni, è fortemente

carente e disomogenea, con vistose differenze

regionali. Nel 2010 le statistiche indicavano

che in media solo il 10% dei bambini italiani

frequentava il nido, con punte intorno al 30%

nelle zone maggiormente servite, situate per-

lopiù al Nord o nelle grandi città. Oggi queste

percentuali rischiano di ridursi ulteriormente,

poiché sono numerosi i comuni che stanno

chiudendo o accorpando i nidi. Non solo quin-

di diminuisce il numero dei posti disponibili,

ma questi rischiano di essere di difficile ac-

cesso, vista l’età dei bambini, le loro parti-

colari esigenze e le difficoltà di trasporto. La

giustificazione che viene data per la riduzione

del numero dei nidi è economica: la progres-

siva riduzione dei finanziamenti renderebbe

impossibile la continuazione del servizio.

Sulla motivazione unicamente economica

di queste decisioni è lecito avere dei dubbi.

Esse sottendono infatti una concezione dello

sviluppo infantile e del ruolo delle madri – e

più in generale degli adulti – che fa ritenere

il nido superfluo quando non addirittura no-

civo. Per quanto sia ormai chiaro da decenni

agli studiosi e operatori della prima infanzia

che il nido è un servizio non solo sociale e as-

sistenziale ma soprattutto educativo, questa

consapevolezza non si è ancora sufficiente-

mente diffusa né tra le famiglie né tra gli enti

pubblici. Ne sono la prova sia la scarsa diffu-

sione del servizio sul territorio nazionale, con

zone in cui esso è di fatto inesistente, sia lo

scarso interesse per tutte le forme alternative

o integrative al nido, come micronidi o tate

familiari. Sono forme che potrebbero venire

incontro alle esigenze sociali ed educative dei

bambini e delle famiglie, offrendo maggiore

flessibilità e minori costi di gestione. Solo po-

che regioni italiane si sono attivate in questi

anni per offrire questi servizi e la loro possi-

bilità non viene nemmeno presa in considera-

zione da chi pensa oggi solo a chiudere i nidi.

Perdura la radicata convinzione che sia

preferibile per i bambini essere accuditi

solo dalle mamme o da altri adulti della

famiglia. Di conseguenza, il ricorso ai non-

ni non è soltanto il frutto di una valutazione

economica, ma anche di una mentalità che

considera superflua, quando non nociva, la

presenza dei coetanei nei primi anni di vita.

Si dimentica che molte competenze sociali si

sviluppano non nella relazione diretta con

l’adulto, bensì con i coetanei. Almeno a par-

tire dall’anno e mezzo, il rapporto con i soli

adulti, per quanto necessario, non è sufficien-

te per lo sviluppo di capacità emotive e sociali

che saranno poi cruciali nelle età seguenti.

Ne è un chiaro esempio la cooperazione. Essa

non si può sviluppare nel solo rapporto con

l’adulto, a causa della condizione asimmetri-

ca di relazione educativa e di sviluppo psico-

logico che esiste tra questi e il bambino. Solo

dall’incontro, e anche dall’inevitabile scon-

tro, con chi ha le stesse capacità cognitive e

sociali, possono evolvere nel bambino le com-

petenze indispensabili per un buon svilup-

po della capacità cooperativa. Per esempio,

il fatto che un bambino rifiuti di condividere

un giocattolo con un compagno non è in sé

un’esperienza negativa e in ogni modo da evi-

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tare, come molti adulti ritengono. Al contra-

rio, in un contesto educativo adeguato essa è

un’esperienza positiva, che stimola la ricerca

di nuove soluzioni più creative, ben differen-

ti da quelle che potrebbero essere proposte

dagli adulti. Sono soluzioni piene di inventiva,

diverse sia dall’aggressione sia dalla rinun-

cia, in cui entrambi i piccoli possono diver-

tirsi condividendo il medesimo giocattolo. Il

confronto, anche conflittuale, con i coetanei

abitua quindi a tenere conto degli altri e delle

loro esigenze, ma nello stesso tempo a non ri-

nunciare alle proprie. Per quanto in genere gli

adulti siano poco disposti ad ammetterlo, lo

sviluppo sociale e l’educazione morale passa-

no, fin dalla primissima infanzia, attraverso la

relazione non solo con l’adulto ma anche con

il coetaneo. Il ruolo dell’adulto rimane impor-

tante, ma è indiretto, poiché è sempre sua la

responsabilità di organizzare un contesto edu-

cativo valido.

La possibilità di vivere al nido esperienze

sociali con i coetanei è oggi determinante

e unica per molti bambini. Fino a tempi

non molto lontani i piccoli crescevano con fra-

telli, cugini, vicini di casa, in una prossimità

che nulla toglieva alla profondità e ricchezza

della relazione con la madre, ma che non iso-

lava il bambino in un rapporto con soli adulti.

Oggi non è più così. Già da alcuni anni in Ita-

lia la maggior parte dei bambini (circa il 47%)

rientra nella categoria dei figli unici, mentre

il 43% ha un fratello e solo il 10% ne ha due

o più. In concreto, questo significa che molti

piccoli rischiano di avere come unico riferi-

mento, fino all’ingresso nella scuola dell’in-

fanzia a tre anni, soltanto i genitori e i nonni.

Ne risulta un rapporto numerico del tutto

sbilanciato, con sei adulti che si occupano di

un solo bambino, in assenza di continuative

relazioni sociali con altri coetanei.

Se si considerano questi aspetti, risulta

chiaro che l’esperienza con i coetanei nel

nido, o in altri servizi di qualità, non rappre-

senta un doloroso ripiego per i bisogni assi-

stenziali delle donne che lavorano, anche se

questo aspetto non va certo trascurato, in un

paese in cui l’occupazione fuori casa riguarda

meno della metà delle donne. Ancor più, essa

è una possibilità di crescita per tutti i bam-

bini, che rischiano oggi di trascorrere i primi

anni della loro vita, in particolare il secondo

e il terzo, in una condizione di preoccupante

deprivazione sociale con i pari.

SILvIA bONINODipartimento Di psicologia Università Di torino

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Birmingham: bambini

di scuola dell’infanzia

intenti alla cura di un

grande girasole.

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Anche in Italia, che pure sull’argo-

mento non primeggia in Europa, si

stanno moltiplicando le esperien-

ze e i casi, qualcuno veramente innovati-

vo, in cui il tema del “verde” nelle scuole

viene affrontato con serietà e impegno,

grazie soprattutto ad un lavoro svolto da

differenti ma complementari capaci-

tà professionali (insegnanti, progettisti,

pedagogisti, ecc.). Sono ormai diverse le

proposte progettuali che hanno rivisto il

senso dell’abitare lo spazio educativo e

in grado di far acquisire maggiore consa-

pevolezza agli alunni, alle famiglie e alla

stessa comunità.

La buona scuola

“verde”GianLuca mora

Il tema del “verde” nelle scuole, in

particolare nelle scuole primarie e

dell’infanzia, è ormai riconosciuto

come fondamentale e seguito

con grande interesse per tutta una

serie di motivazioni che includono

aspetti legati alla didattica e

al rispetto della natura ma non solo

Se è pur vero che in primo luogo la

scuola è fatta di contenuti, è altrettanto

vero che essa è fatta di spazi e di strut-

ture e quindi di edifici. Purtroppo siamo

tutti consapevoli che è necessario prov-

vedere ad un adeguamento degli spazi

scolastici alle esigenze della didattica

moderna e gli spazi esterni possono ri-

sultare ambiti importanti di didattica

ambientale e botanica. Occorre dunque

favorire gli interventi di riqualificazione

naturalistica ricercando una maggiore

integrazione e relazione con i cittadini

del quartiere e con le altre istituzioni

del territorio.

La riqualificazione naturalistica, me-

diante il rinverdimento nell’ambito de-

gli edifici scolastici, può essere otte-

nuta e attuata ogni qualvolta vi siano

interventi rivolti a nuove edificazioni,

a ristrutturazioni, messa in sicurezza o

anche mediante interventi mirati.

Attualmente la normativa in materia

non impone particolari soluzioni al ri-

guardo. Tuttavia le Linee guida di edili-

zia scolastica, elaborate dal MIUR nel

2013 e già in corso di revisione, indica-

no ai progettisti che «lo spazio esterno

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il miglioramento bioclimatico, l’impatto

ambientale, il risparmio energetico sono

solo alcuni dei molteplici vantaggi degli

interventi di naturalizzazione

costituisce parte integrante del progetto

e deve essere altrettanto curato ed at-

trezzato con formazione di prati, piantu-

mazioni, orti didattici… una occasione

per sfruttare meglio l’area esterna e gli

elementi naturali… i cortili possono di-

ventare giardini d’inverno… ed essere

utilizzati come serre e fornire un guada-

gno termico nelle stagioni fredde».

Recentemente, con il sostegno della

Lipu – Lega Italiana Protezione Uccelli –

è stato presentato al Senato un disegno

di legge rivolto proprio a inserire, nelle

scuole primarie, interventi di naturaliz-

zazione. Ma cosa intendiamo per “natu-

ralizzazione degli spazi verdi” all’inter-

no delle nostre scuole?

LA “nATURALIzzAzIOnE”

Gli interventi rivolti alla naturaliz-

zazione, cioè al rinverdimento,

consistono principalmente nei

tetti verdi e nei giardini pensili, negli

orti all’interno di cortili e terrazzi, nei

birdgarden (giardini per uccelli e non

solo), nei giardini verticali e nei giardi-

ni sensoriali.

Altri interventi possono riguardare la

realizzazione di piccoli specchi d’acqua

con ninfee e papiri, la casa sull’albero,

le vasche di sabbia, ecc.

I tetti verdi, sia di tipo estensivo

(spessori contenuti, ridotta manuten-

zione) che intensivo (comunemente

definito giardino pensile, con spessori

di terreno maggiore e che richiede una

maggiore manutenzione), sono ormai

soluzioni tecnologiche sempre più uti-

lizzate nelle coperture degli edifici di

nuova costruzione a destinazione preva-

lentemente residenziale e direzionale.

L’orto scolastico, realizzato il più delle

volte grazie alla volontà e all’impegno di

alcuni insegnanti e genitori, soprattutto

nell’ambito della scuola dell’infanzia e

della scuola primaria, aiuta a far com-

prendere ai bambini la provenienza del

cibo che trovano sulla tavola, a riscoprire

il senso e la misura del tempo e dell’at-

tesa, favorisce l’apprendimento tramite

l’esperienza e quindi la consapevolezza,

e infine risulta un bene collettivo che

deve essere rispettato da tutti.

Il birdgarden è uno spazio all’aper-

to pensato per attrarre e accogliere gli

uccelli e altri animali selvatici. Aiuta a

comprendere l’ambiente naturale attra-

verso l’osservazione, in ogni sua acce-

zione, valorizza l’educazione ambienta-

le e il rispetto della bio-diversità.

I giardini verticali, oggi sempre più

in voga, anche di piccole dimensioni,

hanno un’utilità indubbiamente di ca-

rattere estetico, ma anche di regolazio-

ne termica (la traspirazione delle piante

raffresca l’aria), di depurazione dell’aria

e di abbattimento acustico e riduzione

del riverbero (la massa vegetale assorbe

le onde sonore e luminose).

Anche i giardini sensoriali rientrano

tra gli interventi qualificanti. Il giardino

assume un ruolo ludico, sociale e di-

dattico, favorisce l’apprendimento, in

particolare degli alunni con disabilità,

promuove lo sviluppo sensoriale (espe-

rienze visive, tattili, olfattive) e la co-

noscenza del sé corporeo in relazione

all’ambiente circostante, stimola la co-

noscenza e il rispetto della natura con i

suoi ritmi e i suoi spazi.

Quali sono i vantaggi cosiddetti am-

bientali di questi interventi? Citiamone

solo alcuni: il miglioramento bioclima-

tico, l’impatto ambientale, l’isolamento

acustico, il trattenimento delle polveri,

l’isolamento termico e il risparmio ener-

getico. Evidentemente i vantaggi pos-

sono essere molteplici anche per altri

aspetti. Per esempio circondare gli edi-

fici scolastici di spazi verdi, in un dia-

logo “interno”-“esterno”, crea una con-

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un giardino, oltre a diventare

un luogo di gioco, può offrire un forte

contributo al complesso e appassionante

compito dell’educare

taminazione che aiuta la stimolazione

percettiva dei bambini, così come il lo-

ro sguardo che non viene vincolato alla

sola dimensione dell’aula ma rivolto al-

lo spazio aperto, verso l’orizzonte verde

circostante. Per questo non occorre im-

maginare grandi superfici da naturaliz-

zare a verde, può essere sufficiente uno

spazio magari già esistente, che si svi-

luppi tra le rientranze dei corpi edilizi e

nei cortili, di forme e dimensione varia,

anche semplici frammenti integrati con

l’edificio e attorno ad esso.

Oltre a questi aspetti di carattere per-

cettivo, il giardino, come già accenna-

to, può diventare un luogo di gioco, di

attività fisica all’aperto, ma soprattutto

diventa uno spazio in cui fare esperien-

za e condividerla con gli altri. In sostan-

za, potrebbe essere un forte contributo

al complesso e appassionante compito

dell’educare. L’osservazione della natu-

ra e la scoperta dell’alterità di specie, i

tempi di ambientamento e la gradualità

nella cura di un orto o di un giardino, la

collegialità e la scoperta dell’identità di

uno spazio e la sua capacità di orienta-

re gli scambi sociali, sono solo alcune

delle tante opportunità che uno spazio

verde può offrire.

QUALChE bUOn ESEMPIO

La scuola primaria di Piobesi Torine-

se, realizzata dallo studio Archiloco

nel 2010, ha nel proprio giardino

un piccolo stagno alimentato da acqua

piovana proveniente dal tetto della scuo-

la e filtrata attraverso un sistema di fi-

todepurazione. I bambini si affacciano

sul laghetto da una terrazza in legno che

simula la prua di una nave dal cui albe-

ro maestro, al posto delle vele, svettano

luccicanti pannelli fotovoltaici.

Il polo scolastico per l’infanzia, a La-

ma Sud (Ravenna), dello studio MTA

Giancarlo De Carlo e Associati, è stato

inaugurato nel 2008 ed è inserito in un

parco di oltre due ettari. Rappresenta

un esempio riconosciuto di architettu-

ra partecipata e integrata, oltre che di

modernità pedagogica nell’intendere il

rapporto fra il bambino e lo spazio che

lo circonda.

Piobesi Torinese, Scuola

primaria “Unità d’Italia”

(Scuola Green).

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sempre di più oggi nelle scuole di nuova

costruzione vengono adottati criteri

di progettazione sostenibile

Il giardino è un luogo di gioco e di

attività fisica all’aperto, progettato co-

me spazio di esperienze ludiche ma

anche legate al fare (coltivare, costrui-

re, allevare, manutenere...). La scuola

vi si inserisce in modo da farlo pene-

trare nelle rientranze dei corpi edilizi

e nei patii: di forme e dimensioni ete-

rogenee, questi frammenti di giardino

si compongono a mosaico in un’unica

configurazione organicamente integra-

ta con l’architettura.

occidentale di Parigi, nel 2014 è sta-

ta costruita una grande scuola “green”

dallo studio Architects Chartier-Dalix

in cui, oltre all’impiego del verde sulle

coperture, è stata realizzata una parete

“vivente” ricca di fessure, interstizi e

fori che possono ospitare vegetazione e

piccoli uccelli, per favorire la protezio-

ne della biodiversità animale e vegetale

anche in ambiente urbano.

PARTIRE DALLE SCUOLE ESISTEnTI

Sempre di più oggi nelle scuole di

nuova costruzione vengono adot-

tati criteri di progettazione soste-

nibile, integrati con una dotazione im-

piantistica rivolta al minor consumo di

energia e quindi al risparmio energeti-

co. L’impiego di materiali da costruzio-

ne adeguati, abbinato alla ricerca del

massimo comfort, alla scelta dei colo-

ri, all’orientamento dell’edificio, al rap-

porto tra gli spazi ed alla relazione tra

essi, e a tutta una lunga serie di fattori

di valutazione, rendono generalmente

necessaria nella progettazione la com-

presenza e la partecipazione di diversi

esperti nei vari ambiti coinvolti.

In Francia, a Rillieux-la-Pape, nei

pressi di Lione, è stata recentemente

realizzata una scuola elementare che

si armonizza con lo spazio esterno met-

tendo in relazione il verde del terreno

con il verde delle coperture. I tetti verdi

accolgono passeggiate educative, tran-

sennate e sicure, che diventano veri e

propri luoghi panoramici, mentre a ter-

ra si sviluppano sentieri pedagogici lun-

go il tragitto percorso giornalmente da-

gli alunni per raggiungere la mensa e

l’orto. Sempre in Francia, nella periferia

Un’altra immagine del

giardino della scuola

“Unità d’Italia” di Piobesi

Torinese.

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2010), Un percorso partecipato verso la sostenibilità. La scuola elementare di Piobesi Torinese, Alinea Editrice, Firenze.

Gianluca Mora è architetto libero professionista, esperto in tecnologie edi-lizie innovative rivolte al risparmio ener-getico e alla sostenibilità ambientale. Ha redatto progetti di edilizia scolastica di diverso ordine e grado. È intervenuto con un proprio contributo alla presentazione in Senato del disegno di legge sulla “Ri-qualificazione naturalistica dell’edilizia scolastica”. Collabora inoltre con asso-ciazioni no-profit.

Questo tipo di attenzione rivolta ai

nuovi edifici scolastici riguarda anche

lo spazio “esterno”, che a tutti gli effet-

ti, come negli esempi richiamati, parte-

cipa in maniera integrata insieme agli

spazi “interni” agli obiettivi di una vi-

sione contemporanea della didattica e

della scuola moderna.

Purtroppo siamo consapevoli che il

patrimonio edilizio scolastico in gene-

rale risulta obsoleto e più del 60% delle

scuole italiane è stato costruito da oltre

40 anni, il 37.6% necessita di interven-

ti di manutenzione urgente, il 40% è

privo del certificato di agibilità, mentre

il 60% non ha il certificato di preven-

zione incendi (Legambiente, 2013). Il

piano per l’edilizia scolastica lanciato

recentemente dal Governo e gli investi-

menti messi a disposizione per la messa

in sicurezza, il ripristino funzionale e il

risparmio energetico speriamo possano

recuperare il ritardo ingiustificabile e

l’indifferenza degli anni passati.

Tuttavia, anche negli edifici esisten-

ti, in particolare nelle scuole dell’in-

fanzia e primarie, occorrerebbe indivi-

duare le risorse per “naturalizzare” lo

spazio esterno laddove esiste ed è po-

tenzialmente usufruibile. Anzi, risul-

terebbe forse prioritario partire proprio

dalle scuole esistenti, dando per scon-

tato che, per quanto riguarda le scuole

nuove, spesso è più facile ottenere gli

obiettivi prefissati una volta stanziate le

risorse necessarie. buona parte delle ri-

sorse economiche occorrenti potrebbero

provenire proprio dal risparmio energeti-

co derivante dai contributi e dagli effetti

degli “interventi a verde” sull’esistente.

