Significato, Contesto, Storia: Lo Studio Del Linguaggio Politico in John Pocock e Quentin Skinner
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Raffaele Fummo
Significato, contesto, storia:
lo studio del linguaggio politico in
John Pocock e Quentin Skinner
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INDICE
INTRODUZIONE p. 5
PARTE PRIMA
METODO
CAP. 1 POLITICA E STORIA p. 13
1.1 Fare storia del pensiero politico p. 13
1.2 La «svolta linguistica» p. 18
1.3 History of Ideas e New History of Political Thought p. 19
1.4 Begriffsgeschichte e New History of Political Thought p. 23
1.5 Astrazioni e mitologie delle verità eterne p. 28
CAP. 2 LA COMPRENSIONE DEL TESTO p. 36
2.1 La comprensione delle parole p. 36
2.2 Il recupero dell’oggettivazione p. 39
2.3 Contesti, paradigmi e linguaggio politico p. 44
2.4 Retorica e discorso politico p. 49
2.5 Sincronia e diacronia dei linguaggi politici p. 52
2.6 La verità delle credenze p. 56
2.7 I termini delle credenze p. 62
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CAP. 3 AZIONI E AUTORI p. 68
3.1 Il significato delle parole p. 68
3.2 L’uso delle parole p. 70
3.3 La “forza” delle parole p. 74
3.4 Le parole dell’autore p. 78
3.5 Le intenzioni degli autori p. 84
PARTE SCONDA
STORIA
CAP. 4 LA NATURA STORICA DELLA SCIENZA POLITICA p. 88
4.1 Teoria, azione, parole p. 88
4.2 Le parole nella storia p. 92
CAP. 5 IL REPUBBLICANESIMO À LA POCOCK: DA ARISTOTELE AI FOUNDING FATHERS p. 99
5.1 Verso un linguaggio del vivere civile p. 99
5.2 La repubblica: un’entità universale p. 103
5.3 Da Machiavelli a Harrington p. 109
5.4 La virtù americana p. 116
CAP. 6 IL REPUBBLICANESIMO À LA SKINNER: LA TEORIA NEO-ROMANA DELLA LIBERTÀ p. 123
6.1 La libertà e l’indipendenza dei Comuni p. 123
6.2 La retorica della libertà p. 128
6.3 La libertà repubblicana p. 133
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PARTE TERZA
TEORIA
CAP. 7 CONCLUSIONI TEORICHE p. 141
7.1 Una teoria della libertà p. 141
7.2 Due teorie della cittadinanza p. 145
7.3 Migrazioni teoriche p. 153
BIBLIOGRAFIA p. 161
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Introduzione
Quando John Pocock e Quentin Skinner studiano i testi del pensiero politico si chiedono
cosa stessero facendo gli autori mentre, scrivendo, utilizzavano un linguaggio piuttosto che un
altro. Anche io potrei chiedermi cosa stessi facendo scrivendo questo lavoro di sintesi che tenta
di cogliere gli aspetti salienti della metodologia storiografica dei due storici di lingua inglese,
nonché gli esiti storici e teorici che da questa metodologia dipendono. Una prima risposta a que-
sto interrogativo può immediatamente essere espressa dichiarando la volontà di reclamare la spe-
cificità di questo metodo storiografico. Tra le scuole storiografiche che, a partire dagli anni Ses-
santa, hanno partecipato alla rivoluzione del linguistic turn, la New History of Political Thought,
coi lavori di Pocock e Skinner, ha dato il suo contributo originale al dibattito inaugurato dalla
History of Ideas di Arthur Lovejoy e dalla Begriffsgeschichte di Erich Rothacker.
La dicotomia fissata dalla coppia idealtipica “analitici-continentali” ha definito precise
distinzioni nella specificazione dei criteri epistemologici che guidano la ricerca filosofica. Gli
ambiti di riferimento delle due tradizioni hanno rivelato una profonda distanza che è stata messa
in rilievo soprattutto dalla modalità con cui ci si è rapportati coi testi del passato. Mentre la filo-
sofia “continentale” – attraverso l’elaborazione gadameriana del metodo ermeneutico, che può
considerarsi una sintesi del lavoro degli storici della Begriffsgeschichte – ha sviluppato la conce-
zione umanistica della conoscenza dei testi, che si realizza attraverso l’idea del dialogo infinito
coi testi stessi, nell’ambito della scuola “analitica”, invece, è stato elaborata una metodologia di
ricerca storica il cui fondamento teorico consiste in una differente considerazione del testo, il
quale viene prima di tutto “contestualizzato” e poi fatto risalire direttamente alle “intenzioni”
dell’autore. Il punto focale dal quale si distanziano reciprocamente i due approcci consiste, quin-
di, in una doppia lontananza derivante da una diversa concezione del significato dei concetti pre-
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si in esame, concezione che si costruisce e si realizza attraverso un differente modo di muoversi
all’interno della filosofia del linguaggio. Infatti, la svolta linguistica – vera protagonista della fi-
losofia del Novecento, nonché evento che ha dato avvio al confronto tra il logos heideggeriano,
luogo del “disvelamento” dell’essere, e i giochi linguistici wittgensteiniani, apparati sistemici in
cui il segno linguistico acquista valore in relazione all’uso che se ne fa all’interno del gioco-
sistema in cui viene utilizzato – ha determinato quella distinzione dalla quale è poi emerso il
problema della determinazione referenziale dei termini, i quali sono, per i “continentali”, signifi-
canti di un apparato categoriale universale, mentre per gli “analitici” sono invece vettori di un si-
gnificato che non ha alcuna referenza ontologica, essendo esso chiarito dalla modalità di utilizzo
all’interno di un sistema linguistico piuttosto che di un altro.
Emerge con chiarezza che la distanza fondamentale della storiografia che fa capo alla fi-
losofia analitica rispetto all’approccio ermeneutico si esplicita in quella doppia lontananza prima
solo accennata, e consistente in una lontananza rispetto all’infinità dialogica, che invece si tradu-
ce in contestualizzazione spaziale e temporale, e in una lontananza rispetto alla considerazione
dell’autore, il quale è irrilevante per la ricerca ermeneutica, mentre la cui figura diviene centrale
allorché si voglia risalire al significato dei concetti che egli utilizza e allorché questo significato
si determina sulla base del rilevamento delle intenzioni dell’autore stesso.
Il senso di un testo non trascende il suo autore, perché questo, scrivendo, non fa altro che
esercitare la consapevolezza del suo agire pratico in un ambito – quello del pensiero politico –
che pone sì le sue condizioni e le sue possibilità, ma che può anche essere sovvertito. Un testo
non può essere separato dal suo autore perché le intenzioni non possono essere prese in conside-
razione astrattamente, prescindendo dal linguaggio con cui il testo è stato costruito. L’autore,
benché sia stato l’abitante di un universo linguistico che ha dato significato ai suoi enunciati, non
è un semplice ambasciatore di questo linguaggio ma è qualcosa di più, in quanto il suo discorso e
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le sue parole possono sia seguire i canoni del contesto linguistico condiviso, ma possono anche
avere il potere di agire sul paradigma linguistico che l’autore stesso ha utilizzato.
Attraverso il testo l’autore ha detto qualcosa sulla sua epoca ed è, quindi, agli enunciati
del testo che bisogna in primo luogo guardare per ricostruire le intenzioni di un autore. Questa è
la via maestra per la quale John Pocock e Quentin Skinner hanno deciso di transitare per ridise-
gnare ciò che gli autori, attraverso i loro testi, intendevano dire. Una via che, essendo percorsa
studiando i linguaggi e gli enunciati ricavati dai testi, conduce alla comprensione storica di questi
testi, i quali non sono altro che lo specchio dell’azione di un autore che intendeva partecipare in
maniera attiva alla discussione sull’universo politico da lui abitato.
In questo modo si stabilisce una relazione stretta tra scrittura, significato e soggettività
dell’autore. Ed è una relazione di tipo pratico, perché la resa in parole di un atto politico è essa
stessa un atto politico. La politica, infatti, è sì un sistema di linguaggio ma anche questo linguag-
gio è un sistema politico in quanto le parole sono allo stesso tempo azioni e atti di potere nei con-
fronti delle persone. John Langshaw Austin aveva insegnato che l’enunciato performativo tende
a volere realizzare il fine della forza illocutoria, che è quello di produrre effetti pratici e compor-
tamentali in chi ascolta. Quando questa condizione ha luogo si parla di atto illocutorio che divie-
ne perlocutorio. Perché la forza di un enunciato possa essere compresa da chi ascolta è necessa-
ria, oltre alla coerenza dell’enunciato col contesto in cui viene proferito, la dichiarazione da parte
di chi parla di stare eseguendo un’azione. La scrittura, allora, rinvia da un lato al mondo dei si-
gnificati condivisi da una comunità, dall’altro rimanda alle intenzioni di un autore che, attraverso
le parole vuole conseguire e realizzare un obiettivo politico ben preciso. Questo secondo livello
dei significati viene restituito alla comprensione dello storico quando questi legge gli enunciati
del testo come atti performativi e quando si impegna a interpretare il linguaggio dell’autore come
un linguaggio il cui valore semantico è determinato dalla dimensione della sua forza.
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Quando si guarda alle opere di storia del pensiero politico di John Pocock e Quentin
Skinner è possibile cogliere la struttura metodologica che sorregge il lavoro dei due storici del
pensiero politico una volta che essa è stata tradotta nell’effettivo lavoro storico. Qui si è deciso di
seguire un percorso ben preciso, quello relativo alla storia del repubblicanesimo. I testi a cui si è
fatto principalmente riferimento sono stati The Machiavellian Moment di J.G.A. Pocock e The
Foundations of Modern Political Thought e Liberty before Liberalism di Quentin Skinner. In
queste paradigamatiche storie del pensiero politico moderno i due autori condividono l’idea rivo-
luzionaria di individuare come perno della speculazione politica dei secoli XV-XVIII il repub-
blicanesimo anziché il liberalismo. Studiando in modo rigoroso i linguaggi della politica utilizza-
ti in contesti specifici, essi hanno individuato la traiettoria di una tradizione che nell’età moderna
ne ha caratterizzato il dibattito politico. Ciò ha significato operare un discrimine all’interno del
pensiero politico moderno che ha spostato l’interesse di studio non tanto sui pensatori liberali ma
sui teorici del repubblicanesimo, primo fra tutti Machiavelli.
Oltre questo punto di contatto, tuttavia, i loro percorsi non si sono poi incontrati, in quan-
to le direzioni a cui hanno condotto le loro ricerche sono risultate del tutto differenti, concen-
trandosi esse su due differenti tradizioni su cui il repubblicanesimo è risultato fondarsi. Pocock
ha costruito un itinerario che ha legato solidamente una tradizione che, a partire da Aristotele, si
è riverberata e trasmessa nei pensatori dell’umanesimo fiorentino, nel pensiero di Harrington e
dei suoi contemporanei dell’Interregno, e nei pensatori politici protagonisti della Rivoluzione
americana. Al centro del lavoro storiografico di Pocock, che ha il significativo sottotitolo Floren-
tine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, c’è la convinzione che questa tra-
dizione sia permeata e intrisa del linguaggio politico di Aristotele, in particolare della sua conce-
zione dell’uomo come zoon politikon che realizza la sua piena individualità nella “vita activa” e
nel vivere civile. In più, aggiunge lo storico neozelandese, questo rilievo critico espone la storia
inglese e americana del Seicento e del Settecento a una revisione storiografica in base alla quale
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essa si presenta come irriducibile ai fenomeni storico-politici dell’Europa, monopolizzata da da-
gli esiti della Rivoluzione francese.
Più articolata è risultata la ricostruzione storica di Skinner. Il docente di Cambridge, nel
delineare la storia del repubblicanesimo moderno, si è mosso tra teoria e storia. Egli, prima di
tutto, ha attinto ad una diversa tradizione che lo ha convinto a individuare le origini del repubbli-
canesimo non in Aristotele ma nel linguaggio dei retori, dei filosofi e degli storici romani, primi
fra tutti Cicerone e Sallustio. In secondo luogo, Skinner ha posto al centro della sua riflessione
storica l’idea di “libertà”, inserendosi così in quel vasto dibattito inaugurato alla fine degli anni
Cinquanta dal saggio di Isaiah Berlin Two Concepts of Liberty.
Se il testo Foundations of Modern Political Thought ha tracciato una storia del pensiero
politico che affonda le sue radici nella tradizione repubblicana romana, per passare attraverso
l’età comunale e poi all’umanesimo fiorentino fino all’età della Riforma, Liberty before Libera-
lism segna invece, da un lato, un ideale proseguimento storico che analizza il dibattito politico
negli anni della Rivoluzione inglese, dibattito che ha avuto protagonisti autori come Henry Par-
ker, Philip Sidney, Henry Neville, John Milton; dall’altro lato, nel suo libro, Skinner indica con
precisione i parametri teorici di quella che definisce “teoria neo-romana della libertà”. Questa
viene spiegata come una “terza via” tra libertà positiva e libertà negativa: è descritta come una
forma di libertà la cui fisionomia è quella di una particolare forma di libertà negativa la cui pecu-
liarità consiste nel fatto che la sua realizzazione ha luogo quando si riesce ad impedire ogni for-
ma dipendenza e di interferenza da parte delle istituzioni di governo. Mentre il concetto di liber-
tà negativa consiste solamente nel definirla come realizzabile allorché sia evitata solo ed esclusi-
vamente la dipendenza, cioè la schiavitù, la novità di Skinner consiste nell’aggiungere al caratte-
re della dipendenza anche quello dell’interferenza. Egli asserisce che la condizione di libertà
come non schiavitù non è sufficiente al mantenimento di essa, ma è fondamentale che la parteci-
pazione politica sia costantemente finalizzata all’impedimento di ogni forma futura di costrizione
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e che quindi abbia come obiettivo la preservazione della libertà attraverso la protezione dal peri-
colo di essere sottoposti a costrizione.
Direttamente connessa a questi temi è la riflessione teorica che Pocock e Skinner hanno
suscitato e stimolato a partire dalle loro ricostruzioni storiche. In termini di teoria politica si può
partire dai due autori per definire, prima di tutto, due differenti paradigmi della cittadinanza.
Mentre il cittadino che emerge da quella che si può definire la teoria neo-aristotelica dello stato è
un cittadino che realizza pienamente la sua individualità all’interno della comunità politica alla
quale è costitutivamente legato, il cittadino tratteggiato dalla teoria neo-romana della libertà, in-
vece, deve costantemente impegnarsi nella partecipazione politica al fine di salvaguardare la li-
bertà individuale da ogni sorta di costrizione e minaccia.
Le tesi di Pocock e Skinner, inoltre, come suggeriscono gli studi di Marco Geuna, vanno
collocate all’interno di due differenti dibattiti inerenti la teoria politica. Nel caso di Pocock, è
emerso quanto le sue ricerche storiche siano state accettate e accolte dai critici della teoria della
giustizia di John Rawls, cioè quei pensatori come Michael Sandel e Charles Taylor, definiti
“comunitari”, i quali del testo The Machiavellian Moment hanno apprezzato soprattutto la tesi
della continuità teorica tra aristotelismo e repubblicanesimo e la tesi storiografica che presenta il
repubblicanesimo come tradizione precedente e alternativa a quella liberale. Il repubblicanesimo
disegnato e delineato da Pocock ha fornito loro gli argomenti necessari da spendere contro le tesi
rawlsiane dell’individuo atomic e unencumbered, proponendo una concezione di bene comune
che stimola gli individui ad assolvere il proprio dovere di cittadini. Ma il repubblicanesimo po-
cockiano ha fatto sentire il suo peso anche in altri due diversi ambiti del dibattito politico, quello
riguardante gli studi politologici sulla democrazia e quelli inerenti il diritto costituzionale. Per
quanto concerne il primo caso, il testo di Robert Dahl del 1989 dal titolo La democrazia e i suoi
critici, evidenzia l’assunto di Pocock in merito al debito intellettuale nei confronti di Aristotele
allorché si affronti la questione della tradizione repubblicana. Richard Fallon, sul versante del di-
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ritto costituzionale, nell’articolo What is Republicanism, and Is It Worth Reviving (1989), invita
invece, una volta mutata l’interpretazione del pensiero politico dei Padri fondatori, a rivalutare e
rivedere il senso della costituzione americana. Altri autori hanno confermato la tesi di Pocock
sulla matrice aristotelica della tradizione repubblicana, tra questi ricordo solo Jürgen Habermas,
che nel sesto capitolo di Faktizität und Geltung (1992) presenta il repubblicanesimo come una
forma di aristotelismo da contrapporre al liberalismo.
Le tesi di Quentin Skinner, invece, partendo dal concetto di libertà fatto proprio da Ma-
chiavelli e da altri pensatori a lui contemporanei, la cui formulazione dipende dalla lettura dei te-
sti scritti negli anni della repubblica romana, si fondano su una particolare concezione della li-
bertà negativa. Come nel caso di Pocock, anche le tesi di Skinner sono state discusse e hanno fat-
to scuola. La particolare forma di libertà negativa elaborata dallo storico, supera sia la dicotomia
repubblicanesimo/liberalismo sia l’opposizione libertà positiva/libertà negativa: egli formula una
teoria della libertà che, sebbene si inserisca con prepotenza nel dibattito inaugurato da Berlin, se
ne svincola per la sua particolare concezione della libertà, definita allo stesso tempo come “terza
via” possibile tra l’individualismo liberale e il comunitarismo aristotelico, e delinea una forma di
repubblicanesimo definito come “strumentale” (instrumental republicanism). Strumentale nel
senso che la partecipazione politica viene descritta non come il fine ultimo individuale, ma come
lo strumento e il mezzo per conservare la libertà da costrizione e interferenza. È una concezione,
quella di Skinner, che, sebbene conservi caratteri di originalità e novità, per molti aspetti – rico-
nosciuti dallo storico stesso – è debitrice delle riflessioni sul tema della libertà elaborate da di
Philip Pettit in particolare nel testo Republicanism. A Theory of Freedom and Government
(1997).
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PARTE PRIMA
METODO
13
Capitolo 1
Politica e storia
1.1 Fare storia del pensiero politico
Nel 1975 J.G.A. Pocock pubblica The Machiavellian Moment1, mentre Quentin Skinner
dà alle stampe The Foundations of Modern Political Thought2 nel 1978. Si tratta di due opere di
storia del pensiero politico che non è eccessivo definire rivoluzionarie, in quanto disegnano un i-
tinerario del pensiero politico moderno che si svincola dai canoni storiografici ufficiali, siano es-
si marxisti o straussiani, e intraprendono un percorso che, da un lato invita a leggere gli autori
classici della filosofia politica in maniera affatto nuova, mentre dall’altro lato fanno emergere
sulla scena della politica moderna personaggi e testi considerati secondari, se non addirittura pri-
vi di ogni interesse da parte degli storici delle idee politiche. Sia Pocock che Skinner affrontano
lo studio in questione muniti di uno strumentario metodologico proprio della filosofia del lin-
guaggio di lingua inglese, in merito al quale l’interesse primario dichiarato dello storico delle i-
dee viene indicato nello studio dei contesti storici in cui gli autori politici si trovarono ad agire. Il
concetto di contesto deve, però, essere inteso nel senso di contesto linguistico: se gli autori hanno
scritto un testo, lo hanno fatto utilizzando il linguaggio che avevano a disposizione, e questo lin-
guaggio acquisisce valore e peso semantico solo ed esclusivamente in merito al fatto di essere
una forma di vita condivisa, cioè una attrezzatura linguistica utilizzata da tutti, i cui significati
sono da tutti condivisi.
1 POCOCK, J.G.A., The Machiavellian Moment. Florentin Political Thought and the Atlantic Republican Tradition,
Princeton University Press, Princeton, 1975; trad. it. a cura di A. Prandi, Il momento machiavelliano. Il pensiero po-
litico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna, 1980. 2 SKINNER, Q., The Foundations of Modern Political Thought, C.U.P., Cambridge, 1978; trad. it. a cura di G. Cecca-
relli, Le origini del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1989.
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Benché provenienti da zone geografiche diverse, i due storici hanno condiviso questa im-
postazione metodologica di fondo e l’hanno applicata alla costruzione della storia delle idee poli-
tiche. J.G.A. Pocock è originario della Nuova Zelanda, una lontana terra del Commonwealth bri-
tannico, la sua attività accademica si è svolta tra l’Università neo-zelandese di Canterbury, quella
inglese di Cambridge e negli Stati Uniti. Negli anni Quaranta e Cinquanta, a Cambridge, Pocock
frequenta storici delle idee che condividono la sua metodologia e l’interesse per il pensiero poli-
tico dell’Inghilterra del secolo XVIII, tra cui John Dunn e Quentin Skinner. Studiosi e ricercatori
di lingua inglese iniziano così ad acquisire una precisa fisionomia in merito alla quale verranno
d’ora in avanti individuati con l’etichetta di «scuola di Cambridge». Benché Pocock, nel suo pe-
regrinare tra i tre continenti, non abbia realizzato la sua ricerca solo ed esclusivamente in Europa,
il suo nome può tranquillamente essere annoverato tra i membri della scuola. A sostenere, invece,
costantemente i fondamenti teorici e storiografici della scuola di Cambridge è stato Quentin
Skinner, il quale costruisce prevalentemente nella cittadina universitaria inglese la sua carriera,
fino a diventare Regius Professor di storia moderna nel 1996.
Nel 1959 Quentin Skinner è ricercatore presso il «Gonville and Caius College»
all’università di Cambridge, due anni dopo la pubblicazione della tesi di dottorato di J.G.A Po-
cock, The Ancient Constitution and the Feudal Law, che era stata discussa nel 1952. I due storici
hanno età differenti (Pocock è nato nel 1924, Skinner nel 1940), per cui il loro incontro intellet-
tuale avviene quando il più anziano dei due ha già maturato le linee di fondo del suo criterio di
lavoro storico. Tuttavia, ciò non impedisce di individuare alcune matrici che hanno indirizzato le
metodologie e le finalità della loro attività di ricerca. Prima di tutto, entrambi sono stati consape-
voli dello scemare del dibattito politico sul dualismo ideologico che investiva i paesi coinvolti
nella «guerra fredda». Già negli anni Cinquanta il disgusto per questa sorta di pensiero manicheo
emerse nella forma di un «Committee for Nuclear Disarmament» (Comitato per il disarmo nu-
cleare), la cui figura più eminente era Bertrand Russell. Sono questi gli anni della tesi generale
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dalla «morte delle ideologie», che viene tradotta nello specifico del pensiero politico nei termini
della morte della filosofia politica3. A trarre queste conclusioni è Peter Laslett, docente di storia a
Cambridge, il quale pronunciò la sua sentenza dalle pagine della rivista Philosophy, Politics and
Society, da lui diretta a partire dal 1956. Le ragioni della morte della filosofia politica venivano
individuate nel successo della sociologia, il cui metodo pervadeva ormai ogni campo delle scien-
ze umane. La sociologia si era impossessata, in questi anni, delle aree specifiche della filosofia
politica e sociale, causando la mancanza di una seria discussione – meramente filosofica – su ar-
gomenti di carattere socio-politico4. La proposta di Laslett fu allora quella di inventare una nuo-
va filosofia politica che rimpiazzasse e migliorasse la precedente. Una post-filosofia politica che
stimolasse un vivace dibattito a cui lo storico di Cambridge prese parte proponendo una notevole
novità interpretativa in merito alla lettura dei Two Treatises on Govenment di John Locke. La te-
si di Laslett sul pensiero politico lockiano fu assolutamente anticonvenzionale, in quanto critica-
va la teoria, radicata e ritenuta inattaccabile, che il testo di Locke fosse da leggersi in intima con-
nessione con gli eventi storici della Gloriosa Rivoluzione del 1688-89. La revisione interpretati-
va si fondava sull’assunto che i Two Treatises costituivano una risposta alla pubblicazione del
Patriarcha di Robert Filmer, per cui la redazione dei brani principali andava anticipata agli anni
1679-80, esattamente un decennio prima della data tradizionalmente stabilita. Il compito che La-
slett si era prefissato costituiva un esempio di critica al modo in cui Locke veniva letto, che do-
veva avere la funzione di interpretare Locke così come lui stesso voleva essere interpretato e ca-
pito, posizionando la sua opera di pensatore politico nel contesto storico in cui si trovò ad agire e
operare. Non si trattava, tuttavia, di un approccio del tutto nuovo. A sottolineare il ruolo del con-
testo come determinante per la comprensione dell’apparato concettuale di un filosofo della poli-
tica era già stato Robin George Collingwood, filosofo e storico di Oxford cresciuto e formatosi
3 PALONEN, K., Quentin Skinner. History, Politics, Rhetoric, Polity Press, Cambridge, 2003; pp. 11-12.
4 LASLETT, P., «Introduction», in ID. (a cura di) Philosophy, Politics and Society, Blackwell, Oxford, 1956; pp. vii-
xv.
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nell’ambito dell’idealismo inglese. La storia del pensiero politico – sosteneva Collingwood – po-
teva essere ricostruita solamente a condizione che venissero combinate intuizioni storiche e filo-
sofiche: solo attraverso la rivisitazione dei problemi e delle questioni sollevate nella storia diven-
tava possibile individuare la logica di domanda e risposta sottostante all’azione pratica dello
scrivere un testo politico. Il presupposto metodologico del docente di Oxford consisteva
nell’individuare come il pensatore politico rispondesse a quelle domande poste dal suo tempo e
non come risposte agli interrogativi che un interprete di un’epoca diversa pone al suo testo5, così
come andava insegnando l’ermeneutica gadameriana.
Fu a partire dalle idee di Laslett che Pocock intraprese il suo lavoro di revisione in merito
alle origini della Common Law (argomento della sua tesi di dottorato), da lui indicate nel proces-
so di feudalizzazione del territorio inglese durante l’epoca della conquista normanna, fondato
sulla convinzione, propria di Laslett, che il pensiero politico inglese potesse essere meglio com-
preso a partire da alcune parole-chiave impiegate in un contesto storico circostanziato6. In questo
periodo – la seconda metà degli anni Cinquanta – anche Skinner si avvicina alla lettura di Laslett,
grazie al suo insegnante John Burrow, che gli suggerì di leggere l’opera di Locke da lui curata.
Skinner indica la lettura di questo testo come l’evento che maggiormente ha influenzato i suoi
studi e la sua formazione7. Fu a partire da questa lettura che il giovanissimo studente di Cambri-
dge decise di leggere Hobbes, così come Laslett aveva letto Locke. Decisione che fece partorire
una serie di saggi sul filosofo inglese i cui testi vennero interpretati a partire dal contesto storico
in cui furono ideati, dal linguaggio della teoria politica utilizzato in questo contesto, dalla ricerca
delle intenzioni che Hobbes esprimeva nei termini di questo linguaggio.
5 COLLINGWOOD, R.G., An Autobiography, Claredon Press, Oxford, 1978; p. 62.
6 ALBERTONI, E.A., Prefazione a POCOCK, J.G.A., Politica, linguaggio e storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1990;
pp. xi-xiii. 7 «On Encountering the Past. An Interwiew with Quentin Skinner by Petri Koikkalainen and Sami Syrjämäki
4.10.2001», in Finnish Yearbook of Political Thought 6; pp. 34-63.
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A sostenere questo impegno gli veniva in appoggio anche la pubblicazione dell’opera di
Pocock, da lui letta durante gli anni in cui era studente. I presupposti metodologici di The An-
cient Constitution and the Feudal Law, costituirono un motivo per incoraggiare la successiva
produzione storica di Skinner, in quanto avevano avviato lo studio intorno a un campo di ricerca
– il pensiero politico dell’Inghilterra del XVII secolo – che veniva rivisitato in base a nuovi pre-
supposti storiografici. Ma Laslett e Pocock non costituirono, tuttavia, i soli riferimenti intellet-
tuali di Skinner. Per accedere a Cambridge, Quentin Skinner lesse i testi di Collingwood, rima-
nendo colpito dal suo principio in base al quale il lavoro dello storico del pensiero politico debba
essere condotto combinando l’atteggiamento del filosofo con quello dello storico. Solo riuscendo
a individuare l’operato intellettuale di un preciso momento storico lo statuto della disciplina che
indaga la storia delle teorie politiche può essere riconosciuto con autenticità e forza da parte di
chi compie un lavoro finalizzato all’individuazione delle intenzioni di un pensatore politico del
passato. Si tratta di un compito che deve essere condotto operando sul linguaggio utilizzato
nell’ambito di un contesto storico preciso, individuando in esso le convenzioni e le modalità re-
toriche che facevano di questo linguaggio un sistema di comunicazione e comprensione condivi-
so.
Questa impostazione metodologica tenderà, nei decenni che seguiranno la sua prima for-
mulazione negli anni Cinquanta a Cambridge, ad acquisire una fisionomia sempre più precisa e
metodologicamente strutturata che le farà guadagnare una sua propria autonomia storiografica,
tanto che è ormai invalso, presso gli studiosi di storia e teoria politica, parlare di “scuola di Cam-
bridge”, o, ancora meglio, di New History of Political Thought o History of Political Discourse.
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1.2 La «svolta linguistica»
Il metodo storiografico proposto da Pocock e Skinner si avvale di una serie di assunti di
fondo in base ai quali emerge una visione contestualista della ricostruzione della storia delle idee.
Ma il contestualismo di cui parlano gli autori è principalmente di tipo linguistico. Prima di ana-
lizzare nei dettagli questi assunti teorici, è bene evidenziare che l’attenzione al linguaggio risulta
essere la tendenza dominante della filosofia inglese del Novecento, tendenza che ha condotto la
storiografia filosofica a parlare, per questo fenomeno, di «svolta linguistica». Un’espressione con
cui si intende la volontà di identificare i problemi della filosofia con le questioni dell’analisi lin-
guistica. Il linguaggio viene riconosciuto come lo strumento attraverso il quale si individuano e
si cercano di chiarire le questioni filosofiche, ed è per questo motivo che risulta opportuno – lad-
dove si voglia avviare una discussione metafilosofica sulla natura, sulle possibilità e sui limiti
della filosofia – rivolgersi al linguaggio per analizzarne le potenzialità e le carenze. Seguendo
l’ormai classico modello storiografico proposto da Michael Dummett8, a inaugurare questo per-
corso, che condurrà alla nascita di un nuovo modo di fare e di intendere la filosofia denominato
filosofia analitica, è stato Gottlob Frege, che viene indicato come il primo ad avere spostato
l’analisi filosofico-epistemologica dal piano del pensiero al piano linguistico. Nel suo testo del
1884 I fondamenti dell’aritmetica Frege elabora il principio del contesto, consistente nel fatto
che è solo nel contesto di un enunciato che una parola acquisisce significato. È quindi l’indagine
linguistica che può dare risposte a domande di carattere epistemologico e ontologico, in quanto il
linguaggio rappresenta l’unico specchio dei pensieri di cui disponiamo e sono quindi le proprietà
semantiche dell’enunciato a rivelare la struttura del pensiero.