Sarebbe necessario, per quanto pos-

sibile, superare la dicotomia tra il “den-

tro” e il “fuori” degli spazi scolastici,

aula e cortile per intenderci, conside-

rando a pieno titolo lo spazio esterno

a verde, in funzione ovviamente delle

stagioni e delle condizioni meteorologi-

che, uno spazio utile all’apprendimento

e al miglioramento ambientale in piena

sintonia con lo spazio interno e le sue

caratteristiche. Un modo di vivere insie-

me la dimensione narrativa dello spazio

come luogo di vita, di incontri, di rela-

zioni ed apprendimenti.

La coscienza collettiva, in merito a

questo tema, sta rapidamente cambian-

do in positivo, anche grazie allo sforzo

che gli “addetti ai lavori” hanno fatto e

stanno facendo, soprattutto all’interno

del mondo della scuola. Gli strumenti

per poter creare spazi adeguati ci sono

e vediamo che la sensibilità e l’attenzio-

ne dei progettisti è spesso più che ade-

guata. Il problema sono le risorse, che

non bastano mai e spesso non sono suf-

ficienti per la manutenzione ordinaria,

anche se nella maggior parte dei casi

basterebbe poco. Pensiamo, per esem-

pio, alla sostituzione della pavimenta-

zione di un’area cortilizia all’interno di

una scuola, anche solo parzialmente,

con un prato erboso e delle essenze ar-

bustive adeguate, oppure alla realizza-

zione di un orto didattico o un piccolo

giardino sensoriale all’interno di casso-

ni in legno riempiti di terra. Evidente-

mente non avremmo utilizzato grandi

risorse, ma avremmo però fornito un

contributo alla cura e al rispetto dei bi-

sogni di esplorazione spaziale-cogniti-

va-emotiva dei bambini e offerto loro la

possibilità di molteplici esperienze per-

cettive e motorie mediante la suggestio-

ne e la bellezza che l’ambiente naturale

sa creare.

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In un’epoca come la nostra, l’intelli-genza naturalistica (Gardner, 1987) assume un’importanza particolare.

D’altra parte è una forma di intelligen-za che, per potersi esprimere al meglio, deve trovare un terreno favorevole ed essere coltivata nel corso della crescita dell’individuo. È stato, infatti, messo in luce come il sentimento di continuità con la natura generi risposte fisiologi-che e psicologiche positive negli esseri umani, inclusa la riduzione dello stress e una corroborante sensazione di benes-sere (Lewis, 1996). Inoltre, sono ormai decine e decine gli studi che mostrano come i giochi e le attività nell’ambiente naturale siano molto amati dai bambini e ne stimolino lo sviluppo.

Per una “sensIbILItà verDe”

anche se l’intelligenza naturalisti-ca e la sensibilità nei confronti della natura si sviluppano sin da

bambini, tuttavia, spesso e volentieri, il tipo di vita e di ambiente in cui sia adul-ti che bambini sono inseriti contrasta e rende difficile il realizzarsi di questo rapporto con il mondo naturale circo-stante. Già alcuni decenni fa, proprio in riferimento ai bambini, il celebre archi-tetto, urbanista, e pensatore anarchi-co britannico Colin Ward scriveva che nella società contemporanea ai bambi-ni viene sempre più spesso impedito di uscire di casa, di giocare liberamente

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L’importanza del “pensiero verde”

in strada e nel verde come avveniva un

tempo, di usare la bicicletta o di cam-

minare da soli magari per raggiungere

la propria scuola, in breve di fare quel-

le importanti esperienze che consento-

no anche di raggiungere indipendenza e

autonomia nel movimento. Ward ritene-

va che gli adulti dovessero essere consi-

derati responsabili di aver realizzato dei

centri urbani invasi dal traffico, proget-

tati per rispondere prevalentemente ai

bisogni degli automobilisti e, in quanto

tali, fonte di rischio per i bambini che

sarebbero sempre più indirizzati verso

un modello di società consumistico, ti-

pico degli adulti, che li tiene in casa

davanti a televisori e videogiochi invece

che all’aria aperta e nella natura.

Quanto sia importante nella vita e

nella crescita dei bambini il rappor-

to con la natura emerge chiaramente

da tutta una serie di esperienze reali

che originariamente hanno riguardato

soprattutto il nord europa (cultural-

mente più attento di noi al benessere

ecologico degli individui). In norvegia,

per esempio, la vita all’aria aperta, a

stretto contatto con la natura, fa par-

te dell’educazione e delle politiche

pubbliche. basti pensare al caso dello

skårungen kindergarten, uno dei primi

asili nido “outdoor” in norvegia, attivo

sino dal 1996. Questo si trova sull’iso-

la di bragdøya e viene raggiunto ogni

giorno dai bambini e dalle loro mae-

stre in barca. L’asilo è in una piccola

Tra le varie forme di intelligenza

messe in evidenza dallo studioso

della mente Howard Gardner,

ne troviamo una che spesso viene

sottovalutata: l’intelligenza

“naturalistica”

ALbertinA oLiverio

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L’aumento dell’attenzione nei confronti

della natura, e dell’ambiente in generale,

è collegato ad un ampio spettro di

“riflessioni ecologiste”

vallata delimitata da barriere naturali, cosa che facilita sia il controllo dei li-miti entro i quali si svolge il gioco dei bambini, che una serie di attività come l’arrampicarsi sulle rocce o lo scivolare sulla neve nei periodi invernali. In que-sto asilo i bambini giocano anche molto arrampicandosi sugli alberi, pescando nei periodi primaverili ed estivi e con dei coniglietti che vengono tenuti lì in alcune gabbiette.

Oggi l’importanza del rapporto con la natura nella crescita del bambino, nella sua educazione e nella proget-tazione dell’edilizia scolastica è, per fortuna, ormai oggetto di attenzione e studio anche in Italia (si veda l’artico-lo di Gianluca Mora «La buona scuola “verde”» in questo numero). È il caso degli “agrinidi” e “agriasili” che negli ultimi anni si sono diffusi soprattutto in veneto, Piemonte, trentino e Friuli. sono asili ideati nell’ambito di fattorie e aziende agricole in cui poter lasciare i propri bimbi sapendo che passeranno le loro giornate giocando all’aria aperta, a contatto con le piante e con gli animali, consumando prodotti dell’orto che es-si stessi magari hanno seminato e visto crescere, sviluppando nuove sensibilità e spirito di avventura. L’agriasilo è gene-ralmente un luogo con poco muro, poco soffitto e tanta natura.

La rIFLessIOne eCOLOGIsta

Ora, se da un lato questa crescen-te sensibilità “verde” poggia sulle importanti considerazioni

di pensatori quali Jean-Jacques rous-seau, Friedrich Froebel e Maria Mon-tessori, che hanno attribuito un posto

centrale al rapporto con la natura nell’e-ducazione del bambino, dall’altro lato, l’aumento dell’attenzione nei confronti della natura, e dell’ambiente più in ge-nerale, è collegato ad un ampio spet-tro di “riflessioni ecologiste”. Queste spaziano dalla politica all’etica, dall’e-conomia alla psicologia, dall’architet-tura all’educazione, appunto, e, a par-tire dall’inizio del ventunesimo secolo, si sono tramutate in una vera e propria ideologia molto influente nell’ambito delle società occidentali.

Come è avvenuto che la riflessione ecologista sia divenuta una delle mag-giori preoccupazioni del nostro secolo? Per rispondere a tale quesito si pos-sono brevemente ricordare alcuni tra i nomi più significativi del pensiero eco-logista che hanno dato impulso al suo sviluppo e alla sua diffusione. In tal senso, centrale è stato senza dubbio il contributo di alcuni precursori, come per esempio quello del filosofo ame-ricano Henry D. thoreau che in Wal-

den, ovvero Vita nei boschi (1854) ha esplicitato tutto il suo impegno per la promozione dei parchi nazionali ame-ricani e ha posto l’accento sull’impor-tanza del rapporto dell’uomo con la natura. Ma è negli anni sessanta del secolo scorso che un ecologismo vero e proprio è diventato elemento centrale di una riflessione transdisciplinare la quale spesso e volentieri si è tradotta in critica radicale della società. tra i fautori di questa svolta si può ricordare innanzitutto la biologa americana ra-chel Carson, che in Primavera silen-

ziosa (1962) sostenne che i pesticidi erano nocivi per l’uomo e per la natura. La sua opera, tradotta in tutto il mon-do, è stata spesso ritenuta l’origine del movimento ecologista allora nascente e, all’epoca, sensibilizzò a tal punto l’opinione pubblica americana che gli stati uniti si videro successivamente costretti a vietare alcuni pesticidi co-me il DDt e a creare l’agenzia per la Protezione ambientale.

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ecologia

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e c o l o g i a

È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro

Centrale per i sostenitori di un “pen-siero verde” è poi la critica radicale alla società industriale dei consumi e, più in generale, alle istituzioni del mondo moderno, sviluppata dall’austriaco Ivan Illich che, a coloro che ripongono gran-de fiducia nelle promesse dello sviluppo tecnologico e scientifico, contrappone i suoi effetti deleteri sia sul piano mate-riale che su quello morale. Secondo Il-lich, esiste un limite oltre il quale una produzione di beni e servizi illimitata si trasforma in oggetto di alienazione: il modello produttivo moderno diviene cioè controproduttivo e distrugge il le-game sociale. L’industrializzazione in qualsiasi ambito finisce per allontanare i propri utilizzatori dai fini per i quali essa è stata concepita. L’esempio dei trasporti è esemplare: Illich sostiene che l’americano medio passi 4 ore al giorno nella sua auto e 1600 ore ogni anno percorrendo 10 000 chilometri, cosa che rappresenta una media di sei chilometri all’ora.

Pilastro della riflessione ecologista è stata inoltre l’opera di Hans Jonas, allievo di Husserl e Heidegger. Nel ce-

lebre Il principio responsabilità (1979) egli ha cercato di fondare una nuova eti-ca per proteggere il futuro dell’umanità dalle minacce che possono scaturire da uno sviluppo scientifico e tecnologico sfrenato capace di mettere in pericolo sia la natura che lo stesso uomo. Se-condo il filosofo tedesco, l’etica tradi-zionale centrata sui rapporti tra gli uo-mini e il presente non è in grado di far fronte a questo pericolo. È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro cercando di allonta-nare i pericoli della tecnica e garantire una vita autenticamente umana. Que-sto ci aiuta a comprendere l’imperati-vo categorico secondo cui bisogna agire in modo tale che gli effetti delle nostre azioni non distruggano la possibilità fu-tura della vita.

[email protected] 16.07.2015 10:20

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La “decrescita” è l’idea di una società

fondata sulla qualità piuttosto che sulla

quantità, sulla cooperazione piuttosto

che sulla competizione

anche il pensiero del filosofo francese

edgar Morin si articola in costante dialo-

go con l’ecologia, sia sul piano scientifi-

co che su quello politico, in base ad una

critica del capitalismo e dello sviluppo

industriale, così come avveniva in mo-

do simile nel caso del norvegese arne

naess che passando da baruch spinoza

a Mohandas Gandhi ha proposto una vi-

sione radicale dell’ecologia che pone al

centro la natura e non l’uomo e che non

dà alcuna priorità all’essere umano nel-

la difesa dei diritti delle specie viventi.

tra i pionieri mondiali dell’etica am-

bientale vi è poi il filosofo americano

John baird Callicott. Le sue ricerche

vertono sullo sviluppo di un’“etica della

terra”. Il suo progetto sarebbe quello di

sottomettere la potenza della coscienza

umana al mondo naturale inteso nel sen-

so della diversità del vivente e dei pae-

saggi. Mentre, tra coloro che pongono

l’accento sulla critica all’ortodossia eco-

nomica e all’utilitarismo, troviamo anco-

ra serge Latouche (2007), teorico della

“decrescita”, ossia di una società fonda-

ta sulla qualità piuttosto che sulla quan-

tità, sulla cooperazione piuttosto che

sulla competizione, su un’umanità libe-

ra dall’economizzazione della vita e che

si dà come obiettivo la giustizia sociale.

InIzIatIve MenO IDeOLOGICHe

L’interesse per simili tematiche

non ha smesso di coinvolgere un

numero sempre crescente di cit-

tadini nella causa ecologista. Questo

anche grazie a nuove voci che contribui-

scono ad alimentare la preoccupazione

ambientale. basti pensare a un al Gore

(ex vice-presidente degli usa) che con

il suo documentario Una scomoda veri-

tà (2006) ha mostrato in modo nitido

gli effetti deleteri del surriscaldamen-

Foto in alto:

elaborazione grafica di

come si presenterà tra

qualche anno il “Bosco

verticale”, realizzato sul-

la base del progetto degli

architetti Stefano Boeri,

Gianandrea Barreca e

Giovanni La Varra.

L’opera è stata inaugu-

rata a Milano nell’ottobre

del 2014.

[email protected] 13.07.2015 14:16

Page 37: Psicologia contemporanea 08 2015

a piedi nudi

nel verde

Albertina OliverioAnna Oliverio Ferraris

Giocare per imparare a vivere

pag. 224 - e 10,00

ecologiae c o l o g i a

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Anche nel nostro paese ci sono

delle iniziative interessanti che

ci auguriamo possano ricevere

la massima attenzione dai politici

Riferimenti bibliografici

Carson r. (1962), Primavera silenziosa (trad. it.), Feltrinelli, Milano, 1999.

Gardner H. (1987), Formae mentis (trad. it.), Feltrinelli, Milano.

Jonas H. (1979), Il principio responsabilità (trad. it.), Einaudi, Torino, 1990.

LatouCHe S. (2007), La scommessa della decrescita (trad. it.), Feltrinelli, Milano.

Lewis C. A. (1996), Green Nature, Human Na-ture. The Meaning of Plants in Our Lives, University of Illinois Press, Chicago.

oLiverio a., oLiverio Ferraris a. (2011), A piedi nudi nel verde. Giocare per impara-re a vivere, Giunti, Firenze.

tHoreau H. D. (1954), Walden ovvero Vita nei boschi (trad. it.), BUR, Milano, 2013.

ward C. (1999), Il bambino e la città. Cre-scere in ambiente urbano (trad. it.), L’An-cora del Mediterraneo, Napoli.

Albertina Oliverio, professore di Filosofia delle Scienze Sociali all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, è autrice di articoli e saggi tra cui Strategie della scelta (Laterza, 2007), Dall’imitazione alla cooperazione (Bollati Boringhieri, 2012).

to globale, o a un barack Obama che,

al momento del suo insediamento alla

Casa bianca, ha voluto lanciare un for-

te messaggio ecologista circondandosi

della “Green Dream team” formata da

celebri scienziati e investita del compi-

to di affrontare le più spinose questioni

energetiche e ambientali.

Le filosofie e i movimenti ecologisti

propongono oggi un’agenda sempre me-

no ideologica, ma sempre più fondata

sul convincimento della necessità di un

ripensamento radicale di alcuni principi

ancora alla base di molte scelte econo-

miche e politiche tra cui quelle orienta-

te ad una modernizzazione forzata non

accompagnata da una adeguata valuta-

zione di tutte le sue conseguenze.

Questa evoluzione del pensiero eco-

logista si accompagna ad una sorta di

rivoluzione silenziosa: da bilbao a Oslo,

da vancouver a Magdeburgo, moltissi-

me città hanno anticipato le sfide dello

sviluppo sostenibile con tale efficacia

che nei quartieri sperimentali ci si avvi-

cina per esempio agli obiettivi di ridu-

zione dei gas serra che gli stati si sono

prefissati per il 2050. Queste città sono

partite dai problemi tecnici per risalire

ai sistemi sociali. Piuttosto che appli-

care una teoria generale del benessere

sociale a tutti i campi della vita, questa

via innovativa consiste nell’appoggiarsi

su tante leve assieme: dall’inserimento

di tasse (sulle automobili) e di sovven-

zioni (per i trasporti collettivi), al rin-

novamento dei piani di urbanizzazione,

dal finanziamento di tecnologie speri-

mentali, alla ripartizione dello spazio

in funzione dei diversi usi, dal concepi-

mento di forme di risparmio energetico

nell’edilizia pubblica (come per esem-

pio i tetti verdi, si veda ancora l’artico-

lo di Gianluca Mora), al potenziamen-

to degli orti cittadini e all’ampliamento

dell’edilizia scolastica verde. anche nel

nostro paese ci sono delle iniziative in-

teressanti che ci auguriamo possano ri-

cevere la massima attenzione da parte

di amministratori locali e politici e che,

se debitamente sviluppate e potenziate,

non potranno che giovare all’intelligen-

za naturalistica di grandi e piccini.

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IL CELLULARE: UN’ESTENSIONE DI Sé

Nel giro di pochi anni è comparso un nuovo tipo di fobia: il timore di separar-si dal proprio cellulare (in inglese

no mobile phobia). Uno studio sull’impat-to che la separazione dal proprio cellulare ha sull’emotività e la fisiologia, pubblicato nel gennaio del 2015, è stato condotto su 208 studenti di giornalismo. Un’équipe di psicologi delle Università della Florida, dell’Oklahoma e dell’Indiana ha misurato la pressione sangui-gna e la tensione arteriosa degli studenti men-tre stavano scrivendo una lista dei 50 Stati americani. A metà percorso, con una scusa, i ricercatori hanno annunciato agli studenti che dovevano separarsi dal loro cellulare e li han-no invitati a ricominciare il test da zero.

Ogni volta che i parteci-panti venivano sconnessi si verificava un aumento significativo dell’ansia, del ritmo cardiaco, del livello della pressione arteriosa e una diminu-zione significativa del rendimento al test.

Ecco le conclusio-ni a cui sono giunti i ricercatori: 1) il telefono è diventato “un’estensio-

ne di se stessi”, al punto che è possibile par-lare di un “sé connesso” o “iSelf”; 2) le per-sone che soffrono di no mobile phobia hanno l’impressione di aver perso una parte di sé, il che «può avere un impatto negativo sulle loro performance mentali».

R. Clayton, G. leshneR, a. almond (2015), «The extended iSelf. The impact of iphone separation on cognition, emotion and physiology», Journal of Computer-Mediated Communication, 20 (2), 119-135.

AOF

LETTURA E ATTIVITà CEREBRALE

Nel guardare un video o un filmato i bambini di età prescolare seguono il flusso delle immagini che il regista e i

suoi collaboratori hanno ideato, selezionato e confezionato per il pubblico. Diverso è invece il lavoro che fa il loro cervello quando, ascol-tando una storia raccontata o letta da qualcu-no ad alta voce, devono immaginarsela. Non potendo appoggiarsi a immagini esterne, de-vono costruirsi un proprio film interiore, che è diverso da un ascoltatore all’altro perché in questa costruzione di immagini mentali ognu-no ci mette qualcosa di sé: sentimenti, emo-zioni, esperienze personali.

Chi è attento, conosce i bambini ed è soli-to leggere loro delle storie, ha esperienza di questa realtà. Ma ora c’è anche un esperi-

notizie flash

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mento che la supporta. Nell’ospedale pedia-trico di Cincinnati (Ohio, Usa) un ricercato-re, John Hutton, e i suoi collaboratori hanno studiato 19 bambini fra i tre e i cinque anni avvalendosi della risonanza magnetica funzio-nale. Hanno così trovato che nel cervello dei bambini che ascoltano una storia si registra un’attivazione marcata di quelle aree cerebra-li che supportano le immagini mentali, quelle che aiutano il bambino a “vedere la storia al di là delle figure”. In altre parole, nel cervello di bambini di età prescolare a cui viene letta o raccontata una storia si accendono le aree preposte alla comprensione e alla fantasia.