Si tratta di un atteggiamento che tende a vedere il linguaggio come strumento privilegiato
da utilizzare per l’analisi dei problemi filosofici, come dirà Wittgenstein, prima nel Tractatus lo-
8 DUMMETT, M., Origins of Analytical Philosophy, Harvard University Press, Cambridge, 1993. Trad. it. a cura di E.
Picardi, Origini della filosofia analitica, Einaudi, Torino, 2001.
19
gico-philosophicus e poi nelle Ricerche filosofiche. A partire dagli anni Venti (il Tractatus era
stato pubblicato in lingua inglese nel 1922) ogni questione filosofica sarà quindi declinata nei
termini dell’analisi della sintassi e della semantica linguistica e il mondo universitario inglese
raccoglierà questa suggestione rendendosi centro propulsore di un modo di fare filosofia che, so-
prattutto intorno all’ambiente cantabrigense e oxoniense, raccoglierà i nomi più illustri della filo-
sofia analitica del linguaggio. Soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, personaggi
come George E. Moore, Bertrand Russell, Frank P. Ramsey, Ludwig Wittgenstein, Karl Popper,
Gilbert Ryle, John L. Austin, Paul Grice, Richard M. Hare e molti altri, nutrirono una grande fi-
ducia nei nuovi metodi analitico-linguistici ed estesero le loro considerazioni a vari livelli con-
cernenti il panorama filosofico, da quello prettamente logico a quello epistemologico, da quello
ontologico a quello etico e giuridico.
John Pocock e Quentin Skinner, da parte loro, raccolsero le suggestioni della filosofia a-
nalitica del linguaggio per elaborare un modello storiografico che fondava proprio sul linguaggio
e sugli enunciati utilizzati dagli scrittori politici del passato la possibilità di una nuova forma di
studio delle idee politiche. Entrambi gli autori vissero intensamente l’ambiente culturale di Cam-
bridge. L’originalità e la novità della metodologia storiografica che viene proposta dai due autori,
attinge fortemente da quest’ambiente alcune tesi teoriche e interpretative che renderanno peculia-
re il loro approccio dello studio delle idee politiche.
1.3 History of Ideas e New History of Political Thought
Intorno agli anni Sessanta, la storiografia del lessico politico occidentale presenta una fi-
sionomia ben precisa, caratterizzata dalla presenza di tre grosse scuole che indagano la termino-
logia della politica con peculiarità e finalità metodologiche differenti. Queste diverse imposta-
20
zioni metodologiche, appartenenti agli anni e al contesto culturale del linguistic turn, pur avendo
provenienze geografiche e culturali eterogenee, presentano punti di contatto e divergenze che le
pagine seguenti tenteranno di evidenziare e chiarire. L’illustrazione dei processi fondamentali
delle scuole storiografiche a ci si riferisce – History of Ideas, Begriffsgeschichte, New History of
Political Thought o History of Political Discourse – è d’ausilio al fine di comprenderne gli obiet-
tivi e le impostazioni di base ma, soprattutto, risulta utile allorché si vogliano chiarire i riferi-
menti critici – siano essi polemici o di accettazione – delle architetture storico-metodologiche di
J.G.A. Pocock e Quentin Skinner.
Di History of Ideas si comincia a parlare a partire dagli anni Venti del secolo XX, allor-
ché lo storico americano Arthur O. Lovejoy, insieme ad alcuni collaboratori della Johns Hopkins
University di Baltimora, tra cui spiccano i nomi di George Boas e Gilbert Chinard, dà vita allo
«History of Ideas Club». È il 1922, e quattordici anni dopo Lovejoy dà alle stampe il testo The
Great Chain of Being [La grande catena dell’essere], la cui Introduzione rappresenta una sorta di
manifesto programmatico del Club. I segni distintivi della metodologia storiografica da lui elabo-
rata possono preliminarmente essere riassunti nell’affermazione dell’autore secondo la quale la
History of Ideas è «qualcosa che è nello stesso tempo più specifico e meno limitato di quanto
non sia la storia della filosofia»9. È da questo assunto che Lovejoy parte per presentare le due
peculiarità della sua ricerca storica: la concezione “atomistica” delle idee (che lui definisce unit-
ideas) e il carattere interdisciplinare del lavoro dello storico delle idee.
Per quanto concerne il primo punto, Lovejoy chiarisce che il compito di uno storico che
affronta lo studio di un corpo dottrinale o del pensiero di un singolo autore è quello di andare alla
ricerca di quelle unit-ideas che formano apparati concettuali più vasti e complessi. Lovejoy in-
tende questi apparati come un «aggregato composito e eterogeneo»10
che lo storico delle idee
9 LOVEJOY, A. O., The great chain of being. A study of the history of an idea, Harvard University press, Cambridge-
Mass., 1936; trad. it. di L. Formigari, La grande catena dell’essere, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 11. 10
Ibid.
21
deve analiticamente e «chimicamente» smontare, col preciso obiettivo di risalire a quelle idee-
unità da cui il composto concettuale è formato. Rispetto alle grandi costruzioni concettuali, le u-
nit-ideas rappresentano nuclei concettuali che perdurano e restano saldi indipendentemente dalle
modalità assunte dalle idee nel corso del tempo. Lo storico deve partire da queste per risalire ai
composti che gli interessano, deve riconoscere l’esistenza delle unit-ideas dietro e sotto le grandi
concettualizzazioni storiche. Si tratta di un lavoro che investe in maniera diretta le questioni rela-
tive al linguaggio perché si concentra sulle modificazioni e alterazioni semantiche dei termini
designanti le idee in ambiti spaziali, temporali, sociali e culturali diversi. Ma cosa è che determi-
na la circolazione delle unit-ideas? E sulla base di quale assunto è legittimato lo studio di esse?
Lovejoy è abbastanza chiaro in proposito. Sebbene lontano dall’orizzonte e dagli interessi storio-
grafici della rivista delle «Annales» – lontano solo geograficamente ma non dal punto di vista
temporale, in quanto la prima generazione degli storici della celebre rivista è contemporanea allo
storico americano – egli fa propria la concezione della possibilità di una storia della «mentalità»,
insistendo su fattori come «presupposti impliciti», «abiti mentali più o meno inconsci», «ten-
denze dominanti di un’età»11
che appartengono a un singolo individuo o a una comunità e che
condizionano la ricezione di idee passate o la formazione di idee nuove.
Per quanto concerne il carattere interdisciplinare, caratterizzante il lavoro dello storico
dello idee, esso si evince con forza dalla Preface di Philip W. Wiener al Dictionary of the Hi-
story of Ideas, pubblicato a New York negli anni 1973-74. Vi viene sottolineato l’invito a scritto-
ri, artisti e scienziati di fuoriuscire dalla specificità del proprio campo di ricerca, del proprio set-
tore di studio e del proprio metodo per indagare ed esplorare quei pivotal clues, cioè quelle idee-
cardine, che fungono da indizi per costruire e costituire le radici culturali di diversi settori, rile-
vanti e marginali, operanti nel mondo della conoscenza12
. Una volta che una idea-unità è stata
11
LOVEJOY, A. O., op. cit.; p. 14. 12
WIENER, P. W., Preface a Dictionary of the History of Ideas. Studies of selected pivotal ideas, 4 voll., Charles
Scribner's Sons, New York, 1973-1974, vol. 1, p. viii.
22
individuata e isolata si tratta di seguirla nel suo percorso storico «anzi, in ultima analisi, attraver-
so tutte le sfere della storia in cui essa figura in misura notevole, sia quella della filosofia, oppure
della scienza, della letteratura, dell’arte, della religione o della politica»13
. Le idee sono entità
mercuriali e dinamiche che, secondo lo schema programmatico del Dictionary, devono essere
studiate in tre modi: attraverso uno studio «cross-cultural» che si concentri sulla presenza di una
o più unit-ideas in diverse discipline in un periodo storico determinato, attraverso la ricostruzio-
ne storica di una idea dai tempi dell’antichità fino alla contemporaneità, attraverso la spiegazione
del significato dell’idea nelle concettualizzazioni di diversi autori principali. Questa ultima que-
stione ha un particolare rilevo, perché indaga il problema semantico direttamente e quindi invita
a svolgere un’analisi attenta all’interno del problema linguistico.
Risulta importante, nell’economia di un discorso che voglia descrivere le figure intellet-
tuali di Pocock e Skinner, operare un confronto critico tra la History of Ideas e la New History of
Political Thought. Mentre la prima risolve la questione semantica all’interno di un campo di rife-
rimento relativo a mentalità e abiti mentali, perché questi sono gli spazi in cui le idee, anche – e
soprattutto – inconsciamente, agiscono dall’interno e dal fondo, la seconda risolve, invece, il
problema semantico nell’ambito del contesto linguistico; questo, a differenza dell’astrattezza
propria delle unit-ideas è consistente e possiede peculiari proprietà derivanti dalle circostanze re-
toriche proprie di uno specifico «gioco linguistico». Tra le due scuole storiografiche esiste,
poi,una diversa prospettiva di lettura in merito alla funzione e al ruolo degli autori. Questi sono,
per gli storici che seguono il metodo di Lovejoy, in un certo senso condizionati dal modo in cui il
composto di idee-unità crea forme dialettiche di concettualizzazione, mentre, per Pocock e Skin-
ner, gli autori sono sì, anch’essi condizionati, ma dal contesto linguistico e dallo strumentario re-
torico di cui dispongono. Tuttavia gli autori del passato a cui ci si riferisce hanno una funzione
specifica, in quanto essi, eseguendo delle mosse linguistiche riconoscibili perché proprie del loro
13
LOVEJOY, A. O., op. cit.; p. 21.
23
ambito linguistico permettono allo storico di risalire alle «intenzioni» che gli autori avevano. Per
cui, mentre lo storico delle idee cerca i composti che hanno dato vita ad una particolare forma
concettuale, lo storico del discorso politico ricerca le circostanze semantiche in base alle quali è
stato usata una terminologia invece di un’altra. Per lui l’autore non si sta esprimendo in un modo
che necessita che venga stanata l’idea o le idee che sono alla base della sua «aggregazione» con-
cettuale, ma invece considera il mondo retorico dell’autore come un linguaggio le cui corrispon-
denze semantiche sono condivise in quanto possesso comune di una «forma di vita» in cui tutti
sono calati.
1.4 Begriffsgeschichte e New History of Political Thought
Qualcosa di analogo alla sintesi metodologica della History of Ideas è avvenuto in Ger-
mania quando Wilhelm Dilthey diviene il capostipite di un movimento intellettuale e di pensiero
che, trent’anni dopo la sua morte, e cioè a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, ritro-
va vigore e forza intorno alla rivista «Archiv für Begriffsgeschichte», fondata nel 1955 da Erich
Rothacker . Questo orientamento eredita il nome hegeliano di Begriffsgeschichte (Storia dei con-
cetti), utilizzato dal filosofo per la prima volta nelle Vorlesungen über die Philosophie del Ge-
schichte [Lezioni sulla filosofia della storia]. Il significato che Hegel dà al termine – riferito alla
«storia interpretativa» – non avrà un seguito, ma il termine Begriffsgeschichte verrà utilizzato in
questi anni per specificare la volontà, all’interno della lessicografia tedesca, di produrre un reper-
torio della terminologia filosofica tenendone presenti i mutamenti semantici avvenuti nel corso
della storia della filosofia e cercando di eliminarne gli aspetti impuri e le ambiguità14
. Frutto di
questo lavoro sono alcune imprese collettive come l’Historisches Wörterbuch der Philosophie
14
D’ORSI, A., Guida alla storia del pensiero politico, La Nuova Italia, Firenze, 1995; pp. 64-66.
24
(Dizionario storico di filosofia) e il Geschichtliche Grundbegriffe (Concetti storici fondamentali).
L’atto di nascita ufficiale della Begriffsgeschichte può essere indicato con la prima pubblicazione
dell’Archiv für Begriffsgeschichte, dove Rothacker, in una breve Avvertenza (Geleitwort) espo-
ne i punti programmatici della rivista. Formatosi intellettualmente nell’ambito della diltheiana
Geistesgeschichte, l’autore tiene a evidenziare il carattere di impossibilità di un regesto dei ter-
mini filosofici che non tenga conto del fattore della storicità e del condizionamento temporale, e
si sofferma su un aspetto del lavoro che la rivista si propone di portare avanti, cioè l’interesse per
l’allargamento dell’interesse lessicografico oltre i confini della filosofia in senso stretto per favo-
rire l’apertura all’intero ambito della cultura15
. È un progetto, quello di Rothacker, che, benché
molto ambizioso, incontrò notevole interesse da parte degli storici del pensiero filosofico del
tempo e che troverà una prima realizzazione pratica nel lavoro coordinato, a partire dagli ultimi
anni Sessanta, da Joachim Ritter, l’Historisches Wörterbuch der Philosophie. Il Dizionario è
un’opera collettiva che contiene vere e proprie monografie sui diversi argomenti trattati, ma, so-
prattutto, esso dimostra che la Begriffsgeschichte non si pone come un disciplina che affianca la
storia della filosofia, ma come un filone di studi dotato di dignità metodologica e contenutistica
che apre il suo sguardo su vari aspetti della cultura: letteratura, arte, politica, storia. Parallela al
Dizionario è la lavorazione dei Geschichtliche Grundbegriffe, opera progettata e coordinata da O.
Brunner, W. Conze e R. Koselleck. Quest’iniziativa si propone di vagliare il lessico dei concetti
fondamentali della politica in lingua tedesca, anche se poi estende il suo orizzonte al resto
dell’Europa, ricostruendo i mutamenti semantici di alcuni termini fondamentali. Si tratta di un
lavoro che ha come presupposto metodologico di base l’analisi delle convergenze e delle divi-
sioni della «parola» dal «concetto», in quanto non sempre tra essi esiste una effettiva coincidenza:
spesso le parole non coincidono coi concetti e i concetti non coincidono con le parole, ci sono
parole che nel corso del movimento della storia acquisiscono significati diversi e, viceversa, ci
15
ROTHACKER, E., Geleitwort, «Archiv für Begriffsgeschichte»,1955, n. 1; pp. 5-9,.
25
sono concetti che non sempre trovano espressione nel medesimo termine, cosicché diviene ne-
cessario, per lo storico, individuare gli slittamenti terminologici e le coordinazioni che si defini-
scono tra concetti e le parole nel flusso storico.
Anche tra Begriffsgeschichte e New History of Political Thought sono stati qualche volta
indicati punti di convergenza in quanto entrambi gli orientamenti storiografici condividono
«l’esigenza di contestualizzazione […] che rende originali e reciprocamente irriducibili i contesti
d’uso del vocabolario politico»16
, cioè sia la scuola di Cambridge che quella tedesca avrebbero in
comune la tendenza a isolare la singolarità e l’eterogeneità dei campi semantici. Appare tuttavia
difficile trovare compatibilità tra queste scuole, poiché i riferimenti filosofici e linguistici sono
diversi: mentre i presupposti metodologici degli storici di Cambridge sono legati alla tradizione
analitica, quelli della Begriffsgeschichte sono invece agganciati alla tradizione ermeneutica.
Un confronto accurato può essere illustrato prendendo le mosse dallo studio sistematico
su Quentin Skinner curato da Kari Palonen, docente di Scienze politiche all’università di Jyvä-
skyla, in Finlandia, il quale presenta la metodologia del docente di Cambridge come l’esito di un
percorso teorico che parte dalla History of Ideas per approdare alla Begriffsgeschichte17
.
L’itinerario tracciato sembra discutibile per diverse ragioni. Prima di tutto, lo studioso finlandese
attinge quasi esclusivamente dalla critica di Skinner18
al testo di Raymond Williams Keywords:
A Vocabulary of Culture and Society (1979) e di lì non si scosta se non per citare Le origini del
pensiero politico moderno e i primi lavori su Hobbes come opere che segnano il cambiamento di
prospettiva metodologica in Skinner. Palonen prende le mosse dalla domanda di Skinner su cosa
si possa effettivamente imparare di una cultura e di una società studiando la storia del significato
di una parola, e fin qui sembra inquadrare Skinner nell’ambito della Begriffsgeschichte; tuttavia
16
CHIGNOLA, S., voce «Storia dei concetti», in GALLI C., ESPOSITO R. (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico,
Laterza, Roma-Bari, 2000. 17
PALONEN, K., Quentin Skinner. History, Politics, Rhetoric, Polity Press, Cambridge, 2003, pp. 88-90. 18
SKINNER, Q., «The Idea of a Cultural Lexicon», in Essays in Criticism 29, ora, in versione riveduta e ampliata, in
ID. Vision of Politics. Vol. 1, Regarding Method, C. U. P., Cambridge, 2002; trad. it. a cura di R. Laudani «Lin-
guaggio e mutamento sociale», in ID., Dell’interpretazione, Bologna, Il Mulino, 2001.
26
Palonen, indicando tre punti fondamentali dello studio skinneriano che evidenziano come
l’analisi del significato sia intesa da quest’ultimo in maniera più vasta e più ampia, sembra non
accorgersi che gli studi del professore di Cambridge riguardanti le questioni semantiche hanno
una loro complessità e specificità rispetto alla Begriffsgeschichte. Skinner, nel testo citato, critica
l’atteggiamento di Williams che identifica parola e concetto, per cui il possesso di un concetto
equivale anche al possesso del significato di una parola, e utilizza un preciso strumentario teorico
fornitogli dagli studiosi di filosofia del linguaggio di stampo analitico: il testo di J. L. Austin
How to Do Things with Words, le Philosophical Investigations di Ludwig Wittgenstein, nonché
gli studi di Michael Dummett su Frege19
. Questo ambito teorico di riferimento consente allo sto-
rico e filosofo inglese di muoversi con sicurezza nel campo della teoria del significato, così da
potere approntare meglio i tre livelli di definizione del rapporto tra concetto e parola.
Il primo livello riguarda la necessità di «conoscere la natura e la serie di criteri in virtù
dei quali la parola o espressione è abitualmente impiegata», mentre il secondo concerne «il suo
campo di riferimento»20
. Questi primi due livelli della classificazione di Skinner evidenziano la
sua conoscenza della fondamentale distinzione elaborata da Frege tra senso e significato, una di-
stinzione che, superando la logica aristotelica che si fonda sulla coppia soggetto/predicato, inau-
gura ufficialmente lo studio della proposizione dal punto di vista dell’analisi funzionalistica.
Frege, in un famoso saggio del 1892 dal titolo Über Sinn und Bedeutung [Senso e significato],
distinguendo le espressioni verbali da ciò che esse designano, individua due diverse dimensioni
del linguaggio, quella del significato, o del riferimento, e quella del modo in cui questo significa-
to è presentato e nominato. Si tratta della ripresa di un tema già accennato da Leibniz, che lo ha
presentato nei termini della differenza tra estensione e intensione dei termini verbali. Ebbene,
Skinner, proponendo i suoi primi due livelli dell’analisi del rapporto tra parola e concetto ha
chiaramente in mente questo impianto teorico. Egli descrive il primo livello come il livello in cui
19
Ivi; p. 158 nota. 20
Ivi; pp. 158-159.
27
si definisce, di una parola, «il suo ruolo distintivo nella nostra lingua»21
, cioè tutte le caratteristi-
che intensionali che fanno sì che l’applicazione di un termine ad una determinata situazione sia
identificabile con aggettivi simili e che sia distinguibile da termini contrastanti. Il secondo livello
è inerente, invece, al campo di riferimento, cioè alla conoscenza della «natura delle circostanze
in cui la parola può essere impiegata in maniera appropriata per designare particolari azioni o si-
tuazioni»22
. Si tratta della comprensione del carattere estensionale del termine e, quindi, della
comprensione dei criteri adeguati alla applicazione di una parola a una determinata situazione.
Ora, ritornando alla tesi di Palonen, si può già adesso constatare quanto sia piuttosto inadeguato
individuare in Skinner uno storico che utilizzi armamentari teorici propri della Begriffsgeschichte.
In primo luogo, la teoria di Skinner sul significato ha una palese matrice analitica. Poi, per le due
impostazioni teoriche (quella di Skinner e quella degli storici della Begriffsgeschichte), bisogna
pure rilevare una diversa concezione del concetto di «contesto». Gli storici della Begriffsgeschi-
chte intendono il contesto in senso storico-culturale, mentre Skinner, e con lui Pocock, quando
utilizzano questo termine, hanno innanzitutto presente, come insegna Wittgenstein, un contesto
di tipo linguistico in cui i parlanti utilizzano un linguaggio condiviso fatto anche, e soprattutto, di
azioni linguistiche.
Sembra mancare, da parte di Palonen, proprio il dovuto impegno nella sottolineatura
dell’aspetto linguistico che sempre è evidente nel saggio di Skinner a cui lui si riferisce. Infatti è
questo l’aspetto costitutivo del terzo livello del significato elaborato da Skinner, aspetto in cui
egli parla della comprensione delle parole da un punto di vista semantico come della necessità di
capire «a quale preciso insieme di atteggiamenti rinvia, in linea di principio, l’espressione del
termine»23
. In questo luogo del saggio Skinner attinge direttamente alla teoria di Austin secondo
la quale «bisogna sapere quali atti linguistici possono essere eseguiti impiegando [una certa] pa-
21
Ivi; p. 159. 22
Ibid. 23
Ivi; p. 160.
28
rola»24
, cioè egli si riferisce a quell’aspetto proprio del significato secondo il quale
l’applicazione propria di un termine a una situazione è legata alla comprensione dell’intenzione
del parlante.
Sono questi temi – per il momento solo accennati – che consentiranno di trattare in ma-
niera più specifica e ampia la peculiarità della metodologia applicata alla storia del pensiero poli-
tico da parte di Pocock e Skinner. Ed è proprio da qui che l’analisi vuole prendere le mosse per
avviare una ricerca precisa e rigorosa sul retroterra teorico a cui gli studiosi fanno riferimento.
1.5 Astrazioni e mitologie delle verità eterne
La critica degli storici del discorso politico alla Begriffsgeschichte assume un fondamento
teorico forte allorché viene seguita attraverso gli scritti metodologici di Pocock e Skinner. I due
storici del pensiero politico hanno un atteggiamento fortemente critico e polemico non solo nei
confronti delle specifiche metodologie di ricerca, ma anche verso le ideologie degli storici di lin-
gua tedesca. Il primo obiettivo su cui vengono lanciati gli strali della polemica è Hans-Georg
Gadamer, che negli anni Cinquanta aveva diretto una Commissione Senatoriale presso la Deu-
tschen Forschungsgemeinschaft (Comunità di ricerca tedesca) per la ricerca nel campo della sto-
ria dei concetti, evidenziando il contributo che la Begriffsgeschichte era riuscita a dare
all’ermeneutica. Gadamer poi pubblica, nel 1960, Wahrheit und Methode [Verità e metodo], in
cui presenta la ricostruzione storica di quattro concetti umanistici fondamentali: Bildung, sensus
communis, Urteilskraft e Geschmack, tradotti in italiano, il primo e gli ultimi due coi termini
“Cultura”, “Giudizio” e “Gusto”, mentre per il secondo è stato lasciato il lessico latino. Si tratta
di un testo basilare dell’ermeneutica contemporanea, dove viene esaltata la figura del filosofo
24
Ibid.
29
come colui che tratta con la fisionomia dei «termini» e dei «concetti», per cui, «chi non voglia
lasciarsi dominare dal linguaggio, ma si sforzi di acquistare una fondata consapevolezza storica,
si trova costretto ad affrontare tutta una serie concatenata di problemi sulla storia delle parole e
dei concetti»25
. L’atteggiamento dell’ermeneutica gadameriana consiste nell’affrontare lo studio
dei testi dell’antichità avendo come punto di partenza – e di supporto teorico – una serie di con-
cetti fondamentali. In questo modo, il testo da studiare assume il «valore soprastorico» di classi-
co, in quanto questo si eleva al di sopra del tempo storico e «si mantiene valido di fronte alla cri-
tica storica, giacché il suo predominio storico, la potenza obbligante della sua validità che dura e
si tramanda, precede ogni riflessione storica e si fa valere in essa»26
. A determinare questa realtà
che supera e che è oltre il tempo storico è la capacità del classico di riuscire a mettersi in comu-
nicazione con il suo interprete che, armato delle sue strutture concettuali, riesce a dialogare con il
testo facendo di esso un interlocutore capace di fare uscire dalle sue pagine verità eterne com-
prensibili al di là della località cronologica in cui si abita.
La critica a Gadamer e all’ermeneutica emerge in un saggio che ha per titolo The History
of Political Thought: a methodological enquiry pubblicato nel 1962, cioè appena due anni dopo
la pubblicazione di Verità e metodo. In questo saggio J.G.A Pocock si chiede «che cosa sia quel
che facciamo quando sosteniamo di studiare la storia del pensiero politico»27
. Spesso, scrive lo
storico neo-zelandese, gli autori del pensiero politico del passato vengono valutati in quanto ini-
ziatori o seguaci di una tradizione, ma di una tradizione che diviene tale in merito al fatto che
uno storico si occupa degli autori che lui ritiene oggetto di interesse, in base al suo punto di vista.
Questo punto di vista, che dalla prospettiva gadameriana costituisce la possibilità di realizzare
25
GADAMER, H.-G., Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 19865; trad. it. a cura di G. Vat-
timo, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000; p. 43. 26
GADAMER, H.-G., op. cit., p. 595. 27
POCOCK, J.G.A., «The History of Political Thought: a methodological enquiry», in (a cura di) LASLETT, P.-
RUNCIMAN W.G., Philosophy, Politics and Society: Second Series, Basil Blackwell, Oxfort, 1962; trad. it. a cura di
Gadda Conti G., «La storia del pensiero politico: un’indagine metodologica», in ID., Politica, linguaggio e storia.
Scritti scelti, Edizioni di Comunità, Milano, 1990; p. 28.
30
quella «fusione di orizzonti» tra l’interprete e l’opera, rappresenta per Pocock solamente uno de-
gli illimitati modi che rendono possibile lo studio sistematico del pensatore politico del passato.
Questo modo di agire fa sì che gli autori del passato costituiscano una tradizione che si perpetua
laddove gli interessi storici continuino a focalizzarsi su di essi da parte dei ricercatori. La tradi-
zione di pensiero che viene indicata con «storia delle idee politiche» è, tuttavia, suscettibile di
deviare lo sforzo intellettuale di chi opera nel settore, in quanto rischia di far emergere «una con-
fusione di pensiero circa il modo in cui altri uomini pensarono e una confusione di pensiero sul
perché e sul come noi pensiamo di essi»28
. Il superamento di questa «confusione» viene da Po-
cock proposto attraverso una chiarificazione riguardo ai metodi e alle finalità della storia del
pensiero politico. Per avvicinarsi a questa disciplina bisogna seguire due vie, o considerarla co-
me «un aspetto del comportamento sociale» che tiene conto dei modi in cui gli uomini si relazio-
nano tra loro e dei modi in cui le comunità si relazionano con le istituzioni, oppure come «un a-
spetto dello sforzo intellettuale» compiuto dagli uomini per comprendere se stessi e il loro am-
biente. Un testo della tradizione della storia del pensiero politico può, quindi, essere considerato
sia come «un atto di persuasione» sia come «un episodio della storia del comprendere», o en-
trambe le cose insieme. Diviene importante allora, da un lato non avanzare punti di vista a priori
che possano compromettere la comprensione, dall’altro lato risulta invece rilevante prendere
consapevolezza degli strumenti di cui si dispone per evitare che ciò accada. Lo storico deve capi-
re quale fu il livello di astrazione a cui il pensatore politico pensava quando scriveva un determi-
nato brano o un intero testo: è la comprensione di questo fondamentale aspetto che garantisce
l’autenticità di una storia del pensiero politico, che altrimenti rischia di rimanere imbrigliata nel-
lo sguardo prospettico dell’interprete. Bisogna invece cercare di individuare quale fu l’effettivo
livello (o livelli) di astrazione del pensatore politico senza che questi livelli vengano sottoposti
ad un processo di sempre maggiore complessizzazione dovuta alla tendenza dell’interprete a vo-
28
Ivi; p. 29.
31
ler ricavare dai testi studiati un sistema di pensiero coerente e unitario che è più conforme al suo
modo di pensare che non a quello dell’autore del testo. Operando in questo modo l’autore rischia
di essere inserito in una tradizione «concentrata in un unico esposto», che viene presentata a un
elevato livello di astrazione. E poiché non si ha la possibilità di chiedersi se l’autore fosse consa-
pevole o meno di muoversi su un piano del pensiero che prevedesse una tale astrazione, questo
modello storiografico risulta sterile perché privo di una possibilità di verifica.
Su questo ultimo aspetto della verifica si snoda la pars construens del saggio di Pocock.
Lo storico si interroga sulla questione della possibilità di dimostrare se i modelli di astrazione
corrispondono a «una storia di avvenimenti accaduti in concreto»29
. Sciogliere questo nodo è
possibile operando un accertamento empirico, reso possibile aggiungendo alla figura del filosofo
quella dello storico, così come insegnava Collingwood. Il filosofo è interessato alle forme di
pensiero suscettibili di essere spiegate per merito di un procedimento razionale; lo storico volge
invece lo sguardo al tipo di ambiente in cui vissero gli uomini e al modo in cui pensarono la poli-
tica. È così che si realizza il rapporto tra esperienza e pensiero, cioè «tra la tradizione dei com-
portamenti in una società e l’astrazione da quella di concetti usabili nel tentativo di comprenderla
e influenzarla»30
. È questo l’atteggiamento proprio di chi sostiene che vi sia un rapporto stretto e
significativo tra attività politica e teoria politica, tra fattori situazionali e livelli di astrazione, tra
esperienza e attività teoretica. Un rapporto che deve generare, al fine di produrre una valida sto-
ria del pensiero politico, due campi di studio: uno che si occupi dell’attività di pensare (concen-
trandosi sui modi in cui un’astrazione emerge da una tradizione), e l’altro che indaghi sull’azione
politica (cioè su quello che avviene quando le astrazioni agiscono all’interno di questa tradizio-
ne). Così lo storico può dirigere la sua ricerca sul fondamentale compito di cogliere la relazione
tra pensiero e struttura della società, evidenziando i modi in cui gli individui di questa struttura
esprimevano la loro consapevolezza e sottolineando i linguaggi attraverso i quali tale consapevo-
29
Ivi; p. 33. 30
Ivi; p. 36.
32
lezza veniva espressa. Il pensiero politico è, quindi, il «riflesso» di una struttura societaria, e lo
storico si propone il duplice compito non solo di descrivere questo riflesso attraverso i linguaggi
che lo esprimono, ma anche di capire come esso si venga a formare. Risulta allora fondamentale
che il pensiero venga collocato nella «tradizione discorsiva» a cui appartenne, sia perché ciò
«permette d’interpretare il pensiero quale comportamento sociale, di osservare la mente agire in
relazione alla propria società, alle tradizioni di tali società e dei coabitanti della stessa società»,
sia perché «aiuta a rendere il pensiero intelligibile essendo in grado di identificare i concetti che
il pensatore maneggiava e il linguaggio con cui comunicava con il prossimo»31
.
Questa la diagnosi e la prognosi di Pocock sullo stato dell’agire dello storico nell’ambito
della ricerca del pensiero politico. Ma altre perplessità profonde verso l’ermeneutica gadameria-
na –ma il bersaglio critico è anche Paul Ricoeur – sono state esposte da Quentin Skinner sulla
base di una duplice critica che si fonda sul principio che il metodo ermeneutico, nel tentativo di
creare una fusione di orizzonti tra testo e interprete, non tiene conto da un lato della specificità
dei motivi che hanno spinto l’autore a scrivere e poi pubblicare un testo, dall’altro lato non pren-
de in considerazione il contesto storico in cui il testo è stato elaborato, contesto che è un insieme
di ideologie, credenze e, soprattutto, linguaggi. Questa critica bene viene esposta nove anni dopo
la pubblicazione della prima edizione del testo di Gadamer e si sviluppa intorno ad alcuni punti
salienti che vengono esposti da Quentin Skinner nel saggio Meaning and understanding in the
history of ideas. Si tratta di una sorta di manifesto programmatico del metodo storiografico della
scuola di lingua inglese che affronta il tema della assurdità delle questioni eterne e quello dei pe-
ricoli del «circolo ermeneutico». Questi argomenti vengono trattati elencando quattro «mitolo-
gie»32
di cui gli storici dei concetti sono schiavi e da cui difficilmente riescono a liberarsi data la
forza delle loro catene ideologiche. L’atteggiamento dello storico che è «fissato» nel volere e-
31
Ivi; p. 48. 32
SKINNER, Q., «Meaning and understandig in the history of ideas» (1969), ora in ID., Vision of Politics Vol. 1, Re-
garding Method, Cambridge, C.U.P., 2002; trad. it a cura di R. Laudani, «Significato e comprensione nella storia
delle idee», in ID., Dell’interpretazione, Il Mulino, Bologna, 2001; pp. 14-41.
33
strarre dal testo di un autore classico un argomento da lui studiato e trattato è chiamato da Skin-
ner «mitologia delle dottrine». Questa comporta il rischio di trasformare una considerazione
marginale del testo in una dottrina, cosa che magari non rientrava nelle intenzioni dell’autore.
Ma la mitologia delle dottrine soprattutto espone lo storico delle idee ad un altro pericolo – più
dannoso – consistente nell’«ipostatizzare facilmente in un’entità la dottrina che deve essere stu-
diata». Si tratta, secondo Skinner, di un danno storiografico piuttosto serio che espone il ricerca-
tore e lo studioso al rischio di presentare le dottrine come entità immanenti alla storia, come se
queste fossero degli organismi che si sviluppano nel corso del tempo; per cui, una volta giunto ai
nostri giorni nelle sue forme peculiari, questo organismo deve essere analizzato nei modi di evo-
luzione e crescita nel tempo. È la concezione che le idee del presente siano forme modificate di
idee, verità e valori eterni che giustificano l’opinione dell’esistenza di «un tipo ideale di una data
dottrina» soggetto a trasformazione. Si tratta di ciò che Arthur Lovejoy ha indicato come pro-
gramma metodologico il cui fine consiste nello studiare la morfologia di una data dottrina «attra-
verso tutte le sfere della storia in cui essa figura in misura notevole»33
.
La seconda mitologia di cui Skinner parla nel suo saggio è la «mitologia della coerenza».
Questa consiste in un errore che gli storici delle idee commettono allorché si trovano a che fare
con testi di un autore che probabilmente non ha presentato le sue tesi in maniera sistematica. A
questa mancanza lo storico tenta di supplire attraverso un lavoro di parafrasi dell’opera finalizza-
to a trovare in essa messaggi e tesi non esposte. È una mitologia che si basa sulla fissazione dello
studioso su idee del passato di cui cerca un collegamento con le idee del suo tempo, convincen-
dosi a completare il pensiero di un autore con tesi che rendono coerenti le sue riflessioni, anche
se questo non ha mai raggiunto e conseguito una tale coerenza. Si tratta dello stesso livello di cri-
tica denunciato da Pocock quando accusa gli storici di attribuire agli autori un livello di astrazio-
ne che non gli appartiene. L’accusa di Skinner nei confronti di chi si abbandona a questo equivo-
33
LOVEJOY, A. O., op. cit.; p. 21.
34
co si esprime nel rilevare la mancanza di attenzione degli studiosi della effettiva situazione stori-
ca. Questi storici hanno anche ignorato parti delle opere dei pensatori del passato pur di non ne-
gare sistematicità alla sua opera; in più, l’interprete, pur di rivelare la coerenza interna del siste-
ma, si è impegnato a non considerare un ostacolo la sua opera di costruzione della coerenza del
pensiero dell’autore studiato come una reale barriera. Le eventuali incompatibilità sono state for-
zate pur di evitare che un autore non potesse essere interpretato, a partire dal complesso dei suoi
testi, come il messaggero di un sistema di pensiero completo e privo di falle.
Queste due mitologie sopra descritte denunciano l’atteggiamento critico di Skinner verso
la difficoltà da parte degli storici delle idee di liberarsi dai paradigmi ideologici di riferimento.
Questa non è assolutamente un’accusa finalizzata a criticare gli apparati concettuali che fungono
da fondamento del lavoro dell’interprete, ma hanno come mira un procedimento metodologico
che rischia di non riuscire a penetrare con autenticità nel cuore del pensiero di un pensatore poli-
tico del passato. Questi è l’autore del testo, ma è principalmente l’attore di una scena ideologica
e politica in cui si muove con scopi e intenzioni. Sono questi scopi e queste intenzioni che costi-
tuiscono, secondo il professore di Cambridge, il metro interpretativo della History of Political
Discourse. E riuscire a definire i motivi e le ragioni effettive per cui un agente storico ha com-
piuto un’azione politica scrivendo un testo è lo scopo che Pocock e Skinner si prefiggono. Il ri-
schio di eludere questa finalità è quello di cadere nell’errore della «mitologia della prolessi»,
consistente nell’anticipazione semantica del pensiero espressa nel testo dell’autore del passato
indipendentemente da ciò che questi realmente intendeva dire. Si tratta di un atteggiamento pro-
prio di quegli storici che dimostrano di essere più interessati a trovare significati moderni in au-
tori del passato che di trovare il significato dell’azione di questi ultimi. Si corre in questo modo il
pericolo non solo di non descrivere un effettivo apparato concettuale, ma di disinteressarsi delle
reali intenzioni per cui un pensatore ha scritto un testo. Questa è una condizione che può condur-
re l’osservatore storico a inciampare nei pericoli della «mitologia del campanilismo», cioè a uti-
35
lizzare i paradigmi categoriali del suo tempo con lo scopo di studiare e analizzare una cultura
lontana. Questo campanilismo assume due forme particolari: la prima consiste nell’errore di tro-
vare in un autore rinvii ad autori a lui precedenti al fine di stabilire rapporti di filiazione o di con-
traddizione tra opere diverse, senza prendere in considerazione se il concetto studiato può essere
o meno applicato; la seconda forma di campanilismo si realizza quando i propri modelli concet-
tuali vengono usati senza freno, abusando di essi nel descrivere il senso di un’opera, senza volge-
re lo sguardo alla situazione storica e alle intenzioni dell’autore.
36
Capitolo 2
La comprensione del testo
2.1 La comprensione delle parole
La questione della ricostruzione storica riguarda da vicino il problema
dell’interpretazione, che è possibile solo laddove si realizzi la convergenza semantica tra
l’interprete e il testo interpretato. Ciò significa che, se si guarda al problema dalla prospettiva
dello storico delle idee, in particolare delle idee e dei concetti della politica, i testi di un determi-
nato contesto storico-politico risultano comprensibili e interpretabili solo se vi è la possibilità di
capire il significato degli enunciati che questi testi contengono. I linguaggi utilizzati, mentre
vengono intesi dalla tradizione ermeneutica nei modi resi noti da Gadamer in Verità e metodo,
vengono invece sottoposti ad analisi semantica dagli storici della scuola inglese, i quali sono in-
dicati semplicemente e banalmente come «contestualisti», etichetta che può, e deve, essere sotto-
posta a una più articolata analisi, che pervenga a definire i contenuti teorici di una teoria
dell’interpretazione che affonda le sue radici epistemologiche nel modello della filosofia analiti-
ca del linguaggio. Qui il bisogno interpretativo consiste nel cercare di individuare quel che vole-
va dire lo scrittore politico scrivendo quello che scriveva e nel tentare di risalire all’universo di
significati che lo scrittore ha intenzionalmente espresso con quei termini e con quegli enunciati.
La tesi di Pocock e Skinner si basa sulla convinzione che non esiste alcuna storia di
un’idea o di un concetto, ma solo storia incentrata sui pensatori che hanno utilizzato un concetto
o un’idea in determinate situazioni storiche, e che hanno espresso queste idee e questi concetti
attraverso termini e linguaggi specifici che la loro epoca rendeva disponibili. Il referente teorico
37
di questa impostazione è il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, il quale aveva affermato che
le parole sono «strumenti»34
(tools) che si utilizzano con consapevolezza per ottenere determinati
scopi semantici. Le conclusioni di Wittgenstein sono il risultato del capovolgimento dell’iniziale
prospettiva espressa nel Tractatus logico-philosophicus tendente a fornire del linguaggio una
teoria in base alla quale il linguaggio – più precisamente la forma logica del linguaggio – raffigu-
ra la realtà. Quando, nel 1929, ritornò a Cambridge, Wittgenstein elaborò una teoria del linguag-
gio antropocentrica e prassiologica tesa ad analizzare il suo funzionamento sulla base delle con-
dizioni di utilizzo da parte di soggetti inseriti in una comunità. Lo scopo era quello di eliminare
ipotesi realistico-ontologiche dall’analisi linguistica, cioè di rifiutare l’esistenza di una natura
delle cose di cui il linguaggio rappresenterebbe un’immagine. Una questione delicata che il filo-
sofo esplicitò con i concetti di gioco linguistico e di forma di vita. Per gioco linguistico egli inte-
se esprimere le differenti modalità di utilizzazione delle parole e delle proposizioni, per cui il
linguaggio di cui una comunità dispone si manifesta multiforme in considerazione dei diversi usi
di esso come differenti giochi linguistici. La varietà dei giochi linguistici getta luce sul linguag-
gio utilizzato da una comunità perché mostra il suo carattere prassiologico, infatti «parlare un
linguaggio fa parte di un’attività o di una forma di vita»35
, cioè esso – il linguaggio – è sempre
adottato da un soggetto concreto e incarnato all’interno di una comunità che possiede consuetu-
dini e in cui si svolgono attività. Il carattere del linguaggio è, quindi, assolutamente «sociale», è
espressione della forma di vita di una società e non di un soggetto isolato, ma si inserisce
all’interno del caleidoscopio dei comportamenti umani. Per cui, i giochi linguistici non sono altro
34
Scrive Wittgenstein: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia,
una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le fun-
zioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. […] Naturalmente, quello che ci confonde è
l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il lo-
ro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia!» (Philoso-
phische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953. Trad. it. a cura di R. Piovesan e M. Trinchero, Ricerche fi-
losofiche, Einaudi, Torino, 1999; § 11.) 35
Ivi; § 23.
38
che attività di reazione a fenomeni pre-linguistici e configurazioni simboliche le cui regole ven-
gono di volta in volta fissate e stabilite.
A un linguaggio inteso in questo modo va connesso l’altro importante assunto del filosofo
austriaco, riguardante il principio del «seguire una regola». Una determinata forma di vita – che
Wittgenstein definisce «dato» – la si accetta oppure no, non vi è un modo per insegnare a qual-
cuno a giocare un gioco linguistico se questi non condivide reazioni pre-linguistiche e ordina-
menti simbolici. La mancanza di queste reazioni da parte di un membro della comunità non gli
consente di impegnarsi negli stessi giochi linguistici, per cui il linguaggio, per questo membro,
risulta privo di senso. Ecco perché parlare un linguaggio fa parte di una forma di vita: alla base
di un gioco linguistico vi sono alcuni comportamenti pre-linguistici e regole simboliche condivi-
se. Se manca l’elemento della condivisione non si è in grado di partecipare al gioco. La gramma-
tica non si articola, per Wittgenstein, su un sistema arbitrario, ma sulla natura umana, intesa co-
me capacità non solo di condividere una cultura, un sistema linguistico-simbolico e un insieme di
valori, ma anche, e soprattutto, come possibilità di agire mostrando questa condivisione. Com-
prendere è, quindi, una capacità non solo manifestata ma anche manifestabile. Il meccanismo
della comprensione si fonda sul fatto che un soggetto sia in grado di esibire la comprensione at-
traverso il proprio comportamento linguistico. Ma questa capacità non è sufficiente se questo
comportamento non viene esibito nel contesto giusto. Criterio fondamentale della comprensione
è, per Wittgenstein, l’aspetto normativo, in base al quale «senza queste regole, la parola non ha
più nessun significato; e se cambiamo le regole ha un significato diverso (o nessun significato) e
possiamo benissimo cambiare anche la parola»36
. Ma cosa significa «seguire una regola»? Wit-
tgenstein risponde ribadendo ancora una volta il carattere prassiologico del linguaggio, specifi-
cando cioè che l’aspetto normativo del linguaggio ha valore laddove sia riferito a determinati pa-
radigmi nei quali le regole possono essere applicate. Il linguaggio non è un fatto privato. Se non
36
Ivi; p. 194.
39
vi è una connessione tra il seguire la regola e la sua applicazione paradigmatica la regola non è
tale. È il carattere sociale del linguaggio a definire le coordinate semantiche dei termini ed è solo
nell’essere esibite che le regole ritrovano la possibilità di applicabilità. Tra significato e norma vi
è uno stretto legame, definito dal fatto che le parole e le espressioni sono un fatto pubblico, cioè
vengono utilizzate in maniera conforme o difforme dalle applicazioni paradigmatiche condivise
dalla comunità. È il paradigma a fornire riferimenti semantici disponibili intersoggettivamente,
fungendo da criterio di correttezza per l’applicazione della regola.
2.2 Il recupero dell’oggettivazione
Comprendere una parola o un’espressione significa comprendere il contesto linguistico e
il gioco linguistico in cui la parola o l’espressione sono esibite, cogliendo in questo modo le re-
gole grazie alle quali sono fissati i riferimenti semantici. La comprensione si fonda, quindi, sulla
partecipazione al contesto e alla forma di vita. Ma quando la comprensione tenta di riferirsi a
contesti storici che non ci appartengono più, in cui non siamo direttamente e attivamente calati,
come è resa possibile? Quando si tenta di delineare la storia passata, come la storia del pensiero
politico, come è possibile determinare il significato delle parole e delle espressioni utilizzate nei
testi?
Quello della distanza storica è risultato essere un problema non decisivo per Hans Georg
Gadamer, il quale, prendendo le mosse da Schleiermacher e Heidegger (ma anche da Hegel, Dil-
they e Droysen), ha stabilito i principi dell’ermeneutica contemporanea. L’obiettivo che Gada-
mer si è posto è stato quello di definire come l’ermeneutica, «una volta liberata dagli impacci del
concetto di oggettività derivato dalle scienze, sia riuscita a riconoscere nella sua giusta portata la
40
storicità del comprendere»37
. Liberata e separata dai metodi delle scienze della natura e inqua-
drata nella specificità delle scienze dello spirito, l’ermeneutica gadameriana ha circoscritto la
possibilità dell’interpretazione all’appartenenza a una tradizione storica. Non è, quindi,
l’appartenenza a un contesto linguistico inteso come gioco, ma è l’appartenenza a una tradizione,
che si ritrova nei testi del passato, a definire i termini e i canoni della comprensione. Tra inter-
prete e testo interpretato viene a cadere quell’esperienza di «urto» propria dell’incontro tra il lin-
guaggio da noi utilizzato e il linguaggio del testo. Non vi è opposizione col passato. «Noi – scri-
ve Gadamer – stiamo invece costantemente dentro a delle tradizioni, e questo non è un atteggia-
mento oggettivante che si ponga di fronte a ciò che tali tradizioni dicono come a qualcosa di di-
verso da noi, di estraneo; è invece qualcosa che già sempre sentiamo come nostro, un modello
positivo o negativo, un riconoscersi nel quale il successivo giudizio storico non vedrà una cono-
scenza, ma un libero appropriarsi della tradizione»38
. Si tratta della definizione di un orizzonte
teoretico in base al quale si circoscrive un’unità tra tradizione e ricerca storica, in cui il lavoro
dello storico si specifica non sulla base di un atteggiamento analitico e oggettivante, ma sulla ba-
se delle possibilità comunicative col testo, che è lo strumento attraverso il quale il passato ci par-
la. Il testo del passato, il classico, racchiude in sé un «aspetto normativo» e un «aspetto storico»,
grazie ai quali «una determinata fase dello sviluppo storico dell’uomo viene considerata anche
come una configurazione dell’umano»39
. Il classico perde la sua capacità di esprimere un certo
ideale stilistico, ma diviene qualcosa di più, rappresentando esso «un modo eminente dell’essere
storico» che conserva la sua validità, la sua «potenza obbligante» e si sottrae totalmente al varia-
re del tempo e del gusto. La «normatività» del classico consiste nella sua possibilità di articolarsi
nel tempo pur conservandosi senza distruggersi nel fluire storico. E questa sua invulnerabilità lo
rende accessibile alla conoscenza storica. Il classico si colloca, quindi, «fuori del tempo», in
37
GADAMER, H.-G., Wahrheit und Methode, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 19865. Trad. it. a cura di G.
Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 2000; p. 551. 38
Ivi; pp. 583-585. 39
Ivi; p. 593.
41
quanto contiene sempre qualcosa in più rispetto all’epoca a cui è appartenuto. La sua forza co-
municativa è illimitata: la comprensione ci permetterà di farci rendere conto della nostra appar-
tenenza all’epoca storica in cui il classico è comparso; la comprensione del classico implica la
comprensione dell’epoca poiché, come il testo, anche noi apparteniamo a quell’epoca, sotto for-
ma di epigoni che si inscrivono in una tradizione con cui riusciamo a entrare in comunicazione
per mezzo della parola scritta.
Per Gadamer, la comprensione non va tuttavia intesa in senso soggettivo, ma «come
l’inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica»40
, processo grazie al quale si realizza
la sintesi tra passato e presente. Si tratta di un modello di comprensione storica che non è quello
proprio del paradigma scientifico, ma che comunque nega l’atteggiamento conoscitivo soggetti-
vo e non contempla un’oggettività di tipo scientifico. È il modello storico-ermeneutico, che si
fonda sulla possibilità della comprensione sulla base del fatto che chi interpreta e il testo da in-
terpretare appartengono a una stessa tradizione, a convalidare la condivisione di linguaggi, idee,
culture; e le fondamenta di questa condivisione sono espresse nei classici che, benché apparte-
nenti un’epoca passata, sono posti fuori del tempo perché riescono ancora a parlare e a comuni-
care con un’umanità posizionata a una diversa distanza temporale. Il compito dell’ermeneutica
consiste, quindi, nel chiarire quest’aspetto della comprensione, la quale risulta essere non tanto
un dialogo tra anime, ma si concretizza nella consapevolezza della «partecipazione ad un senso
comune»41
, ovvero nella consapevolezza dell’appartenenza a una umanità che condivide gli stessi conte-
nuti. Viene in questo modo risolto e chiarito positivamente il senso del «circolo ermeneutico», del
carattere heideggeriano della «precomprensione», dell’anticipazione di senso che guida la com-
prensione dell’interprete. E ancora una volta Gadamer ribadisce che la guida per la comprensio-
ne del testo non è la soggettività ma il senso di «comunanza» che ci annoda ad una tradizione.
40
Ivi; p. 601. 41
Ivi; p. 605.
42
Il problema della distanza temporale, per la comprensione, risulta irrilevante perché
l’ermeneutica non contempla la possibilità di giungere a una definitiva comprensione di un testo,
in quanto la ricerca del senso è un processo senza limiti che suscita sempre nuove comprensioni
e nuovi significati. La distanza temporale opera una «distillazione del senso», non ha spazi limi-
tati, «ma è in continuo movimento di dilatazione»42
, quindi l’oggetto peculiare della conoscenza
storica non è un particolare oggetto storico, ma l’unità della storia in cui la realtà storica e la
comprensione coincidono in un unico rapporto. Il comprendere è incluso nella storia e nel suo
procedere deve debitamente tenerne conto. Si tratta di un’esigenza definita da Gadamer Wirkun-
gsgeschichte (Storia degli effetti), consistente in una «struttura» che determina la nostra coscien-
za ermeneutica ogni volta che ci adoperiamo nello sforzo di comprendere una determinata situa-
zione storica. La Wirkungsgeschichte «decide anticipatamente di ciò che si presenta a noi come
problematico e come oggetto di ricerca»43
, agisce giustificando quel senso di unità tra passato e
presente che è proprio della situazione ermeneutica, nella quale emerge la coscienza di essere
storicamente determinati e di essere soggetti non alieni dalla sostanzialità storica che ci determi-
na. È in quest’ottica che diviene possibile quella fusione di orizzonti, in cui l’interprete e il testo
si innalzano a una superiore universalità che consente di comprendere la tradizione che salda
passato e presente e che conserva vitalità e forza nei suoi effetti.
Rispetto alla prospettiva interpretativa gadameriana John Pocock e Quentin Skinner si
pongono in una posizione assai diversa. Lo scopo dei due storici del pensiero politico sembra es-
sere, prima di tutto, quello di ricondurre la conoscenza storica in una dimensione in cui lo sforzo
di comprensione recuperi gli strumenti propri dell’oggettività. L’ermeneutica si pone in una po-
sizione ambigua rispetto all’oggetto, questo è dato, ma allo stesso tempo non è dato; l’oggetto
storico c’è, esiste, ma non può essere isolato dal complesso della tradizione in cui è inscritto, non
può prescindere dai suoi effetti la cui forma si sostanzia nelle pregiudiziali di senso proprie di chi
42
Ivi; p. 617. 43
Ivi; pp. 621-623.
43
si impegna nello sforzo interpretativo. Invece, sostengono Pocock e Skinner, l’interpretazione
deve essere principalmente mirata all’attribuzione di senso di posizioni intellettuali che devono
essere ricondotte ad una struttura coerente che non venga confusa col presente. Quando si studia
la storia del pensiero politico si studiano, simultaneamente, alcuni aspetti dell’esperienza sociale,
per cui la storiografia deve avere «la capacità di esplorare le diverse relazioni possibili che
l’attività teoretica possa avere con l’esperienza e con l’azione»44
. L’azione, protagonista indi-
scussa dell’esperienza sociale, trova la sua giustificazione nel fatto di essere determinata da fat-
tori di cui l’agente è spesso inconsapevole, per cui il compito dello storico si concretizza
nell’attività di trovare quali siano questi fattori studiando e analizzando la situazione in cui
l’attore è collocato. Questa situazione è il risultato del complesso di idee e credenze che emergo-
no dalle pressioni degli eventi sociali e che col tempo tendono a divenire concettualizzazioni e
regole di pensiero stabili che, anche sul piano delle questioni politiche, tendono a definirsi e de-
terminarsi in gruppi di linguaggi fissati e condivisi.
Se il punto di partenza della storia del pensiero politico deve essere la precisa situazione
storica con le sue peculiarità e le sue uniformità e consuetudini linguistiche e se questa delimita-
zione consente un tipo di studio in cui l’oggetto di studio è identificato e limitato, consentendogli
di recuperare quell’oggettività negata dall’ermeneutica gadameriana, allora la ricerca riesce a re-
cuperare la condizione tipica dell’analiticità in cui il soggetto si pone dinanzi all’oggetto senza
essere in esso compreso o senza precondizionarlo. La comprensione storica avviene attraverso
l’individuazione del contesto in cui azioni sociali e successivi livelli di astrazione possono essere
inquadrati in una unità coerente che lo storico si preoccupa di chiarire, con lo scopo preciso di ri-
levare i linguaggi e l’universo semantico dei parlanti. Il tutto attraverso un processo di attribu-
zione di senso fondato sulla consapevolezza dell’esistenza di contesti storico-linguistici in cui si
muovono attori che condividono forme di vita e giochi linguistici.
44
POCOCK, J.G.A., «The History of Political Thought: a methodological enquiry», op. cit.; p. 38.
44
2.3 Contesti, paradigmi e linguaggio politico
Interpretare significa dare significati alle parole e alle espressioni. Come insegnava Wit-
tgenstein a Cambridge, il valore semantico delle espressioni linguistiche dipende dal seguire e
dall’applicare le regole di un determinato gioco linguistico.
Il lessico politico è un particolare gioco linguistico che ha un suo proprio carattere nor-
mativo e delle sue proprie regole che trovano applicazione in contesti determinati che avallano e
garantiscono l’esistenza di un sistema semantico condiviso da una comunità. Sebbene sin dagli
inizi la filosofia linguistica abbia sostenuto l’idea che l’analisi della struttura logica non possa ri-
velare anche il carattere storico del linguaggio, John Pocock si è fissato l’obiettivo di stabilire i
criteri teorici in base ai quali potesse essere possibile definire l’autonomia metodologica della
storia del linguaggio della politica. Lo storico neozelandese si è avvalso del contributo di uno
storico della scienza, Thomas Khun, e specialmente delle teorie contenute nel suo più noto testo,
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, per avallare la sua tesi. In questo famoso testo, al capi-
tolo quinto, Kuhn elabora il noto concetto di «paradigma», che Pocock utilizzerà ampiamente:
Una ricerca storica approfondita di una data scienza specializzata in un dato momento rivela la presenza di una serie
di illustrazioni ricorrenti e quasi convenzionali di varie teorie nelle loro applicazioni concettuali, osservazionali e
strumentali. Queste applicazioni costituiscono i paradigmi della comunità, presenti nei manuali, nelle lezioni univer-
sitarie, e negli esercizi di laboratorio. Con lo studio e la pratica di essi, i membri della corrispondente comunità im-
parano il loro mestiere45
.
I paradigmi costituiscono dei modelli acquisiti da una comunità scientifica che vengono utilizzati
anche inconsapevolmente dai suoi membri; essi rappresentano un comportamento abituale assi-
45
KUHN, T. S., The Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago, Chicago, 1962; trad. it. di A.
Carugo, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1999, p. 65.
45
milato attraverso l’educazione. Non si tratta di regole seguite e rispettate, ma di qualcosa di più e
di diverso. Infatti, una comunità (scientifica) può essere d’accordo nell’identificare un paradigma
comune senza tuttavia condividere l’interpretazione di questo, ovvero senza raggiungere
un’intesa sulle regole a cui affidarsi. I paradigmi rappresentano, quindi, la coerenza della tradi-
zione di ricerca a cui appartengono gli scienziati e i ricercatori e «possono essere anteriori, più
vincolanti e più completi di ogni insieme di regole di ricerca »46
, essi – i paradigmi – costituisco-
no l’insieme delle pratiche sui cui, per un certo periodo di tempo, si è stabilmente fondata una
comunità scientifica, la quale, sulla base di questi risultati acquisiti, realizza un periodo di
«scienza normale», in merito al quale si riconosce alle teorie condivise la capacità di costruire i
fondamenti per la pratica della ricerca.
L’ipotesi storiografica di Kuhn, pur interessando da vicino la storia della scienza, ha su-
scitato l’interesse degli storici del pensiero politico, specie laddove la storia delle idee e dei con-
cetti della politica ha tentato il recupero dell’oggettività e del rigore scientifico. Secondo Kuhn il
modo proprio di avanzare della scienza è caratterizzato dall’assenza di conoscenze accumulate
che la farebbero progressivamente avanzare verso la verità, ma la storia della scienza è, invece,
determinata dalla «tensione essenziale» tra periodi di «scienza normale» e «rivoluzione scientifi-
ca» in cui vengono proposti e avanzati nuovi paradigmi per affrontare problemi non facilmente
risolvibili con i metodi e la prassi del periodo «normale». Questo processo spiega pure i motivi
per cui si impone un paradigma invece di un altro: il paradigma esistente viene sfidato durante i
periodi di crisi e quando la sfida è vinta, e il nuovo paradigma prende il posto del vecchio, la
comunità scientifica subisce un’esperienza di «rivoluzione» grazie alla quale nuovi criteri teorici
sostituiscono i vecchi.
Questo modo di guardare al progresso scientifico ha avuto una certa pregnanza su quegli
storici della politica che hanno dimostrato di avere una certa dimestichezza con l’approccio
46
Ivi; p. 68.
46
scientifico. È stato possibile prendere a prestito il concetto di paradigma quando si è manifestata
la volontà di disegnare un modo di pensare la storia del pensiero politico a partire dalla conside-
razione che le teorie della politica costituiscono dei paradigmi che riflettono e corrispondono il
fatto. Non si tratta di paragonare la storia del pensiero politico alla storia della scienza, piuttosto
si tratta di dimostrare come una comunità abbia considerato un paradigma migliore di un altro
quando questo è riuscito ad osservare i fatti con una determinata teoria, la quale è stata in grado
di risolvere i «rompicapo» della realtà fattuale meglio di un’altra.