I risultati di Hutton non si fermano qui, l’e-sperimento ha anche dimostrato che i bam-bini che a casa avevano maggiori opportunità di ascoltare storie lette dagli adulti, attivava-no in modo molto più significativo specifiche aree cerebrali che supportano l’elaborazio-ne semantica (l’estrazione di significato dal linguaggio), aree fondamentali per la lingua orale e in seguito per la lettura.

«Ci auguriamo che questo lavoro induca ulteriori ricerche sulla lettura condivisa e il cervello in via di sviluppo, così che si possa-no migliorare gli interventi in questo campo e identificare i bambini a rischio di difficol-tà il più presto possibile, aumentando le loro probabilità di avere un buon rapporto con il meraviglioso mondo dei libri», hanno conclu-so gli autori dell’esperimento.

J. s. hutton, t. hoRowitz-KRaus, t. dewitt, S. holland (2015), «Parent-child reading increases activation of brain networks supporting emergent literacy in 3-5 year-old children: An fMRI study», Abstracts Pediatric Academic Societies’ Annual Meeting.

AOF

ANCHE I BAMBINI pRODIgIO DEVONO ESERCITARSI

La violinista Anne-Sophie Mutter, il cal-ciatore Toni Kroos, lo scacchista Ma-gnus Carlsen: come fanno a essere così

bravi nel loro mestiere? È solo questione di esercizio, afferma da una ventina d’anni lo psicologo Anders Ericsson della Florida State University. Le prestazioni di eccellenza non sarebbero una questione di talento, ma solo il risultato di un duro lavoro. più esattamente, 10 000 ore di lavoro.

Tanto è il tempo che un grande musici-sta dedica a esercitarsi nei primi venti anni di vita, spiegava Ericsson in un’analisi del fenomeno che ha ottenuto grande risonan-za internazionale. Nel 2009, intervistato da Focus, ha enunciato una sorta di regola empi-rica, che dovrebbe valere nello sport come negli scacchi o nel gioco delle freccette: «Ci vogliono 10 000 ore di applicazione e circa dieci anni per conseguire prestazioni fuori dell’ordinario». E aggiungeva: «Il tentativo di spiegare capacità eccezionali con un talento innato si è rivelato finora talmente vano che si deve concludere che il talento è un fattore estremamente secondario». peraltro, lo stes-so Ericsson ha sottolineato ripetutamente che forse la capacità di auto-motivazione può avere un fondamento genetico: non sarebbe quindi innato il talento, ma la tendenza a im-pegnarsi allo spasimo in qualcosa.

La regola delle 10 000 ore ha goduto fino ad oggi di un’enorme popolarità. In fondo lascia intendere che chiunque è in grado di arrivare a tutto, purché ci lavori abbastanza

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Page 40: Psicologia contemporanea 08 2015

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u a te a l cos st n dav e sì

Nel m it scientifi s acces nel

attem una feroce lem ca sull’ gom n-

to. La ausa fr l’altr è un lavoro pubblicato

sulla ivista sychological Science.

In quelle pagine gli psicologi americani

Brooke Macnamara, David Hambrick e Fre-

derick Oswald analizzano un insieme di 88

ricerche su scala mondiale, fra cui anche il

lavoro originale di Anders Ericsson, tutte rela-

tive al rapporto fra esercizio e prestazioni. In

effetti anche da questa meta-analisi emerge

una forte correlazione: quanto più ci si eser-

cita, tanto migliori sono i risultati.

Tuttavia il duro lavoro non basta a creare

un campione. Mediamente il numero di ore

di esercizio spiega solo il 12% della varianza

nel livello delle prestazioni, mentre il restante

88% si basa su altri fattori. gli autori citano

a sostegno di questa tesi, per esempio, uno

studio sugli scacchi: ad alcuni degli scacchi-

sti esaminati erano bastate 3 000 ore di prati-

ca per ottenere il rango di maestro nazionale,

mentre altri non ci erano arrivati nemmeno

dopo 25 000 ore passate davanti alla scac-

chiera. «Che esercizio e prestazioni siano cor-

relati è fuori discussione», sottolineano Mac-

namara, Hambrick e Oswald, «ma l’esercizio

non è così determinante» come affermano

Ericsson e i suoi collaboratori. D’altra parte

l’influenza dell’esercizio è maggiore in certi

campi che in altri: per esempio nella musica

arriva a spiegare il 21% della varianza.

Questi dati tuttavia sono contestati da altri

colleghi: «L’esito di una meta-analisi

dipende dalla selezione delle fonti

primarie che vengono analizzate»,

spiega non senza ironia Reinhard

Kopiez, della scuola superiore

di musica, teatro e comuni-

cazione di Hannover. A suo

avviso i lavori analizzati da

Ma nam ra Hamb ick Osw so molt

p co omogenei e n p e m t o camente

discu ibili.

C me profe ore musicol ia Kopiez sa

bene di cos parla Di recent ha in gni caso

pubblicato a sua olta una meta-analisi, cir-

coscritta però al ambito musicale, dal quale

risulta una correlazione molto più chiara. An-

che ricalcolando i suoi risultati con il metodo

adottato dai ricercatori americani, il livello

delle prestazioni di un musicista dipende per

un 37% dall’applicazione nella pratica dello

strumento. L’accusa di Kopiez agli avversa-

ri di Ericsson è di sottovalutare sistematica-

mente l’importanza di un esercizio regolare,

anche mediante artifici retorici.

Basta allora l’esercizio a fare un maestro?

O piuttosto il talento innato? «Quello che al

momento manca del tutto sono studi longi-

tudinali a lungo termine», lamenta Kopiez.

«Dovremmo seguire i bambini per anni fin

dalla prima ora di musica e documentare sia

il numero di ore dedicate allo strumento, sia

i progressi nell’apprendimento». Un’impresa

tanto noiosa quanto inconcepibile. «per quan-

to ne so», conclude Kopiez, «non c’è nessuno

che abbia in mente un progetto del genere».

B. maCnamaRa, d. hamBRiCK, F. oswald (2014), «Deliberate prac-tice and performance in music, games, sports, education, end profession: A meta-analysis», Psychological Science, DOI: 10.1177/0956797614535810.F. Platz, R. KoPiez, a. lehmann, a. wolF (2014), «The influence of delibe-rate practice on musical achievement: A meta-analysis», Frontiers in Psychology, DOI: 10.3389/fpsyg.2014.00646.

FRANK LUERwEg

TiTolo originale: «auch Wubderkinder müssen üben», Psychologie heute, dic.

2014, 2.

[email protected] 13.07.2015 14:16

Page 41: Psicologia contemporanea 08 2015

orizzonti

tascabili

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Page 42: Psicologia contemporanea 08 2015

V I O L E N Z A

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e 2015 La tortura

“bianca” MariaLuisa Menegatto

adriano ZaMperini

Nel passato la tortura era praticata

principalmente sui non-cittadini:

schiavi, nemici, membri di grup-

pi outsider. La tortura inflitta ai cittadi-

ni riguardava casi di reato, tradimento o

eresia.

L’epoca attuale è indubbiamente ca-

ratterizzata da un’attenzione globale sui

diritti umani. La tortura è infatti disci-

plinata a livello internazionale da con-

venzioni, trattati e leggi che definiscono

l’uso della forza legittima da parte dello

Stato e il tassativo divieto di tortura. Ne

sono un esempio le organizzazioni sovra-

nazionali come le Nazioni Unite e altri

organismi non governativi deputati a ve-

rificare il rispetto da parte degli Stati di

tali trattati e leggi; così come all’interno

di alcuni singoli paesi vi sono struttu-

re amministrative di vigilanza. Inoltre, i

mass media hanno adottato il principio

dei diritti umani come un metro per va-

lutare gli Stati e stilare classifiche eti-

che. In ogni caso, nonostante l’ascesa

della cultura dei diritti umani, la tortura

non è scomparsa, nemmeno in quei pae-

si che si professano democratici (Rejali,

2007). Secondo Amnesty International,

nel 2014, data di ricorrenza dei trent’an-

ni dall’adozione della Convenzione delle

Nazioni Unite contro la tortura, l’82%

dei paesi monitorati (131 su 160) ha

torturato o maltrattato persone. Dalla Si-

ria allo Sri Lanka, i leader politici hanno

giustificato la tortura in nome della si-

curezza. Lo stesso è accaduto negli Stati

Uniti: dopo gli attacchi dell’11 settem-

bre 2001, la tortura è stata teorizzata

e praticata contro i “nemici” terroristi.

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Page 43: Psicologia contemporanea 08 2015

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«Se un delitto è certo, inutili

sono i tormenti, perché inutile è

la confessione del reo; se è incerto,

non devesi torturare un innocente

perché tale è secondo le leggi un

uomo i cui delitti non sono provati»

(Cesare Beccaria)

TORTURA E DEmOCRAZIA

Se la tortura continua a essere pra-

ticata anche in democrazia, ha

comunque subito profondi cam-

biamenti. La tortura moderna si distin-

gue da quella classica per alcuni aspet-

ti essenziali. Le forme classiche erano

eseguite in pubblico ed erano comun-

que sempre ben note alla popolazio-

ne, quelle moderne sono sottratte alla

visione dei cittadini. Le torture classi-

che “scrivevano” il corpo del torturato,

per esempio lasciando vistose cicatrici;

quelle moderne, pur agendo attraverso

il corpo, non mirano a lasciare tracce

somatiche, bensì aggrediscono sistema-

ticamente la mente e la personalità del

torturato. Infine, se le prime erano gui-

date dalla tradizione e dalla religione, le

seconde attingono alla conoscenza cli-

nica (medica, psichiatrica e psicologi-

ca) e, grazie allo sviluppo di particolari

tecniche, sono difficili da documentare

perché raramente sanguinarie.

Le tecniche che non lasciano tracce

fisiche sulla vittima costituiscono la co-

siddetta “tortura bianca”, nota anche

come “tortura senza contatto”. Il suo

obiettivo primario è aggredire i sensi, la

percezione della realtà, gli schemi rela-

zionali, fino a causare stati psicotici (Ni-

ckerson et al., 2014). Infatti, gli esseri

umani riescono a muoversi nel mondo

non solamente perché possono contare

sulle proprie gambe, ma anche perché

nel corso del ciclo di vita hanno svilup-

pato una certa padronanza sociale. Un

capitale di abilità che viene annienta-

to da tecniche destabilizzanti, capaci di

confondere la segnaletica dei comuni

rapporti umani. Come se, d’improvviso,

per un automobilista il semaforo verde

non significasse più via libera e quello

rosso obbligo di fermarsi. Non essendoci

più alcun codice della strada condiviso

(analogo al patto sociale che governa le

interazioni quotidiane), la circolazione

diventerebbe caotica, imprevedibile, ri-

schiosa e sempre gravida di angoscia.

Per esempio, il metodo del “disorien-

tamento sensoriale” (mcCoy, 2006) è

costituito da pratiche di tortura a di-

stanza che compromettono gravemen-

te le capacità sensoriali della vittima,

violentandone l’udito, la vista, il senso

spazio-temporale. Le vittime sono tenu-

te per lunghe ore isolate in piccole celle,

talvolta al buio, in silenzio, al freddo e

senza indumenti. La reclusione può es-

sere soggetta a rotazione in vari luoghi,

per impedire al prigioniero di sviluppare

una certa familiarità ambientale. Pro-

prio l’ambiente è sottoposto a sistemati-

che manipolazioni: arbitraria alternanza

di silenzio/rumore, con urla improvvise

oppure musica ad alto volume; controllo

della luce, anche facendo ricorso all’in-

cappucciamento. L’equilibrio psicofi-

sico viene aggredito alterando il ritmo

sonno/veglia: il prigioniero viene tenuto

perennemente sveglio oppure ridestato

improvvisamente alle soglie della fase

REm, con musica o rumori improvvisi.

La “stress position” (essere costretti ad

assumere per lungo tempo determinate

posture) provoca dolore acuto a muscoli

e articolazioni. Anche le emozioni sono

manipolate con l’uso controllato della

paura, come quando si annunciano ese-

cuzioni sommarie. Note a tutti sono le

vicende di Abu Ghraib in Iraq, luogo di

detenzione dove i soldati nordamerica-

ni aizzavano cani senza museruola con-

tro prigionieri anche adolescenti, scom-

mettendo su chi per primo, dal terrore,

avrebbe perso il controllo di vescica e

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Per l’irruzione nella scuola Diaz a

Genova nel 2001, la Corte Europea dei

Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si è

trattato di tortura fisica

sfinteri. La CIA, nel suo manuale del

“buon torturatore”, parla della tecnica

di “Alice nel paese delle meraviglie”,

per descrivere le modalità con cui il tor-

turatore può rendere il mondo del tortu-

rato il più imprevedibile e caotico possi-

bile, così da gettarlo in una condizione

psicologica analoga alla catastrofe psi-

chica propria della patologia mentale.

Anche il nostro paese è chiamato a

fare i conti con pratiche che si vorreb-

bero lontane nello spazio e nel tempo.

Nel linguaggio quotidiano, l’espressio-

ne “i fatti di Genova” è un ombrello se-

mantico che copre le proteste di piazza

contro il Summit del G8 di Genova del

2001 e le violenze che si verificarono in

varie zone della città, e in particolare gli

scontri tra forze di polizia e manifestan-

ti che culminarono con l’uccisione di

Carlo Giuliani in piazza Alimonda. I fatti

di Genova, insieme a espressioni come

“zona rossa” o “black bloc” e a luoghi

simbolo, come la scuola Diaz e la pri-

gione di Bolzaneto, sono ormai lemmi di

un lessico della violenza che è stato tra-

smesso infinite volte dai mass media.

Ora, per uno di questi fatti, l’irruzione

nel cuore della notte nella scuola Diaz

(adibita a dormitorio) da parte di circa

300 agenti dei Reparti mobili della Po-

lizia di Stato che infierirono brutalmen-

te su persone inermi, riducendone al-

cune in fin di vita, la Corte Europea dei

Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si

è trattato di tortura (nella fattispecie fi-

sica). E ulteriori analoghi procedimenti

sono in corso per altri fatti di Genova,

come per la prigione di Bolzaneto.

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La tortura, sia fisica che “bianca”,

è sempre un trauma per chi la subisce

e comporta alcuni elementi tipici del

Disturbo Post Traumatico da Stress

LA TORTURA BIANCA A BOLZANETO

Bolzaneto era una caserma adatta-

ta a luogo di transito per il rico-

noscimento dei fermati e il loro

smistamento ai carceri di destinazio-

ne. In teoria il transito doveva durare

qualche ora, il tempo delle operazioni

di triage, identificazione e schedatura.

A tutti gli effetti, divenne invece una

prigione nella quale gli arrestati speri-

mentarono tempi di attesa fino e oltre

le trenta ore, senza la possibilità di con-

sultare un avvocato o un familiare, e in

cui subirono trattamenti che possono

essere definiti atti di tortura. Proprio su

questa vicenda, abbiamo recentemente

presentato una relazione tecnico-scien-

tifica alla Corte di Strasburgo a seguito

di un ricorso avanzato dalle parti lese.

Pur non mancando episodi di violenza

fisica, dentro la prigione di Bolzaneto

è possibile evidenziare un sistematico

ricorso alla tortura bianca. I principali

trattamenti perpetrati furono:

Stress position. I prigionieri erano ob-

bligati a rimanere in piedi contro il mu-

ro (pratica detta anche wall standing) o

al centro della cella senza potersi ap-

poggiare ad alcunché, con braccia alza-

te, mani dietro la nuca, oppure obbliga-

ti a stare seduti o in ginocchio. Posture

forzate che concentrano e fanno grava-

re il peso del corpo su pochi muscoli e

articolazioni determinando prima dolo-

re, poi cedimento muscolare e infine il

blocco delle informazioni tattili e moto-

rie al cervello.

Interdizione visiva. L’obbligo di te-

nere costantemente la testa china, sia

all’interno delle celle sia durante i vari

spostamenti, impedendo qualsiasi con-

tatto visivo, sia con gli agenti di custo-

dia che tra i prigionieri (si pensi, per

esempio, alla correlazione con la tecni-

ca dell’incappucciamento praticata ad

Abu Ghraib).

Trattamento silenzioso. Il divieto asso-

luto di parlare, sia con gli agenti di cu-

stodia (se non per rispondere a doman-

de), sia con i propri compagni di cella.

Manipolazione ambientale. Le celle

erano piccole, fredde durante la notte,

sovraffollate, e in alcuni momenti senza

distinzione di genere. Aggressioni acu-

stiche intense e prolungate, rumori im-

provvisi, come porte che sbattevano, e

ordini impartiti urlando producevano

un senso psicologico di “stato d’asse-

dio”. Violenze verbali, minacce di mor-

te e sessuali, appellativi delegittimanti

inducevano emozioni negative di pau-

ra, tensione, ansia. Infine, l’esposizione

costante alla luce artificiale delle celle

privava gli organi di senso delle infor-

mazioni adeguate sul ritmo giorno/notte,

indebolendo la percezione temporale.

Simili trattamenti puntano a modifi-

care la percezione che le persone hanno

di sé stesse e dell’ambiente circostan-

te, così da indurre uno stato alterato di

coscienza.

LE CONSEGUENZE PSICOLOGIChE

La tortura, sia fisica che “bianca”, è

sempre un trauma per chi la subi-

sce. E come tutti i traumi, sul pia-

no strettamente clinico il quadro delle

conseguenze comporta alcuni elementi

tipici che hanno assunto un’importanza

centrale nella diagnosi psichiatrica di Di-

sturbo Post Traumatico da Stress (PTSD):

tendenza compulsiva a rivivere l’espe-

rienza traumatica; evitamento difensivo

di rappresentazioni interne o esterne che

ricordano l’episodio della tortura; ipera-

rousal e intorpidimento emotivo.

ma la tortura è una pratica particolar-

mente complessa e le sue conseguenze

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La tortura è un evento catastrofico, ma

non è solo il singolo individuo a soffrire.

Ne pagano le conseguenze madri e padri,

mogli e mariti, figli, parenti e amici

non sono esauribili tramite una diagnosi

di PTSD. Infatti, bisogna sempre tenere

presente che il sopravvissuto alla tortu-

ra è una vittima molto diversa da chi,

per fare solo un esempio, sperimenta un

trauma a seguito di un disastro natura-

le, come un terremoto. Nel caso della

tortura bianca a Bolzaneto, l’elemento

centrale del “trauma” è aver subito una

violenza collettiva di natura politica.

D’altra parte, tali pratiche aumentano il

loro impatto negativo sulla persona per-

ché improvvise, e soprattutto impensa-

bili per un cittadino di un paese demo-

cratico inserito nella Comunità Europea

che dovrebbe tutelare i diritti inviolabili

della persona.

Per comprendere appieno le conse-

guenze della tortura bianca di Bolzaneto

serve allargare la prospettiva d’analisi,

considerando, insieme alle componenti

personali, anche quelle socio-politiche.