Una distinzione e una precisazione è, tuttavia, necessario delineare nell’immediato in me-
rito all’utilizzo del termine comunità. Mentre Kuhn fa riferimento alla comunità scientifica per
indicare il contesto in cui il paradigma è applicato e utilizzato, lo storico della politica, non tro-
vandosi a riscontrare nella storia alcuna comunità di filosofi della politica entro cui una data teo-
ria sia condivisa e accettata, deve rilevare che la teoria di un autore politico è rivolta in maniera
immediata alla comunità politica stessa. Lo scopo del teorico della politica non è quello di cam-
biare la società modificando il modo di guardare ad essa, ma è quello di cambiare la società stes-
sa: c’è una relazione molto stretta tra teoria e prassi, tra l’espressione teorica e la pratica del
comportamento politico. Operando in questo modo lo storico del pensiero politico può leggere
l’opera politica di Platone e i suoi viaggi a Siracusa per invitare Dionigi il giovane a cambiare la
società sulla base delle sue teorie come un modo per tentare di mutare un paradigma preesistente
che non risultava più, per il filosofo ateniese, essere capace di risolvere la crisi del regime tiran-
nico siracusano. Lo stesso si può dire di Machiavelli e della sua intenzione, nel Principe, di indi-
care i modi di dirigere il «governo» e i modi in cui dovesse comportarsi il «principe»; mentre nei
Discorsi, il segretario fiorentino suggerisce non solo di progettare un nuovo sistema politico ma
anche di rovesciare quello vecchio. Un esempio ulteriore lo si può pure riscontrare nella parte fi-
nale dell’Introduzione al Leviatano di Hobbes, in cui l’autore scrive che l’opera è stata preparata
47
per chi governa una nazione e con l’obiettivo, così come aveva fatto Platone, di persuadere
l’autorità a far ricorso al paradigma da lui teorizzato47
.
Questi esempi servono a dimostrare che, spesso, le teorie politiche del passato emersero
come risposta a una crisi della società politica, la quale può essere indicata come un vero e pro-
prio paradigma operativo caratterizzato da un insieme coerente di pratiche politiche abituali, isti-
tuzioni, leggi, strutture di governo e valori pratici organizzati e interrelati. Una società politica è
un sistema organizzato e definito da un certo modo di condividere l’uso e la locazione del potere
politico, da certe aspettative sulla maniera in cui l’autorità deve trattare i membri della società e
dalle pretese che questa società organizzata può, per diritto, avere sui suoi membri. Ciò significa
che questa società politica ha la consapevolezza di essere quello che è e non un altro tipo di so-
cietà, cioè una democrazia piuttosto che una dittatura, una repubblica piuttosto che una monar-
chia, una società governata piuttosto che un’anarchia. È questo insieme di pratiche e di valori che
forma un paradigma di una società ed essa tenta di continuare la sua vita politica coerentemente
con essi.
Date queste premesse, è possibile comprendere l’accusa che Pocock muove a quegli sto-
rici del pensiero politico interessati più a quello che un’affermazione del passato possa significa-
re per il periodo a loro contemporaneo che all’affermazione stessa. Pocock accusa questi storici
di difendere e perorare gli scopi delle proprie ricerche, piuttosto che cercare di far venire alla lu-
ce i significati dei lessici degli autori del passato. Lo storico, scrive Pocock, deve essere «interes-
sato alla domanda di fino a che punto le parole usate dall’autore coincidessero con l’uso che ne
fa l’interprete moderno»48
, rivalutando, quindi, l’operare della ricostruzione storica all’interno di
un orizzonte teoretico che riconosca il valore della comprensione del contesto in cui autori e teo-
47
Cfr. WOLIN, S. S., «Paradigms and Political Teories», in (a cura di) P. King, B. C. Parekh, Politics and Experience:
Essays Presented to Professor Michael Oakeshott on the Occasion of His Retirement, C.U.P., Cambridge, 1968. 48
POCOCK, J. G. A., «Languages and their implications: the transformation of the study of political thougt», in Poli-
tics, Language and Time – Essays on Political Thought and History, Atheneum, London, 1971; trad. it. di Gadda
Conti G., «Linguaggi e loro implicazioni: la trasformazione dello studio del pensiero politico», in ID., Politica,
linguaggio e storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1990; p. 55.
48
rie hanno trovato spazi e luoghi di espressione. Solo in questo modo è possibile restituire ai fe-
nomeni del pensiero politico il loro statuto di autentici fenomeni storici e riconsegnare ai fatti
storici la cornice contestuale in grado di precisare i significati dell’agire.
Questa struttura teoretica getta le basi per le norme della comprensione, le quali edificano
la loro impalcatura su un ulteriore pilastro concettuale, consistente nella considerazione del «lin-
guaggio» come prodotto storico in possesso di una sua storia autonoma. La condizione per defi-
nire l’autonomia della storia Pocock la ricava avvalendosi del concetto di paradigma – inteso
come forma di controllo delle teorie – elaborato da Thomas Kuhn. Gli uomini, afferma lo storico
neozelandese, che abitano sistemi linguistici sui quali si fondano i criteri della comunicazione,
fanno ricorso a questi sistemi stessi per «costituire tanto universi concettuali quanto strutture au-
toritarie». Queste due cose messe insieme costituiscono i contesti all’interno dei quali l’agire e il
comunicare acquistano il loro significato storico. Di conseguenza, la riflessione individuale di un
pensatore politico deve essere compresa sia come un evento sociale, cioè «un atto di comunica-
zione e risposta entro un sistema paradigmatico», sia come un evento storico, ovvero «un mo-
mento del processo di trasformazione di quel sistema»49
. Lo storico del pensiero politico ha,
quindi, a che fare con un concetto di contesto non semplice ma complesso, e questa complessità
emerge dal modo in cui il linguaggio della politica viene studiato insieme alla società politica.
Solo in questo modo è possibile mettere in connessione il sistema linguistico con quello politico
La storia del pensiero politico non è la storia dei linguaggi e dei paradigmi propri della
comunità degli scienziati e dei teorici della politica. A differenza del linguaggio della scienza,
che interessa solo ed esclusivamente la comunità scientifica, il linguaggio della politica è uno
strumento proprio di un pensatore che è egli stesso un membro del contesto politico. Lo scienzia-
to della politica non è alieno dalla società, non si confronta solo ed esclusivamente coi suoi col-
leghi, ma agisce all’interno di un contesto la cui struttura paradigmatica è articolata in modo tale
49
Ivi; p. 62.
49
che l’attività teorica si leghi sempre e costantemente alle istanze relative alle pratiche della con-
vivenza sociale.
2.4 Retorica e discorso politico
La concezione di Pocock di «contesto» può essere considerata concentrica in quanto egli
lo considera come formato dall’insieme di strutture sociali e di situazioni storiche all’interno del-
le quali i paradigmi del linguaggio politico svolgono la loro azione. Poiché l’agire linguistico-
politico ha luogo in circostanze storico-sociali caratterizzate da eterogeneità, questo linguaggio
non è quello uniforme di una singola disciplina ma è quello ricco e diversificato della retorica. Il
discorso politico include «asserzioni, proposizioni e incantagioni», cioè tutte quelle procedure re-
toriche che permettono al linguaggio del pensatore politico di agire a più livelli (linguistici) del
contesto. Il ricorso all’armamentario retorico è proprio del teorico della politica, il quale «invoca
valori, compendia informazioni, sopprime quanto non conviene»50
, al fine di dare al suo para-
digma la possibilità di svolgere più funzioni contemporaneamente. Per fare ciò, chi rilascia di-
chiarazioni politiche deve essere in grado di controllare i diversi paradigmi linguistici
dell’ambito politico a cui appartiene, in modo che le espressioni da lui pronunciate possano si-
gnificare qualcosa e possano venire discusse.
Compito dello storico è quello di riscrivere la storia del pensiero politico espressa sotto
forma di discorso. Egli deve ricostruire la «sequenza di atti verbali compiuti da persone che agi-
scono entro un contesto fornito, in ultima istanza, da strutture sociali e da situazioni storiche, ma
50
Ivi; pp. 64-65.
50
anche – e in un certo senso più immediatamente – dai linguaggi politici per mezzo dei quali gli
atti debbono venir espressi»51
.
Ma cosa è il linguaggio politico? Quale è la sua nozione? Pocock risponde a questa do-
manda considerando preliminarmente il fatto che gli atti politici agiscono sugli «ascoltatori», sul-
lo «scrittore» e sulla «struttura linguistica». Ciò significa che perché questi atti possano realmen-
te agire deve esistere una struttura relazionale entro cui gli atti vengono compiuti, e all’interno
della quale assumono significato e intelligibilità. Lo storico del discorso politico deve capire
quali risorse del linguaggio imposte dalle strutture dialogiche del periodo in cui l’autore politico
ha scritto il suo testo erano disponibili e quali forme poteva assumere il discorso politico. È sulla
base di questo ordine paradigmatico, in base al quale si assume l’esistenza di un contesto in cui
le relazioni sono organizzate in un modo invece di un altro, che si fonda il rapporto tra il testo e
il contesto (linguistico e retorico). La retorica rappresenta, allora, la «scienza normale» entro cui
operano i differenti paradigmi che registrano i rapporti di autorità tra governanti e governati fon-
dati sui valori e sulle concezioni del potere, ma rappresenta pure l’edificio – proprio di un deter-
minato periodo storico – all’interno del quale le convenzioni linguistiche si muovono e agiscono
in maniera variegata.
Per cogliere meglio il senso in cui Pocock intende la novità della metodologia storiografi-
ca di lingua inglese, si può seguire lo storico neozelandese mentre chiarisce i criteri della sua
concezione della storia del pensiero politico come storia del discorso politico facendo riferimen-
to alle teorie della linguistica moderna. Il linguaggio, così come deve essere inteso dallo storico
disegnato da Pocock, è sia quello dei singoli atti discorsivi che quello del contesto retorico. Lo
storico deve, quindi, dirigere la sua attenzione sia verso i primi che verso il secondo, deve cioè
51
POCOCK, J. G. A., The reconstruction of discourse: towards the historiography of Political Thought, in «Modern
Language Notes: a periodical by John Hopkins Univ. Pres», Baltimore, XCVI, 1981; trad. it. di Gadda Conti G., «La
ricostruzione del discorso politico: verso la storiografia del discorso politico», in ID., Politica, linguaggio e storia,
Edizioni di Comunità, Milano, 1990; p. 111.
51
osservare e registrare sia come la parole agisce sulla langue, sia come la langue agisce sulla pa-
role.
Il ricorso alla terminologia del linguista fondatore della semiologia Ferdinand de Saussu-
re, i cui principi teorici furono esposti e sintetizzati da due suoi allievi nel Cours de linguistique
générale pubblicato nel 1916, è funzionale al chiarimento della storiografia del discorso politico.
Secondo de Saussure, la linguistica (da lui definita «linguistica generale») deve occuparsi della
distinzione tra la dimensione sociale del linguaggio (langue) e quella individuale (parole): men-
tre la prima considera il momento delle regole e delle istituzioni sociali, la seconda riflette invece
sul concreto atto verbale del singolo e sul discorso individuale. Ogni individuo vive in una co-
munità linguistica di cui tende ad assimilare le regole e le grammatiche, senza poterle modificare;
tuttavia, all’interno di questa struttura, l’individuo gode di spazi di creatività che gli permettono
di personalizzare il suo messaggio. Questi due aspetti spiegano, insieme, il carattere proprio di
una lingua: grazie al primo si realizza la possibilità della comunicazione, grazie al secondo la
lingua muta ed evolve. Questa differenziazione spiga l’ulteriore distinzione elaborata da de Saus-
sure tra la linguistica sincronica, che si occupa «dei rapporti logici e psicologici colleganti ter-
mini coesistenti e formanti sistema, così come sono percepiti dalla stessa coscienza collettiva» e
la linguistica diacronica, che invece studia «i rapporti colleganti termini successivi non percepiti
da una medesima coscienza collettiva, e che si sostituiscono gli uni agli altri senza formar siste-
ma tra loro»52
. L’aspetto importante di questo tipo di analisi consiste nella considerazione di un
contesto linguistico sincronico, in relazione al quale i singoli gesti verbali acquistano significato
e pregnanza. È sulla base di queste concezioni che la storia del pensiero politico acquisisce la ne-
cessaria forza teoretica per erigersi a storia del discorso politico, in cui l’analisi tende ad oscillare
costantemente tra lo studio della langue e quello della parole.
52
DE SAUSSURE, F., Corso di linguistica generale, Introd., trad. e commento di De Mauro T., Laterza, Bari, 1967; p.
76.
52
Il metodo storiografico di John Pocock si fonda sull’iniziale considerazione che il campo
di studio di suo interesse riguarda sia atti espressivi, orali e scritti, sia le condizioni e i contesti in
cui questi atti vennero compiuti. Egli afferma: «dichiariamo il nostro convincimento che uno dei
contesti primari in cui un atto espressivo venga eseguito è quello messo a disposizione dalla for-
ma verbale istituzionalizzata che lo rende possibile»53
. Il linguaggio determina ciò che può esse-
re detto ma può anche venir modificato da ciò che è espresso. Compito dello storico del discorso
politico è quello di indagare contemporaneamente sia il contesto in cui il linguaggio ha abitato
sia gli atti discorsivi che qui sono stati espressi, osservando come la langue abbia determinato la
parole e come la parole abbia agito sulla langue, spostando la sua attenzione ora sull’una ora
sull’altra dimensione del linguaggio54
.
2.5 Sincronia e diacronia dei linguaggi politici
Il contesto linguistico lo si evince dalla considerazione che un linguaggio non viene uti-
lizzato da un solo autore, ma è formato da un insieme di lessici e paradigmi in cui si svolse il di-
scorso. Lo storico dovrà quindi impegnarsi nell’apprendimento della langue, cioè delle retoriche
di questo discorso, lavoro che gli consente di elaborare una storia del discorso piuttosto che una
storia di pensieri e di stati di coscienza. Lo storico deve cercare, come fa un archeologo, di fare
emergere i vari strati del contesto linguistico presenti all’interno di un testo di un autore. Egli
impara questi linguaggi leggendo testi di ogni genere, si impegna in un’analisi sincronica delle
53
POCOCK, J. G. A., «The concept of a language and the métier d’historien: some considerations on practice», in
Pagden A. (a cura di), The language of political theory in early-modern Europe, Cambridge, C. U. P., 1987; trad. it.
di Gadda Conti G., «Il concetto di linguaggio e il métier d’historien: alcune considerazioni sulla pratica», in ID., Po-
litica, linguaggio e storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1990, p. 188. 54
Cfr. POCOCK, J. G. A., «The state of the art», Introduzione a ID., Virtue, Commerce and History. Essays on Politi-
cal Thought and History, chiefly in the Eighteenth-Centurty, Cambridge, C. U. P., 1985; trad. it. di Gadda Conti G.,
«Lo stato dell’arte», in ID., Politica, linguaggio e storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1990, pp. 152-153.
53
pubblicazioni di un determinato periodo storico, riuscendo così a dare ai linguaggi da lui scoperti
la specificità di fenomeni storici. Questo obiettivo riesce raggiungibile allo storico man mano
che si allontana dal linguaggio istituzionale per pervenire a quello personale e individuale. A
questo punto egli ha la certezza che i linguaggi da lui scoperti non sono una sua invenzione, e
questa sua certezza aumenta se riesce a dimostrare da un lato che «varianti nello stesso linguag-
gio sono state applicate da autori diversi, mentre comunicavano l’un con l’altro tramite esso e lo
adoperavano come mezzo di comunicazione oltre che come forma di discorso», dall’altro che
«essi ne discussero l’uso vicendevole, concepirono linguaggi di second’ordine per criticarne
l’uso, e verbalmente ed esplicitamente lo identificarono come un linguaggio che stessero usan-
do»55
. La sicurezza che la scoperta dei linguaggi non è un frutto della sua immaginazione con-
cernente le epoche passate, lo storico la ritrova nella wittgensteiniana considerazione che i lin-
guaggi di cui egli teorizza l’esistenza furono realmente applicati e usati in una comunità. Perché
il linguaggio non è mai un fatto isolato, e l’analisi, a questo punto della ricostruzione storica del
discorso, della parole (o, meglio, delle paroles) lo dimostra. Queste furono riconosciute dalla
comunità dai parlanti in quanto «linguaggi disponibili» utilizzati e adoperati da più di un autore
della medesima comunità.
Una volta che lo storico ha imparato i linguaggi propri di un contesto, deve compiere un
ulteriore passo che gli consenta di comprendere come sia possibile che alcuni atti verbali modifi-
chino l’universo retorico di un determinato periodo storico. Egli deve comprendere come le pa-
roles riescano a mutare e rettificare la struttura di una langue. A questo punto lo storico del pen-
siero politico studia gli atti verbali degli autori o come atti che rispettano le regole del gioco lin-
guistico o, viceversa, come atti che tentano di alterare le regole del gioco. Si parla di innovazione
verbale quando si ha il caso del tentativo di imporre «qualche mutamento nelle regole o nelle
55
POCOCK, J. G. A., «Il concetto di linguaggio e il métier d’historien: alcune considerazioni sulla pratica», op. cit.; p.
197.
54
convenzioni del linguaggio politico»56
, tendente a proporre nuove convenzioni linguistiche, re-
gole mutate, diversi sistemi di valori; ma anche quando si ha il caso in cui si tenta di trasferire
una discussione di un tema o di un termine da un contesto linguistico in cui è convenzionalmente
dibattuto a un altro che fino ad allora non aveva mai preso in considerazione quel tipo di discus-
sione. Le paroles danno allora vita ad un nuovo sistema di linguaggi, anche se l’autore o gli au-
tori che le hanno espresse sotto forma di atti verbali ricevono risposte che negano l’accettabilità
del nuovo linguaggio e tendono a rifiutarlo, poiché le risposte degli avversari testimoniano che
«un innovatore che faccia abbastanza rumore o scandalo riesce necessariamente a imporre un
nuovo linguaggio e nuove regole del gioco linguistico»57
. Questi autori divengono delle autorità
per avere causato un mutamento non solo testuale ma anche contestuale. Essi «suggeriscono
nuove forme di discorso che vengono percepite come aventi implicazioni innovatrici in contesti
linguistici diversi da quelli in cui dibatterono inizialmente; perciò vengono letti e si risponde loro
– e le loro paroles hanno conseguenze sulla langue»58
. È in queste circostanze, in cui lo storico
viene a conoscenza dello sforzo da parte di un autore di mutare il paradigma linguistico utilizzato
dalla comunità politica a cui appartiene, che egli sposta l’asse della ricerca storica dal momento
sincronico a quello diacronico.
Una volta che un autore ha creato uno o più linguaggi nuovi, è necessario che questi ven-
gano diffusi; di conseguenza lo storico deve imparare a riconoscerli in tutti i testi e i contesti in
cui questi appaiono. Si tratta di un lavoro che prevede non tanto lo studio di una tradizione di
pensiero ma dei modi in cui avviene la comunicazione. Prendendo le mosse da un testo che pro-
duce un nuovo paradigma linguistico, lo storico passa in rassegna altri testi e pubblicazioni scrit-
te da coloro che avevano letto il primo testo, al fine di «comprendere come le innovazioni
dell’autore precedente, selezionate dal resto dei suoi atti espressivi, si possano imporre sui lettori
56
Ivi; p. 206. 57
Ivi; p. 207. 58
Ivi; pp. 207-208.
55
in modo tale da costringerli a risposte congruenti all’innovazione»59
. Lo studio di questi atti ver-
bali passa attraverso lo studio dell’atto di pubblicare, perché è dal momento della pubblicazione
che inizia il processo di interpretazione, traduzione e discussione intorno al testo, noto col termi-
ne di «tradizione». Ma si tratta di un termine errato: la storia del discorso politico è, per Pocock,
la storia di una traditio, intesa nel senso di trasmissione e, ancor più, di traduzione. La storia dei
testi del pensiero politico è sia la storia «del costante adattamento, traduzione, e ripresentazione
del testo in un susseguirsi di contesti da un susseguirsi di operatori», sia la storia «delle innova-
zioni e modifiche compiute in tanti lessici distinguibili quanti in origine erano stati radunati per
comprendere il testo»60
. Lo storico del pensiero politico segue l’itinerario temporale entro il qua-
le il testo è sopravvissuto, soffermandosi sulle tappe e sulle circostanze storiche che ne hanno
consentito la persistenza, rendendosi conto della continuità storica di certi paradigmi che i testi
stessi hanno istituzionalizzato.
L’attenzione dello storico si focalizza sulle innovazioni, intese come mosse di un autore a
cui si è risposto con una contromossa da parte dei lettori che a loro volta sono divenuti autori. La
contromossa conterrà e registrerà la consapevolezza che qualcosa senza precedenti è stato detto.
Il lettore, leggendo il testo, preleverà per sé le parole e gli atti linguistici riutilizzandoli nel con-
testo suo proprio, ristrutturando l’ordine e il valore semantico dei termini. La storia dei testi è,
quindi, una storia di adattamento, traduzione e riesecuzione dei testi in cui le formule e i para-
digmi di un autore innovatore vengono applicati e tradotti ogni volta che è chiamata in causa
l’autorevolezza di un testo.
59
Ivi: p. 162. 60
Ivi; p. 166.
56
2.6 La verità delle credenze
L’attenzione dello storico delle idee politiche verte principalmente su un contesto storico-
sociale i cui partecipanti si capiscono grazie all’esistenza di paradigmi concettuali espressi attra-
verso un linguaggio istituzionalizzato. Questo linguaggio, può essere inteso da uno storico che ope-
ra in un contesto temporale diverso solo a condizione che la ricerca si soffermi sulla peculiarità dei
linguaggi studiati. Poiché questi linguaggi costituiscono un paradigma attraverso il quale si defini-
sce il valore di significanza degli enunciati, è bene che non si mortifichino i criteri di razionalità e
le credenze espresse dai linguaggi stessi. Per evitare ciò è necessario che l’interpretazione di un te-
sto del passato prenda le mosse dalla considerazione che ciò che in questo testo si afferma appar-
tiene ad un insieme coerente di idee, concetti e credenze.
Una volta negata la tesi gadameriana secondo la quale il testo e l’interprete appartengono a
una medesima tradizione culturale, sorge il problema di come comprendere le idee circolate in re-
altà storiche lontane le cui categorie conoscitive e razionali risultano essere distanti e diverse da
quelle dell’interprete. Le società passate hanno avuto credenze con le quali si ha poca familiarità e
che pongono lo storico nella condizione di definirne la verità. Se per i critici della New History of
Political Thought il problema della verità delle credenze deve essere separato dalla spiegazione
storica perché lo storico si trova ad un livello differente rispetto alle società del passato con le quali
è in continua posizione di rivalità61
, per gli storici del discorso politico, primo fra tutti Quentin
Skinner, le credenze sono il miglior punto di partenza per studiare gli autori del pensiero politico,
anche se queste necessitano di una spiegazione che eviti di assumere «una forma simpatetica e non
anacronistica»62
. Per fare ciò è assolutamente necessario che le credenze non vengano assunte dal-
61
Cfr. TAYLOR, C., «The hermeneutic of conflict», in TULLY J. (a cura di), Meaning and Context. Quentin Skinner
and His Critics. Princeton University Press, Princeton, 1988; pp. 218-228. 62
SKINNER, Q., «Interpretation, rationality and truth» (1988), ora in Id., Vision of Politics Vol. 1, Regarding Method,
Cambridge, C.U.P., 2002; trad. it di R. Laudani, «Interpretazione, razionalità e verità», in ID., Dell’interpretazione,
Il Mulino, Bologna, 2001; p. 84.
57
lo storico come prive di razionalità, anche nel caso in cui questi si trovi ad incrociare idee e concet-
ti ormai palesemente falsi. Lo storico deve tenere sempre presente che vi fu un periodo precedente
in cui tali credenze vennero considerate vere. Non deve impegnarsi nel ricercare i motivi per cui gli
autori non riuscirono ad avvicinarsi alla verità, altrimenti si porrebbe nella errata posizione di con-
siderare aprioristicamente false le credenze proprie dell’autore oggetto di studio.
Come il sistema aristotelico-tolemaico, che venne considerato vero fino alla rivoluzione
copernicana, fornendo un paradigma conoscitivo del cosmo razionalmente giustificato, allo stes-
so modo le idee del passato devono essere prese in considerazione come fondate su un sistema di
idee basate su criteri di razionalità. Si tratta di un modello interpretativo i cui riferimenti teorici
sono individuabili, oltre che in Thomas Kuhn, anche in Wittgenstein e Hilary Putnam.
Lo storico si trova spesso ad incrociare idee e concetti da lui giudicati falsi, ma ciò non
può indurlo a valutarli fornendo di essi spiegazioni che risultino prive di razionalità, perché ciò
«vorrebbe dire uguagliare le credenze razionali alle credenze che lo storico giudica vere»63
. Lo
storico deve, invece, intendere il termine «razionalità» come qualcosa che non implichi respon-
sabilità e impegno. Cioè deve affrontare lo studio dell’oggetto storico liberandosi di quei pregiu-
dizi in base ai quali si considerano realmente razionali e degni di vicinanza alla verità solo ed e-
sclusivamente quegli oggetti in grado di essere compresi con le categorie appartenenti
all’armamentario epistemologico della sua epoca, che viene considerato autenticamente «razio-
nale» rispetto a quei modelli del passato che non hanno raggiunto gli stessi livelli di conoscenza.
Si tratta di una concezione in cui emerge il debito, dichiarato esplicitamente da Skinner64
, nei
confronti dell’idea di «razionalità» propria del filosofo e matematico americano Hilary Putnam,
il quale definisce autentico atteggiamento critico quello che è in grado di conservare imparzialità
nei confronti dei giudizi di valore. Secondo Putnam «è molto difficile capire quali siano i giudizi
razionali e quali quelli irrazionali, se non si è in grado di tralasciare le prevenzioni di parte e cri-
63
Ivi; pp. 88-89. 64
Ivi; p. 89 n.
58
ticare le proprie credenze»65
, questo perché la nostra capacità di essere razionali non prevede allo
stesso momento la capacità di essere infallibili. E questo perché le asserzioni concernenti i valori
e la conoscenza vengono considerati veri in una forma di vita che ha il potere di istituzionalizza-
re queste stesse asserzioni, funzionando da cornice in grado di verificarle e giustificarle ogni vol-
ta che vengono utilizzate.
Wittgenstein spiega meglio questa concezione storicistica della verità e delle credenze
quando critica il modo proprio di valutare le convinzioni dei popoli di cui parla l’antropologo
scozzese James G. Frazer nel suo testo più famoso, Il Ramo d’oro. Il logico e filosofo austriaco
prende le mosse dalla concezione per cui la via che porta alla verità non deve essere percorsa at-
traverso la constatazione della verità stessa, ma bisogna, piuttosto, «trovare la via dall’errore alla
verità»66
, bisogna, cioè, non commettere l’ingenuità epistemologica commessa da Frazer di fare
apparire come errori le concezioni magiche e religiose delle popolazioni da lui studiate. Gli uo-
mini del passato non hanno fatto quello che hanno fatto perché sono degli sciocchi, e quindi non
hanno commesso degli errori. Ciò significa che per rendere conto della storia umana lo storico
deve evitare di cimentarsi nell’impresa di «dare una spiegazione» basata sui propri modi di valu-
tare e di giudicare, perché «basta comporre correttamente quel che si sa, senza aggiungervi al-
tro». Secondo Wittgenstein, non si tratta di comprendere, poiché «si può solo descrivere e dire:
così è la vita umana»67
. Solo così si superano le incertezze proprie della spiegazione che elabora
ipotesi e fornisce opinioni sui significati dei gesti e dei riti antichi, come fa Frazer. Questi gesti e
questi riti non poggiano su una opinione, ma sono invece saldamente fondati su credenze che
non possono essere spiegate ricorrendo ai concetti e ai linguaggi che si credono veri. La magia e
la religione di cui si parla nel Ramo d’oro devono essere descritte attraverso credenze che non
65
PUTNAM, H., Reason, Truth and History, Cambridge, C.U.P., 1981; trad. it. di A. N. Radicati di Bronzolo, Ragio-
ne, verità e storia, il Saggiatore, Milano, 1985; p. 180. 66
WITTGENSTEIN, L., Bemerkungen über Frazers «The Golden Bough», 1931-36; trad. it. di S. de Waal, Note sul
«Ramo d’oro» di Frazer, Adelphi, Milano, 1975; p. 17. 67
Ivi; p. 19.
59
appartengono a strutture di pensiero religioso proprie dell’epoca dello storico. Scrive Wittgen-
stein:
Quale ristrettezza della vita dello spirito in Frazer! Quindi: quale impossibilità di comprendere una vita diversa da
quella inglese del suo tempo!
Frazer non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tut-
ta la sua stupidità e insipidezza68
.
Neppure si può pensare a una spiegazione storica di tipo evolutivo, che viene da Wittgen-
stein definita come «rappresentazione perspicua», consistente nella possibilità di leggere i dati
storici nella loro relazione reciproca e sintetizzarli in una rappresentazione generale che mostri lo
sviluppo cronologico. Il concetto di rappresentazione perspicua serve a mediare la comprensione,
esso consiste in una Weltanschauung grazie alla quale scorgiamo le connessioni che hanno de-
terminato lo sviluppo da un’epoca all’altra sulla base della somiglianza tra i fatti e ci spinge a de-
terminare quindi un’ipotesi evolutiva che si può «considerare come un travestimento di una con-
nessione formale»69
. L’interpretazione del passato non necessita, secondo Wittgenstein, di un
chiarimento fondato su ipotesi la cui validità è determinata dai modi propri dello storico di legge-
re e interpretare il suo mondo coi suoi strumenti conoscitivi e con le sue credenze. Il passato de-
ve essere descritto sulla base delle constatazioni delle forme di vita che lo hanno caratterizzato.
Gli uomini del passato non hanno bisogno che venga loro iniettata una coscienza che pensi e che
valuti come noi pensiamo e valutiamo, perché «Gli uomini […] testimoniano da sé del fatto che
hanno una coscienza»70
, il cui significato può essere colto solo a condizione che si prendano le
68
Ivi; p. 23. 69
Ivi; p. 30. 70
WITTGENSTEIN, L., Philosophische Untersuchungen; op. cit.; §§ 415-416.
60
mosse dalla forma di vita in cui queste coscienze sono calate, forma di vita le cui regole sono
condivise e istituzionalizzate nel linguaggio.
Secondo Wittgenstein vi sono norme di verificazione che determinano cosa sia giusto e
cosa sia sbagliato nei giochi linguistici, e oltre queste norme non vi sono criteri che stabiliscono
l’oggettivamente giusto e l’oggettivamente errato. La verità delle asserzioni dipende esclusiva-
mente dalle regole fissate dal gioco linguistico; queste regole sono definite da quella che Putnam
chiama concezione criteriale della razionalità, consistente nel fatto che «vi sarebbero norme isti-
tuzionali che definiscono che cosa sia razionalmente accettabile e che cosa non lo sia»71
e, con-
seguentemente, che cosa viene creduto vero e che cosa falso. Non si tratta di adottare la posizio-
ne interpretativa di Donald Davidson in base alla quale non si è in grado di capire in cosa credo-
no le popolazioni che si studiano se non si considerano vere le loro credenze72
, perché altrimenti
lo storico dovrebbe sforzarsi di valutare come vere anche quelle credenze, come la stregoneria o
le pratiche magiche, di cui un autore del passato può avere parlato in qualche punto della sua o-
pera. Allo stesso modo, lo storico non deve neppure, di fronte ad una credenza palesemente falsa,
giudicarla come priva o carente di razionalità, e quindi non deve considerare necessario un sup-
plemento di spiegazione che riconosca la natura errata della credenza. Se facesse in questo modo,
lo storico eguaglierebbe le credenze razionali a quelle da lui considerate vere, escludendo la pos-
sibilità che vi sia stato un periodo storico in cui queste credenze siano state considerate vere e ra-
zionalmente fondate.
Il concetto di razionalità che Quentin Skinner elabora a partire dalla lettura di Wittgen-
stein, Kuhn e Putnam conduce ad affermare quanto segue: «quando parlo di credenze razionali
sostenute da un soggetto, intendo soltanto che quelle credenze (ciò che il soggetto considera vero)
71
PUTNAM, H., Reason, Truth and History, op. cit.; p. 120. 72
Si tratta della teoria dell’«interpretazione radicale», per la quale cfr. DAVIDSON, D., Inquiries into Truth and In-
terpretation, Oxford University Press, Oxford, 1984; trad. it. di R. Brigati, Verità e interpretazione, Il Mulino, Mila-
no, 1994.
61
devono poter essere considerate vere da chi le sostiene in quelle determinate circostanze»73
. Ogni
autore espone una credenza che può essere considerata razionale laddove vi sia giunto attraverso
un processo di ragionamento che fu da tutti accettato, cioè attraverso la consapevolezza che il
linguaggio da lui utilizzato e le regole sintattiche di questo stesso linguaggio furono quelle che la
comunità dei parlanti condivise poiché si trattò di un gioco linguistico le cui regole, istituziona-
lizzate dall’uso, furono da tutti approvate. I soggetti, allora, sono considerati razionali perché
hanno creduto a ciò che dovettero credere e perché si dimostrarono coerenti nei confronti del
processo di formazione delle credenze.
Il motivo per cui non bisogna considerare le false credenze come prive di razionalità si
fonda su un importante principio storiografico: se si valutano queste credenze carenti di raziona-
lità lo storico corre il rischio di fossilizzarsi su un solo tipo di spiegazione ed è costretto a con-
frontarsi con un’argomentazione di un autore che egli giudica vuota dal punto di vista della ra-
zionalità. Compito dello storico delle idee è, da un lato, quello di considerare razionali le creden-
ze in cui si imbatte leggendo e studiando un autore, dall’altro, quello di ricostruire le condizioni
che hanno portato l’autore a sostenere queste credenze. Non vi è la necessità di applicare una
«norma sovraculturale» o un criterio «esterno» di razionalità da parte dello storico che analizza
una società e una forma di vita diversa dalla sua, suo unico compito è quello di dimostrare la co-
erenza interna di una credenza e i modi attraverso i quali questa venne sostenuta.
Quando si studia un soggetto che sostiene una credenza bisogna, secondo Skinner, fare
apparire questo soggetto quanto più razionale possibile. Ciò è possibile seguendo una regola che
si fonda su tre «precetti»74
. In primo luogo bisogna identificare le credenze dei soggetti, rintrac-
ciandole nei testi che essi ci hanno lasciato. Poi bisogna «accettare qualsiasi informazione per
quella che è», cioè bisogna iniziare l’indagine storica assumendo che quello che gli autori hanno
scritto sia esattamente ciò in cui essi hanno creduto. Infine, il terzo precetto suggerisce di defini-
73
SKINNER, Q., «Interpretazione, razionalità e verità», op. cit., p. 89. 74
Ivi; p. 101 sgg.
62
re quale sia l’obiettivo che lo storico si prefigge seguendo questo tipo di approccio. Quest’ultimo
precetto intende invitare lo storico a incastonare la credenza a cui è interessato in un «contesto
storico» che funga da supporto, con lo scopo di fare emergere quel «particolare contesto di pre-
supposti» e di «altre credenze» che riproduca il «senso di razionalità epistemologica» proprio del
periodo storico dell’autore studiato, con l’obiettivo di dimostrare che le affermazioni da questi
utilizzate hanno un carattere razionale in quella specifica situazione e in quella specifica circo-
stanza.
2.7 I termini delle credenze
I termini attraverso cui vengono espresse le credenze sono parte del gioco linguistico che
lo storico deve sforzarsi di conoscere per cercare di comprendere e descrivere le credenze di cui
intende occuparsi. Per fare ciò lo storico deve anzitutto ricordare che non sempre queste si pre-
sentano in maniera distinta, per cui non sempre sono facilmente identificabili e descrivibili. Ciò
non significa, tuttavia, che lo storico debba far ricorso alle sue categorie concettuali, ai suoi
strumenti interpretativi e al suo strumentario terminologico per illuminare e per avere la presun-
zione di chiarire, con l’aggiunta o la correzione di termini, quelle credenze che non si rivelano,
alla lettura dell’interprete contemporaneo, chiare e facilmente descrivibili. Lo storico non deve
mai commettere l’errore di farsi condizionare dai suoi schemi concettuali, perché ogni epoca ha
avuto i suoi schemi, e nessuna può arrogarsi il diritto di dichiarare di avere partorito uno schema
migliore di un’altra. Non si vuole affermare l’impossibilità di narrare la storia ma soltanto che
per la comprensione dei fatti si deve ricorrere a diversi apparati di termini e che «ogni sistema di
segni è utile a discernere solo determinati oggetti e determinate situazioni, mentre altri sistemi di
segni saranno sempre in grado di svolgere lo stesso obiettivo in modi diversi e potenzialmente
63
contrastanti»75
. Non si tratta di affermare una tesi idealistica, perché non viene negata l’esistenza
del mondo esterno, quello che si vuole invece sostenere è che questo mondo esterno inevitabil-
mente viene modellato sulla base delle nostre categorie concettuali e dei termini di cui siamo in
possesso per esprimerle.
Questi temi degli storici del discorso politico sembrano lasciare poco spazio alla possibi-
lità di tradurre i termini di un pensatore del passato in quanto il nostro linguaggio non sembre-
rebbe possedere sempre i corrispettivi semantici utili alla traduzione e alla comprensione.
Da un punto di vista concernente la teoria e la prassi del linguaggio, la questione si risol-
ve con l’affermazione della impossibilità di esprimere, con un enunciato, qualcosa che sia scon-
nesso dal fatto a cui l’enunciato si riferisce, perché il linguaggio è sempre legato a concetti che a
loro volta sono legati al contesto storico-sociale in cui nascono e in cui sono applicati. Non è
possibile, secondo gli storici di Cambridge, ricostruire la storia del pensiero politico affidandosi
a una sorta di platonismo linguistico grazie al quale i termini vengono compresi in virtù del loro
valore intensionale che li rende accessibili indipendentemente dalla loro applicazione. La meto-
dologia storiografica di Pocock e Skinner fonda il suo impianto teoretico sul fatto che
l’enunciato, come ha scritto W. V. O. Quine, è suscettibile di comprensione solo a condizione
che si affermi l’inscindibilità del significato e del fatto, cioè dell’aspetto linguistico e di quello
fattuale. L’enunciato e l’esperienza hanno un carattere «solidale», costituiscono un tutto insieme
alla teoria in cui ricorre. Si capisce il significato di un enunciato perché si capisce «il luogo che
occupa» e il «campo di forze»76
in cui l’enunciato si muove. Ecco perché dell’enunciato non si
può discernere l’aspetto empirico da quello logico e da quello teorico-convenzionale. È quanto
75
Ivi; p. 108. 76
PICARDI, E., Le teorie del significato, Laterza, Roma-Bari, 1999; p. 16.
64
Quine afferma nel celebre saggio Due dogmi dell’empirismo77
, sottolineando la conseguenza che
non si può operare una distinzione tra giudizio analitico e giudizio sintetico.
La questione è affrontata da Quine in maniera ancora più precisa quando parla di «tradu-
zione radicale», un tema che vede impegnato il filosofo statunitense nel cercare di risolvere il
problema della traduzione di un linguaggio appartenente a un popolo che non sia stato in contatto
con la nostra civiltà78
. La tesi di fondo di questa teoria si basa su tre assunti79
che sono riassumi-
bili con la tesi precedentemente esposta dell’impossibilità di separare il contenuto logico da quel-
lo fattuale, con la tesi che nessun significato può essere spiegato come fine a se stesso, cioè pri-
vato di una teoria complessiva in cui includerlo e a cui farlo appartenere, e, infine, con la tesi –
che sintetizza le due precedenti – consistente nel fatto che le credenze e le conoscenze costitui-
scono un insieme organico, rappresentabile come una teoria vasta che rende interdipendenti le
singole parti. L’ultima tesi spiega perché, secondo Quine, risulta «necessario che gli enunciati si
associno non soltanto con stimolazioni non-verbali [i fatti], ma con altri enunciati, se vogliamo
sfruttare concettualizzazioni compiute»80 venutesi a formare grazie all’esistenza di una rete ver-
bale e di una teoria articolata che lega e tiene insieme fatti e linguaggi, stimoli e risposte. Si tratta
di una «struttura di enunciati interconnessi» in virtù della quale un solo ordito connette tutto
quello che possiamo dire e che diciamo intorno al mondo. Cioè si tratta di una teoria che sarà de-
scritta da un linguaggio le cui caratteristiche eliminano la distinzione tra enciclopedia e diziona-
rio, in quanto sarà impensabile che l’interpretazione semantica si fermi o al solo livello linguisti-
co o al solo livello fattuale, ma dovrà invece comprenderli entrambi. Questo impianto spiega il
motivo per cui l’interpretazione di un enunciato appartenente ad una civiltà diversa dalla nostra
77
Cfr. QUINE, W. V. O., «Two Dogmas of Empiricism», in From a Logical Point of View, New York, 1953; trad. it.
di P. Valore, «Due dogmi dell’empirismo», in ID., Dal punto di vista logico. Saggi logico-filosofici, Raffaello Corti-
na, Milano, 2004. 78
QUINE, W. V. O., Word and Object, New York, 1960; trad. it. di F. Mondadori, Parola e oggetto, Milano, il Sag-
giatore, 1970; p. 41. 79
Cfr. MONDADORI, F., Introduzione a QUINE, W. V. O. Words and Object, op. cit.; p. X sgg. 80
QUINE, W. V. O., Word and Object, op. cit.; p. 19.
65
sarà possibile solo a condizione che non si ricerchino i corrispettivi semantici di questa piccola
parte del sistema ma dell’intero sistema, cioè la possibilità della traduzione si avvicina alla rea-
lizzazione quanto più sarà utilizzato un manuale di interpretazione e di traduzione che renda con-
to non del singolo enunciato ma della globalità di un sistema in cui linguaggio e fatti empirici
sono parti comuni del sistema stesso. Ciò significa, tuttavia, che diversi manuali sono suscettibili
di essere utilizzati per tradurre e interpretare enunciati teorici, per cui l’utilizzo di un manuale di
interpretazione piuttosto che un altro dimostra pienamente il carattere di «indeterminatezza» del-
la traduzione che, a questo punto non sarà unica. Non è possibile, quindi, supporre un «platoni-
smo semantico» che consenta di tradurre con esattezza e in maniera determinata gli enunciati e-
sotici, perché le tesi di Quine sottolineano la difficoltà di definire un criterio appropriato grazie
al quale si possano definire le corrispondenze semantiche, le quali sono invece soggette
all’utilizzo di uno fra i tanti manuali disponibili, facendo quindi parlare, per ciò che riguarda la
tesi dell’indeterminatezza della traduzione, di «relativismo semantico».
Nonostante ciò, quanto espresso da Quine in merito al problema dell’indeterminatezza
della traduzione, sembra avere notevolmente influenzato la storiografia del pensiero politico di
lingua inglese almeno per due motivi. Il primo riguarda la stretta relazione tra credenze del pas-
sato e linguaggio. Quine ha insegnato che bisogna prendere le mosse dal fatto che le credenze
vengono espresse con i termini di un linguaggio, e che questi termini possono assumere valore di
significato a condizione che si colga il carattere olistico di un sistema in cui linguaggio ed espe-
rienza sono strettamente connesse in una «forma di vita» da cui l’attività della comprensione non
può prescindere. Quindi, scrive Skinner, «la morale che si può trarre è che forse dovremmo ri-
nunciare a ricercare i “significati” in un senso così atomistico»81
, nel senso che non risulta neces-
sario presupporre l’intelligibilità di un enunciato a partire dalla sua traducibilità, perché i termini
di una lingua straniera, anche se non vi è un corrispettivo nella nostra lingua, possono essere
81
SKINNER, Q., «Interpretazione, razionalità e verità», op. cit.; p. 110.
66
compresi a partire dalle modalità di applicazione di questi termini, in modo da poter coglierne il
significato, il senso e le sfumature. Non si tratta di ricreare gli ambiti e le atmosfere del passato
attraverso una ricostruzione quanto più possibile veritiera dello scenario concettuale e ideologico
appartenente a quell’epoca. Si tratta, invece, di concepire la ricerca storica come
un tentativo di pensare come i nostri antenati e vedere le cose nella loro ottica. Dovremmo cercare di rintracciare i
loro concetti, le distinzioni e le catene di ragionamento da loro utilizzate nei loro tentativi di dare senso al mondo in
cui vivevano82
.
Sono gli stili di ragionamento che bisogna imparare per accedere alla comprensione storica e non
le traduzioni degli enunciati.
Il secondo motivo per cui l’indeterminatezza della traduzione ha interessato gli storici di
Cambridge concerne la questione relativa alla possibilità che gli autori oggetto di studio da parte
di uno storico delle idee non abbiano avuto i mezzi linguistici per descrivere determinati concetti.
Quando si studiano questi autori non si deve «ricostruire la mappa delle distinzioni e le catene di
ragionamento da loro utilizzate per poi esprimerli a modo nostro»83
, a meno che i nostri schemi
concettuali, le nostre credenze e i nostri linguaggi non siano assolutamente sovrapponibili a quel-
li degli autori che studiamo. Ma questa ultima occorrenza, come è stato affermato fin qui, non è
altro che l’effetto storiografico di un errore filosofico di fondo. Non è giusto, afferma Skinner,
correggere il linguaggio di questi autori fino al punto da porre le nostre descrizioni in conflitto
con quelle proprie di questi autori. Spesso si pensa che i termini che sostituiamo possano espri-
mere una teoria meglio di quanto avrebbe potuto fare il suo autore. Ma comportarsi in questo
modo significa che lo storico non sta perseguendo il suo obiettivo, che è quello di «identificare e
82
Ibid. 83
Ibid.
67
descrivere le credenze da spiegare»84
, evitando di farsi guidare dal suo lessico conoscitivo e va-
lutativo che, sicuramente, gli farebbe mettere in evidenza aspetti irrilevanti e, sicuramente, ana-
cronistici. La credenza da spiegare «potrà essere identificata nella sua specificità solo in virtù di
quei termini particolari in cui è stata espressa»85
e non in altro modo. La ricerca storica, quindi,
deve prendere le mosse da un atteggiamento epistemologico che ritenga degno di considerazione
il fatto che ciò che viene detto dagli autori sia la migliore guida per la comprensione delle cre-
denze.
84
Ivi; p. 115. 85
Ibid.
68
Capitolo 3
Azioni e autori
3.1 Il significato delle parole
Il passaggio da quel che le parole letteralmente dicono, in quanto parole di una lingua, e quel che crede (pensa) colui
che le proferisce in uno specifico episodio d’uso, è tanto importante quanto difficile da collocare nella luce giusta86
.
Le teorie del significato si fondano sull’idea che vi sia uno stretto rapporto tra forma lin-
guistica e contenuto, tra enunciato e proposizione, cioè tra espressione verbale e ciò che si inten-
de con questa espressione verbale. Una condizione di questa relazione risiede nel fatto che quan-
do si proferisce una frase un interlocutore è disposto a credere che l’altro interlocutore condivida
con lui un medesimo sistema di credenze che rende possibile la comunicazione.
I significati delle parole e delle frasi sono sostenuti da un insieme di congetture che ac-
comuna dei parlanti, e questi significati non sono nascosti perché vengono mostrati dai parlanti
stessi attraverso l’uso nella lingua87
. Il linguaggio è un fenomeno esperito dai soggetti, i quali
comunicano significativamente attraverso quest’esperienza che mostrando se stessa mostra anche
la sua valenza semantica all’interno di una forma di vita condivisa.
Il problema della rilevazione dei significati risiede nella possibilità di potere risalire dai
termini a ciò che essi intendono, dalle parole al sistema di credenze che queste stesse parole esi-
biscono. È questo il motivo per cui John Pocock e Quentin Skinner affermano che non si può e-
laborare una storia del pensiero politico a partire dalle grandi concettualizzazioni prescindendo
86
PICARDI, E., op. cit.; p. 4. 87
Al § 43 delle Ricerche filosofiche Wittgenstein scrive: «il significato di una parola è il suo uso nella lingua». Cfr.
WITTGENSTEIN, L., Ricerche filosofiche, op. cit.
69
dai linguaggi utilizzati e dal modo in cui i parlanti li hanno utilizzati. Da un punto di vista con-
cernente l’analisi linguistica, ciò significa che le idee della politica non possono essere studiate a
partire dal valore intensionale delle parole con cui sono state espresse, bisogna invece risalire dai
termini ai concetti attraverso un duplice processo analitico che conduca da un lato verso la rile-
vazione delle credenze di un autore del passato, dall’altro lato verso la constatazione di quali fos-
sero le reali intenzioni di questo autore nello scrivere un testo. Mentre per il primo aspetto88
si
tratta di adottare un metodo che consideri una comunità di parlanti come espressione di una for-
ma di vita che, utilizzando un particolare linguaggio, esibisce criteri di razionalità incommensu-
rabili ai nostri, per quanto concerne il secondo aspetto, si tratta, invece, di operare un’analisi ac-
curata dei termini utilizzati dall’autore per capire quali fossero i propositi e gli obiettivi che lo
hanno spinto a scrivere un testo di filosofia politica e quali le precise intenzioni che si celano die-
tro l’utilizzo di uno specifico lessico.
Una storia del pensiero politico scritta a partire da «una tale profondità linguistica» pre-
vede che ci sia una precedenza dei paradigmi (linguistici) rispetto alle intenzioni che guidano
l’azione di un autore, perché «solo dopo che avremo compreso quali strumenti egli avesse a di-
sposizione per dire qualunque cosa, potremo comprendere quanto volesse dire»89
. Attraverso i
loro testi gli autori hanno detto qualcosa che confermava, aggiungeva elementi o cercava di de-
molire il paradigma del discorso politico. Quindi, il primo problema dello storico consiste nel ri-
levare il vocabolario che circolava all’epoca dell’autore studiato per verificare cosa gli fosse
concesso esprimere e quali fossero gli strumenti per potere dire qualcosa. Il modo per giungere a
questi vocabolari e a questi linguaggi risulta un compito non difficile per lo storico, un compito
che egli può assolvere dimostrando «empiricamente» che esistevano determinati linguaggi per il
semplice motivo che questi linguaggi «si trovano lì, che formano modelli e stili individualmente
88
Si veda la seconda parte del cap. 2. 89
POCOCK, J.G.A., «Linguaggi e loro implicazioni: la trasformazione dello studio del pensiero politico», op. cit.; p.
72.
70
riconoscibili»90
che lo storico riesce a conoscere e padroneggiare quanto più è elevata la sua sen-
sibilità rispetto ai linguaggi e alla società che li parlava.
3.2 L’uso delle parole
Sebbene non sia sostenibile, ai fini di una epistemologia storica di questo tipo, affermare
che il pensiero di un singolo non sia connesso con quello di una struttura sociale, tuttavia il me-
todo storiografico di Pocock e Skinner prende le mosse dal linguaggio del singolo, «per dimo-
strare di quali significati si potesse dirlo portatore»91
, e lo fa non presupponendo che il linguag-
gio rispecchi e rifletta la realtà sociale, ma sostenendo che i paradigmi, la realtà sociale e il lin-
guaggio compongono un’unica struttura di cui quest’ultimo, che non costituisce un «epifenome-
no» irrilevante, rappresenta la parte fenomenica e appariscente che mostra la consapevolezza da
parte dei soggetti di appartenere a un’epoca storica.
Il significato delle parole di un soggetto appartenente a una comunità di parlanti non può
essere preso in considerazione in maniera isolata, perché le parole appartengono a un gioco lin-
guistico che funge da paradigma linguistico – condiviso dalla comunità – all’interno del quale si
definiscono il peso e il valore semantico delle parole. La relazione organica tra la parte e il tutto,
tra il gioco linguistico e le parole, tra la forma di vita e gli enunciati, tra le credenze e le proposi-
zioni che le esprimono viene definita non in base a una sorta di connessione di tipo logico-
semantico tra un termine ed il suo senso. Piuttosto si tratta di una visione più complessa che va al
di là di un semplice rapporto tra espressione verbale e riferimento; si tratta di una visione pratica
per la quale si definisce il significato come «l’uso che facciamo della parola», perché è solo at-
traverso il modo in cui una parola è impiegata che riusciamo a comprenderla. In una comunità si
90
Ivi; p. 73. 91
Ivi; p. 82.
71
fissa un’abitudine che insegna a rispondere e reagire in un determinato modo ogni volta che ci si
trovi dinanzi a un certo segno (linguistico), quindi «uno si regola secondo le indicazioni di un
segnale […] solo in quanto esiste uno stabile, un’abitudine» condivisa dalla comunità. In conclu-
sione: «Come una parola funzioni, non lo si può indovinare. Si deve stare a guardare l’impiego
della parola, e imparare da lì»92
.
Se il significato delle parole lo si ricava dal loro impiego, perché le parole in fondo sono
gli strumenti che i singoli utilizzano per esprimere i loro pensieri, allora l’uso del linguaggio è
fondamentalmente legato al fatto che, parlando, si sta facendo qualcosa. La parola è lo strumento
attraverso il quale si edificano i pezzi di una struttura di pensiero, e questo edificare rappresenta
l’aspetto pratico della comunicazione che si evince dall’utilizzo di un termine piuttosto che un
altro all’interno di un enunciato. Dire qualcosa significa, allora, anche fare qualcosa. E questo
fare lo si può comprendere a partire dalle parole usate, prendendo le mosse dalla dimensione lin-
guistica per risalire a quella prassiologica:
Wittgenstein e Austin ci ricordano che, se vogliamo comprendere davvero un enunciato, dobbiamo essere
in grado di cogliere qualcosa che vada al di là e al di sopra del senso e dei riferimenti dei termini utilizzati per e-
sprimerlo93
.
Alla concezione semantica di Wittgenstein che si fonda sull’uso del linguaggio, Quentin
Skinner e John Pocock aggiungono le importanti intuizioni di John L. Austin, filosofo ispiratore
di quella corrente logico-filosofica nota come «filosofia del linguaggio ordinario» che, durante
gli anni di Wittgenstein a Cambridge, elaborava dall’altra famosa cittadina universitaria inglese,
Oxford, una teoria del linguaggio che prevedeva anch’essa un cambio di prospettiva
92
WITTGENSTEIN, L., Ricerche filosofiche, op. cit., §§ 138, 197, 198, 340. 93
SKINNER, Q., «Interpretation and the understanding of speech acts» (1988), ora in ID., Vision of Politics Vol. 1,
Regarding Method, C.U.P., Cambridge, 2002. Trad. it di R. Laudani, «Significato, atti linguistici e interpretazione»,
in ID., Dell’interpretazione, Il Mulino, Bologna, 2001; pp. 123-124.
72
nell’osservazione del fenomeno linguistico: si verifica, cioè, anche nell’ambiente oxoniense il
passaggio dello studio del linguaggio come rappresentazione allo studio del linguaggio come a-
zione. Austin tenne, durante la prima metà degli anni Cinquanta, prima a Oxford e poi a Harvard,
una serie di lezioni a cui diede il significativo titolo di Words and Deeds (parole e atti)94
in cui
evidenziò con enfasi e precisione questa doppia dimensione del linguaggio:
Per troppo tempo i filosofi hanno assunto che il compito di una «asserzione» possa essere solo quello di
«descrivere» un certo stato di cose, o di «esporre qualche fatto», cosa che deve fare in modo vero o falso95
.
È stato osservato che molte parole che ci lasciano particolarmente perplessi, inserite in asserzioni apparentemente
descrittive, non servono ad indicare qualche caratteristica supplementare particolarmente strana della realtà riportata,
ma ad indicare (non a riportare) le circostanze in cui viene fatta l’asserzione o le riserve a cui è sottoposta o il modo
in cui deve essere intesa e così via96
.
Le espressioni linguistiche (le «asserzioni») sono soggette, dice Austin, a una duplice ti-
pologia di categorizzazione: esse possono essere suscettibili di indicare la verità o la falsità di
quello che con esse viene detto oppure possono essere la manifestazione di un atto che si sta ese-
guendo. Vengono indicati col termine «constativi» il primo tipo di asserzioni, mentre col termine
«performativi» si indicano quelle asserzioni che non descrivono o constatano la verità o la falsità,
ma sono, invece, atti linguistici in cui «l’atto di enunciare la frase costituisce l’esecuzione, o è
parte dell’esecuzione di un’azione»97
. Si tratta, quindi, di una dimensione del linguaggio legata
strettamente all’azione, al fare, all’agire, la quale rinvia solo ed esclusivamente a questo suo a-
spetto pratico per la definizione delle sue coordinate di comprensione. Il termine «performativo»
94
Queste lezioni, e specialmente le William James Lectures tenute a Harvard, sono poi confluite in un testo curato
da J. O. Urmson dal titolo How to Do Things with Words, pubblicato a Oxford nel 1962. 95
AUSTIN, J. L., How to Do Things with Words, Oxford University Press, Oxford, 1962; trad. it. di C. Villata, Come
fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1987; p. 7. 96
Ivi; p. 8. 97
Ivi; p. 9.
73
(da perform: eseguire) richiama proprio l’aspetto prassiologico del parlare e del comunicare inte-
so come un insieme di atti linguistici che indicano «che il proferimento dell’enunciato costituisce
l’esecuzione di una azione» da non intendere «come semplicemente dire qualcosa»98
, perché ol-
tre a dire si sta anche facendo qualcosa. Ecco perché Austin è interessato a definire, all’interno
dei performativi, la distinzione tra l’atto locutorio, legato alla dimensione del dire, e l’atto illocu-
torio, espressione con cui si intende sottolineare «che l’occasione in cui viene proferito un enun-
ciato ha fondamentale importanza»99
perché evidenzia le funzioni e i modi in cui viene utilizzato
il linguaggio, sottolineando in quale senso si stava utilizzando proprio quel linguaggio in quella
specifica occasione:
Fa una gran differenza se stavamo consigliando, o soltanto suggerendo, o effettivamente ordinando, se stavamo
promettendo in senso stretto oppure solo annunciando un’intenzione vaga, e così via100
.
Sono questi i presupposti che indirizzano l’analisi linguistica di Austin verso quel fonda-
mentale insegnamento in base al quale quando si vogliono spiegare le parole bisogna distinguere
la «forza» dal «significato», cioè il fare dal dire. I constativi sono differenti rispetto ai performa-
tivi: mentre i primi possono essere veri o falsi, i secondi possono essere felici o infelici, cioè pos-
sono provocare o non provocare un’azione coerente con il contenuto dell’azione linguistica. Se,
per esempio, si sta ordinando a qualcuno di fare qualcosa e quest’ordine viene eseguito, allora si
realizza la condizione di un performativo felice che ha realizzato, attraverso l’atto linguistico, il
suo scopo. Si ha allora il caso che l’enunciato (l’atto locutorio) viene compreso e riesce ad otte-
nere degli effetti richiesti. L’atto illocutorio diventa, allora, «atto perlocutorio», perché si è riu-
scito a portare a termine e a compiere con successo proprio quello che l’atto illocutorio richiede-
98
Ivi; pp. 10-11. 99
Ivi; p. 75. 100
Ivi; p. 74.
74
va. L’atto perlocutorio prevede, dunque, sempre delle conseguenze, le quali dipendono
dall’utilizzo corretto del linguaggio non solo nel senso della chiarezza espositiva ma anche, e so-
prattutto, nel senso che la proposizione deve essere proferita in una occasione e in un contesto
che sia in grado di spiegare adeguatamente la proposizione stessa:
In generale, è sempre necessario che le circostanze in cui vengono pronunciate le parole siano in un certo modo, o in
più modi, appropriate…101
Pronunciare parole che producano un effetto è lo scopo di un parlante, il quale realizzerà
questo scopo solo se da un lato adeguerà il suo lessico al contesto in cui è utilizzato, e dall’altro
lato si impegnerà a rendere esplicite le intenzioni che accompagnano le sue proposizioni. Questo
ultimo aspetto è ciò che caratterizza la «forza illocutoria» di un enunciato, cioè il «modo» in cui
questo deve essere inteso, manifestato attraverso l’utilizzo di dispositivi linguistici che determi-
nano il fatto che si tratti di rendere esplicita un’intenzione piuttosto che un’altra, cioè
un’esortazione piuttosto che un avvertimento, un consiglio piuttosto che un ammonimento.