Le persone sono indubbiamente tortu-

rate per uno scopo e subito si pensa alla

necessità di carpire informazioni o con-

fessioni. In realtà, in molte situazioni

lo scopo è quello di punire o reprime-

re particolari gruppi umani; nel caso di

Bolzaneto (e anche della Diaz), perso-

ne che parteggiavano per determinate

idee politiche. Pertanto, un individuo

percepito come membro di simili grup-

pi, diventa un candidato a trattamen-

ti disumani e degradanti (Zamperini e

menegatto, 2015).

Il tema della perdita, multiforme e

ricorrente nei torturati, qui diventa so-

prattutto perdita di cittadinanza, che ha

lasciato forti emozioni di panico e impo-

tenza davanti alle diverse autorità, dal

poliziotto al controllore dei treni, così

che per molti la libertà di movimento ha

subito limitazioni (per esempio, rinun-

cia a usare mezzi pubblici di traspor-

to; astensione dal frequentare luoghi di

aggregazione politica). Senza contare il

fatto che, per essere state fortemente

delegittimate, alcune vittime hanno per-

so il lavoro, i legami affettivi e talvolta

la propria reputazione. Come sempre, la

tortura subita innesca nelle biografie in-

numerevoli e indesiderati punti di svolta

e frequenti sono le reazioni depressive.

La tortura è sicuramente un evento

esistenziale catastrofico, ma non è solo

il singolo individuo a soffrire. Analoga-

mente ad altri eventi traumatici, per ogni

persona torturata ci sono madri e padri,

mogli e mariti, figli, parenti e amici che

attendono nell’incertezza di avere notizie

e sono costretti a convivere prima con la

paura e poi con il trauma. Sicché, la tor-

tura espande i suoi effetti negativi sulla

comunità e sull’intera società.

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Oggi, la tortura è sempre più “bianca”:

uno sviluppo tecnico che richiede un

attento monitoraggio sociale per impedire

la proliferazione di trattamenti disumani

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Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta e dottoran-da di ricerca all’Università di Verona, si occupa di violenza e trauma, vittimologia, esclusione e disagio sociale, conflitti sociali e pratiche di riconciliazione, diritti umani e giustizia sociale. Fra i suoi scritti ricordiamo: La società degli indifferen-ti (con A. Zamperini; Carocci, 2011) e Memoria viva (con A. Zamperini; Florence University Press, 2015).

Adriano Zamperini è professore di Psico-logia della violenza, di Psicologia del di-sagio sociale e di Relazioni interpersonali all’Università di Padova. Fra i suoi scritti: Prigioni della mente (Einaudi, 2004), L’in-differenza (Einaudi, 2007), L’ostracismo (Einaudi, 2010), La bestia dentro di noi. Smascherare l’aggressività (Il Mulino, 2014). È tra i curatori e autori dell’opera Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (2 voll., Einaudi, 2006-2007). È Direttore del CIRSIM (Centro Interdipartimentale di Stu-di Interculturali e sulle Migrazioni) presso l’Ateneo di Padova.

CONCLUSIONI

La tortura moderna persegue molti

scopi: può essere usata per racco-

gliere informazioni così come per

intimidire e annichilire particolari grup-

pi umani. Come nel passato, continua a

essere un “marcatore civico”. La vicen-

da della prigione di Bolzaneto ne è un

esempio paradigmatico: essere etichet-

tati come sovversivi è la precondizione

per subire un trattamento degradante,

il quale, a sua volta, nel momento stes-

so in cui viene praticato, segnala che la

persona che lo riceve in qualche modo

“se lo merita” perché si pone al di fuo-

ri dei confini della tutela legale propria

della cittadinanza (Zamperini e mene-

gatto, 2011).

Diversamente dal passato, oggi la

tortura è sempre più “bianca”: uno svi-

luppo tecnico che richiede un attento

monitoraggio sociale per impedire la

proliferazione di (impercettibili) trat-

tamenti disumani. Per esempio, certe

pratiche, perché viste al di fuori dell’or-

dinario (come la deprivazione sensoria-

le), sono maggiormente assimilate al-

la tortura, mentre altre, più intrecciate

con la vita quotidiana (pensiamo allo

sviluppo delle tecniche di stordimento

elettrico nell’ordine pubblico), appaio-

no viceversa, ed erroneamente, più ac-

cettabili.

Di fronte alla tortura, compito degli

psicologi è offrire le proprie competen-

ze professionali, prestando particolare

attenzione all’articolazione della soffe-

renza individuale con il contesto sociale

di riferimento. Inoltre, come ricercatori,

gli psicologi sono chiamati a testimo-

niare il dramma della tortura, invitando

il nostro paese a dotarsi il più rapida-

mente possibile di un’adeguata norma-

tiva per realizzare il triplice compito di

prevenirla, condannare i torturatori e ri-

abilitare i torturati.

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I fatti

di GenovaLa preparazione delle Forze dell’Ordine

massImo

montebove

La recente sentenza della Corte

Europea dei Diritti dell’Uomo,

che ha condannato l’Italia per i reati

di tortura consumatisi a Genova

nel 2001, ha riaperto la discussione

su alcune questioni come la

preparazione delle nostre Forze

di Polizia e la necessità di avere

donne e uomini in divisa “pronti”

anche dal punto di vista psicologico

Alcune premesse di ordine gene-

rale, anche socio-psicologico,

sono necessarie. Innanzitutto,

rispetto alle drammatiche giornate del

G8 a Genova nel 2001, la preparazio-

ne degli operatori delle Forze dell’Or-

dine italiane è molto migliorata, an-

che per quel che riguarda discipline

in passato poco o nulla curate nell’am-

bito dei corsi di formazione. Penso, in

particolare, al Centro di formazione

per funzionari di polizia istituito da

una decina d’anni a Nettuno dove, in

collaborazione con importanti atenei

italiani, il personale in divisa che ha

il compito di comandare e dirigere i

servizi di ordine pubblico viene pre-

parato, con seminari, workshop e real

experience, ad affrontarne i disagi e i

vari fattori di stressor.

Si lavora, in particolare, sulle proble-

matiche inerenti al job context che van-

no dagli orari di lavoro fino al rapporto

con i colleghi, passando per situazioni

di mobbing, scarsa comunicazione e as-

senza di riconoscimento professionale.

Si analizzano, inoltre, anche altri aspetti

come quello del job content, cioè le si-

tuazioni stressogene che il personale in

divisa vive e sopporta ogni giorno: oltre

all’ordine pubblico, si pensi al continuo

confronto con abusi, violenze e situa-

zioni pericolose per quel che concerne

gli uffici investigativi e operativi, fino ai

rilievi di incidenti che interessano, per

esempio, la polizia stradale, senza con-

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tare la comunicazione di un decesso ai

familiari (Montebove, 2011).

Tornando ai “fatti di Genova”, occorre

dire che Polizia e Forze dell’Ordine han-

no riflettuto ampiamente su quel che è

accaduto, condannando eccessi e abusi

intollerabili e ingiustificabili. Va da sé,

ad ogni buon conto, che i fatti e le sto-

rie di quei terribili giorni debbano essere

inquadrati in un contesto di guerriglia

urbana e violenze di piazza che non si

verificavano nel nostro paese dagli “anni

di piombo”; un contesto dove poche mi-

gliaia di persone, agguerrite ed armate,

hanno saputo tenere in scacco manife-

stanti pacifici e tutori dell’ordine, cau-

sando devastazioni, incidenti e feriti, fi-

no ad arrivare alla morte di un ragazzo.

A distanza di 14 anni da quegli av-

venimenti, in ogni caso, non è possibi-

le sottacere le responsabilità, gli errori, i

tentativi di falsificazione e le omissioni

che hanno caratterizzato in particolare

l’irruzione alla scuola Diaz e che, a mio

avviso, attengono a condotte personali,

pur gravi e inqualificabili: da poliziotto

non posso, infatti, accettare l’idea di un

“sistema marcio” nella Polizia, come pu-

re è stato ingenerosamente sostenuto.

Anche per quel che riguarda i gravi

fatti che si sono verificati all’interno

della caserma di Bolzaneto, molte re-

sponsabilità personali sono state accer-

tate, mentre in tanti altri casi, a causa

della prescrizione, la verità processuale

non si è potuta scrivere. Errori indivi-

duali e funzionali, mancanza di adegua-

ta preparazione professionale e soprat-

tutto psicologica, elementi stressogeni

e un contesto unico nella storia della

Repubblica del dopoguerra hanno de-

terminato una delle pagine più buie per

la democrazia italiana (anche se non bi-

sogna dimenticare che le responsabilità

processualmente accertate hanno coin-

volto poche persone).

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Il primo aspetto su cui in questi anni

si è lavorato molto nell’ambito del

Dipartimento della pubblica sicurezza è

quello della formazione della decisione

LA FORMAZIONE DELLA DECISIONE

Entrando più dettagliatamente nel

merito dei comportamenti che gli

operatori delle Forze di Polizia as-

sumono in determinati contesti critici

e operativi, direi che il primo aspetto

su cui in questi anni si è lavorato molto

nell’ambito del Dipartimento della pub-

blica sicurezza è quello della formazio-

ne della decisione. Da tempo ci si sta

adoperando per distinguere tra eventi

“ordinari”, dove il poliziotto può e de-

ve essere in grado di assumere prima-

riamente decisioni personali, ed eventi

cosiddetti “straordinari”, cioè ad alto

rischio, nei quali il manifestarsi di si-

tuazioni critiche richiede – per evitare

che la sfera emotiva prevalga su quella

razionale – quasi esclusivamente l’ado-

zione di disposizioni prese in una sala

operativa dove funzionari preparati pos-

sono raccogliere tutti i dati provenienti

dal contesto operativo (di cui parlere-

mo più avanti), per farne poi una lucida

valutazione. Qui insorge un altro fatto-

re, che è consustanziale al processo di

formazione della decisione: la comuni-

cazione della decisione. Il poliziotto, il

carabiniere e il militare che agiscono

nello scenario operativo ad alto rischio

devono ricevere ordini chiari e rapidi e,

soprattutto, devono essere dotati di tut-

ti i moderni strumenti che la tecnologia

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può offrire. A Genova, nel 2001, que-

sto non si è sempre verificato. Al di là

di comportamenti singoli che hanno as-

sunto rilevanza penale, talvolta si è re-

gistrato un duplice difetto di decisione

e di comunicazione che, in un contesto

ad alto livello critico, ha prodotto con-

seguenze devastanti per l’attività di chi

allora era preposto a garantire l’ordine

e la sicurezza pubblica.

La mia convinzione, dunque, è che

nel 2001 nel capoluogo ligure ci siano

stati anche alcuni errori di comunicazio-

ne: le violenze alla scuola Diaz si sareb-

bero potute forse evitare se fossero sta-

te corrette le informazioni relative a chi

davvero era presente all’interno dell’e-

dificio (non pericolosi sovversivi, ma

studenti e manifestanti), se i funzionari

preposti al comando e al coordinamen-

to degli agenti che sono entrati avesse-

ro comunicato ordini e disposizioni con

maggiore cautela e attenzione, con la

conseguenza che alcuni operatori – in

un contesto di dinamiche di gruppo e di

“cultura del nemico” ben noti nell’am-

bito della psicologia – hanno poi ecce-

duto rispetto al da farsi. Ripeto: nessu-

na giustificazione può essere addotta,

ma certamente quei fatti hanno influito

non poco sulle Forze dell’Ordine e sulla

Polizia di Stato in particolare.

IL CONTESTO OPERATIVO

Anche per questo, nell’ambito

dell’innovativo percorso di for-

mazione che i poliziotti italiani

hanno intrapreso dopo il G8 di Geno-

va, hanno avuto e hanno ancora rilievo

le analisi e gli studi relativi al conte-

sto operativo, a cui si è fatto cenno. Si

tratta, in buona sostanza, dello scenario

nel quale si verificano gli eventi critici.

Nei servizi di ordine pubblico le cose

possono mutare rapidamente: un corteo

pacifico con un percorso concordato tra

Questura e organizzatori può facilmente

trasformarsi in un inferno se poche de-

cine di persone decidono all’improvviso

– e in maniera preordinata – di travi-

sare il proprio volto, armarsi di bastoni

e scudi, proteggersi con caschi e ma-

gari deviare dal percorso concordato. Il

contesto operativo (che comprende per

esempio le vie di fuga, il punto in cui

c’è maggiore possibilità di infiltrazioni

nel corteo, la zona dove poter incana-

lare nel modo migliore i manifestanti)

deve essere conosciuto bene da chi è

destinato a operare in quello scenario.

Oggi è possibile farlo anche attraverso

la realtà virtuale, con l’utilizzo di teleca-

mere per analizzare precedenti eventi,

con briefing specifici che permettano,

soprattutto a chi ha la responsabilità di

impartire ordini, di “vivere nella men-

te” e per certi versi concretamente (so-

prattutto preventivamente) il contesto

operativo nel quale si svolgerà la pro-

pria mission. Si tratta di un percorso

di lavoro che nei prossimi anni andrà

implementato.

LA FORMAZIONE PSICOLOGICA

La formazione in ambito psicologi-

co del personale in divisa resta co-

munque, a mio avviso, il tema dei

temi. Proprio lo scorso anno si è svolto

un interessante convegno a Roma (“21

anni di Psicologia di Polizia”) che ha

fornito numerosi spunti di riflessione,

sottolineando primariamente l’esigenza

di promuovere la formazione in ambi-

to psicologico non solo per i ruoli dei

direttivi e dirigenti, ma anche per tutti

gli altri operatori della Polizia di Stato:

una formazione finalizzata – è stato det-

to – sempre più anche alle conoscenze

di tecniche specifiche come la capaci-

Occorre promuovere la formazione in

ambito psicologico non solo per i ruoli

di direttivi e dirigenti, ma per tutti gli

operatori della Polizia di Stato

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tà di ascolto, i processi comunicativi, la gestione delle emozioni. La Polizia di Stato è certamente un’eccellenza tra le Forze dell’Ordine italiane da questo punto di vista, considerato che negli ul-timi anni si è lavorato per cercare di ga-rantire la presenza degli psicologi nelle Questure, anche se il loro numero è an-cora esiguo (si veda il Box).

LA FuNZIONE DEL POLIZIOTTO

Credo che occorra interrogarsi se-riamente sul ruolo e sulla fun-zione del poliziotto nella socie-

tà attuale. È stato detto e scritto che una della evoluzioni rispetto al passato è costituita dal passaggio concettuale tra una sicurezza intesa essenzialmen-te come repressione e prevenzione di reati a un nuovo modello cosiddetto “di prossimità”, dove l’approccio tra opera-tore in divisa e cittadino finisce al cen-tro della scena. Questo pone una nuova sfida: quella di uscire da una visione del

Lo psicologo in polizia

Importanti collaborazioni tra gli psicologi della Polizia e il personale che svolge

attività operative sono state avviate a Roma e a Foggia. Proprio dalla città pugliese ar-rivano alcuni dati interessanti relativi alle situazioni di di-sagio del personale in divisa: il 34.2% di coloro che hanno chiesto sostegno psicologico ha manifestato problematiche coniugali (50 casi trattati); il 26% situazioni di difficol-tà relative ai figli (38 casi); il 24.6% problematiche lavo-rative o legate alla gerarchia (36 casi); il 6.1% situazioni connesse ad eventi luttuosi

(9 casi, per i quali, quando la morte riguardava il coniuge, sono stati aiutati anche i figli dei poliziotti); il 5.4% proble-matiche relative a preoccu-pazioni riguardanti malattie personali di rilievo (8 casi); infine, il 3.4% situazioni lega-te alla lontananza da casa e a disagi dei figli minori (5 casi). In questi casi il lavoro dello psicologo ha permesso di non lasciare solo il poliziotto du-rante tutto il delicato iter sa-nitario che ne consegue e che – pur finalizzato al “ripristino” dello stato di benessere psico-emotivo – comporta necessari processi di “ospedalizzazione”

e “medicalizzazione” che pos-sono portare al temporaneo ri-tiro del tesserino e della pisto-la di servizio. Da notare che l’esperienza di Foggia – e non solo – ci consegna un quadro in cui circa il 50% dei casi di disagio psicologico scaturisce da problematiche coniugali. Per questo, laddove è stato possibile, considerando l’esi-guo numero di psicologi e la mole di lavoro affrontata per il personale in divisa, si è cerca-to e si cerca tutt’oggi di offrire sostegno non solo ai poliziotti, ma, quando necessario, anche al loro nucleo familiare.

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Formazione, preparazione,

consapevolezza: questi tre sostantivi

devono essere e diventare il nuovo

paradigma delle Forze di Polizia

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Massimo Montebove, giornalista pubblici-sta, cultore di psicologia, è dirigente nazio-nale del Sap, Sindacato autonomo di polizia.

poliziotto, del carabiniere o dell’agen-

te della municipale condizionata solo

dagli aspetti tecnico-giuridico-operati-

vi, che interessano ancora oggi in larga

parte anche la formazione e l’aggiorna-

mento. Occorre investire e porre l’at-

tenzione, invece, sull’identità profes-

sionale e sulle competenze trasversali,

per spostare l’asse, come ha sostenuto

Graziano Lori (presidente del “Cerchio

Blu”, un’associazione che si dedica al

supporto psicologico e alla formazione

degli operatori di polizia, dell’emergen-

za e del soccorso), dalle abilità giuridi-

che a quelle comunicative e preventive.

D’altra parte, una maggiore prepara-

zione inter e multidisciplinare, soprat-

tutto una formazione continua, sono il

presupposto basilare per una maggiore

consapevolezza di sé che potrebbe por-

tare, in determinati contesti e situazioni,

a mettere in discussione anche un even-

tuale ordine illegittimo. Da questo punto

di vista, è fondamentale una sentenza

della Corte Costituzionale del 2008 che,

in ordine alla responsabilità di un auti-

sta della Polizia a cui era stato ordinato

di tenere un’andatura elevata (che di-

venne causa di un incidente), ha sancito

e ribadito un principio importante: esi-

ste un campo di autonomia decisionale

del “sottoposto” che deve privilegiare,

rispetto ad un ordine palesemente ille-

gittimo, i principi generali dell’ordina-

mento giuridico, proprio in funzione del-

le possibili conseguenze dannose che ne

potrebbero derivare e che il soggetto può

e deve rappresentarsi.

Un nUOvO mODeLLO?

non dimentichiamo, infine, quello

che molti paventano come un ri-

schio opposto rispetto alle espe-

rienze certamente non positive del G8 di

Genova. Basti pensare agli scontri in val

di Susa del 2011 dove 200 poliziotti e

carabinieri rimasero feriti o alle recenti

devastazioni milanesi avvenute il primo

maggio di quest’anno all’inaugurazione

di expo. In questi casi la catena di “co-

mando” è stata in qualche modo impo-

stata su una sorta di “laissez-faire”, su

una gestione della piazza che prevede

una risposta minima delle Forze dell’Or-

dine, sulla necessità di evitare il più

possibile il contatto fisico, sulla facoltà

di lasciare sostanzialmente “sfogare” i

manifestanti più facinorosi, limitandosi

a contenere le azioni maggiormente vio-

lente. Può essere una strada, anche se

tortuosa e piena di rischi. Personalmen-

te sono convinto che servano soprattut-

to regole condivise per tutti, sia per chi

porta una divisa, sia per chi manifesta.