3.3 La “forza” delle parole
Austin parla di forza di un enunciato perché è interessato a spiegare ciò che un attore sta
facendo mentre dice qualcosa. Egli è, cioè, interessato alle intenzioni di questo attore.
Cosa significa la teoria degli atti linguistici per la storia delle idee? E come può, questa
teoria, trovare spazio e avere un ruolo come supporto interpretativo per lo studio delle idee poli-
tiche? La risposta a queste domande può essere elaborata facilmente se ci si pone nella prospetti-
101
Ivi; p. 12.
75
va di volere rilevare non tanto il modo in cui le idee politiche sono state manipolate e sviluppate
dai singoli autori storici, ma il modo in cui il linguaggio di questi autori è riuscito a fare emerge-
re quali fossero state le loro intenzioni e i loro scopi nello scrivere un testo di filosofia politica
utilizzando un lessico piuttosto che un altro.
Anche gli autori, come gli attori di una scena occupata da parlanti, quando hanno scritto i
loro testi si sono rivolti a qualcuno che avrebbe letto le loro parole. I loro atti illocutori il più del-
le volte non sono diventati atti perlocutori perché non sono riusciti a modificare lo stato di co-
scienza dei loro lettori oppure non hanno sortito gli effetti che erano previsti dall’autore. Tuttavia,
non è questo che gli storici del discorso politico vogliono rilevare. Essi sono interessati alla
comprensione della forza illocutoria, cioè alle modalità di ricezione delle intenzioni degli autori
espresse per mezzo di enunciati.
Gli enunciati della politica hanno delle peculiarità consistenti nel fatto di essere non solo
atti comunicativi, ma anche, allo stesso tempo, argomentazioni:
Argomentare significa sempre argomentare a favore o contro un certo assunto, o punto di vista, o azione. Ne conse-
gue che, se vogliamo comprendere questi enunciati, dobbiamo identificare la vera natura dell’intervento contenuto
nell’atto di enunciarli102
.
Questo è il compito dello storico. Egli deve riuscire a cogliere il motivo degli interventi di un
autore della politica mirando alla comprensione del significato che questi ha conferito alle e-
spressione e agli enunciati a cui è ricorso per esprimere le sue argomentazioni di carattere pol i-
tico. Ciò che un autore ha scritto non sono semplici proposizioni, egli ha effettuato precise
mosse sullo scacchiere della discussione politica. Il suo testo «è la sua prestazione in qualità di
102
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 138.
76
parole in un contesto di langue»103
che l’autore intende continuare ad usare o modificare.
L’autore compie un atto del genere perché vuole compiere una mossa la cui comprensione da
parte dello storico dipende dalla considerazione della «situazione pratica» in cui l’autore ha a-
gito, dal «punto che voleva sostenere»104
legittimando o criticando una norma o una pratica
della vita politica.
«Ma – sottolinea Pocock – la situazione pratica include pure la situazione linguistica»105
:
l’autore si muove all’intero di un contesto linguistico all’interno del quale egli compie la sua
mossa. Egli utilizza un lessico che lo storico cerca di ricostruire con lo scopo di riuscire a risalire
a ciò che l’autore stesse facendo scrivendo quel testo. Lo storico
tenta una spiegazione esauriente delle mosse che costui ha compiuto, delle innovazioni che ha portato a termine, e
dei messaggi circa l’esperienza e il linguaggio che l’autore ha, dimostrabilmente, trasmesso. Costituirà questo un re-
soconto di «quanto stava facendo» …106
Considerare la proposizione come una mossa della discussione politica significa dischiu-
dere l’analisi interpretativa dello storico sulla possibilità di risalire alle intenzioni che hanno gui-
dato la scrittura della proposizione e «riscoprire i presupposti e i propositi che ne hanno guidato
il compimento»107
. Una proposizione è la risposta a una domanda posta dal contesto del discorso
politico, è la consapevolezza di partecipare a una conversazione e a un dibattito politico assu-
mendo una determinata posizione a cui lo storico tenta di risalire108
.
Ecco perché la penna è una spada potente! L’autore, scrivendo un testo di filosofia politi-
ca, fa ricorso a un linguaggio che è strettamente legato all’azione umana. Egli da un lato utilizza
103
POCOCK, J. G. A., «The state of the art», Introduzione a Virtue, Commerce and History. Essays on Political
Thought and History, chiefly in the Eighteenth-Century, C. U. P., Cambridge, 1985; trad. it. di Gadda Conti G., «Lo
stato dell’arte», in ID., Politica, linguaggio e storia, op. cit., p. 156. 104
Ibid. 105
Ivi; p. 157. 106
Ivi; p. 160. 107
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 139. 108
Ibid.
77
le parole perché sta esprimendo teorie e argomentazioni, dall’altro, nel compiere questi gesti, sta
facendo qualcosa. Quindi, il primo passo dell’interprete che voglia comprendere il significato dei
testi della politica, consiste nel situare i testi degli autori nel loro contesto ideologico e linguisti-
co. In fondo, una ideologia politica non è altro che una argomentazione definita da convenzioni
linguistiche utilizzate da un certo numero di scrittori. Il termine «convenzione» è impiegato da
Skinner109
proprio per indicare una sorta di euristica che suggerisce le coordinate lessicali grazie
alle quali è possibile muoversi tra la gamma dei luoghi comuni che accomuna un certo numero di
testi. Conoscere i vocabolari condivisi, i presupposti, i criteri di conoscenza e di spiegazione dei
problemi consente allo storico di comprendere se un autore stesse approvando o rifiutando (o ad-
dirittura ignorando) gli assunti teorici e le convenzioni di un dibattito politico. In questo senso, la
felicità e l’infelicità degli atti performativi degli autori dipende dalla capacità di questi atti di riu-
scire a rispondere in maniera adeguata rispetto al paradigma linguistico (cioè rispetto al contesto
e alle convenzioni linguistiche) in cui l’enunciato è stato proferito.
Il filosofo della politica scrive un testo perché vuole rispondere a domande e a questioni
sorte nella società in cui vive; egli partecipa al dibattito politico della sua età sia utilizzando il
lessico proprio di questo dibattito, sia alterando alcune delle convenzioni linguistiche al fine di
modificare l’ideologia politica dominante che vi è rispecchiata. In questo secondo caso, compito
dello storico è di comprendere quanto l’ideologia politica muta al mutare delle convenzioni lin-
guistiche che sono state manipolate dall’autore del testo politico. Quindi, fino a quando non si
inserisce il testo di un autore nel contesto linguistico che appartiene al genere di scrittura proprio
del suo testo, non è possibile capire quale possa essere la mossa politica che questi stava ese-
guendo110
.
109
SKINNER, Q., «‘Social meaning’ and the explaination of social action» (1972), ora in ID., Vision of Politics Vol. 1,
Regarding Method, C.U.P., Cambridge, 2002; trad. it di R. Laudani, «“Significato sociale” e spiegazione dell’azione
sociale», in ID., Dell’interpretazione, op. cit., p. 78. 110
Cfr. TULLY, J., «The pen is a mighty sword», in ID. (a cura di), Meaning and Context. Quentin Skinner and his
Critics, Princeton University Press, Princeton, 1988, pp. 10-15.
78
Il classico, allora, non è quel testo che, come scrive Gadamer, si trova al di sopra del
tempo storico, ma è quel testo che sfida le convenzioni linguistiche e i luoghi comuni ideologici
della sua epoca. Esso conterrà un vocabolario che acquisisce carattere di normatività in grado
non solo di descrivere ma di anche di valutare le questioni di natura politica, indirizzando, in
questo modo, l’agire e la pratica della politica. Per questa ragione i classici costituiscono lo
strumento meno indicato per disegnare i giudizi convenzionali e il lessico politico di un’epoca,
ma bisogna invece spostare l’indagine verso quei testi minori che in un certo senso gravitano in-
torno ai classici come commentari e glossari di questi, poiché utilizzano un armamentario nor-
mativo che diviene convenzionale per chi si occupa della stessa materia ideologica.
3.4 Le parole dell’autore
La storiografia del discorso politico non opera una distinzione tra testo e contesto111
. Gli
enunciati di un testo di filosofia politica appartengono al contesto e sono legati strettamente agli
enunciati riguardanti lo stesso argomento. Se lo storico riesce a identificare le convenzioni lin-
guistiche che formano il contesto con la dovuta cura, egli è in grado di comprendere cosa stesse
facendo l’autore mentre scriveva le parole che ha scritto.
Anche un testo di filosofia politica è un atto comunicativo, e quindi se si vuole «rendere
giustizia ai momenti di rottura o di effettivo sovvertimento delle convenzioni o dei luoghi comu-
ni, non possiamo fare semplicemente a meno della categoria di autore»112
: essendo il contesto
sociale formato da concetti che possono essere mutati o sovvertiti proprio dalle penne degli auto-
111
SKINNER, Q., «A reply to my critics», in TULLY, J., (a cura di), Meaning and Context. Quentin Skinner and his
Critics, op. cit., p. 276. 112
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 142.
79
ri, ogni alterazione di questi concetti rappresenta allo stesso tempo un’alterazione dell’universo
sociale. La morte dell’autore, dunque, non è stata ancora annunciata.
La conclusione a cui sono giunti Roland Barthes e Michael Foucault, è apparsa esagerata
sia allo storico di Cambridge che allo storico neozelandese, i quali hanno sostenuto che la com-
prensione della forza illocutoria di un enunciato, indicando quale fosse stata l’intenzione
dell’autore che l’ha scritto, mostra la coscienza del soggetto-autore e la sua consapevolezza di
stare intervenendo attraverso l’uso della scrittura nel suo contesto sociale, politico e linguistico.
Non si può, quindi, fare a meno in maniera semplicistica della categoria di autore. Attraverso
l’arma della penna il soggetto-autore è riuscito probabilmente a mutare e alterare le modalità di
utilizzazione dei concetti e, di conseguenza, a cambiare il mondo sociale a cui è appartenuto. Po-
cock indica questo autore iconoclasta con l’espressione – presa a prestito da Sheldon Wolin – di
Epic theorist113
(teorico epico), con lo scopo di suggerire quali siano le caratteristiche e le pecu-
liarità di quegli autori del pensiero politico che, con i loro linguaggi innovativi, hanno mutato il
paradigma linguistico. Un autore – scrive Pocock – «è tanto l’espropriatore, che prende da altri il
linguaggio e lo usa per i propri fini, quanto l’innovatore, che agisce sul linguaggio in modo da
introdurre mutamenti momentanei o duraturi nei modi in cui viene usato»114
. Un autore può riu-
scire a indirizzare e imporre risposte e reazioni nei suoi contemporanei determinando, col suo
linguaggio nuovo, una continuità che caratterizza una comunità. Il teorico epico è tale perché è in
grado di «spiegare e giustificare tutte le proprie mosse e innovazioni, e di proporre una riorga-
nizzazione radicale del linguaggio e della filosofia»115
. Sono gli autori che parlano e non i testi.
Non è degna di attenzione l’affermazione di Gadamer secondo la quale «il senso di un testo tra-
113
WOLIN, S., Political Theory as a Vocation, in «American Political Science Review», LXIII, 4 (1969), pp. 1062-
82. 114
POCOCK, J. G. A., «Lo stato dell’arte», op. cit., p. 145. 115
Ivi; p. 160.
80
scende il suo autore»116
, ma è piuttosto vero che gli autori non sono prigionieri della tradizione
culturale a cui appartengono, perché gli autori scrivendo un testo non fanno altro che esercitare
la consapevolezza del loro agire pratico in un ambito – quello del pensiero politico – che pone sì
le sue condizioni e le sue possibilità, ma che può anche essere sovvertito.
La conseguenza è che il testo non può essere separato dall’autore. Non esiste «una mens
auctoris indipendente dal suo sermo»117
perché le intenzioni non possono essere prese in consi-
derazione astrattamente, prescindendo dal linguaggio con cui il testo è stato costruito:
Le intenzioni non vengono, forse, in esistenza solo quando sono realizzate nel testo? Come può l’autore sapere
quanto pensa, o quanto aveva intenzione di dire, prima di aver visto che cosa ha affermato? L’autoconoscenza è re-
trospettiva, e ciascun autore è la propria nottola di Minerva118
.
L’autore, benché sia stato l’abitante di un universo linguistico che ha dato significato ai suoi e-
nunciati, non è un semplice ambasciatore di questo linguaggio ma è qualcosa di più, in quanto il
suo discorso, la sua parole, può sia seguire i canoni del contesto linguistico condiviso, ma può
anche avere il potere di agire sul paradigma linguistico, sulla langue, che l’autore stesso ha uti-
lizzato.
Attraverso il testo l’autore ha detto qualcosa sulla sua epoca ed è, quindi, agli enunciati
del testo che bisogna in primo luogo guardare per ricostruire le intenzioni dell’autore. Questa è la
via maestra che gli storici del discorso politico hanno deciso di percorrere per risalire a ciò che
glia autori, attraverso i testi, intendevano dire. Una via che, essendo percorsa studiando i lin-
guaggi e gli enunciati ricavati dai testi, conduce alla comprensione storica di questi testi119
, i qua-
116
GADAMER, H.-G., Verità e metodo, op. cit., p. 613. 117
POCOCK, J. G. A., «Lo stato dell’arte», op. cit., p. 142. 118
Ibid. 119
SKINNER, Q., «Some problems in the analysis of political thought and action», in TULLY, J., (a cura di), Meaning
and Context. Quentin Skinner and his Critics, op. cit., p. 102.
81
li non sono altro che lo specchio dell’azione di un autore che intendeva partecipare in maniera at-
tiva alla discussione sull’universo politico da lui abitato.
Si viene in questo modo a stabilire una relazione stretta tra scrittura, significato e sogget-
tività dell’autore. Ed è una relazione di tipo pratico, perché quando si parla di «verbalizzazione
di un atto politico» si parla pure di «verbalizzazione stessa quale atto politico»120
. La politica è sì
un sistema di linguaggio ma anche questo linguaggio è un sistema politico in quanto le parole
sono allo stesso tempo azioni e atti di potere nei confronti delle persone. Dalla lezione di Austin
si è appreso che l’enunciato performativo tende a volere realizzare il fine della forza illocutoria,
che è quello di produrre effetti pratici e comportamentali in chi ascolta. Quando questa condizio-
ne ha luogo si parla di atto illocutorio che diviene perlocutorio. Perché la forza di un enunciato
possa essere compresa da chi ascolta è necessaria, oltre alla coerenza dell’enunciato col contesto
in cui viene proferito, la dichiarazione da parte di chi parla di stare eseguendo un’azione: ecco
perché – scrive Austin – il performativo ha una preferenza per la «prima persona»121
. L’utilizzo
della prima persona «io» determina il fatto che l’autore «agisce su di sé […] formulando il pro-
prio intento come atto verbale», ma allo stesso tempo sta «comunicando informazioni relative a
tale intento» a una seconda e a una terza persona. La seconda persona è lui stesso in qualità di
ascoltatore, mentre la terza persona è il destinatario del suo intento122
. La scrittura rinvia da un
lato al mondo dei significati condivisi da una comunità, dall’altro rimanda alle intenzioni di un
autore che, attraverso le parole vuole conseguire e realizzare un obiettivo politico ben preciso.
Questo secondo livello dei significati viene restituito alla comprensione dello storico quando
legge gli enunciati del testo come atti performativi.
120
POCOCK, J. G. A., Verbalizing a political act: towards a Politics of Speech, in «Political Theory», Vol. 1, n. 1,
feb., London; trad. it. di Gadda Conti G., «Rendere in parole un atto politico: verso una politica dell’espressione
verbale», in ID., Politica, linguaggio e storia, op. cit., p. 215. 121
AUSTIN, J. L., Come fare cose con le parole, op. cit., pp. 47-48. 122
POCOCK, J. G. A., «Rendere in parole un atto politico: verso una politica dell’espressione verbale», op. cit., p. 221.
82
La teoria degli atti linguistici conferma che vi è una relazione diretta tra il testo e il suo
autore, in quanto questa teoria indica l’esistenza di una dimensione dei significati che dimostra
quali fossero state le intenzioni che hanno spinto un autore a intervenire con un testo nel dibattito
politico.
L’utilizzo di espressioni quali «significati» e «intenzioni» richiedono tuttavia un chiari-
mento che consenta all’interprete dei testi della storia del pensiero politico di potersi muovere
con dimestichezza all’interno dell’universo ermeneutico. Il termine «significato», ad esempio,
può essere inteso in almeno tre modi: il primo riguarda il senso che un termine o una frase acqui-
stano a seconda di quello che è il loro significato grammaticale; il secondo concerne il significato
che una parola o un’espressione possono avere per il lettore; il terzo considera il significato che
l’autore ha voluto dare alle parole che ha utilizzato123
. È questa ultima modalità di intendere il
significato che interessa gli storici del discorso politico, perché permette di concentrare l’analisi
storica su quell’ambito semantico che cerca di rintracciare le intenzioni che spinsero l’autore a
scrivere il testo, determinando la stretta relazione tra l’autore e ciò che ha scritto.
È necessario – sostiene Skinner124
– operare anche una distinzione tra il concetto di inten-
zione e quello di motivo. Conoscere le intenzioni di un autore significa sapere cosa questi stava
facendo mentre scriveva, cioè che genere di atto linguistico stava eseguendo: se stava cioè iro-
nizzando su qualche aspetto della politica del suo tempo o se stava intervenendo con serietà su
un particolare argomento del dibattito politico, e così via. Conoscere i motivi, invece, significa
risalire alle ragioni che lo hanno indotto a pronunciare quegli atti linguistici e non altri. Distin-
guere intenzioni e motivi vuol dire, allora, distinguere un interno e un esterno del testo, perché
mentre le intenzioni di un autore fanno riferimento al suo disegno di scrivere il testo in un certo
modo, un modo cioè che consenta di manifestare l’intenzione di fare qualcosa (ironizzare, inter-
123
SKINNER, Q., «Motives, intentions and the interpretation of text», in TULLY, J., (a cura di), Meaning and Context.
Quentin Skinner and his Critics, op. cit., pp. 70-71. 124
Ivi; pp. 73-74.
83
venire nel dibattito politico, ecc.), parlare dei motivi di un autore significa parlare, invece, di
condizioni che sono antecedenti al suo testo e che, in un certo senso, sono situate fuori del testo
stesso. Ciò significa che i motivi sono connessi con l’opera dell’autore solo in maniera contin-
gente, e che risultano essere irrilevanti ai fini della determinazione del significato degli enunciati
del testo. Ciò che conta, per la teoria dell’interpretazione del discorso politico sono le intenzioni,
le quali da un lato riescono a fornire il terzo di tipo di significato di cui si è parlato sopra, signifi-
cato che viene considerato valido per gli scopi ermeneutici di Pocock e Skinner, dall’altro lato
rappresentano l’unico forte collante tra autore e testo grazie al quale si crea un’unità tra ciò che si
è scritto (il testo), ciò che si aveva intenzione di scrivere (il significato) e colui che ha scritto
(l’autore).
La stessa questione è affrontata da Pocock attraverso l’analisi dei concetti di «testo» ed
«evento», concetti che per lo storico «costituiscono a un dipresso la stessa cosa»125
perché gli
eventi sono il risultato di azioni individuali che si manifestano attraverso i testi, cioè attraverso
«sofisticate prestazioni verbali»126
. Analizzato in questo modo, un testo è sia una azione che un
evento. È un’azione perché è lo strumento utilizzato da un autore per fare qualcosa. È un evento
perché riuscire a comprendere cosa un autore stesse facendo scrivendo il testo aiuta a «ricostruire
quell’esperienza in termini atti a renderla intelligibile allo storico»127
, il quale fonda la sua com-
prensione del testo su questo processo che riunisce in una totalità la scrittura, le intenzioni e la
soggettività dell’autore.
125
POCOCK, J. G. A., «Text as events: reflections on the History of Political Thought», in Politics of discourse. The
literature and history of Seventeenth-Century England, Univ. Of California, Los Angeles-London, 1987; trad. it. di
Gadda Conti G., «Testi come eventi: riflessioni sulla storia del pensiero politico», in ID., Politica, linguaggio e sto-
ria, op. cit., p. 240. 126
Ivi;, p. 242. 127
Ivi; p. 243.
84
3.5 Le intenzioni degli autori
Se la morte dell’autore non è stata ancora annunciata, tuttavia sembra – stando alle criti-
che che sono state mosse a Skinner – che l’autore stesso non versi in buone condizioni128
. Infatti,
l’autore appare come un puro effetto dei linguaggi convenzionali che non fa altro che ripetere,
evidenziare o difendere i luoghi comuni dei discorsi della politica. Ma, ha sottolineato Skinner,
l’atto comunicativo di cui l’autore storico si è reso protagonista è stato un atto intenzionale ese-
guito con il presupposto di un «ventaglio di forze illocutorie»129
grazie alle quali si è prodotta la
scrittura del testo.
Testo, contesto e intenzioni sono i tre elementi che devono essere studiati dallo storico
del discorso politico per ricostruire il significato storico delle opere del pensiero politico e resti-
tuire all’autore il suo valore e il suo peso. È vero che il testo appartiene a un contesto che è lin-
guistico e ideologico, ed è individuabile dallo storico attraverso lo studio delle convenzioni ter-
minologiche e dei vocabolari usati. Non si deve, comunque, commettere l’errore di valutare que-
sto insieme come una entropia che causa circolarità e determina il collasso del metodo interpreta-
tivo della New History of Political Thought. Non regge l’accusa di chi indica Skinner come un
costruttore di un contesto ideologico che non tiene in debita considerazione le intenzioni degli
autori minori, i quali sarebbero utilizzati dallo storico di Cambridge solo con lo scopo di affinare
la comprensione del linguaggio utilizzato nel testo dell’autore principale130
. Né Skinner né Po-
cock sembrano cadere in questa trappola ermeneutica, in quanto entrambi sostengono che una
comunità politica possiede un patrimonio di termini e di valori che costituiscono la forma di vita
o il paradigma che dà significato alle parole e ai gesti dei suoi membri. Ciò significa che anche
128
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 142; e «A reply to my critics», op. cit., p.
276. 129
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 143. 130
BOUCHER D., Texts in context. Revisionist methods for studying the history of ideas, Martinus Nijhoff Publishers,
Dordrecht-Boston-Lancaster, 1985, p. 214.
85
laddove si definisce un autore minore rispetto a un maggiore, non si sta operando una distinzione
in base alla quale solo il secondo sia in possesso di intenzioni mentre il primo no. Quello che gli
autori minori fanno ha sicuramente un valore intenzionale per Pocock e Skinner, perché questi
autori minori non fanno altro che palesare l’utilizzo di un lessico la cui forza illocutoria può es-
sere identificata con la volontà di confermare e approvare un universo linguistico e ideologico.
L’autore – è bene sottolinearlo ancora – non è ancora morto. Fino a quando si riescono a rico-
struire le sue intenzioni, egli è ancora vivo e degno di essere guardato come soggetto di elevata
consistenza storica.
Non sembra reggere, quindi, neppure la tesi anti-intenzionalista di Jacques Derrida, il
quale sostiene l’impossibilità di scoprire le intenzioni di un autore, e lo fa partendo dall’analisi di
una frase di Nietzsche ritrovata tra i suoi appunti che recita «Ho dimenticato il mio ombrello»131
.
Il filosofo francese afferma che è difficile recuperare il significato intenzionale della frase di
Nietzsche in quanto manca un contesto che consenta di ricostruirne le intenzioni. Pur essendo di-
sposto a concedere a Derrida la possibilità che vi siano enunciati di cui è difficile ricostruire la
forza illocutoria, Skinner tiene a sottolineare che ciò «tuttavia non significa l’impossibilità di co-
struire ipotesi plausibili sulle intenzioni con cui è stato proferito un enunciato»132
. È sempre pos-
sibile focalizzare l’attenzione ermeneutica sui significati intersoggettivi degli atti illocutori e an-
dare poi alla ricerca di prove che confermino un tale alfabeto dell’intenzionalità133
. Il problema
di chi, come Derrida, assume la posizione scettica è quello di non riuscire a liberarsi di quello
che Skinner definisce «il fantasma di Cartesio». Skinner col suo metodo non vuole fare altro che
«ricostruire l’identità storica di singoli testi» della storia del pensiero politico:
131
DERRIDA, J., Eperons. Les styles de Nietzsche, Parigi, 1978; trad. it. di G. Cacciavillani, Sproni: gli stili di Nie-
tzsche, Adelphi, Milano, 1991, pp. 113-119. 132
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 146. 133
SKINNER, Q., «A reply to my critics», op. cit., pp. 280-281.
86
Il fine è vedere questi testi come contributi a discorsi particolari e quindi riconoscere i modi in cui essi hanno segui-
to, sfidato o sovvertito i termini convenzionali di quei discorsi134
.
134
SKINNER, Q., «Significato, atti linguistici e interpretazione», op. cit., p. 150.
87
PARTE SECONDA
STORIA
88
Capitolo 4
La natura storica della politica
4.1 Teoria, azione, parole
Lo studio della teoria politica non può essere affrontato a prescindere dalla storia del pen-
siero politico. A differenza delle scienze della natura, per le quali non è necessario un approccio
storico per l’analisi del suo oggetto, non si può pensare a un approccio alla scienza politica senza
tenere conto dei testi di Platone, Aristotele, Machiavelli, Botero, e così via; di conseguenza non
si può pensare alla comprensione della politica senza considerarla un oggetto «ostinatamente ed
intensamente storico»135
. Il motivo di questo assunto di fondo risiede nel fatto che la politica è
una forma di attività umana peculiare che prevede un intreccio stretto tra ideologia e azione u-
mana, intreccio che gli storici del pensiero politico devono tentare di studiare e analizzare in ma-
niera quanto più precisa e sistematica possibile.
Quentin Skinner e John Pocock hanno sottolineato con forza, a questo proposito, il carat-
tere storico dei testi della politica, i quali possono essere adeguatamente interpretati solo se esa-
minati come complesse azioni umane finalizzate a raggiungere scopi e obiettivi. Non risulta suf-
ficiente per i teorici della New History of Political Thought rilevare quali fossero state le ideolo-
gie circolanti in una determinata epoca e i modi in cui queste ideologie fossero imparentate con
costruzioni teoriche del passato. Nemmeno è sufficiente sottolineare le modalità di controllo dei
luoghi e degli strumenti della cultura attraverso i quali i pensatori politici cercarono di assicurarsi
la trasmissione dei concetti e delle teorie politiche. Gli storici del pensiero politico di lingua in-
glese sostengono invece che per comprendere le ideologie e le ragioni del loro apparire bisogna
135
DUNN, J., Storia delle dottrine politiche, Jaka Book, Milano, 1992; p. 12.
89
cogliere i cambiamenti che interessarono il pensiero e l’azione, la teoria e la pratica. E questa
comprensione è possibile solo attraverso lo studio della «configurazione instabile delle relazione
di potere che costituiscono la totalità del contesto politico»136
, i cui dibattiti sono rappresentati
nell’ideologia. Solo quando dallo scontro delle pratiche politiche è emerso un vincitore che di-
fende o critica i comportamenti politici condivisi, solo allora si produce l’effetto della manipola-
zione ideologica la cui finalità è di legittimare il nuovo vincitore. Non ci si deve concentrare,
quindi, sui teorici principali, ma bisogna piuttosto mettere a fuoco «la matrice sociale e intellet-
tuale più generale da cui scaturirono le loro opere», perché «è la vita politica stessa a stabilire le
questioni principali per il teorico politico»137
.
Il periodo storico che si prende in esame costituisce per lo storico il terreno privilegiato se
studiato a partire dal carattere di normatività del lessico e della terminologia del contesto storico-
politico all’interno del quale ebbe luogo il dibattito. Questo lessico aiuta da un lato a determinare
i motivi per cui furono esaminate certe questioni invece di altre e dall’altro a determinare i modi
in cui si contribuì alla loro discussione e al loro dibattito. Scrive Pocock, parlando di questa for-
ma di consapevolezza teoretica che condivide con Skinner:
è nostra opinione che la storia del pensiero politico possa essere scritta con maggiore esattezza e perspicuità qualora
l’attenzione sia polarizzata sui concreti atti di formulazione e di concettualizzazione compiuti dai singoli pensatori
che si muovono come soggetti attivi nell’ambito del discorso umano e qualora si faccia conto primario delle matrici
dei «linguaggi a disposizione» a cui i pensatori sono obbligati a ricorrere, anche se poi essi li modificano proprio
con i loro atti o interventi personali138
.
136
TULLY, J., «The pen is a mighty sword», op. cit.; p. 15 (la traduzione è mia). 137
SKINNER, Q., The Foundations of Modern Political Thought. The Renaissance, Cambridge University Press,
Cambridge, 1978; trad. it. a cura di G. Ceccarelli, Le origini del pensiero politico moderno. Vol. I Il Rinascimento, il
Mulino, Bologna, 1989 (d’ora in poi Le origini); p. 37. 138
POCOCK, J. G. A., The Machiavellian Moment. Fiorentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradi-
tion, Princeton University Press, Princeton, 1975; trad. it. di A. Prandi, Il momento machiavelliano. Il pensiero poli-
tico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, il Mulino, Bologna, 1980; p.17.
90
Un tipo di analisi testuale che si fondi su questi presupposti ha il vantaggio di consentire la
scrittura di una storia delle dottrine politiche che conserva il carattere dell’autentica esposizione
storica e che permette, partendo dalle mentalità delle società del passato, di comprendere i proble-
mi della vita politica non attraverso lo studio di quei testi che hanno trattato le questioni politiche a
livelli di astrazione tale da essere alieni dalla discussione dei contemporanei. Solo se il testo classi-
co è calato nel suo contesto storico-sociale si possono ricostruire le modalità di diffusione dei con-
cetti politici nella storia. Solo attraverso l’adozione di un simile metodo è possibile connettere la
teoria politica con la pratica politica, perché il filosofo della politica è visto come un «attore» che si
impegna in una particolare azione utilizzando un linguaggio normativo che al tempo stesso «de-
scrive il suo comportamento politico» e le «restrizioni sul suo stesso comportamento»139
, restrizio-
ni determinate dall’obbligo di utilizzare un certo linguaggio, cioè quello che è a disposizione del
contesto storico-sociale.