Regole semplici e chiare. Regole che, se

trasgredite, portino a conseguenze. Per

ciascuno dei soggetti in campo.

Rimango convinto che soltanto la cre-

scita professionale e psicologica possa

cambiare davvero le cose tra le donne

e gli uomini in divisa. Formazione, pre-

parazione, consapevolezza: questi tre

sostantivi devono essere e diventare

il nuovo paradigma delle Forze di Po-

lizia italiane che oggi operano già con

maggiore professionalità e competenza,

avendo certamente appreso da alcuni

errori del passato. ma la strada intra-

presa non può fermarsi qui.

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Passare all’atto senza sapere il perché

Prima di riabbracciare suo padre, fini-

to in carcere anni prima per rapina a

mano armata, Luigi era vissuto alterna-

tivamente con una madre tossicodipendente

e con i nonni depressi. All’età di dieci anni,

dopo aver saputo per caso della clamorosa ra-

pina compiuta da suo padre in una nota gio-

ielleria del centro (per lui un mito come altri

delinquenti famosi la cui storia viene raccon-

tata nei telefilm), era andato alla ricerca di

tutti gli articoli di giornale che avevano parla-

to di quell’evento e aveva atteso l’uscita dal

carcere del padre come una rinascita, come

l’inizio di una filiazione.

Una volta tornato in libertà il padre aveva

preso con sé Luigi, che ora, a quattordici an-

ni, era un ragazzone alto e robusto ma ancora

molto ingenuo e dipendente. Insieme avreb-

bero incominciato una nuova vita. Questo era

stato il messaggio di speranza che il padre

aveva inviato al figlio. Dopo qualche tempo

però, insofferente del ruolo paterno e delle

responsabilità e restrizioni che esso compor-

tava, il padre aveva cominciato a mostrare

irritazione nei confronti di tutto ciò che Luigi

faceva o diceva. Oltre a insultarlo e umiliar-

lo era arrivato anche a picchiarlo, finché un

giorno, in preda all’ira, lo aveva cacciato di

casa a calci.

Ospite in una casa famiglia a seguito

di questo drammatico evento, Luigi si

comportava a volte come un bimbo do-

cile e bisognoso d’affetto, a volte in maniera

scostante e violenta. E quando il padre ave-

va confermato il suo rifiuto di riprenderlo di

nuovo con sé, Luigi, invece di rientrare nella

casa famiglia, aveva assaltato una piccola

gioielleria del quartiere periferico in cui vive-

va, aveva minacciato all’arma bianca l’anzia-

no proprietario ed era scappato con alcuni

orologi e gioielli che era riuscito ad arraffare.

Dopo avere vagato per ore, confuso e senza

meta, all’una di notte si era presentato alla

casa famiglia, aveva svegliato il direttore e gli

aveva consegnato il bottino nella speranza di

essere riaccolto.

In seguito, nei colloqui con lo psicologo,

Luigi scoprì che era stato spinto a quell’at-

to dalla convinzione che suo padre non lo

volesse con sé e lo disprezzasse perché non

era diventato un vero delinquente come lui.

Quel bottino che aveva arraffato nella gio-

ielleria avrebbe dovuto essere la prova, da

offrire al padre, che anche lui era un delin-

quente, impavido e capace, di cui la gente

parla e che segretamente ammira. Spostan-

do questo “fantasma” dalla relazione con il

padre a quella che Luigi aveva con il direttore

della casa famiglia (da lui percepito come un

genitore), era poi stato spinto a provargli il

contrario, ossia che non era diventato un vero

delinquente e poteva quindi essere riaccolto

in casa.

Invece di pensare e parlare, Luigi agisce,

ossia passa all’atto, in quanto non è in gra-

do di decriptare le proprie emozioni e tanto

meno di gestirle e di comunicarle in maniera

accettabile e condivisa. In realtà non pen-

sa proprio di poterne parlare con qualcuno.

Questo succede quando un bambino non si

sente amato e quindi riconosciuto e valo-

rizzato. L’azione diventa allora un modo per

imporre la propria presenza, ma anche per

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AnnA OLIvErIO fErrArISOrdinariO di PsicOlOgia dellO sviluPPO “saPienza” – università di rOma

(o “terapeutico”), si vergogna del suo insuc-

cesso e invidia coloro che, al contrario di lui,

sono amati e accettati dai genitori; ma rischia

anche di cadere nella compulsione della ripe-

tizione e, prima o poi, di finire in galera.

Come un bambino all’alba della vita, Luigi

ha dunque bisogno di qualcuno che creda in

lui, che lo sostenga e lo aiuti, in un percor-

so di crescita, a trovare modalità riparatrici

nuove, diverse e più efficaci di quanto non

sia stata l’emulazione del genitore rapinato-

re, tali cioè da consentirgli di inserirsi in un

mondo e in una mentalità diverse da quelle

di suo padre.

Quel qualcuno Luigi lo ha già indicato, sen-

za saperlo, nel momento in cui ha restituito il

bottino della gioielleria al direttore della casa

famiglia.

inviare un messaggio d’aiuto sia

pure confuso e paradossale. Il

paradosso in questo caso sta nel

fatto che, avendo ammirato suo

padre che si era imposto media-

ticamente per la sua carriera di

delinquente, Luigi, per ottenerne

l’attenzione, la stima ed essere

accettato da lui, aveva cercato di

piacergli emulandolo.

Queste dinamiche emotive ci

mostrano come al di là di una

condotta manifesta, facilmen-

te inquadrabile in una griglia di

lettura puramente sociale, sia

presente in realtà un mondo sot-

terraneo complesso e turbolento

in cui si agitano affetti, bisogno

di riconoscimento, un fisiologico

narcisismo adolescenziale e an-

che una forte spinta ad affermare

la propria individualità di fronte

agli adulti per ottenere la loro sti-

ma, nei modi che il ragazzo co-

nosce, nel caso specifico quelli

della malavita.

Dopo questo passaggio all’atto – dopo

questo fallimento dettato dal bisogno di

farsi accettare da suo padre e ristabilire

con lui un legame – Luigi può ancora crede-

re che qualcosa di benefico possa nascere da

lui e dalle sue iniziative? Secondo una felice

intuizione dello psicoanalista Harold Searles i

bambini sono degli “psicoterapeuti precoci”,

nel senso che cercano di riuscire a ottenere

ciò di cui hanno bisogno per crescere, di farsi

amare e di trovare i mezzi per alleviare le sof-

ferenze proprie e altrui. Tra le forze innate più

potenti che spingono l’uomo verso i propri

simili – ha spiegato Searles nel suo volume

Il controtransfert (2000) – c’è, dai primi anni

di vita, la tendenza psicoterapeutica; ma se

questa tendenza resta insoddisfatta, se non è

riconosciuta e viene troppe volte frustrata, es-

sa produce patologia e disadattamento.

Dopo un passaggio all’atto di quel tipo, do-

po aver tentato di stringere un legame con suo

padre comportandosi come lui, Luigi non solo

dubita fortemente del suo potere riparatore

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P S I C O L O G I A D E L L A S A L U T E

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Una vita più semplice

Di cosa abbiamo davvero bisogno?

eva tenzer

La domanda se una riduzione

dei consumi e del possesso di beni

possa aumentare il benessere

personale e dare più senso alla vita

comincia a interessare terapeuti,

ricercatori e psicologi del lavoro

Il gioco ideato dal blogger americano

Dave Bruno, The 100 thing challen-

ge, consiste nel ridurre a un totale di

100 oggetti l’insieme dei propri ave­

ri. Per Bruno, fra le cose irrinunciabili

restano la chitarra e la tavola da surf.

Questa forma di ascesi volontaria tro­

va molti seguaci, che nei loro blog pro­

pongono ognuno la propria lista ridotta

all’osso. Il minimalismo è un culto e i

suoi seguaci l’hanno battezzato LOVOS:

Lifestyle Of VOluntary Simplicity. Qua­

le che sia l’etichetta – minimalisti,

downsizer, semplificatori, lifehacker,

organizzatori – l’idea è sempre quella

di limitarsi volontariamente, in mezzo

a una sovrabbondanza crescente, allo

strettamente necessario, per praticare

uno stile di vita più semplice. Un mae­

stro riconosciuto di questa disciplina,

molto prima che inventassero i blog, è

stato il Mahatma Gandhi, che oltre alla

veste possedeva solo cinque cose: gli

occhiali, un orologio da tasca, i sanda­

li, una ciotola e un piatto. Né accettare

né possedere ciò che non serve davvero

per vivere, era il suo motto.

Ma quante sono esattamente queste

cose, cento, cinquanta, o ne bastano

cinque? E se uno si sente bene in mez­

zo a una sontuosa raccolta di migliaia

di oggetti, e solo il pensiero di rinun­

ciarvi lo mette in crisi? E soprattutto,

come si capisce quando basta e quando

invece gli oggetti, i desideri, gli status

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Impossibile aumentare

la felicitˆ oltre un certo limite

Il cosiddetto “paradosso di Easterlin”, che prende il nome da una ricerca dello

studioso americano Richard Easterlin, dice che l’aumen­to di reddito produce aumen­to del benessere solo entro un certo limite: una volta soddi­sfatti i bisogni fondamentali, la curva del benessere si stabiliz­za e poi, malgrado l’aumento ulteriore della ricchezza, ha addirittura un lieve calo. Così sappiamo, per esempio, che in Giappone negli ultimi 60 anni il reddito medio si è quadrupli­cato, ma il vissuto soggettivo di soddisfazione personale è rima­sto invariato. Anche uno studio recente del GESIS, il Leibnitz Institute of Social Sciences, mette in evidenza i chiari limiti della ricchezza come fattore di felicità: la soddisfazione lega­ta ai consumi non aumenta in maniera lineare, ma si riduce tendenzialmente con il cresce­re del potenziale di spesa.

Una spiegazione di questo paradosso la danno i ricercatori guidati da Eugenio Proto all’U­niversità di Warwick, nel Regno Unito. Secondo lo studio pub­blicato nel 2013, la causa di questo ristagno è nelle aspet­tative create dall’aumento del reddito: «Con un reddito più alto crescono le aspettative di un benessere ancora mag­giore. E una discrepanza fra quelle aspettative e l’effettiva capacità di spesa è percepi­ta negativamente. Ciò riduce la soddisfazione per la propria

situazione di vita e impedisce l’ulteriore crescita del livello soggettivo di benessere», spie­ga Proto.

È impossibile aumentare a piacere soddisfazione e felicità mediante un aumento di ricchezza e consumi sempre maggiori. A partire dal punto in cui si ha tutto quanto serve per vivere, l’aspettativa si ribalta in fastidio e frustrazione. Proto descrive questo meccanismo come «una rincorsa fra aspet­tative crescenti e loro realizza­zione», per cui si perdono gli effetti psicologici positivi di una maggiore affluenza. Un in­teressante risultato collaterale dello studio del GESIS, inoltre,è che una riduzione dei consu­mi, non causata dalla neces­sità ma basata sulla rinuncia volontaria, non influisce nega­tivamente sulla soddisfazione nella vita.

Gli psicologi Elizabeth Dunn e Jordi Quoidbach si sono oc­cupati degli effetti di una di­sponibilità illimitata di generi voluttuari. Hanno sottoposto per una settimana due gruppi di studenti a regimi alimen­tari opposti: gli uni potevano consumare cioccolata ad libi­tum, gli altri erano obbligati a un’astinenza totale. Al termine della settimana, quando hanno ricevuto un pezzo di cioccolata, i soggetti sottoposti al regime di astinenza l’hanno gustata con molta più gioia, mentre gli altri non erano più capaci di apprezzarla: è l’effetto di “as­

suefazione edonistica” ad atte­nuare il piacere. Una rinuncia almeno temporanea è quindi proprio la strada per aumentare la capacità di godimento.

Neppure una grande dispo­nibilità di tempo libero serve a farci davvero felici, ci dico­no le ricerche. Gli psicologi Chris Manolis e James Roberts hanno esaminato di recente un campione di 1 300 giovani adulti, per accertare in che mi­sura un atteggiamento mate­rialistico e consumistico molto spiccato, unito a una gran­de quantità di tempo libero, contribuisca alla soddisfazio­ne e al benessere generale. È risultato che ciò tende semmai a peggiorare le cose. Interes­sante in particolare è che, per quanto riguarda il tempo libe­ro, non solo averne poco ma anche averne troppo danneggia la qualità della vita: ottimale, a parere dei ricercatori, è una misura intermedia di tempo li­bero da impegni di lavoro.

Mathias Binswanger, profes­sore di economia alla Scuo­la Superiore della Svizzera nordoccidentale, ha condotto ricerche in tema di benesse­re e sostenibilità, da cui viene fuori chiara la correlazione fra sovrabbondanza e disgusto: «L’uomo contemporaneo eco­nomizza tempo, e questo tem­po risparmiato lo spreca nel percorrere distanze sempre più lunghe, o per orientarsi a fatica in un assortimento eccessivo di prodotti di consumo. Imprigio­nato com’è negli ingranaggi del sistema economico, che lo in­duce a sopravvalutare sistema­ticamente il piacere del con­sumo materiale, non si rende

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conto del fatto che il benessere

soggettivo è strettamente lega­

to a un comportamento misu­

rato e sostenibile». Un numero

sempre crescente di prodotti

non potrà certo dar luogo a una

soddisfazione crescente, per­

ché da tempo l’enorme scelta

del mercato si è tradotta in

una forma di tirannia. Non da

ultimo, a causa dell’effetto di

assuefazione è impossibile un

aumento di piacere.

Anche per queste ragioni,

ma soprattutto in vista dell’in­

quinamento ambientale e

dell’esaurimento delle risor­

se, negli ultimi tempi il tema

della sostenibilità è in primo

piano nella discussione fra gli

economisti: com’è pensabile

un’economia senza l’obbligo di

una crescita continua, e com’è

possibile, nelle condizioni

attuali, conseguire la sosteni­

bilità come obiettivo generale

delle società moderne? Sono

domande difficili, ammette

Binswanger: «Finché l’econo­

mia è organizzata solo in fun­

zione della crescita, e senza

crescita va in crisi, la giostra si

potrà rallentare, ma scendere

sarà impossibile».

symbol diventano troppi? E come fare,

in questa situazione, non solo a frena­

re, ma a inserire la retromarcia e ridur­

re la sovrabbondanza? Per il benessere

mentale il tentativo è vantaggioso. Alcu­

ne ricerche dimostrano infatti che per

la nostra psiche il crescente benessere

materiale e la scelta sempre più ampia

di prodotti di consumo sono contropro­

ducenti: anziché arricchirla rischiano di

sovraccaricarla (si veda il Box).

Marcel Hunecke insegna psico­

logia generale e dell’ambiente

all’Università di scienze e arti

applicate di Dortmund e nelle sue ricer­

che si occupa soprattutto di sostenibi­

lità: «Lo stress da consumo si aggiunge

alle altre cause di stress», osserva, «nel

lavoro, in famiglia e nel tempo libero.

Siamo costretti di continuo a prendere

decisioni, padroneggiare sviluppi nuo­

vi, affrontare il confronto sociale: chi ha

più successo, chi possiede di più, chi è

più attraente? Questo continuo insegui­

mento di valutazioni e di ranghi socia­

li somiglia alla giostra di un topino in

gabbia. E il numero di coloro che non lo

reggono più è in grande crescita».

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Sta crescendo negli ultimi anni la

richiesta di vere e proprie figure

professionali che assistano nell’impresa

di sgombero e riordino, i life-coach

tono il bisogno di ridurne il numero e

di ricostituire un ordine sensato». La

sua clientela è variegata, per età, li­

vello d’istruzione e condizioni sociali.

Dopo anni di consumo intensivo, molti

sono sopraffatti dalla quantità degli og­

getti acquistati: «Non sono veri e propri

messie, ma hanno capitolato di fronte

all’impresa di mettere in ordine le loro

cose. Alcuni hanno perso totalmente il

controllo e non hanno la minima idea di

dove andare a cercare questa o quella

cosa, ma non se ne separano per paura

di doversene pentire in seguito».

Che questo eccesso di oggetti sia cau­

sa di stress è evidente, osserva Ehlers,

in particolare per il ripetersi quotidiano

di piccoli fastidi, rabbie, incidenti: «In

mezzo a quel caos non si riesce a tro­

vare documenti importanti, si perdono

di continuo le chiavi, si deve rinunciare

a intere stanze perché sono totalmen­

te ingombre». Una volta terminato lo

sgombero, per lo più i soggetti provano

un grande sollievo: «Il processo di rior­

dino educa alla consapevolezza di ciò

che è davvero utile. Motiva a guardare

con maggiore chiarezza la vita quotidia­

na, e la maggior parte delle persone si

rallegra alla prospettiva di accumulare

d’ora in poi meno cose e di potersi go­

dere l’armonia riconquistata».

Il passo verso una riduzione consape­

vole di proprietà, pretese, aspettative e

status symbol, per una migliore qualità

della vita, presenta anche altri aspet­

ti. Un incoraggiamento in questo sen­

so lo troviamo nelle persone che hanno

già avviato l’esperimento con successo.

Nel mercato editoriale dell’ultimo an­

no troviamo ai primi posti in classifica

autori che hanno dichiarato guerra alla

sovrabbondanza quotidiana: Judith Le­

vine, che per un anno intero ha rinun­

ciato a ogni consumo, John Lane, che

da anni conduce una vita semplicissi­

ma in campagna, lo stesso Dave Bruno,

il blogger di The 100 thing challenge,

mettono a parte il pubblico dei loro per­

sonali esperimenti.

Sempre più diffuso, specie negli stra­

ti intermedi della società, è il desiderio

di sfuggire a questa ruota malsana. Ciò

avviene spesso drammaticamente, sot­

to forma di una sindrome da stress, di

burnout o di esaurimento totale. Cresce

però il numero di coloro che tracciano

una linea netta, prima di arrivare alla

crisi: «Sono soprattutto le persone più

portate a riflettere quelle che si accor­

gono per tempo di dover scendere dal­

la giostra consumistica all’insegna del

“sempre di più”, e rinunciano volonta­

riamente, con la sensazione piacevole

di potere infine, almeno in questo cam­

po, decidere liberamente», dice Hunec­

ke. Sgombrano la vita quotidiana di tut­

to il superfluo e riducono drasticamente

i consumi.

Non sono pochi tuttavia quelli che

hanno bisogno di un sostegno specifi­

co. Sta crescendo negli ultimi anni la

richiesta di vere e proprie figure pro­

fessionali che assistano nell’impresa

di sgombero e riordino, i life-coach,

specialisti che aiutano a riorganizzare

e semplificare la vita quotidiana. Una

di loro è, per esempio, Anja Ehlers, psi­

cologa che da anni lavora con le perso­

ne che non riescono a rimettere ordine

nel loro contesto quotidiano. A questa

scelta professionale è arrivata dopo es­

sersi occupata dei cosiddetti “messie”

(da “mess”, “disordine”), pazienti che

soffrono di una sindrome di accumulo

di oggetti, una forma particolare di di­

sturbo ossessivo­compulsivo. Ma non

solo, in questi casi patologici è richie­

sto un sostegno pratico e psicologico

per lo sgombero: «Sono sempre di più

le persone che hanno perso il controllo

della massa di cose che hanno raccol­

to in casa», osserva Ehlers, «ma sen­

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L’attore e scrittore austriaco Ro­

land Düringer si è proposto l’o­

biettivo di fare a meno di tutto

ciò che non aveva durante la sua infan­

zia, negli anni Settanta: in altre parole,

vivere senza cellulare, carta di credito,

televisione, supermercati, computer.