I testi classici, letti in questo modo, consentono allo storico del pensiero politico di risali-
re all’universo degli argomenti, dei concetti e dei problemi che gli autori hanno affrontato e han-
no cercato di risolvere. Per cui, quando si riesce a comprendere l’intenzionalità che è alla base
dell’azione di scrivere un testo, lo storico riesce a ricostruire il mondo concettuale e ideologico
dell’autore a partire dall’azione pratica.
Se si guarda da vicino l’opera di Quentin Skinner si scopre che questa dimensione storio-
grafica è comprensibile a partire dal titolo del suo libro, The Foundations of Modern Political
Thought [Le origini del pensiero politico moderno]. In italiano la parola ‘foundations’ è tradotta
con Origini termine che sicuramente non sbugiarda il senso del testo di Skinner. Tuttavia, il termi-
ne Foundations, è imparentato semanticamente col verbo «to found», che significa «fondare», «i-
stituire». Questa precisazione serve per definire lo scopo di ricostruzione storica da parte di Skin-
ner, il quale consiste nel riscoprire nel pensiero politico medievale, rinascimentale e della Riforma,
139
SKINNER, Q., Le origini, op. cit.; p. 40.
91
quelle convenzioni linguistiche che possono definirsi «fondazionali» del successivo pensiero poli-
tico moderno. Questo scopo, allo stesso tempo storico e teorico, viene perseguito da Skinner attra-
verso lo studio dell’eterogeneità del vocabolario politico emerso in quei periodi, il quale ha dato o-
rigine e fondamento a un nuovo linguaggio della politica, una volta che i termini del mondo classi-
co e della teologia furono tagliati fuori140
. È proprio nell’età pre-moderna che nascono i primi ele-
menti lessicali grazie ai quali si acquisiranno le moderne elaborazioni teoriche relative al concetto
di Stato (in senso moderno), sostiene Skinner. Il quale aggiunge che una ricerca che si voglia defi-
nire genuinamente storica deve riguardare sia i modi in cui il pensiero politico e l’azione si sono
intrecciati, sia il modo e la gradualità con cui i nuovi vocabolari politici sono emersi.
Le stesse problematiche sono alla base della ricostruzione del pensiero politico moderno
disegnato da Pocock nel suo The Machiavellian Moment [Il momento machiavelliano], un testo
in cui lo storico neozelandese pone il problema dei modi attraverso i quali gli umanisti avevano
potuto dar luogo alla rinascita dell’ideale repubblicano. Studiando il vocabolario disponibile in
quel preciso periodo storico, Pocock evidenzia che fu attraverso l’utilizzo di termini cuali Con-
suetudine, virtù e fortuna che fu possibile trattare il problema dell’esistenza della repubblica, in-
tesa come fatto storico che in un determinato «momento» vide fiorire il pensiero di Machiavelli.
Lo studio di Pocock è condotto tenendo presente «che certi modelli persistenti nella coscienza
del tempo storico, propri degli europei del medioevo e della prima età moderna, condussero a
presentare la repubblica, e la partecipazione dei cittadini alla repubblica come un problema rela-
tivo alla comprensione della loro propria posizione nella storia»141
. Il «momento», quindi, si pre-
cisa pure come quel luogo della storia in cui gli umanisti si posero il problema della repubblica
perché era per loro una questione viva del dibattito politico del tempo, la quale avrebbe influen-
zato, per successivi gradi di astrazione, la teoria e l’ideologia politica.
140
Cfr. TULLY, J., «The pen is a mighty sword», op. cit.; pp. 16-17. 141
POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 8.
92
4.2 Le parole nella storia
L’esordio della metodologia e della concezione della storia del pensiero politico, così
come sono state tratteggiate fino ad ora, può con certezza essere fatto risalire alla pubblicazione
della tesi di dottorato di J. G. A. Pocock che ha per titolo The Ancient Constitution and the Feu-
dal Law142
. Nella sua tesi, discussa nel 1952 e pubblicata nel 1957, lo storico sostiene che il lin-
guaggio politico moderno non nasce come un linguaggio specializzato, ma afferma, invece, che
tra il XVI e il XVIII secolo un caleidoscopio di linguaggi era presente sulla scena del dibattito
politico. In questo testo, Pocock tenta di fare emergere alcune importanti questioni relative alla
storiografia costituzionalista del diciassettesimo secolo, evidenziando l’opposizione tra due di-
verse scuole di pensiero: quella dei sostenitori della Common Law, che credevano che la costitu-
zione risalisse a tempi immemori e quella dei dissenzienti, i quali obiettavano ai primi questa
credenza sostenendo che la costituzione fosse invece derivata dai principi del diritto di proprietà
risalenti all’età feudale143
. Questo acceso dibattito fece emergere un quadro piuttosto nuovo sul
panorama inglese del Settecento, consistente nel tentativo degli uomini del tempo di comprende-
re se stessi comprendendo le relazioni con il loro passato.
Fu questo primo testo di Pocock a fornire il suggerimento storiografico in base al quale il
modo proprio di affrontare lo studio della storia politica del passato fosse quello di indirizzare la
ricerca verso i testi del tempo studiandoli attraverso l’analisi dei linguaggi utilizzati. Avvalendosi
dello strumento storiografico dell’analisi dei lessici e dei codici retorici il pensiero politico ha rile-
vato la sua vera natura e le sue peculiarità poiché lo studio della terminologia utilizzata dagli autori
ha consentito agli storici di rilevare quale fosse lo strumentario concettuale dei filosofi della politi-
ca e quali le visioni relative alla posizione dell’uomo nella società politica e nella storia.
142
Cfr. sopra; par. 1.1. 143
POCOCK, J. G. A., The Ancient Constitution and the Feudal Law, C. U. P., Cambridge, 1957; p. vii. La traduzione
è mia.
93
La politica è stato prima di tutto il campo di studio privilegiato attraverso il quale è stato
possibile comprendere la concezione di finitezza e di mondanità del tempo. Il vocabolario della
politica è stato studiato come il vocabolario del «possibile» e del «contingente», che tenta di
comprendere quei luoghi dell’esperienza umana che la filosofia, in quanto ricerca dell’universale
e dell’eterno, tiene lontana dalla sua riflessione, in quanto tratti che riguardano la temporalità e la
particolarità. Ma proprio attraverso la politica e attraverso il modello repubblicano – sostiene Po-
cock – si tentò di riscoprire la presenza dell’universale nel particolare, e ciò accadde quando
quel particolare fenomeno o evento contingente veniva osservato nel suo prodursi nel tempo e quando la società nel-
la sua peculiarità era vista come una struttura idonea ad assorbire gli urti e a reagire ai sollecitamenti recati dagli e-
venti contingenti e quando tale società veniva fatta consistere, sul piano istituzionale e sul piano storico, degli effetti
residui di reazioni o risposte avutesi nel suo passato144
.
Questi «effetti residui» e queste «risposte avutesi nel suo passato», cioè nel passato di una socie-
tà politica, sono rinvenibili attraverso lo studio della connessione tra la legislazione presente e
quella passata.
Una prima indagine di questa connessione è condotta da Pocock attraverso l’esame del
diritto consuetudinario inglese. La «consuetudine» viene letta dallo storico neozelandese sia co-
me categoria sia come strumento grazie al quale si riesce a stabilire la continuità, e i motivi di
questa continuità, propria di un insieme di leggi che permangono nel tempo in quanto idonee a
conservare la stabilità delle relazioni politiche tra gli individui che abitano un determinato luogo.
La consuetudine è categoria perché ha attinenza con un ramo particolare del mondo della rifles-
sione politica che non riguarda né i diritti naturali né il diritto positivo, ma è al di fuori e al di là
delle riflessioni sia del filosofo, che concentra la sua indagine sui caratteri universali del mondo
politico, sia del sovrano che, arbitrariamente, decide le leggi del suo regno. La consuetudine è
144
Ivi; p. 84.
94
anche lo strumento grazie al quale si viene a definire la bontà di un sistema di leggi che regge nel
tempo per motivi che non sono razionali, ma sono invece spiegabili con il fatto che questo siste-
ma è accettato da un popolo perché osservando e praticando le leggi consuetudinarie trae van-
taggio e convenienza. Da ciò si conclude che «la bontà di una buona consuetudine si può inferire
dal fatto che essa si è preservata nel tempo»145
e che, quindi, la deduzione razionale e filosofica è
poco idonea a spiegare il meccanismo consuetudinario.
Di fronte alle carenze della filosofia, l’unico argomento per spiegare il diritto consuetudi-
nario era quello ex antiquitate, cioè quello fondato su un ragionamento di tipo diverso da quello
deduttivo. Edmund Burke spiegava con i termini «prescrittivo» e «presuntivo» questo ragiona-
mento. Il termine «prescrittivo», indicava l’uso continuo e consolidato nel tempo di un tipo di le-
gislazione, mentre «presuntivo» indicava il fatto che l’ordinamento giudiziario fosse fondato sul-
la «presunzione» del suo funzionamento per il fatto che la consuetudine riesce a conservare da
tempi antichi e immemori la sua validità e la sua applicabilità146
. Questo è il motivo per cui Po-
cock, leggendo l’opera di Sir John Fortescue, un esule inglese che aveva ricoperto la carica di
presidente della regia corte di giustizia, dal titolo De laudibus legum Anglie (scritta tra il 1468 e
il 1471), sottolinea, tra i tanti consigli che l’esule dà al principe di Galles, quello di conoscere la
common law (il diritto consuetudinario), cioè quella «struttura tecnica e tradizionale, più che una
struttura razionale»147
, sulla quale si è fondata la pratica politica del mondo inglese.
Il ricorso al linguaggio della consuetudine è stato funzionale al chiarimento di un pensie-
ro repubblicano che non poteva esprimersi altrimenti che con un vocabolario che facesse riferi-
mento a una dimensione temporale e contingente. In primo luogo, il primato della common law
riusciva a determinare la superiorità del valore dell’esperienza del popolo rispetto a quella del
principe, che «è sempre l’esperienza di un solo uomo che non può essere opposta a quella di mi-
145
POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 93. 146
Cfr. POCOCK, J. G. A., «Burke and the Ancient Constitution: A Problem in the History of Ideas», in ID. Politics,
Language and Time. Essays on political Thought and History, Atheneum Publishers, New York, 1971; pp. 202-233. 147
POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 96.
95
riadi di uomini che fin da tempi antichissimi ci sono voluti per formare una consuetudine sola»148
.
Quella del cancelliere Fortescue è l’esaltazione della consuetudine e dell’esperienza della molti-
tudine che, essendosi consolidata da tempi antichi, può confortare le modalità di legiferare del
principe che nel regnare si rivolge al consenso dei suoi sudditi, invece che al suo arbitrio.
Emerge un importante elemento aristotelico in questo modo di interpretare il rapporto po-
litico. Si tratta di un elemento in base al quale non è tanto il filosofo al governo di platonica me-
moria a fondare i principi del diritto e del potere, ma è invece l’esperienza accumulata nel tempo
grazie alla legge consuetudinaria di un popolo a fornire le fonti per la formulazione del diritto. È
a partire dai dati sensibili provenienti dalle relazioni consolidate di quegli esseri particolari che
formano la comunità politica che Fortescue pensa si debbano prendere le mosse per la definizio-
ne di quelle proposizioni universali che sono le leggi. Aristotele affermava che l’ordinamento
politico della comunità umana deve essere costruito a partire dall’esperienza degli uomini:
e il timone lo giudicherà meglio il pilota che il carpentiere e il banchetto un invitato e non il cuoco149
.
La teoria politica aristotelica forniva a Fortescue le argomentazioni necessarie per potere soste-
nere la sua tesi sulla pratica del consenso del popolo che, anche nella seconda metà del Quattro-
cento, risultava il modo migliore per vagliare il successo di una legge. Risultava questa l’unica
maniera per parlare di governo regolato dalla consuetudine, cioè di governo in cui le esperienze e
le cognizioni dei singoli sono tra loro congiunte e formano delle astrazioni superiori rispetto alla
volontà proveniente dall’esperienza e dall’intelletto di un solo uomo, sia pure un sovrano. Il de-
bito verso lo stagirita sostenuto da Fortescue non solo riguardava il ricorso a una gnoseologia che
afferma la superiorità dell’esperienza sulla ragione, ma anche perché si dichiarava la maggiore
validità, nella pratica politica, della moltitudine del popolo rispetto al potere deliberativo del
148
Ivi; p. 98. 149
ARISTOTELE, Politica, 1282a. Ediz. a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 1993.
96
principe. Fortescue ha fatto ricorso al linguaggio della consuetudine per affermare, con gli stru-
menti linguistici disponibili al suo tempo, la robustezza teorica della tesi politica di Aristotele sul
valore dell’esperienza e della moltitudine del popolo, e lo ha fatto utilizzando i termini del voca-
bolario politico del Quattrocento.
La storia e il fatto come elementi empirici da cui ricavare le astrazioni sono i pilastri teo-
rici che sostengono anche la tesi da cui Skinner prende le mosse per comprendere meglio ciò che
è stato scritto e affermato dai filosofi della politica. Ci sono tre tesi che spiegano i motivi per cui
Skinner sarebbe riuscito a ricostruire il pensiero politico moderno attraversando contemporane-
amente problematiche di carattere teoretico e storico150
. La prima tesi concerne il fatto che Skin-
ner ha messo più volte in evidenza la sua volontà di una ricostruzione «genuinamente storica»,
realizzabile attraverso la possibilità di rilevare come le idee politiche siano state una forma di a-
strazione che si è concretizzata attraverso delle parole che sono anche – anzi principalmente – a-
zioni, le quali hanno generato un vocabolario duraturo nell’epoca moderna. La seconda tesi è
strettamente connessa alla prima, poiché si sostiene come questo vocabolario abbia creato delle
convenzioni linguistiche capaci di governare un contesto. L’esempio che può essere mostrato
come prova della tesi è quello dei manuali dei glossatori del Digesto giustinianeo i quali, dice
Skinner151
, a partire dalla fine del secolo XII scrissero le loro glosse muovendosi all’interno di
un universo lessicale comune a quello dei retori che avevano scritto i trattati sull’ars dictaminis e
che operavano nelle scuole di diritto del Regnum Italicum. Questi trattati, che iniziarono a un
certo punto ad avere natura politica in quanto assunsero la fisionomia di veri e propri manuali di
comportamento per i principi, sono intrisi di un linguaggio che, nel Duecento e nel Trecento, fu
adoperato da tutti quei teorici della politica che intendevano difendere le prerogative dei Comuni
dell’Italia settentrionale dalle prerogative dell’Imperatore prima e del Papa poi. La convenzione
150
TULLY, J., «The pen is a mighty sword», op. cit.; p. 16 sgg. 151
Cfr. SKINNER, Q., «The rediscovery of republican values», in ID., Vision of Politics Vol. 2, Renaissance Virtues,
C.U.P., Cambridge, 2002; trad. it. di C. Sandrelli, «La riscoperta dei valori repubblicani», in Virtù rinascimentali, Il
Mulino, Bologna, 2006; pp. 21-22. Sull’argomento si discuterà ampiamente nel cap. 6.
97
linguistica che si venne a creare e che risultò rispondere alle esigenze degli apologeti della libertà
e della autonomia comunale dettò le coordinate di una pragmatica lessicale intorno alla quale si
vennero a determinare le ideologie della libertà repubblicana.
L’ultima tesi che spiega l’intreccio tra teoria e prassi, ovvero tra ideologia e storia, ri-
guarda il fatto che le convenzioni di cui si è detto sopra costituirono i giochi linguistici grazie ai
quali si riuscirono a spiegare le attività che ebbero luogo in un determinato luogo e in una deter-
minata epoca. Questa è una tesi che si fonda sull’assunto che il linguaggio sia il termometro mi-
gliore per rilevare la temperatura dell’azione sociale che ha avuto luogo, riuscendo esso – il lin-
guaggio – a descriverla meglio di qualunque altro strumento. Questo è il motivo per cui lo studio
solo teorico di una ideologia politica non è un buon mezzo per cogliere il pensiero politico. La
politica può essere realmente compresa solo a condizione che si riesca da un lato ad inserirla nel-
la sua dimensione storica e dall’altro lato se si riescono a descrivere le forme di vita che caratte-
rizzarono le ideologie politiche di cui lo storico si occupa.
Come il pilota e l’invitato di cui parla Aristotele sono le persone che meglio sono in gra-
do di giudicare e valutare un timone ed un banchetto, allo stesso modo il pensatore politico del
secolo XII o del secolo XV è colui che meglio ha appreso e stimato il panorama politico del suo
tempo, perché ne è stato protagonista attraverso la sua azione che si è concretizzata nella scrittu-
ra del testo. L’opera dello storico consiste, di conseguenza, nell’analisi di ciò che è stato scritto
partendo dalla considerazione che le parole e i termini adoperati da uno scrittore politico sono un
patrimonio lessicale di cui egli disponeva e che ha speso in un modo piuttosto che in un altro con
lo scopo di agire sul suo tempo e sui suoi simili. Egli ha compiuto un’azione che è al tempo stes-
so finalizzata ad agire sulla forma di vita in cui è calato ma che è anche un tentativo di compren-
sione delle idee che hanno regolato e che hanno agito sulla comunità politica.
La prassi e la teoria sono gli elementi che caratterizzano l’azione del filosofo della politi-
ca in quanto egli è un agente storico ma anche una personalità teoretica. E solo se lo si considera
98
come tale lo scrittore politico può essere capito e la storia del pensiero politico può essere as-
semblata.
99
Capitolo 5
Il repubblicanesimo à la Pocock:
da Aristotele ai Founding Fathers
5.1 Verso un linguaggio del vivere civile
Il repubblicanesimo, inteso come specifico campo d’indagine della storia del pensiero po-
litico dotato di una sua dignità di studio e di ricerca, solo a partire dagli anni Settanta ha conqui-
stato una posizione di rilievo nell’ambito della storiografia filosofica e politica152
. Il merito di
questa renaissance di studi sulla tradizione repubblicana è da attribuire sicuramente alla pubbli-
cazione del testo di John Pocock Il momento machiavelliano, testo che interpreta il repubblicane-
simo come teoria filosofico-politica dotata di pari importanza rispetto alle altre due grandi tradi-
zioni del pensiero politico moderno, il liberalismo e il costituzionalismo. In realtà, dalla lettura
dell’opera di Pocock, poi ci si rende conto che l’interpretazione che lo storico dà della storia del
pensiero politico dell’età moderna è finalizzata a indicare proprio il repubblicanesimo come idea
predominante della filosofia politica dei secoli XV-XVIII.
Ci si accorge di questo slittamento se si osserva che lo scopo precipuo dell’opera di Po-
cock è di mettere in rilievo le radici intellettuali della Rivoluzione americana, la quale, più che
come rivoluzione liberale, è intesa e interpretata come rivoluzione repubblicana. L’operazione
pocockiana è consistita nella delineazione di una tunnel history153
che, partendo da Aristotele, ha
152
GEUNA, M., La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, in «Filo-
sofia politica», a. XII, n. 1, aprile 1998; pp. 101-102. 153
Cioè una storia a galleria «che perfora il materiale in una sola direzione e, quindi, svolge un tema singolo la-
sciando così parzialmente ai margini ogni altro fenomeno parallelo». POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano,
op. cit.; p. 19.
100
stabilito poi «un legame tra Firenze e Filadelfia passando per Londra ed Edimburgo»154
intessen-
do una trama che ha legato la polis ateniese con il pensiero dei Padri Fondatori e la filosofia poli-
tica di Aristotele con i Federalist Papers.
Anche Skinner ha eseguito un’operazione simile, volta a porre in evidenza la presenza
nel pensiero politico dell’età moderna, tra i vari linguaggi, quello del «vivere civile» e della li-
bertà repubblicana155
; ma le matrici intellettuali e culturali del repubblicanesimo sono state, se-
condo Skinner, assolutamente diverse da quelle indicate da Pocock. Tuttavia, è importante sotto-
lineare, al momento, la forte insistenza con cui un certo modello di interpretazione storiografica,
condivisa dai due storici, ha chiarito e spiegato la presenza della teoria repubblicana e il suo ruo-
lo nell’età moderna.
Il percorso dell’idea repubblicana disegnato da Pocock, di cui ci si occuperà in questo ca-
pitolo, prende le mosse dallo studio dei lessici a disposizione di chi viveva nel tardo Medioevo.
Gli uomini di quest’epoca affrontarono la questione del «vivere civile» sulla base della conside-
razione aristotelica della polis dotata di una tensione sia universale, «nel senso che la sua esi-
stenza era finalizzata alla realizzazione da parte di tutti i suoi membri (cives) di ogni valore che
in questa vita fosse possibile agli uomini conseguire», sia particolare, «nel senso che si trattava
pur sempre di una realtà finita e posta in un certo spazio e in un certo tempo»156
. A raccogliere
queste suggestioni furono, in primo luogo, gli umanisti fiorentini del Quattrocento, i quali senti-
rono l’esigenza di una riflessione urgente sulla teoria repubblicana, suscitata da una profonda
crisi della città in seguito alla morte di Giangaleazzo Visconti nel 1402. Pocock sostiene la tesi di
Hans Baron157
secondo la quale intorno al 1400 il potente signore di Milano fosse in procinto di
estendere il suo dominio anche in Toscana, in un momento in cui anche la collaborazione milita-
154
Ivi; p. 13. 155
GEUNA, M., op. cit.; p. 104. 156
POCOCK, J. G. A., op. cit.; p. 75. 157
Cfr BARON, H., The Crisis of the Early Italian Renaissance, Princeton University Press,Princeton, 1966; trad. it. a
cura di R. Pecchioli La crisi del primo rinascimento italiano, Sansoni, Firenze, 19702.
101
re tra i fiorentini e i veneti era venuta meno. Nei due anni che precedettero la morte del Visconti
e durante il successivo periodo che vide crollare il sistema da lui costruito, i fiorentini, percepita
la minaccia della loro comunità, si eressero a «campioni della libertà repubblicana in Italia e nel
mondo allora conosciuto»158
ed acquisirono «piena coscienza di essere una realtà politica fondata
su valori e istituzioni repubblicane»159
.
Si vennero a scontrare allora due tipi di linguaggi, quello cesariano e imperiale dei propa-
gandisti milanesi e quello repubblicano degli umanisti fiorentini. La realtà politica fiorentina fu
concepita come ereditata da un lontano passato che la filologia era riuscito a riesumare nella sua
autenticità attribuendole quello che venne considerato il giusto valore storico. Furono soprattutto
Coluccio Salutati e Leonardo Bruni i primi a lanciarsi in questa impresa storiografica i cui risul-
tati determinarono il ripudio del mito che voleva la città di Firenze fondata dai soldati di Giulio
Cesare. A questo mito si sostituì quello che voleva invece la città fondata dalla repubblica roma-
na oppure – come affermò il Bruni – addirittura dal sistema delle repubbliche etrusche.
L’opposizione, poi, tra il regime di Cesare e l’istituto della repubblica era finalizzata a identifica-
re il primo con la tirannia piuttosto che con la monarchia, tanto è vero che perfino la figura di
Bruto venne riabilitata agli occhi degli storici e umanisti del Quattrocento fiorentino, a differenza
di quanto aveva fatto Dante nel secolo precedente.
L’armamentario intellettuale degli umanisti fiorentini non si limitò affatto a definire la
repubblica di Firenze come l’effetto di una consuetudine e di una tradizione, perché essi conside-
rarono l’istituto repubblicano come la capacità dei cittadini di rispondere ai mutamenti e alla
contingenza. Per loro la ricostruzione della storia dell’autorità della repubblica venne calata in un
ambito assolutamente mondano in cui essa conservava sì una sublimità ideale, ma era poi dotata
di una tale realtà che la faceva esistere nel presente e la collegava con le repubbliche esistite nel
passato. Pocock sostiene che l’interpretazione degli uomini di cultura del Quattrocento si basava
158
POCOCK, J. G. A., op. cit; p. 157. 159
Ivi; p. 158.
102
sul fatto che la repubblica si presentava come una realtà politica che poco aveva a che fare con
un ordine naturale o con una gerarchia di valori eterni di tipo agostiniano, dantesco o petrarche-
sco160
. Piuttosto si accettava la caducità e mortalità della repubblica, simboleggiata dal tirannici-
da Bruto, in cui la patria si ama più della propria anima.
L’ordinamento repubblicano divenne il tema discriminante attraverso il quale leggere la
storia. Per mezzo di una lente che focalizzava alcuni momenti invece di altri, si mise in evidenza
uno scorrere del tempo discontinuo in cui momenti positivi (repubblicani) si alternavano a mo-
menti negativi. Ecco spiegato il valore di Bruto e pure la rivalutazione del Trecento come secolo
in cui la repubblica assunse consapevolezza delle proprie tradizioni e della propria continuità.
Accanto alla rivoluzione storiografica, tuttavia un’altra rivoluzione più profonda era in at-
to nell’ambito del pensiero fiorentino. Si tratta di una discussione che riprendeva un tema classi-
co dell’antichità greca, cioè quello della questione relativa ai meriti da attribuire a chi pratica la
vita activa e quelli da attribuire a chi, invece, pratica la vita contemplativa. Cioè si tratta di una
questione che ripropone l’antitesi già discussa nell’agorà ateniese tra retorica e filosofia, tra im-
pegno politico e dedizione alla ricerca. Dopo la parentesi medievale tutta protesa verso la con-
templazione e la preferenza per un mondo non mondano, non storico e non contingente, nel
Quattrocento si assiste al discutere intorno ai temi dell’attivismo politico e del «vivere civile»:
… chi abbraccia il vivere civile doveva partecipare alla vita collettiva e agire nel quadro di una struttura sociale che,
appunto, rendeva possibile al singolo tale modo di vivere; vale a dire egli doveva lasciarsi guidare dal civismo ossia
dalla convinzione di dovere partecipare ad una qualche forma di polis ed è per questo che in tempi successivi
l’espressione vivere civile assunse un’accezione specifica ed indicò una forma costituzionale di vita politica che si
fondava sulla diffusa partecipazione dei cives161
.
160
Ivi; pp. 153-155. 161
Ivi; p. 159.
103
L’attivismo politico, antitetico all’atteggiamento contemplativo, stava a significare il rifiuto di
confrontarsi con la forma di governo del proprio tempo storico, accettando qualunque regime,
monarchico e perfino tirannico, e proclamando la distanza, se non addirittura il ritiro, dal mondo
e dalla storia, per tendere verso l’universale e l’immutabile.
Tuttavia, l’umanista a cui è interessato Pocock non ha mai mostrato di protendere esclu-
sivamente per la vita attiva o per la vita contemplativa. Le due strade, quella politica e quella fi-
losofica, non sono mai state divergenti o parallele, ma si sono spesso incontrate con lo scopo di
unire in una sola riflessione teorica la contingenza storica e la sostanzialità universale.
Nell’ambito del regime repubblicano l’umanista riusciva ad esprimere sia l’una che l’altra.
5.2 La repubblica: un’entità universale
Che la repubblica fosse un’entità universale, elevabile alla discussione filosofica e non
solo retorica, gli umanisti italiani del Quattrocento lo ricavarono dalla tradizione ateniese. Gli
uomini di lettere del sec. XV riuscirono a superare la dicotomia tra vita activa e vita contempla-
tiva arrivando a fare convergere, attraverso l’esame sulla natura della teoria repubblicana,
l’aspetto particolare e storico degli eventi politici con quello universale concernente una più am-
pia visione della repubblica come realizzazione del bene di tutta la comunità. Grazie a questa o-
perazione l’Umanesimo civile italiano riuscì, attraverso un filo lungo all’incirca diciassette secoli,
a legare il concetto di «vita activa» proprio dell’Atene di Aristotele all’impegno del «vivere civi-
le» che tanti autori del Quattrocento dichiararono essere lo scopo principale della loro attività.
Pocock ripercorre la trama di questo filo e di questo legame mettendo in evidenza l’esistenza di
un tipo di linguaggio che, attraversando i secoli, si è affermato come peculiare di quegli autori
104
che hanno parlato di repubblica nei termini di una continua operazione di scrittura volta a soste-
nere il vivere civile.
Questa scrittura si è espressa, ad un primo livello, sotto la peculiare forma della retorica,
perché essa «riusciva a fornire un linguaggio con cui esprimere una coscienza civile» che pro-
muovesse tutta la vita umana, intesa come «partecipazione ad azioni e decisioni particolari e, so-
prattutto, come inserimento nel contesto di particolari rapporti politici tra tante persone diver-
se»162
. Pocock scorge, quindi, un modo proprio dell’umanesimo civile per esprimere una tale
concezione della vita associata, il quale si manifesta con uno stile di scrittura e retorico suo pro-
prio, per mezzo del quale si ricostruisce la storia delle repubbliche esistite nel tempo. Ciò signifi-
ca che Aristotele non è stato interpretato alla maniera del filosofo scolastico il quale ha procedu-
to alla compilazione di una serie di astrazioni e di analisi che poco tenevano conto del testo
dell’autore. L’umanista, invece, si è messo ad apprendere Aristotele non come filosofo ma come
filologo: egli «si diede ad apprendere quanto gli era possibile dallo stesso Aristotele e cioè dalla
mente del filosofo quale era rivelata dalle sue parole, dalle parole conservate nei sui scritti per-
venuti»163
.
Furono, quindi, secondo Pocock, la grammatica e la filologia ad essere al centro
dell’interesse speculativo degli umanisti, in quanto riuscivano realmente a comunicare cosa a-
vesse voluto dire un autore e quale fossero state le sue intenzioni. Gli uomini colti del Quattro-
cento avrebbero, attraverso lo studio delle parole, costruito la storia del lessico repubblicano co-
municando con gli autori che ne avevano discusso nel corso del tempo, avviando la comunica-
zione tra uomini del passato e del presente che, per mezzo della coscienza filologica esaltavano
la coscienza intellettuale di un legame storico che correva sul filo della discussione politica. E
questa conversazione, che cominciava con lo studio della storia del repubblicanesimo, finiva per
esortare alla partecipazione civile e attiva alla vita politica, essendo la comunicazione con gli an-
162
Ivi; p. 164. 163
Ivi; p. 165.