In questo modo reagisce alla sensazio­

ne di totale sovraffaticamento da con­

sumismo, cui era stato esposto finora,

con la rincorsa ad auto sempre più co­

stose e potenti e altri prodotti di pre­

stigio: «Volere sempre di più mi faceva

star male». L’accelerazione folle della

vita quotidiana, il “sempre di più”, lo

viveva come uno «sviluppo sganciato

dal senso». Mette in guardia Düringer:

«La quantità abolisce il valore. Ci sono

innumerevoli cose belle che ci perdia­

mo, perché l’eccesso di consumi inge­

nera la noia».

Questa nuova vita viene sentita non

come una rinuncia, ma come un arric­

chimento. Non solo grazie alla liberazio­

ne da status symbol come la macchina

o il cellulare, ma addirittura limitando

drasticamente il consumo di normali

prodotti voluttuari, come il caffè: «In

questo modo il consumo diventa qual­

cosa di speciale, un’esperienza partico­

lare del gusto», racconta. Ai possibili

imitatori Düringer raccomanda peral­

tro di riflettere attentamente su quello

cui intendono rinunciare, come e per­

ché, possibilmente senza accettare idee

precostituite: «Non si tratta di lasciarsi

dettare regole da altri, ma di decidere

ognuno per proprio conto come si usano

o non si usano certe cose». Solo così è

possibile scoprire cosa davvero è impor­

tante per noi.

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Una serena riduzione dei bisogni passa

attraverso tre strategie, utili al benessere

psichico: un sano edonismo, la ricerca

di significato e uno scopo personale

Una strada simile per una riduzio­

ne radicale è quella proposta dal

giornalista Leo Babauta: «Il no­

stro corpo e la nostra psiche sono fatti

per una vita più lenta. Viviamo senza

limiti e non possiamo reggere la ten­

sione causata dal fatto di voler avere e

fare tutto. Questo ci logora sotto molti

aspetti». Babauta consiglia di porsi da

sé dei limiti in ogni azione, di concen­

trarsi sull’essenziale, di usare consa­

pevolmente e con parsimonia le risor­

se sia mentali che materiali. Bisogna

inoltre avere ben chiaro dove sono in

agguato distrazione, stress e sprechi:

una sola attività alla volta invece del

multitasking, concentrarsi sul presente

anziché sul passato o sul futuro, svuo­

tare la casella postale delle e­mail al

massimo due volte al giorno, mangiare

con attenzione, guidare più lentamen­

te, sono alcuni dei suoi consigli pratici.

Nel suo blog “Zen Habits”, diventato

nel frattempo uno dei più letti al mon­

do, presenta una serie di checklist utili

per rallentare il ritmo, sgombrare il su­

perfluo e semplificarsi la vita.

Quanto facili e anche divertenti pos­

sono sembrare questi esperimenti, al­

trettanto difficile è spesso mettere in

pratica nella vita quotidiana le strategie

di riduzione. Un ostacolo, per esempio,

è nel fatto che attribuiamo alle nostre

proprietà un grande valore, spesso su­

periore a quello reale. L’americano Da­

niel Kahneman, premio Nobel per l’eco­

nomia, ha documentato questo “effetto

di possesso”, che ci fa tendere a so­

pravvalutare nettamente una cosa, se

questa ci appartiene. Ciò, accanto ad

altri fattori, rende più difficile separarsi

dalle cose già acquisite.

E tuttavia, ai fini di una durevole pre­

venzione dello stress, vale la pena di

tentare: «Si può stimolare l’individuo a

una maggiore indipendenza. Sappiamo

quali sono le risorse psichiche neces­

sarie e ciascuno può svilupparle per vi­

vere meglio, sia da solo che con l’aiu­

to di un’esperienza di gruppo o di un

trattamento individuale», afferma Mar­

cel Hunecke. La via per una serena ri­

duzione dei bisogni passa a suo avviso

per tre strategie collaudate, tutte utili al

benessere psichico: un sano edonismo,

la ricerca di significato, l’impegno per

uno scopo personale. Esse danno forza

e attivano risorse importanti contro le

lusinghe del consumismo.

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Riuscire ad accettare le cose per

quello che sono, saper cogliere le

buone piccole cose di ogni giorno,

accontentarsi di meno

Riferimenti bibliografici

BaBauta L. (2009), The power of less. The fine art of limiting yourself to the es-sential in Business and in life, Hyperion, New York.

Binswanger M. (2006), Die Tretmühlen des Glücks. Wir haben immer mehr und werden nicht glücklicher. Was können wir tun?, Herder, Freiburg.

Bruno D. (2011), The 100 thing challenge. How I got rid of almost everything, remade my life and regained my soul, Harper, Col-lins, New York.

Düringer r., arvay C. G. (2013), Leb wohl, Schlaraffeland. Die Kunst des We-glassens, Edition a.

Hunecke M. (2013), Psychologie der Nach-haltigkeit. Psychosche Ressourcen für Postwachstumgesellschaften, Oekom, München.

Jay F. (2010), The joy of less. A minimalist living guide, Anja Press, www.anjapress.com.

Lane J. (2012), Das einfache Leben. Vom Glück des Wenigen, Aurum, Herbst.

Edonismo. Invece di voler acquistare

e possedere sempre di più, quello che

conta è ricavare dalle cose e dalle espe­

rienze un autentico godimento dei sen­

si. Possono servire allo scopo esperienze

di educazione del gusto (per esempio,

i seminari Slow Food), che affinano la

sensibilità: «Questi training fanno sì che

l’intensità dell’esperienza possa mettere

in ombra la pura e semplice quantità dei

consumi». Anche Tim Jackson, che in­

segna sviluppo sostenibile all’Universi­

tà del Surrey e da anni studia modelli

di vita non consumistici, invita a questo

tipo di edonismo alternativo, che mette

in primo piano aspetti come significa­

to condiviso, relazioni interpersonali e

qualità della vita, riducendo i consumi e

i tempi di lavoro. Le sue ricerche dimo­

strano che, avendo possibilità di spen­

dere senza problemi, è meglio concen­

trarsi su cose immateriali, come teatro,

concerti, hobby e buon cibo, cioè su tut­

to ciò che offre godimento e bei ricordi:

un tipo di consumo capace di dare sod­

disfazioni durevoli.

Scopi. Hunecke fa notare che «le per­

sone cambiano il loro comportamento

quotidiano solo se possono ricavarne

qualcosa». In questo senso è d’aiuto

proporsi degli scopi, il cui consegui­

mento susciti emozioni positive, co­

me la fierezza di essere riusciti a cor­

rere una maratona o la soddisfazione

di mangiare i prodotti del proprio or­

to: «Secondo la ricerca, realizzare tali

progetti contribuisce al benessere psi­

cologico. Il senso di autoefficacia e la

maggiore autostima danno la forza di

sottrarsi al consumo fine a se stesso».

Significato. Gli scopi orientati verso

una comunità solidale aprono orizzon­

ti nuovi. Comunque sia, in un gruppo,

sul piano spirituale o nella ricerca di

un significato del tutto individuale, la

concentrazione su un’esperienza signi­

ficante protegge da quella perdita di

senso che affligge la società dei consu­

mi. Ultimamente la stessa industria si

sforza di vendere significati, attraverso

la pubblicità e l’immagine dei prodotti.

Ma qui un’importante funzione di cer­

niera spetta all’attenzione: riuscire ad

accettare le cose per quello che sono,

saper cogliere le buone piccole cose di

ogni giorno, accontentarsi di meno, tut­

to serve. Imparare a lasciar perdere, ri­

portare il consumo a una misura saluta­

re, ricominciare a fare le cose da soli e

proporsi obiettivi in proprio, sono aspet­

ti decisivi, sotto il profilo psicologico,

per un vissuto di autoefficacia. Tutto ciò

aumenta la capacità di resistenza alle

seduzioni consumistiche.

In questa ampia rete di risorse psi­

chiche ciascuno può cercare il punto

d’accesso più adatto a lui, partendo da

lì per un lavoro sistematico di revisione

anche negli altri ambiti, così da sfuggi­

re alla routine e alla giostra senza fine

dei consumi.

TiTolo originale: «einfacher

leben: was brauchen wir wirklich?»,

Psychologie heute, dicembre 2014,

20-25. Traduzione di gabriele noferi.

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Il caso H. M.

Forse nessun campo della psicobiologia, come quello della memoria, ha portato in breve tempo a conoscenze così approfon-

dite. Eppure, la storia della memoria passa attraverso alcuni casi clinici che hanno con-sentito di comprendere i rapporti tra struttu-ra e funzione e, aspetto non meno importan-te, l’impatto che i ricordi hanno sulla nostra identità personale.

Il primo caso clinico è quello descritto nel 1973 da Alexander R. Lurija in Un mondo

perduto e ritrovato. È il caso, quasi lettera-rio nella sua coinvolgente narrazione, di una devastante, pressoché totale, perdita della memoria, il «racconto di un solo attimo che distrusse una vita intera. È il racconto di come una pallottola, perforato il cranio di un uomo, penetrò nel suo cervello e spezzò il suo mondo in migliaia di frammenti che egli non riuscì più a riunire. Questo è il libro di un uomo che ha dedicato tutte le sue forze per recuperare il suo passato e conquistare il suo futuro».

Lurija scelse volutamente di raccontare il “caso clinico numero 3712”, il caso appunto del tenente Zasetskij, come se esso fosse un romanzo, la ricca cronaca di una vita indivi-duale, la cronistoria di una «lotta cui non ha arriso la vittoria e della vittoria che non ha impedito la lotta». Colpito da una gravissima amnesia, non soltanto Zasetskij non ricordava nulla del proprio passato, cioè aveva perduto la memoria episodica, ma non poteva né leg-gere né ricordare ciò che aveva scritto: le pa-role scritte erano per lui prive di significato, così come gran parte delle informazioni che gli venivano fornite, con pazienza, dall’infer-

miera. Egli poteva soltanto mettere insieme dei pensieri, così come avvenivano, a caso, veri brandelli della sua memoria che affiora-vano disordinatamente dagli abissi del suo cervello scompaginato. Eppure, nella tragedia che lo colpì, il tenente Zasetskij riuscì a com-prendere che, anche se la sua vita non sareb-be mai stata normale, essa avrebbe potuto avere un significato se egli si fosse sforzato di ricordare, di concatenare ciò che affiorava dalle profondità della sua mente. Così, per ol-tre venti anni, egli scrisse ogni giorno frasi o pagine disorganizzate, nel disperato tentativo di riorganizzare la sua memoria, di dare con-tinuità al suo passato, di comprendere attra-verso quali tappe si fosse svolta la sua vita.

Quando Lurija descrisse il caso di Zasetskij, le tecniche di brain imaging non esistevano, ma sulla base dei dati clinici e radiografici, è possibile attribuire i deficit della memoria e della lettura a danni a carico della corteccia temporale, parietale e delle aree associative parieto-occipitali-temporali.

Diverso è invece il caso ancor più noto di H. M. (Henry Gustave Molaison), forse l’acronimo più pervasivo di tutta

la letteratura neuroscientifica. H. M. sin da piccolo cominciò a soffrire di gravi crisi epi-lettiche resistenti ai farmaci: quando ebbe 26 anni, nel 1952, il neurochirurgo William B. Scoville decise che l’unico modo per alle-viare la condizione del giovane era un’opera-zione al cervello volta a rimuovere il focolaio epilettico, vale a dire la parte di corteccia da cui prendeva inizio l’attività convulsiva. L’in-tervento neurochirurgico, documentato dagli

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schemi operatori tracciati dallo stesso Sco-

ville, portò a una remissione delle gravissime

crisi epilettiche, ma ben presto il giovane ma-

nifestò una severa amnesia anterograda, vale

a dire l’incapacità di ricordare gli eventi della

sua vita successivi all’operazione, al punto da

non riconoscere le persone che lo circonda-

vano, medici compresi. Venne chiamata una

grande esperta delle funzioni del lobo tempo-

rale, Brenda Milner, che si trattenne per tre

giorni insieme ad H. M. e si rese conto che il

giovane era, per esempio, in grado di impara-

re a eseguire nuovi compiti (come il disegna-

re una stella agendo attraverso uno spec-

chio), ma non conservava traccia mnemonica

di quanto si era verificato in quei tre giorni,

compresi i test cui era stato sottoposto. Mil-

ner arrivò alla conclusione che nel caso di H.

M., come in tutti i casi di lesioni bilaterali del

lobo temporale mediale, si verificava una per-

dita delle memorie recenti se la lesione inte-

ressava anche parti dell’ippocampo anteriore

e del giro ippocampale. Le ipotesi di Milner

furono confermate quando H. M. fu sottopo-

sto a studi di neuroimaging. Oggi sappiamo

con certezza che è proprio questa struttura,

insieme alla corteccia temporale inferiore,

che consente le trasformazioni delle memorie

a breve termine in memorie durature.

Il caso di H. M. è descritto in ogni testo di

neuropsicologia e, a differenza di quello di

Zasetskij, si basa su una massiccia documen-

tazione di tipo neuropsicologico e strumen-

tale: documentazione su cui è basato un bel

libro di Suzanne Corkin, una neuroscienzia-

ta che per quasi mezzo secolo ha avuto una

frequentazione professionale e umana con

Henry Molaison. In Prigioniero del presente

Corkin nota che «il cervello di Henry ha rispo-

sto a più domande sulla memoria di quanto

abbiano fatto gli studi neuroscientifici dei

cento anni precedenti», anche se, a mio pa-

rere, il caso di Zasetskij non è da sottovaluta-

re. Ma la testimonianza della Corkin è impor-

tante anche perché è la testimonianza di una

psicologa che si pone degli interrogativi sulla

propria identità alla luce dell’identità del pa-

ziente. Un complesso e inquietante gioco di

specchi sul ruolo della memoria.

ALBERtO OLIVERIO“SapIenza” – UnIverSItà dI roMa

Corkin S. (2015), Prigioniero del presente, Adelphi, Milano.Lurija A. R. (1973), Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma, 1991.SCoviLLe W. B., MiLner B. (1957), «Loss of recent memory after bilateral

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La famigliaChiesa e psicologia a confronto

Fabrizio mastroFini

Il matrimonio per la Chiesa cattolica è

un sacramento, è indissolubile, e la

rottura di questo ordine fondato sul

Vangelo non è riparabile. Se viene viola­

to l’uno o l’altro dei comandamenti (per

esempio il «non uccidere» oppure «ono­

ra il padre e la madre»), tramite la pe­

nitenza è possibile riaccostarsi ai sacra­

menti. Nel caso del matrimonio no. In

effetti all’interno della posizione mono­

litica di questi ultimi cinquant’anni, a

partire dall’enciclica Humanae Vitae di

Paolo VI (1968), qualche voce difforme

si è fatta sentire. Alcuni – pochi – bibli­

sti e storici della Chiesa notano che nel­

la prassi del Primo millennio e nel mon­

do ortodosso orientale (Cereti, 2014),

si danno dei percorsi penitenziali per

riammettere divorziati e risposati. Per

la Chiesa cattolica, finora, è prevalsa in­

vece una posizione rigorista. In passato

esistevano posizioni ancora più rigori­

ste. Sant’Agostino, per esempio, pensa­

va che le seconde nozze erano lecite nel

caso della morte di un coniuge anche

se la vedovanza casta veniva conside­

rata migliore; Tertulliano, d’altra parte,

proibiva le seconde nozze perché a suo

parere l’indissolubilità superava la fine

della vita.

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La Chiesa si interroga sulla realtà

della famiglia. Forse si arriverà

ad una revisione della legge canonica

che prevede l’esclusione

dalla comunione per i divorziati.

Si tratta di un tema che interessa

tante persone ed entra nelle

dinamiche della vita matrimoniale

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L’impostazione fortemente ideologica della visione familiare non consente di considerare le dinamiche proprie

della relazione fra le persone

LA reLAzIoNALITà

Il percorso immaginato da Papa Fran­cesco attraverso il Sinodo dei Vesco­vi (si veda il Box) dovrebbe portare

ad una normativa più aperta e realisti­ca. Tuttavia la modifica delle posizio­ni dogmatiche si rivelerà opera lenta e complessa. La famiglia è definita come l’istituzione sociale derivante dal matri­monio tra un uomo e una donna, dove la sessualità è esercitata per dare vita a dei figli e sarebbe inscritta nell’«ordine

naturale» voluto da Dio. Gesù interviene contro il ripudio della donna da parte dell’uomo anche nel caso di “porneia” (“concubinato”), previsto dalla legge ebraica come unica eccezione ammes­sa. Un ulteriore inciso del Vangelo di Matteo rende lecito il ripudio nel caso di concubinato, ma forse si riferisce a relazioni tra ebrei e non ebrei.

Grande assente in Vaticano è il tema della “relazionalità” e del problematico costruirsi dei rapporti umani, come ben sa chi si occupa di psicologia relaziona­le e come insegnano le scuole di terapia della famiglia. Nel Sinodo straordina­rio dell’ottobre 2014 troviamo soltan­to due brevi passaggi in questo senso. Nell’intervento introduttivo il cardinale ungherese Peter erdo ha notato che le relazioni «che si stabiliscono in famiglia sono punto di incrocio tra la dimensione privata e quella sociale». Tuttavia «attra­verso i coniugi, il loro concreto aprirsi alla generazione della vita, si fa l’espe­rienza di un mistero che ci trascende.L’amore che unisce i due coniugi e che diventa principio di nuova vita, è l’amo­re di Dio». Nel documento conclusivo si parla di «rilevanza della vita affettiva», evidenziando che «la sfida per la Chiesa è di aiutare le coppie nella maturazione della dimensione emozionale e nello svi­luppo affettivo attraverso la promozione del dialogo, della virtù e della fiducia nell’amore misericordioso di Dio».

UNA VISIoNe PLUrIDIMeNSIoNALe

L’impostazione fortemente “ideo­logica” della visione familiare non consente di considerare le dina­

miche proprie della relazione fra le per­sone. Tra i partecipanti al Sinodo non erano presenti psicoterapeuti impegna­ti nella terapia della famiglia, dunque i problemi specifici delle relazioni inter­personali sono risultati assenti oppure stereotipizzati. Del resto l’enciclica Hu-

il sinodo sulla famiglia

2014-2015

ottobre 2014 è stato il mese del Sinodo dei ve­scovi dedicato alla famiglia. Il Sinodo è lo stru­mento ideato da Papa Paolo VI per aumentare la

“collegialità” gestionale della Chiesa. Si è trattato di un Sinodo “straordinario” al quale hanno partecipato i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo, vescovi e cardinali della Curia, esperti di nomina papa­le; in tutto 230 persone. L’assise è stata preceduta da una consultazione sulla base di un questionario, le cui risposte hanno portato al «Documento di lavoro» alla base dell’assemblea. Un Sinodo “straordinario” in ge­nere serve a una “rapida definizione” dei problemi. In realtà, vista la posta in gioco e la rigidità dottrinale da modificare, Papa Francesco ha ritenuto opportuno un percorso in due tappe. La prossima imminente tappa di ottobre vedrà una nuova riunione del Sinodo dei ve­scovi, questa volta un’assemblea “ordinaria” alla qua­le, oltre agli esperti di nomina papale, parteciperanno vescovi eletti dalle diverse conferenze episcopali. Con i due Sinodi si è voluta garantire la più ampia rappre­sentatività e al termine della seconda assemblea si può immaginare che arriveranno decisioni concrete.

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Promettenti sono gli sviluppi che

considerano le diverse dimensioni

della famiglia, integrando punti

di vista e approcci teorici diversi

manae Vitae al paragrafo 8 recita: «Il

matrimonio […] è stato sapientemente

e provvidenzialmente istituito da Dio

creatore per realizzare nell’umanità il

suo disegno di amore» (Paolo VI, 1968).

La relazione interpersonale analizza­

ta secondo le coordinate della Scuola

di Palo Alto, dei terapisti della famiglia

(anche in prospettiva trigenerazionale)

e integrata da una visione umanistica,

in dialogo con la teoria dell’attaccamen­

to, consente una visione pluridimensio­

nale dei rapporti familiari (Mastrofini,

2014). Promettenti sono, infatti, gli svi­

luppi che considerano le diverse dimen­

sioni della famiglia, integrando punti

di vista e approcci teorici diversi. Per

esempio, si parla sempre più spesso del

“patto” che è all’origine di ogni nuova

famiglia e si tratta di portare alla luce

ciò che davvero ognuno dei due com­

ponenti della coppia desidera dall’al­

tro. Nei fallimenti della relazione emer­

ge la rottura, spesso inconsapevole, del

“patto” operata perlopiù da uno ai dan­

ni dell’altro e che si scopre essere spes­

so nascosto, mai esplicitato e verifica­

to. La dimensione intergenerazionale è

molto importante: ogni nuova famiglia

incrocia a sua volta le rispettive famiglie

di origine, la nuova che viene costituita,

quella ancora diversa che si realizza nel

tempo quando nascono dei figli (Framo,

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Spesso la maturità è solo anagrafica e

andando a vedere meglio ci troviamo di

fronte individui profondamente immaturi

dal punto di vista relazionale

1996). Qui si innestano delle conside­

razioni sul “ciclo di vita” della famiglia,

in verità tema poco considerato (Minu­

chin, 1978). Negli anni i due genitori

cambiano, invecchiano, intercettano le

dinamiche proprie del loro specifico ci­

clo di vita le quali si riflettono sull’insie­

me dei rapporti familiari; lo stesso acca­

de per i figli nel passaggio dall’infanzia

all’adolescenza, alla giovinezza che per

i genitori rappresenta il passaggio ver­

so la maturità e la vecchiaia. Un altro

aspetto di grande interesse riguarda la

separazione dalla famiglia di origine e

la verifica dell’esistenza di una maturità

affettiva ed emotiva (Whitaker e Napier,

1981). Spesso si ha una maturità solo

anagrafica e andando a vedere meglio

ci troviamo di fronte individui profonda­

mente immaturi dal punto di vista psi­

cologico e relazionale, a tal punto di­

pendenti dalla famiglia di origine, che

il nuovo nucleo non riesce a darsi una

consistenza autonoma, intaccando la

tenuta della coppia (Andolfi, 1999). Un

altro aspetto ancora è di natura socia­

le, con il grande impatto delle difficol­

tà economiche e lavorative sulla fami­

glia, e riguarda la caratteristica italiana

di tenersi in casa i figli anche quando

sono oramai in età adulta, prolungando

il ciclo di vita di un nucleo in maniera

anomala e non sana per l’autonomia e

lo sviluppo psichico delle persone che

ne fanno parte.

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MAstrofini f. (2014), Né castello né pri-gione. Come affrontare i problemi della vita in famiglia, Edb, Bologna.

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tertulliAno, Esortazione alla castità, La vita felice, Milano, 1995.

WhitAker C., nAPier A. (1981), Il crogiolo del-la famiglia, Astrolabio, Roma.

Fabrizio Mastrofini, psicologo, giornali-sta, lavora con le famiglie in difficoltà ed è specializzato nell’analisi organizzativa delle strutture complesse.

SI rIChIeDe UN SALTo DI QUALITà

Considerata in questo modo la fa­miglia non è più un’entità astrat­ta, bensì un “sistema” che in­

teragisce con i singoli elementi al suo interno e con gli altri “sistemi” che im­pattano sulla sua esistenza. e un’analisi di questo tipo non può prescindere da una visione psicodinamica che registri le influenze di ogni elemento sugli altri, prendendo in considerazione l’evolversi del legame nei diversi cicli di vita della coppia. Dal canto suo la Chiesa, anche se a parole sostiene di avere a cuore la famiglia, nucleo fondante della società, tuttavia si sofferma soltanto sugli aspet­ti “formali” del legame e tanto meno parla di “coppia”.

Portiamo un esempio che deriva da una consultazione. Nel colloquio, ma­rito e moglie (entrambi cinquantenni e sposati da venti anni) fanno emergere la loro situazione altamente conflittuale e problematica. È il marito in partico­lare a dire espressamente di «non po­terne più». «Non posso andare avanti in una situazione di scontro e conflitto continuo, molto spesso con esiti violen­ti». Una confessione drammatica, resa con una forte connotazione emotiva. Di fronte a tanto la moglie con estrema calma risponde: «Credo nell’indissolu­bilità del matrimonio», chiudendo così ogni ulteriore dialogo. Il confronto tra i coniugi in quel momento riguardava

il loro rapporto; la risposta evidenzia­va un elemento estrinseco e ideologico, coprendo ogni responsabilità individua­le per impedire la presa di coscienza del ruolo che tutti svolgono nella riuscita o nel venir meno del rapporto stesso.

Torniamo alla Chiesa. Stando ai docu­menti in campo – le relazioni preparato­rie, le relazioni e gli interventi durante le tre settimane di Sinodo in Vaticano – la Chiesa sembra distante dal conside­rare la famiglia dal punto di vista delle relazioni. esistono i “corsi prematrimo­niali”, ma nessun aiuto per le difficoltà relazionali successive, lasciate ai con­fessionali nel migliore dei casi. Il vero salto di qualità consisterebbe nell’ab­bandonare gli aspetti teologico­formali – basati su una visione idealizzata della famiglia di Nazareth, di cui peraltro nul­la si conosce – e prendere sul serio la prospettiva sistemica.

Marina Balbo

EMDR E DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONETra Passato, Presente e Futuro

pp. 224 - € 22,00

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p s i c o s c o p i oa c u r a d i g u i d o s a r c h i e l l idipartimento di psicologia , università di bologna

«vuoi sempre aver ragione!»Quanto è difficile lavorare con gli arroganti

«Lavoro in una squadra di 6 ragazze oltre ai due proprietari in un grande negozio di articoli sportivi. Tutti noi dipendenti

siamo alla pari, ma Laura si comporta come se fosse la padrona. Secondo lei nessuno la supera in intelligenza e nel record di vendi-te. Quando sei in turno con lei ti fa sembrare un’incapace per fare bella figura con i pro-prietari e magari ricevere qualche gratifica personale. Quando può cerca di screditarti o anche di sgridarti ad alta voce per qualche piccolo errore. Si sente l’unica brava vendi-trice, la più brillante. Parla sempre di sé, si vanta di continuo dei suoi meriti e non dà spazio alle colleghe. Non ascolta nessuno e spesso risulta sgarbata e poco rispet-tosa degli sforzi degli altri. Mi è difficile parlare con lei anche di questioni di lavoro perché vuole sempre aver ragione. Non ammette mai di sbagliare o che si poteva fare qualcosa diversamen-te. Non si scusa mai e non è capace di riconoscere il merito delle colleghe, né di dire loro un grazie. Per un po’ ho cer-

cato di farla ragionare e di farmela amica, ma ormai il clima di lavoro è diventato indi-sponente, mi costa troppo far finta di niente e sto pensando di andarmene».

È un esempio di vita lavorativa che rende evidente l’arroganza che spesso con-nota le relazioni di lavoro rendendole

sgradevoli. Si tratta di un esagerato senso di superiorità, una tracotanza esplicitata nelle parole spesso sarcastiche o offensive e nelle condotte di tendenziale svalutazione delle colleghe. Tali comportamenti non sono rari anche se risultano più eclatanti e bia-simati quando la persona arrogante riveste posizioni di responsabilità (tanto è vero che l’arroganza è un tratto ormai riconosciuto

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di una cattiva leadership). Qui si manifesta un’“arroganza tra pari grado” che minac-cia la cooperazione sul lavoro e che risulta talvolta giustificata dall’eccessiva compe-tizione stimolata dalle stesse imprese per ottenere una più elevata produttività. L’ar-rogante vuole apparire “invincibile” in ogni situazione, “tutto deve girare intorno a lui”, si sente sempre il migliore e si aspetta un trattamento speciale e privilegi; non si cura di leggere i segnali concreti della situazione particolare di lavoro, di diagnosticarla bene per adattare le proprie risposte e renderle appropriate.

La ricerca psicologica ha fatto emerge-re due tipi di evidenze: a) gli arroganti, nonostante gli sforzi di apparire miglio-

ri, spesso mostrano livelli di intelligenza (so-prattutto emotiva) non elevati e capacità di prestazione non superiori a quelle degli altri. Dunque, l’arroganza anche sui luoghi di la-voro sembra mascherare, in realtà, una bas-sa fiducia in sé stessi, un’insicurezza nelle relazioni interpersonali e prestazioni mo-deste, compensate appunto con l’esagera-zione del proprio modo di presentarsi come più competenti. È considerata una strate-gia auto-difensiva, più o meno consapevo-le, che prevede: la mancanza di rispetto per le idee altrui, la pretesa di essere sempre meglio informati e più capaci, il prendersela con gli altri e incolparli se le cose non van-no, l’essere insensibili ai punti di vista e ai commenti altrui; b) si è visto che quanto più elevata è l’arroganza, anche nelle relazioni lavorative tra colleghi, tanto più si riduco-no la qualità delle prestazioni lavorative e dei risultati del lavoro, i comportamenti di “cittadinanza organizzativa” (cioè l’aiuto tra colleghi o il sostegno ai più giovani o agli apprendisti, ecc.) e quelli in favore dell’or-ganizzazione in generale (per esempio, cala l’attenzione per gli obiettivi organizzativi di fondo o per la preservazione degli strumenti e ambienti di lavoro; prevale l’attenzione ai propri interessi rispetto a quelli collettivi); infine tende a crearsi un clima sociale irri-tante e velenoso.

Riferimenti bibliografici

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Non fare nulla di fronte all’arroganza lavorativa rischia di stabilizzare un cir-colo vizioso dagli effetti organizzativi

preoccupanti: l’iniziale paura della propria inadeguatezza stimola l’adozione di condotte arroganti. Esse richiamano risposte negati-ve da parte dei colleghi (non sempre dispo-sti a sopportare o lasciar perdere) che via via accentuano nell’arrogante la percezione di doversi battere per confermare la propria presunta superiorità, sviluppando ulteriori ri-sposte di prevaricazione.

Per contrastare l’arroganza lavorativa le organizzazioni intelligenti devono operare in modo che le situazioni interpersonali difficili rientrino nel loro normale sistema di gestione delle risorse umane. Esso dovrebbe prevedere espliciti piani di prevenzione con “tolleranza zero” per i comportamenti arroganti, aggres-sivi e di prevaricazione nonché la riduzione di una eccessiva competitività tra i lavoratori. Sul piano pratico non vale la pena assume-re una condotta di opposizione a tutto campo verso il collega arrogante (poiché si rinfocola un’escalation aggressiva). Ciò non significa però “fare da zerbino” che sopporta tutto. Oc-corre chiarire e ben circoscrivere – sin dai pri-mi incontri – le relazioni con la persona arro-gante concentrandosi sugli obiettivi di lavoro comuni e senza concedere di mettere in crisi sé stessi e il proprio valore. Andrebbe inol-tre incoraggiata la capacità delle persone di discriminare le singole situazioni per rendersi conto di quando le condotte arroganti derivino da insicurezza e bassa stima di sé del collega arrogante e, in tal caso, creare l’opportunità di ascoltare e di far intravedere i vantaggi reci-proci dell’essere più tolleranti.

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e 2015

Nonostante la diffusione dei social

network, la solitudine oggi è una

delle condizioni che maggiormente

sembrano affliggere le persone.

Particolarmente significativa è

la solitudine delle persone che

assistono parenti malati

ziani affetti da Alzheimer o da demenza senile (Beeson et al., 2000), con i quali risultano impossibili le forme di comuni-cazione che normalmente si mettono in atto nel rapporto con altri esseri umani. Si tratta, infatti, di anziani perseguitati da allucinazioni che non sempre i me-dicinali riescono a eliminare; che han-no perduto del tutto la propria identità o che conservano un’identità riferita però esclusivamente agli anni della propria infanzia; incapaci di empatia, se non per pochi secondi, in quanto la comprensio-ne della condizione dell’altro viene qua-si immediatamente neutralizzata dall’as-senza di memoria; non più in grado di esercitare il benché minimo supporto nei confronti di chi vive con loro; non in gra-do di chiedere aiuto neppure attraverso i sistemi di telesoccorso dall’uso estre-mamente semplificato.

Le cause della solitudine sono molte-plici. Una di queste, però, non è an-cora sufficientemente indagata, an-

che perché riferita a situazioni che solo da alcuni decenni sono venute accen-tuandosi. È la solitudine delle persone sole (cioè senza una propria famiglia e spesso anche senza parenti stretti) co-strette a vivere quotidianamente con an-

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assistenzaa s s i s t e n z a

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e 2015soli, ma

non da soliAntonellA

reffieunA

assistenziale”. Purtroppo queste soluzio-ni non sempre sono possibili o comunque semplici da attuare. Da qui il senso sog-gettivo di solitudine provato dal caregiver, che risulta essere profondamente distrut-tivo (Cacioppo et al., 2011).

Nel nostro paese le strutture assisten-ziali sono numericamente molto ridotte e per le persone non autosufficienti pre-vedono rette elevate, a cui è impossibile far fronte, tant’è vero che molte famiglie sono costrette a indebitarsi o addirittura a vendere la propria abitazione. Tenere in casa un anziano malato di demenza non è quindi una scelta: è una necessità.

Anche l’assunzione di una badante non è priva di problemi: a parte i costi, che anche in questo caso sono piuttosto elevati, qualora l’anziano non disponga di una propria abitazione il caregiver si trova costretto a condividere totalmen-te la propria vita con una persona scelta non sulla base di bisogni emotivi o rela-zionali personali, ma unicamente sulla base dei bisogni di cura dell’anziano.

I dati disponibili nell’ultimo rappor-to Censis segnalano come nel 33% dei casi la cura della persona anziana oggi ricada su una persona a propria volta anziana, in quanto una persona su tre di circa 60 anni ha un genitore di età compresa tra gli 80 e i 90 anni. Inoltre, aspetto ancora più grave, il 36% degli anziani non autosufficienti vive con un figlio adulto che generalmente è una fi-glia (fattore “di genere” non sufficien-temente indagato finora).

CAregIver BUrDeN

Anche nel Manifesto per i familiari

caregiver (elaborato su iniziativa dell’ASL di Brescia, presentato a

Milano l’8 novembre 2013 e sottoscritto da molti soggetti istituzionali e assisten-ziali) si sottolinea come oggi ci si trovi in presenza di una progressiva difficoltà nell’espletamento delle funzioni di cura, perché è aumentata la gravità clinico-assistenziale delle persone bisognose e perché è cambiata la struttura della fa-miglia: da una pluralità di attori dell’as-sistenza alla sostanziale solitudine della diade curante-curato. Di conseguenza, si afferma nel Manifesto, i vissuti più frequenti del caregiver, «ingravescenti con il protrarsi dell’assistenza nel tem-po, sono la solitudine, l’incertezza sul futuro, le conseguenze emotive del con-tatto costante con una sofferenza pro-lungata e spesso molto grave». Non a caso si definisce tutto ciò come “care-giver burden”, condizione che compren-de sofferenza, oneri, carichi, pressioni, responsabilità, fardelli, gravi preoccupa-zioni, stress (essandor, 2012).

Ne costituisce una conferma il fatto che la quasi totalità dei caregiver finisce con l’assumere psicofarmaci. È vero che esistono gruppi di sostegno per i familiari dei malati di demenza. Ma tutto ciò non risolve il problema. D’altra parte, amici e parenti affermano con faciloneria che è sufficiente “assumere una badante” op-pure “inserire il malato in una struttura

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l’anziano è continuamente presente

nella mente del caregiver figlio o figlia,

anzi, possiamo dire che la occupa

quasi totalmente

CoMe UN vIrUS

Il caregiver (ma forse sarebbe meglio dire la caregiver), pertanto, è costret-to a ristrutturare la propria vita in sen-

so totalizzante poiché non dispone qua-si più né di tempi né di spazi propri. Non a caso oltre il 50% dei familiari che assistono un anziano non autosuf-ficiente va incontro a sindromi da disa-dattamento. La tendenza all’isolamen-to che contraddistingue la situazione di solitudine di un caregiver è pertanto un’imposizione che deriva dal contesto, non una scelta personale.

Non ci risulta che finora queste si-tuazioni siano state analizzate secondo i principi della psicologia ecologica di Bronfenbrenner. La ragione è facilmen-te comprensibile: l’anziano demente è esattamente il contrario di una persona in sviluppo, in quanto tutte le sue fun-zioni vanno deteriorandosi e perdendo-si e non si verifica alcun incremento di capacità, ma anzi il progressivo scivola-mento verso uno stato di vita pressoché vegetativo. Nonostante ciò, rifarsi all’e-cologia dello sviluppo umano potrebbe forse far meglio comprendere la situa-zione di questa categoria di caregiver.

Apparentemente non sembrereb-be possibile constatare l’esistenza di una diade primaria: l’anziano non ha per nulla presente nella propria men-te la persona che si prende cura di lui, neppure quando è fisicamente presen-te. Ma l’anziano è invece continuamen-te presente nella mente del caregiver figlio o figlia, anzi, possiamo dire che la occupa quasi totalmente: anche nel mezzo di un’attività lavorativa, di una situazione ricreativa quale un film o un concerto, della spesa al supermercato,

si presenta improvvisamente la neces-sità di ricordarsi di chiamare il medico piuttosto che di acquistare un medici-nale oppure la riflessione su come sa-rebbe più opportuno modificare il modo di trattare l’anziano. Senza sembrare of-fensivi o poco sensibili, non si può non pensare all’analogia con uno di quei vi-rus informatici che si installano nelle parti più profonde di un computer e che si manifestano all’improvviso.

BeNeSSere e qUALITà DI vITA DeL CAregIver

Tutto ciò influenza negativamente il benessere e la qualità di vita del caregiver. Analizzare il benessere

di un caregiver, che affronta da solo la cura di un anziano demente, significa in primo luogo richiamarsi al concetto di benessere soggettivo, considerato uni-versalmente tra gli indicatori di qualità della vita. Il benessere soggettivo è frutto di percezioni personali ed è il risultato di valutazioni delle proprie condizioni di vi-ta che si rifanno a tutte le dimensioni più importanti dell’esistenza di una persona (cognitiva, emotiva, sociale, biologica). In un interessante lavoro svolto nel 2011 da una commissione formata da Joseph Stiglitz, dal premio Nobel Amartya Sen e da Jean-Paul Fitoussi, volto a eviden-ziare la necessità di trovare indicatori del progresso sociale e delle performance economiche che andassero oltre le leg-gi di mercato, si evidenzia come la di-mensione soggettiva della qualità di vita comprenda diversi aspetti.

Il primo di essi è rappresentato dal-la valutazione che la persona fa della propria vita sulla base di ragionamenti di carattere cognitivo riferiti alla fami-glia, al lavoro e alle condizioni finanzia-rie. Il secondo aspetto è rappresentato dai sentimenti provati, come il dolore, la preoccupazione e la rabbia, oppure il piacere, l’orgoglio, il rispetto. Se per quanto riguarda il primo aspetto il care-

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giver in genere valuta la propria situa-zione come decisamente negativa, priva di sicurezze sia in termini di supporti sociali sia in termini economici, la pres-sione sociale fa sì che i sentimenti nega-tivi siano decisamente negati o tenuti in secondo piano: la rabbia, in particolare, viene scarsamente riferita come senti-mento primario oppure viene indirizza-ta apparentemente solo verso le carenze delle istituzioni sanitarie e assistenzia-li. In realtà, il caregiver può attraversare una fase (che in genere è quella iniziale) in cui la rabbia si indirizza anche verso lo stesso anziano, come se quest’ultimo fosse ritenuto in qualche modo perso-nalmente responsabile delle limitazioni conseguenti alla sua malattia. Comun-que, la quasi totalità dei caregiver, spe-cie se “soli”, vive quotidianamente il conflitto tra la volontà di non lasciare l’anziano che dipende da loro e il biso-gno di espressione personale, di svilup-po e di socializzazione presente in ogni essere umano. questo conflitto è fonte di stress, se non di vero e proprio burn-out, ed è spesso causa nel caregiver di problemi di salute (Mcrae et al., 2009).

È vero che molti caregiver si dichia-rano felici di poter assistere totalmente

e per lunghi periodi di tempo il proprio genitore. Ciò non toglie che per altri il sacrificio personale, prolungato nel tem-po, possa pesare perché impedisce ogni possibilità di condurre la propria vita se-condo altri parametri, a cui essi attribu-iscono valore. L’elemento che influenza i diversi atteggiamenti e comportamenti è il tipo di legame preesistente in fami-glia. In particolare, legami forti possono diventare ancora più forti, mentre legami deboli possono richiamare alla memoria del caregiver precedenti torti, favoriti-smi, emozioni negative, dando così ori-gine a sentimenti di ambivalenza verso il genitore anziano.

Molte associazioni americane di sup-porto ai caregiver di anziani mettono in evidenza come in numerose situazioni si possa addirittura configurare un abu-so da parte dell’anziano, il quale mette in atto comportamenti violenti o sottil-mente ricattatori per impedire che il ca-regiver si allontani da lui anche soltanto per brevi periodi di tempo. Ma mentre non vi è alcun dubbio che alcuni anzia-ni subiscano abusi in molti modi, si è in genere meno propensi a credere che a volte l’aggressore possa essere l’anziano malato cronico.

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MANCANzA DI SUPPorTo eD evITAMeNTo

Le scelte dei caregiver non sono per-tanto frutto di opzioni autonome e quindi non possono essere consi-

derate positive in termini di sviluppo umano e di diritti della persona, come avverrebbe se fossero operate in con-testi di pari opportunità e di sostegno equo (Deneulin e Shahani, 2009).

Alla diade anziano-caregiver viene spesso a mancare anche il supporto costituito da terze persone. Seguendo sempre la teoria di Bronfenbrenner, la presenza di altri con cui il caregiver po-tesse avere relazioni positive dovrebbe rendere più adeguate le sue interazioni con l’anziano. Il problema sta nel fatto che, al di là delle dichiarazioni retori-che di buone intenzioni, gli “altri” han-no difficoltà a rapportarsi con chi non

dispone più della lucidità mentale. Nel libro di Lisa genova dal titolo Still Ali-

ce. Perdersi, ciò viene detto molto bene in riferimento alla protagonista, malata di Alzheimer: «Chi era malato di can-cro poteva contare sul sostegno della comunità. […] Persino le persone più istrui te e meglio intenzionate tendevano a tenersi a timorosa distanza dai malati mentali. [… gli altri] si dileguavano il più velocemente possibile. […] affron-tare lei significava affrontare la sua fra-gilità mentale e l’inevitabile riflessione che, in un batter d’occhio, sarebbe po-tuto succedere anche a loro. Affrontarla era inquietante. Perciò fin che potevano […] la evitavano».

Il rapporto diadico, pur se monodire-zionale, che si viene a creare tra malato e caregiver influenza in qualche modo tutte le situazioni sociali e determina per il secondo una sorta di “contagio”, per cui anche a lui spesso si estende l’evitamento. Non si tratta di un evita-mento dovuto alle sue caratteristiche intrinseche di personalità né ai suoi comportamenti, ma al fatto che non può mai presentarsi da solo: anche se l’an-ziano demente non è presente fisica-mente, influenza e condiziona comun-que profondamente il comportamento del caregiver e ciò viene percepito dalle altre persone.

L’INTegrITà DeL CAregIver

Il problema della demenza senile non può pertanto essere affrontato foca-lizzandosi unicamente sulla perdita

dell’integrità del malato. richiede che ci si focalizzi anche sulla perdita inevi-tabile di almeno una parte di integrità del caregiver. Anch’egli perde in parte quello che è stato e non può più essere; può perdere addirittura alcuni dei suoi ruoli perché gli altri non nutrono più nei suoi confronti le aspettative prece-denti.

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Riferimenti bibliografici

ASL (2013), Manifesto per i familiari care-giver, Brescia.

Beeson R., HoRton-DeutscH s.,FaRRaH c., neun-DoRFeR M. (2000), «Loneliness and depres-sion in caregivers of persons with Alzheim-er’s disease or related disorders», Issues in Mental health Nursing, 8, 779-806.

BRonFenBRenneR u. (1979), The ecology of human development. Experiments by na-ture and design, Harvard University Press, Cambridge (trad. it. Ecologia dello svilup-po umano, Il Mulino, Bologna, 1986).

cacioppo J., Hawkley l. c., noRMan G. J., BeRntson G. G. (2011), «Social isola-tion», Annals of the New York Academy of Sciences, 1, 17-22.

Deneulin s., sHaHani L. (2009), An Introduc-tion to the Human Development and Ca-pability Approach, Earthscan, London.

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Human Ageing and Elderly Service, www.theseus.fi/bitstream/handle/10024/48987/Essandor_Nana%20Yaa%20Kyeraa.pdf?sequence=1

McRae c., Fazio e., HaRtsock G. kelley l. , uRBanski s., Russel D. (2009), «Predic-tors of loneliness in caregivers of persons with Parkinson’s disease», Parkinsonism and Related Disorders, 15 (8), 554-557.

Antonella Reffieuna è attualmente for-matore in corsi per insegnanti e dirigenti scolastici. È stata dirigente scolastico e docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Torino. Ha pubblicato nume-rosi articoli su riviste italiane e straniere e i seguenti volumi: Il bambino a scuola (2002), Le relazioni sociali in classe (2004), Psicologia dello sviluppo e scuola primaria (con S. Bonino, 2007), Come fun-ziona l’apprendimento (2012).

il problema della demenza senile non può

essere affrontato focalizzandosi unicamente

sulla perdita dell’integrità del malato

Anche per il caregiver, quindi, e non solo per l’anziano demente, valgono le parole finali del libro di Lisa genova: «Sento la mancanza di me stessa».

Ci si può allora chiedere se per ri-spondere a tale mancanza siano suf-ficienti le misure consigliate da asso-ciazioni, ASL e reti di cura. In genere, infatti, viene consigliato di far parte di gruppi di sostegno, di chiedere aiuto a parenti e amici, di prendersi pause di una certa lunghezza, di ricorrere a un terapista. Alcune di queste misure risultano di fatto difficili da realizza-re per un caregiver che già non dispo-ne di una rete sociale adeguata e che non può permettersi il costo di struttu-re di accoglienza per l’anziano, anche se indubbiamente esplicitare i propri stati d’animo, poter condividere i pro-pri sentimenti con persone che vivono situazioni analoghe, concedersi anche soltanto delle brevi pause durante la giornata può essere di aiuto. Ci si deve però chiedere se sono comunque suffi-cienti, se davvero modificano l’assolu-tismo della particolare relazione tra an-ziano malato cronico e caregiver solo e, soprattutto, se consentono a quest’ulti-mo di ritrovare se stesso.

È significativo, comunque, che le va-rie proposte abbiano spesso come sco-po dichiarato e non secondario quello di consentire al caregiver di riprendere le sue mansioni di cura in modo più ef-ficiente, confermando così la non cen-tralità dei suoi bisogni e della sua vita. Nessuna di queste misure, in ogni ca-so, permette al caregiver di recuperare il benessere soggettivo necessario per una buona qualità di vita.

occorrerebbe invece che il caregiver potesse recuperare la sua rete di rela-zioni sociali “gratuite”, fatta di amici sinceramente preoccupati della sua in-tegrità fisica e psicologica, disponibili a contatti, anche solo telefonici, in ogni momento della giornata; fatta di occa-sioni di incontro non necessariamente programmate con largo anticipo e non

vissute con la preoccupazione di rima-nere entro tempi prestabiliti; fatta di at-tività finalizzate non soltanto a “distrar-si” o a impedire stress e burnout, ma tali da consentire lo sviluppo ulteriore della personalità. occuparsi del caregi-ver dovrebbe significare occuparsi del suo ulteriore sviluppo come persona, in-dipendentemente dall’anziano assistito.

Le carenze strutturali e sanitarie, sempre più accentuate, non depongo-no certo a favore di questa possibilità.

Ancora una volta, si dovrebbe fare ri-ferimento a Bronfenbrenner e adatta-re all’anziano quanto egli affermava a proposito dello studio del bambino, da effettuarsi con riferimento all’ambien-te ecologico e non soltanto al soggetto isolato, posto in situazioni artificiose e per brevi periodi di tempo. Predisporre, infatti, condizioni di cura adeguate per l’anziano non può non comportare la ne-cessità di prendere contemporaneamen-te in considerazione anche chi di lui si occupa quotidianamente e che non può essere inteso come un semplice esecu-tore di prescrizioni terapeutiche.

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Disoccupati, immigrati senza per-messo di soggiorno, giovani cre-sciuti nei ghetti urbani, lavoratori

precari, disabili, senzatetto: la vulnera-bilità nel nostro mondo sociale ha molte facce. Ognuna di esse costituisce un’e-sperienza particolare della fragilità, del-la dipendenza, della sopraffazione, in una società individualista che scarica sul singolo la responsabilità della sua vita e del suo destino. Nel corso dell’ul-timo decennio quello della vulnerabi-lità è diventato un tema centrale del-la riflessione politica e sociale. Essere vulnerabile vuol dire essere esposto al rischio di ferite: fisiche, morali, psichi-che, o la ferita sociale dell’emargina-zione.

In questa nuova attenzione per la vul-nerabilità umana, le teorie della cura hanno avuto un ruolo molto importante, portando alla luce quello che la nostra società tende a occultare, cioè la presa in carico delle persone dipendenti e vul-

ziché farne una condizione permanen-te», spiega Joan Tronto, una delle figure più in vista in questo orizzonte teorico. È una prospettiva condivisa dalla filo-sofa Martha Nussbaum, che per una sana concezione della giustizia ritiene indispensabile combinare autonomia e vulnerabilità. A questo scopo pensa sia necessario valorizzare l’agency delle persone, cioè la loro potenzialità di farsi soggetti attivi, agenti delle proprie scel-te e della propria liberazione. È molto critica verso la teoria della giustizia di John Rawls, che vede l’uomo astratta-mente, come essere autonomo e razio-nale. Nussbaum sostiene, sulla scia di Amartya Sen, che si debba ragionare partendo dalle capacità reali d’azione dell’individuo, cioè dalle possibilità che effettivamente gli sono offerte. Si devo-no dare a tutti i mezzi per essere liberi e attivi, il che implica la necessità di tener conto delle condizioni d’esistenza reali di ciascuno.

Vulnerabilitànerabili, anziani, bambini, disabili, ma-lati. Il lavoro di cura, gratuito quando è all’interno della famiglia, mal retribuito quando è svolto da altri, per lo più da badanti immigrate, è spesso invisibile o deprezzato. I teorici del lavoro di cu-ra invocano una società capace di rico-noscere e valorizzare non solo la figura del caregiver, ma anche quella di chi le cure le riceve. Qual è l’ottica giusta? Si tratta certo di persone fragili, in difficol-tà, bisognose di aiuto. Dobbiamo forse parlare a loro nome? Ma come evitare il paternalismo e una visione puramente assistenziale? «Una delle sfide che de-ve affrontare l’etica della cura è infatti quella di porre fine alla dipendenza, an-

TUTTI vUlNERAbIlI

Sulla stessa linea si pone l’uso sempre più esteso e pregnan-te del concetto di empower-

ment. Come ci spiegano Marie-Hélène bacqué e Carole biewener (2013), «nell’empowerment si articolano due dimensioni distinte, quella del potere, che è la radice stessa della parola, e quella del processo di apprendimento che permette di accedervi». valorizza-re l’empowerment significa pensare il processo che permette, a soggetti fra-gili, precari, emarginati e dominati, di arrivare a essere parte attiva nelle de-cisioni che li riguardano, fino ad agi-

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re in proprio. Resta comunque il fatto

che il concetto di empowerment, atti-

vato nei campi più diversi, dal lavoro

sociale allo sviluppo internazionale, dal

femminismo alle politiche pubbliche,

può andare incontro a derive inattese.

Nella prospettiva del neoliberismo, per

esempio, per empowerment si tende a

pensare lo smantellamento dello stato

sociale, così da responsabilizzare indi-

vidualmente i soggetti più vulnerabili in

nome della libertà individuale. Peraltro

bisogna stare attenti a non imprigiona-

re certe persone particolari nella cate-

goria della vulnerabilità. vulnerabili lo

siamo tutti, come ci ricorda con forza

Joan Tronto (2009): «Se è vero che non

abbiamo bisogno dell’aiuto altrui in tut-

te le circostanze, sta di fatto però che

la nostra autonomia l’acquistiamo solo

dopo un lungo periodo di dipendenza

e, a ben guardare, restiamo dipendenti

dall’altro per tutta la vita. Ciò fa par-

te della condizione umana. Allo stesso

tempo, siamo spesso chiamati ad aiu-

tare gli altri e a prendercene cura. Poi-

ché siamo talvolta autonomi e talvolta

dipendenti, il modo migliore di descri-

vere gli esseri umani è sottolineare la

loro condizione di interdipendenza».

Anche per il filosofo Axel Honneth la

vulnerabilità è costitutiva della condi-

zione umana, a causa del nostro biso-

gno fondamentale di riconoscimento da

parte dell’altro.

Il tema della vulnerabilità è

in primo piano nella produzione

filosofica recente. La posta in gioco

è ripensare l’interdipendenza

umana in una società che

emargina i più fragili

Catherine halpern

In alto: giugno 2015,

Ventimiglia. Migranti

accampati al confine tra

Italia e Francia.

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Riferimenti bibliografici

Bacqué M.-H., Biewener c. (2013), L’Empowerment, une pra-

tique émancipatrice, La Découverte.

TronTo J. (2009), Un monde vulnérable. Pour une politique

du care, La Découverte.

l’ESClUSIONE COMUNE

Tutti siamo vulnerabili perché ognuno di noi si costituisce nel rapporto con l’altro. Questa inter-

dipendenza è sottolineata anche da Ju-dith butler, che insiste sulla grande pre-carietà, anche fisica, della nostra vita. Intesa sotto queste varie prospettive, la vulnerabilità umana suggerisce un’altra concezione della giustizia e dello stato, dove la solidarietà e l’aiuto sociale sono elementi costitutivi e centrali di una so-cietà giusta, non un’azione marginale a favore delle “vittime della vita”. Ripren-

Cinque teorici della vulnerabilità

Axel Honneth

Filosofo tedesco, erede della scuola di Francoforte, Honneth ripensa il concetto di giustizia partendo da quel-lo di riconoscimento, che si articola in tre principi: amore, eguaglianza e solidarietà. In una società giusta ognuno deve poter ottenere affetto e avere accesso paritario ai dirit-ti e alla stima sociale. È autore di varie opere, fra cui Reifi-

cazione. Uno studio in chiave

di teoria del riconoscimento (Meltemi, 2007).

Judith Butler

Docente di letteratura comparata all’Università di berkeley, femminista impe-gnata nel movimento gay e lesbico e conosciuta soprat-tutto per i suoi lavori sul gene-re e sulla sessualità, si occupa anche della precarietà fonda-

mentale dell’esistenza umana. Su questo tema ha pubblicato fra l’altro A chi

spetta una buona vita? (Notte-tempo, 2013).

Martha Nussbaum

Filosofa all’Università di Chicago, ha posto al centro delle sue riflessioni il proble-ma della vulnerabilità. I temi sono quelli della po-vertà, dei diritti delle donne, della dignità delle persone che versano in una condizione di dipendenza. Nussbaum pone l’accento soprattutto sui diritti reali e le autentiche risorse d’azione, cioè sulle “capa-

bilities”, concetto ripreso da Amartya Sen, Nobel per l’eco-nomia, cui è molto vicina. Ha pubblicato, fra gli altri titoli, Creare capacità. Liberarsi dal-

la dittatura del Pil (Il Mulino, 2013).

Joan Tronto

Docente di scienze politiche all’Università del Minnesota, rifiuta l’idea che il lavoro di cura sia espressione di una “voce morale delle donne”, benché finora siano state so-prattutto le donne a fornirlo. Al di là dell’etica, Tronto mira a elaborare una politica della cura. È autrice di Confini mo-

rali. Un argomento politico per

l’etica della cura (Diabasis, 2006).

Guillaume Le Blanc

Professore di filosofia all’Università di bordeaux-III, sviluppa una filosofia sociale che mette in questione la so-cietà e le sue norme attraverso le posizioni marginali: lo stra-niero, il precario, l’escluso. È autore, fra l’altro, di Que faire

de notre vulnérabilité? (ba-yard, 2011).

dendo le parole di Guillaume le blanc, possiamo concludere che «riconoscen-doci vulnerabili, ognuno a suo modo, in quanto esposti a tutte le forme di vio-lenza, fisica, sociale e psicologica, co-minciamo a comprendere l’esclusione come problema comune e generale, che non riguarda solo gli emarginati».

© ScienceS HumaineS. TiTolo origina-le: «la vulnérabiliTé en force», 270, mag. 2015, 38-39. Traduzione di gabriele noferi.

la vulnerabilità umana suggerisce un’altra

concezione della giustizia e della stato

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