105
tichi feconda quanto quella tra cittadini di uno stesso contesto politico. L’uomo di lettere realiz-
zava se stesso totalmente in questa attività:
… l’umanista, nella sua qualità di filologo, di retore o di cittadino membro di una repubblica, era spinto ad impe-
gnarsi a fondo nella vita nella vita sociale per parteciparvi nel suo farsi concreto e nelle sue vicende particolari, sia
che la sua partecipazione si traducesse nell’esercizio della sua arte di letterato e di filologo sia che si svolgesse a li-
vello della azione politica e dell’attività di persuasione164
.
Fu poi, ad un secondo livello, il bisogno di rendere intelligibile la realtà contingente a far
derivare l’idea che la conversazione con gli autori del passato significava ricordare, con Aristote-
le, che la più alta forma di società era quella politica e che l’attività sociale raggiungeva il suo
più elevato grado quando si identificava con quella politica, con quella del cittadino. Si voleva,
quindi, affermare che la conoscenza vera si conseguiva per mezzo del dialogo e dell’azione, poi-
ché nel vivere civile erano immanenti quei valori universali che proprio lo studio della polis ate-
niese aveva insegnato a considerare come valori che si esaltavano nel regime repubblicano in cui
tutti gli uomini partecipavano alla realizzazione del bene comune.
Questo è il motivo per cui la repubblica ha una natura universale, la quale però si realizza
solo se essa è in grado di ripartire il potere in modo che ogni suo membro vi possa partecipare
realizzando la sua natura umana e morale. E questa constatazione stimolò la ricerca filologica
degli umanisti del Quattrocento a guardare con attenzione alla teoria e alla costituzione della po-
lis, e il suo sforzo fu premiato dalla disponibilità delle opere di Aristotele.
Nella Politica di Aristotele gli umanisti vi ritrovarono i valori del vivere civile e della re-
pubblica. Essi disegnarono, allora, una tradizione, quella del «governo misto» e della vita activa,
che affondava le sue radici nel linguaggio dello stagirita. Scrive Pocock:
164
Ivi; p. 172.
106
Dottrina di Aristotele fu che ogni attività dell’uomo è finalizzata nel senso che essa tende ad un bene teore-
ticamente identificabile; e lo stagirita aveva insegnato anche che ogni attività finalizzata era sociale nel senso che
veniva compiuta da uomini unitamente ad altri e che la polis o repubblica era appunto quel tipo di associazione tra
uomini in cui tutte le altre forme di associazione particolare tendevano al raggiungimento dei propri fini.
L’associarsi con altri e la partecipazione alla guida finalizzata dell’associazione risultante costituivano un mezzo per
raggiungere un fine, ma erano anche un fine (ossia un bene) in sé e per sé165
.
La partecipazione alla vita politica era la più alta forma di vita, tendendo essa al perse-
guimento del bene di tutti. Con il suo atteggiamento, il cittadino riuniva in sé il particolare e
l’universale, poiché attraverso la sua singola partecipazione alla vita politica realizzava la sua na-
tura di zoon politikon che lo metteva in rapporto con l’universale. Restava solo il problema di in-
serire i cittadini in una categoria che meglio consentisse loro di esprimere la loro natura. E la po-
lis ateniese offriva un linguaggio, consolidato dalla consuetudine, che divideva le costituzioni
politiche in governo di «uno», di «pochi», di «molti», secondo una terminologia che lo stesso A-
ristotele utilizzò quando prese in considerazione gli stati esistenti, divisibili in monarchie, aristo-
crazie e democrazie. In questo modo, il problema della costituzione della polis ineriva la possibi-
lità della partecipazione di tutti al processo decisionale e di formulazione delle leggi, problema
risolvibile attraverso la scomposizione del potere in tante funzioni e tante operazioni, ognuna
delle quali doveva essere affidata ad un gruppo particolare. Così, la costituzione politica (la poli-
teia) di una società organizzata si configurava come la possibilità di tutti i gruppi di partecipare
alle decisioni comuni, evitando che uno solo di essi esercitasse il potere. Il linguaggio di Aristo-
tele voleva sottolineare il pericolo del dominio del particolare sull’universale, perché la dittatura
di uno solo dei gruppi (fosse anche quello dei «molti») avrebbe distorto il regime politico e cor-
rotto l’equilibrio dello stato.
165
Ivi; p. 177.
107
Che posizione occupa il cittadino in una struttura politica repubblicana? Egli è un indivi-
duo che tende alla realizzazione i suoi interessi, ma è anche un civis che opera per il bene di tutti.
Vive quindi, il cittadino, una situazione di conflitto che può essere superata quando le realizza-
zioni della sua natura individuale e particolare sono armonizzate con i fini che la comunità vuole
perseguire. Si tratta di una teoria e di una visione del civis che gli umanisti fiorentini sostennero
fortemente perché meglio si legava alla loro concezione del vivere civile e al loro sforzo intellet-
tuale. Ma si trattava anche di una teoria che pretendeva l’esistenza di un cittadino perfetto, il
quale non solo doveva esercitare la sua virtù costantemente, ma doveva anche agire affinché i
suoi concittadini non perdessero la virtù civile, altrimenti la repubblica si sarebbe inevitabilmen-
te corrotta.
Tuttavia, consapevoli della impossibilità di conservare in eterno la costituzione repubbli-
cana, a causa dell’oggettiva difficoltà di conservare la virtù di tutti i cittadini, gli intellettuali fio-
rentini acquisirono la consapevolezza teorica che la repubblica, essendo un’opera umana, doveva
poi giungere a termine. Aristotele, mette in evidenza Pocock, aiutava a confermare questa tesi:
Infatti: poiché la gamma di valori particolari (e delle attività) e dei gruppi e dei singoli che li perseguono è indefini-
tamente vasta, sarebbe stato sempre molto difficile compaginare una politeia che non si traducesse nella dittatura di
taluni pochi sugli altri e sarebbe stato parimenti arduo fare in modo che il singolo cittadino non preferisse i suoi ob-
biettivi o valori particolari al bene comune166
.
Ma se così faceva, il cittadino mortificava la sua virtù civile. Avvenivano, allora, i casi di
corruzione, che determinavano il fatto che la virtù dipendesse da tante altre variabili non control-
labili dalle singole virtù. Queste variabili erano determinate da una forza che guidava le singole
volontà e le deviava dalla perfezione propria dell’etica della vita attiva, e il termine con cui veni-
166
Ivi; p. 191.
108
va indicata questa forza era «fortuna». La considerazione di una instabilità del tempo storico, gli
umanisti non la ricavarono da Aristotele, in quanto non apparteneva al suo lessico, ma da Polibio.
L’esule greco ebbe una grande influenza sul pensiero del Quattrocento. Specialmente il
sesto libro delle Storie esercitò sui filosofi e sui filologi del tempo un grande potere nel dirigere
le elaborazioni teoriche in merito allo svolgimento della politica. Polibio, che aveva sostenuto
che i successi militari di Roma erano dovuti alla stabilità della Repubblica, riformulò la suddivi-
sione aristotelica delle costituzioni politiche in due sensi: classificò sei regimi invece di tre (mo-
narchia, tirannia, aristocrazia, oligarchia, oclocrazia, anarchia) e affermò lo sviluppo successivo
da un regime all’altro. La sua teoria dell’anaciclosi (anakuklosis politeiõn) sosteneva che ogni
stato sarebbe dovuto passare attraverso ognuna delle sei forme di governo elencate. Solo un si-
stema di governo sarebbe riuscito a sfuggire a questa ciclicità, cioè quello che avrebbe realizzato
una politeia capace di realizzare la mescolanza di tutte le forme di governo. Scrive Pocock:
Polibio poteva permettersi di nutrire un consistente ottimismo circa le possibilità di costruire una politeia di forma
universale e tale, dunque, da non essere coinvolta nella ciclicità dei mutamenti. Se quanto era necessario si risolveva
nella costruzione di un ordinamento politico nel quale fossero armonicamente compresenti o equilibrati l’uno, i po-
chi e i molti e che in tale ordinamento tutti e tre avessero singolarmente una parte (o un certo aspetto) del potere oc-
corrente per impedire che uno dei tre elementi prevalesse da solo (votandosi quindi alla corruzione) sugli altri due,
allora ne sarebbe risultata la possibilità di creare un organismo politico, armonioso e di valore universale…167
Ma lo stesso Polibio sapeva che una simile situazione sarebbe stata difficile da conservare
nel tempo. Non pensava affatto che vi fosse qualcosa nel mondo immortale e immune da muta-
mento. Anzi, credeva che quanto più perfette fossero state le costituzioni statali tanto più difficile
sarebbe stato conservare la virtù dei suoi cittadini. Polibio non solo aveva previsto la fine della
Repubblica romana, ma aveva anche dimostrato che la repubblica recava in sé i germi della sua
167
Ivi; p. 197.
109
dissoluzione in quanto la virtù particolare si sarebbe ben presto scontrata con la virtù civile e i
due caratteri avrebbero manifestato la loro inconciliabilità. Si può allora affermare che la fortuna
avrebbe prima o poi operato per il decadimento e la corruzione della repubblica.
5.3 Da Machiavelli a Harrington
La fortuna è il tema principale de Il Principe di Machiavelli. È il declino della repubblica
a lasciare spazio alla fortuna che, secondo il segretario fiorentino, interessa da vicino il principe
e i suoi sudditi i quali hanno abbandonato ogni velleità di contribuire al vivere civile. Ma, più
precisamente, è proprio del principe innovatore il rapporto con la fortuna. Egli, rispetto al princi-
pe ereditario che gode di legittimazione fornitagli dalla tradizione e dalla consuetudine, gestisce
questo rapporto attraverso la sua virtù, in quanto il suo potere è privo di legittimità. Il «principe
nuovo» diviene tale in virtù di un gesto straordinario grazie al quale è riuscito a spazzare via il
governo precedente e, per imporsi al posto di questo, egli deve fare ricorso a qualità altrettanto
straordinarie e molto superiori rispetto a quelle del principe spodestato, qualità che, secondo Po-
cock, possono essere indicate con la parola virtù, cioè «quello strumento per cui mezzo si impo-
neva una forma alla materia della fortuna»168
.
Ma il principe innovatore che deve fronteggiare il potere precedente si trova spesso a do-
versi sostituire a forme di governo non di tipo monarchico che mettono a dura prova le sue capa-
cità e la sua virtù. Machiavelli lo scrive nel quarto capitolo de Il Principe:
168
Ivi; p. 328.
110
E chi diviene patrone di una città consueta a vivere libera e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella: per-
ché sempre ha per rifugio nella rebellione el nome della libertà e gli ordini antiqui suoi; li quali né per la lunghezza
de’ tempi né per benefizii mai si dimenticano169
.
Pocock pone in evidenza questo passo dell’opera machiavelliana per dimostrare quanto sia diffi-
cile abbandonare e dimenticare la consuetudine alla libertà e al vivere civile, cioè quanto sia gra-
voso per degli individui che abitano e costituiscono una repubblica allontanarsi dalla partecipa-
zione alla vita della cosa pubblica, poiché questo modello di vita politica «imprime un marchio
indelebile sulla natura o indole dei cittadini al punto che costoro devono veramente mutarsi radi-
calmente se si vuole che prestino un’ubbedienza spontanea ad un principe»170
.
Nella forma di governo repubblicano i cittadini hanno esperito una sorta di ritorno ad una
forma primordiale di vita che realizza la loro natura di uomini liberi. Il principe interviene su
questa forma trasformandola in un mondo in cui è la forza di tipo hobbesiana a governare i rap-
porti tra le persone. Ciò significa che la semantica della virtù include i concetti di forza e di coer-
cizione come termini che spiegano la capacità del principe machiavelliano di piegare le volontà
particolari, specialmente quelle dei liberi cittadini.
Si spiegano così due concetti di virtù: il primo riguarda la concezione aristotelica in base
alla quale la virtù consiste nella realizzazione dello zoon politikon che costruisce se stesso dan-
dosi una forma per mezzo della partecipazione agli affari della cosa pubblica, mentre il secondo
concerne la capacità del principe innovatore machiavelliano che con la forza e le armi piega gli
eventi storici e le volontà degli uomini. Ma se si guarda con attenzione a queste due modalità
concettuali, si scopre che, in fondo, si tratta di uno schema che prevede una convergenza, teoriz-
zata dallo stesso Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, quando afferma che
al pari del principe che deve sconfiggere la fortuna, anche la repubblica deve assolvere a questo
169
MACHIAVELLI, N., Il Principe, in Id., Il Principe e altre opere politiche, Garzanti, Milano, 1976; pp. 27-28. 170
POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 335.
111
compito quando anch’essa si trova ad essere un’innovazione che deve possedere quel tipo di vir-
tù che dà una forma alla fortuna. Più complessa sicuramente della virtù del principe è quella re-
pubblicana perché essa costituisce non solo un mezzo per affermarsi ma anche lo scopo ultimo a
cui mira. Nella repubblica la virtù è anche il fine che deve guidare il comportamento di ogni sin-
golo cittadino per salvaguardare se stesso e gli altri dal pericolo della corruzione, pena la perdita
della condizione politica:
… mentre un principe cui faceva difetto la virtù finiva per perdere lo stato, i cittadini di una repubblica che andasse
in rovina perdevano la loro virtù ossia perdevano il loro vivere civile171
.
Nella Firenze machiavelliana divenne molto acceso il dibattito storiografico sulla nascita
e il mantenimento degli ordinamenti repubblicani. Lo stesso segretario vi partecipò dimostrando
di prendere posizione rispetto a chi – come Guicciardini – analizzava il fenomeno repubblicano
avendo come termine di riferimento Venezia e non la repubblica romana. Per Machiavelli la sto-
ria di Roma suscitava particolare interesse se letta attraverso la lente storiografica di Polibio, la
quale consentiva di scorgere i modi di realizzazione della virtù civile all’interno della realtà tem-
porale senza l’intervento di forze poste al di fuori della storia. Al contrario di ciò che accadeva
per un principe innovatore il quale doveva essere dotato di virtù straordinarie per conquistare il
potere, la Roma repubblicana si era venuta realizzando grazie all’opera e all’azione di particolari
individui che avevano operato nel quadro del tempo e della contingenza (cioè nel quadro della
fortuna) i quali erano riusciti a realizzare qualcosa di molto più duraturo rispetto al «principe
nuovo».
Sebbene Machiavelli non rinunciasse a vedere nella costruzione di una repubblica
quell’aspetto religioso che contraddistingueva il principe, evidenziando, ad esempio, la necessità
171
Ivi; p. 363.
112
di sacralità e di religiosità del secondo re di Roma, Numa Pompilio, tuttavia la religione non vie-
ne identificata tout-court con la virtù, la quale esiste e si realizza esclusivamente nella vita civile.
Nella distinzione tra religione e politica Machiavelli individua la differenza tra il profeta e il le-
gislatore, dove il primo è colui che la cui opera si presenta straordinaria, mentre il secondo isti-
tuisce pratiche – anche di tipo religioso – che danno forma duratura alla convivenza politica e ci-
vile. Sia un Agostino che un Savonarola sono quindi screditati:
Se gli uomini non hanno bisogno di una presenza sovrumana per diventare cittadini, ma, anzi, realizzano la civitas
ossia la partecipazione politica nella realtà condizionata dal tempo e dalla fortuna, ecco che le città terrestri e le città
celesti hanno cessato di essere identiche172
.
Ad agire attivamente nella città terrena è la virtù dei cittadini che si esplica nella condotta degli
individui verso se stessi e verso gli altri. Ma si tratta di una virtù particolare, in quanto non deve
essere finalizzata a realizzarlo solamente il vivere civile ma a conservarlo attraverso la continua
generazione di virtù che, si ribadisce ancora una volta, è motore e fine della costituzione repub-
blicana.
Se non fosse così il vivere civile si dissolverebbe a causa della corruzione dei cittadini.
Senza un ordine morale che difenda dalla corruzione l’istituzione repubblicana crolla inesora-
bilmente lasciando spazio alla ciclicità polibiana. Ma all’usura del tempo la repubblica può sfug-
gire solo rinvigorendo le leggi della repubblica prima che la corruzione abbia luogo.
Il linguaggio della repubblicanesimo degli umanisti del Quattrocento e di Machiavelli ha
una sua propria fisionomia e poggia su alcuni pilastri terminologici, quali consuetudine, virtù,
fortuna e corruzione. È questo il frasario a cui sono ricorsi quei pensatori e filosofi sostenitori
del vivere civile, che Pocock ha definito «machiavellismo», nei secoli che sono succeduti al
172
Ivi; p. 375.
113
Quattrocento e al Cinquecento. Che poi questo frasario si sia arricchito anche con riferimenti di-
versi da quello della Roma repubblicana, aprendosi all’esempio di Venezia, è una questione che
comunque va ad inserirsi in quel discorso di continuità le cui matrici sono da individuare nel
pensiero politico di Aristotele. Si tratta di un machiavellismo formato da idee e concetti che emi-
grarono dal contesto fiorentino per prendere dimora in una Inghilterra monarchica che poco ave-
va a che fare con la polis ateniese e con la pratica dell’umanesimo civile. Il suddito inglese era
consapevole di far parte di una comunità di uomini razionali in grado di conoscere le leggi natu-
rali e di far parte di un corpo politico fondato su consuetudini tramandate, ma né l’abitudine né la
ragione erano sufficienti a fornire il supporto lessicale e concettuale del civis. Era necessario, af-
ferma Pocock, «che si avesse una reviviscenza delle idee antiche di virtus politica e di zoon poli-
tikon, cui per natura spettava governare, agire, prendere decisioni»173
.
Il linguaggio dell’umanesimo civile e del repubblicanesimo machiavelliano lo si ritrova
proposto prima di tutto in The Commonwealth of Oceana, l’opera pubblicata da James Harrin-
gton nel 1656. Scritta negli anni del protettorato di Cromwell, quest’opera rappresenta uno degli
esiti più maturi di quel pensiero repubblicano inglese che andava opponendosi alla «rivoluzione
dei santi» guidata da puritani, zappatori, livellatori e dai vari protagonisti dei dibattiti di Putney.
Il testo di Harrington si sforza di presentare il cittadino inglese come uno zoon politikon animato
da virtù civile in quanto possessore di proprietà di immobili. Il processo inaugurato da Enrico
VII Tudor, mirante all’abbattimento del potere nobiliare e feudale mediante la confisca dei terri-
tori, aveva accresciuto il numero dei proprietari terrieri i quali proteggevano adesso con le armi
la loro libera proprietà e non il vassallo. Fu questo il fenomeno che Harrington indicò come di-
scriminante per indicare la nascita del cittadino inglese, fenomeno che Machiavelli aveva trattato
sul versante della storia fiorentina nell’Arte della guerra, parlando di cittadini guerrieri che di-
fendono la città, sfiorando solamente le conclusioni dello scrittore inglese. Ma Pocock sostiene
173
Ivi; p. 584.
114
che il pensiero di Machiavelli e Harrington si allontana quando si affronta il tema della corruzio-
ne. Se il segretario fiorentino vedeva nella corruzione un male etico-politico, principale causa
della morte delle repubbliche, Harrington sosteneva invece cha la fine dell’esercizio delle virtù
civili era determinata dalla errata spartizione del potere, la quale doveva sempre essere propor-
zionata al possesso dei beni terrieri. Non era quindi il tema della degradazione morale centrale
nella sua opera come lo era in quelle degli umanisti. La virtù civile è secondo lui molto più lega-
ta alle condizioni materiali che a quelle morali, poiché il cittadino è tale in quanto detentore del
diritto di proprietà e partecipa attivamente alla vita politica proprio per difendere questo diritto.
È proprio a partire dalle considerazioni sulle condizioni materiali, più precisamente sulle
condizioni di proprietà fondiaria, che è possibile indicare la concezione aristotelica che pervade
il pensiero e l’opera di Harrington. Anche qui emerge un concetto di virtù, la cui matrice greca è
piuttosto palese, anche se il termine subisce un’operazione di traduzione che ne consente il suo
utilizzo lessicale all’interno di una semantica nuova, quella della libera proprietà degli inglesi del
Seicento174
. Pocock afferma che sia ragionevole sostenere che la concezione della proprietà ter-
riera di Harrington «ricalcava uno schema greco ed era fondata sul rapporta tra oikos e polis»175
.
A fondamento di questa idea vi è da un lato la constatazione del fatto che Harrington parla, in
Oceana, di terreni acquistati e lasciati in eredità proprio con il fine di fondare delle famiglie (oi-
koi), dall’altro lato vi è la considerazione aristotelica della proprietà terriera non come strumento
di profitto ma come mezzo per vivere in maniera agiata e per ostentare questo agio «in campo
pubblico o in un’assemblea di cittadini per palesare la propria virtù»176
. Ma Pocock è ancora più
preciso in merito alla proprietà terriera:
174
Cfr. POCOCK, J. G. A., Virtue, Commerce, and History, C.U.P., Cambridge, 1985; capp. 1 e 2. 175
POCOCK, J. G. A., Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 670. 176
Ivi; p. 671.
115
Essa poneva con saldo aggancio l’individuo nella struttura in cui egli poteva partecipare al potere e dimostrare la sua
virtù e lo liberava da ogni altra necessità sí che egli potesse, appunto, fare dell’esercizio del potere e della sua virtù
la sua attività177
.
Rispetto al pensiero di Machiavelli lo slittamento non è solo lessicale, cioè non riguarda
solo il diverso utilizzo del termine virtù come fondamento dell’istituzione repubblicana, ma an-
che storico, poiché Harrington, come altri scrittori politici inglesi a lui contemporanei, non esita
ad affiancare la Repubblica di Venezia alla Repubblica romana. Harrington afferma addirittura
che tra l’Inghilterra e Venezia vi sia un’analogia consistente nella propensione verso il mare e i
traffici marittimi. Anche se, date le dimensioni territoriali, l’Inghilterra poté sfruttare i terreni a-
gricoli e nutrire e armare il suo popolo meglio della Serenissima. E Harrington poteva, a questo
proposito, affermare che la sua Oceana era allo stesso tempo una seconda Roma per la sua e-
spansione territoriale e una seconda Venezia per la continuità e stabilità della libertà e della virtù
civile.
Ciò che interessa e che va messo principalmente in risalto è comunque l’accento sul tema
della virtù quale lessico propulsore e quale fine dell’istituzione repubblicana. Questo lessico, a
partire dalla concezione della polis aristotelica, ha attraversato, subendo traduzioni e adattamenti,
il linguaggio del pensiero repubblicano fiorentino del Quattrocento e del Cinquecento ed è stato
raccolta dai pensatori repubblicani inglesi, primo fra tutti James Harrington, definito da Pocock il
Machiavelli inglese178
proprio per questo suo ricorso al linguaggio della virtù.
Questo linguaggio non è tuttavia rappresentabile come una parabola che, guardando alla
storia politica dell’età moderna, possa dirsi concluso col Seicento inglese. Il filo storico che Po-
cock è riuscito a dipanare, sul quale vi è scritto il linguaggio e la terminologia del repubblicane-
simo, viene dallo storico neozelandese rintracciato anche oltre-oceano, fatto proprio da quegli
177
Ivi; p. 672. 178
Ivi; p. 15.
116
uomini protagonisti delle vicende delle tredici colonie americane che diedero vita alla nascita
della Federazione.
5.4 La virtù americana
Nel descrivere la tensione repubblicana dell’Inghilterra del Seicento, Harrington aveva
pensato al suo come a un paese proteso o verso la terraferma o verso gli oceani. Lo scrittore cre-
deva che l’isola britannica dovesse o liberare l’Europa continentale dal giogo gotico oppure co-
lonizzare l’Irlanda che non era più abitata dal suo antico popolo. Questa seconda possibilità fa
pensare che nel riferirsi alla colonizzazione irlandese Harrington abbia in qualche modo prefigu-
rato l’opera e l’azione dei colonizzatori dell’America settentrionale, stabilendo, quindi, una rela-
zione tra Inghilterra e America.
Affermare l’esistenza di un legame tra la storia americana e quella inglese significa rom-
pere con una certa tradizione storiografica che sostiene la spaccatura ideologica e politica tra il
nuovo e il vecchio mondo. Ma significa pure che, se si inserisce la Rivoluzione americana sul
binario della storia del linguaggio repubblicano di matrice aristotelica e machiavelliana, allora
questa non ha caratteristiche e peculiarità che possano definirla come una rivoluzione «moderna».
Anzi, ciò sta a significare che già tra i Padri Fondatori si sarebbero diffuse quelle concezioni
specifiche della cultura politica repubblicana di matrice neo-aristotelica la cui retorica fu, prima
della rivoluzione, fatta propria dall’umanesimo civile, da Machiavelli e da Harrington. Gli ame-
ricani avrebbero, in sostanza, fatto ricorso a una tradizione terminologica appartenente a un certo
tipo di concezione del vivere civile, attraverso la quale espressero i valori e le idee del repubbli-
canesimo:
117
un ideale civile e patriottico, che implicava, come fondamento all’affermazione della personalità, la proprietà e che
individuava la piena realizzazione dell’uomo nella partecipazione politica attiva, anche se era poi di continuo mi-
nacciato dalla corruzione…179
Il fondamento teorico di quello che Pocock definisce il momento machiavelliano ha come tema
retorico principale il contrasto e la tensione tra virtù e corruzione. Lo storico neozelandese indi-
vidua questo lessico negli scritti di carattere politico che circolarono in America negli anni della
rivoluzione, dove vennero proposti temi e problemi propri della cultura repubblicana. Si tratta di
un tipo di cultura che prese forma durante il Settecento nelle colonie inglesi nutrendosi da un lato
delle caratteristiche proprie dell’umanesimo civile di Harrington, dall’altro dei postulati
dell’ideologia politica di Machiavelli.
La storia americana aveva suscitato nel popolo che abitò il nuovo continente il desiderio
di affermare la virtù contro la corruzione che essi percepivano come proveniente da una zona
ormai straniera, cioè la ex madrepatria alla quale avevano in precedenza prestato ubbidienza.
L’operazione che doveva condurre alla affermazione della virtù consisteva in un’operazione di
ripristino di una forma di organizzazione politica che la salvaguardasse. Fu così che gli america-
ni ripudiarono la monarchia per sostituirla con la forma del vivere civile le cui matrici intellettua-
li risalivano a Aristotele, Machiavelli, Harrington. Non si trattò di un travaso ideologico privo di
mutamenti concettuali, ma piuttosto si verificò il caso di una serie di eventi storici in cui un pe-
culiare linguaggio – quello del repubblicanesimo – fu tradotto in modo tale da potere sostenere le
istanze teorico-politiche di chi affermava i valori e gli ideali della repubblica e del vivere civile.
Per gli americani la monarchia parlamentare era inevitabilmente fonte di corruzione. Ri-
fiutarla significava, quindi, ritornare alla tradizione harringtoniana che presentava la storia ingle-
se come una storia che culminava con la salita verso l’adozione della forma repubblicana. Har-
179
Ivi; p. 852.
118
rington, tuttavia, riprendendo le teorie classiche, insegnava che la repubblica si sarebbe realizzata
solo laddove vi fosse stata la presenza dei «pochi», cioè di persone intellettualmente e moral-
mente superiori che solo una aristocrazia naturale e non ereditaria (costituitasi cioè artificialmen-
te) avrebbe potuto garantire. Mancando questa classe di cittadini, gli americani cercarono di cre-
arla attraverso la diffusione democratica della virtù che avrebbe dovuto responsabilizzare i «mol-
ti», i quali dovevano eleggere le persone che li avrebbero rappresentati. La mancanza di
un’aristocrazia naturale fu compensata, quindi, dalla revisione dell’idea di popolo:
Inoltre, le varie istanze in cui il governo doveva essere articolato (e sostanzialmente si pensava ancora al legislativo,
al giudiziario e all’esecutivo previsti dalla teoria classica) si ritenne che non dovessero essere assunte in modo diret-
to da gruppi sociali aventi in modo eminente le qualità per esercitare le connesse funzioni, bensì venissero da loro
assunte in modo mediato ovverosia fossero assunte da singole persone il cui titolo per l’esercizio dell’autorità fosse
solo quello di agire come rappresentanti del popolo180
Il potere di governo, che allo stesso tempo era nelle mani del popolo e non lo era, era lasciato ai
rappresentanti, i quali, dovendo acquisire l’arte di governare attraverso l’esperienza, avrebbero
agito come i «pochi», quindi come l’aristocrazia naturale delle antiche repubbliche.
Da questo punto di vista il popolo era un soggetto attivo. Ma se il suo potere era di eleg-
gere i rappresentanti, questi erano visti e considerati come altamente suscettibili di cadere vittime
della corruzione. Se ciò fosse accaduto, gli elettori potevano revocarli.
Ma un’altra questione sorgeva in questo tipo di rapporto politico, e riguardava la virtù:
non essendovi una differenziazione quantitativa e qualitativa tra le persone il rapporto tra il rap-
presentante e il rappresentato non era fondato sulla virtù intesa in senso classico, in quanto - so-
stiene Pocock – l’atto di eleggere una persona che agisce al mio posto «non potrebbe mai essere
reputato l’eguale di un atto con cui riconosco che una tale persona agisce insieme a me e con la
180
Ivi; p. 869.
119
quale stabilisco un vincolo associativo naturale»181
. Non vi è, insomma, quella virtù propria della
repubblica antica in base alla quale il fine che guida il comportamento di un singolo individuo-
cittadino per tutelare se stesso dalla corruzione è lo stesso che lo guida a tutelare anche gli altri
dal medesimo pericolo.
Questo slittamento semantico del concetto di virtù non significò, tuttavia, un abbandono
del paradigma repubblicano basato sulla virtù. Il declino della virtù civile da parte del popolo la-
sciò spazio all’interesse personale e individuale una volta che lo scopo dell’attività umana non
fosse stata più quella del perseguimento del bene comune. L’uomo privato della sua virtù si ri-
trovò ingabbiato nel suo particolarismo e schiavo delle sue passioni, per cui altissimo risultò il
pericolo di cadere preda della corruzione. Il Governo federale rilevò questa peculiarità del popo-
lo, tanto è vero che Madison e altri scrittori politici del tempo, nel decimo numero di «The Fede-
ralist», ammisero che nelle società umane massima importanza hanno quelle fazioni che si fanno
promotrici di interessi collettivi, in cui si stimola ognuno a dare un contributo alla res publica.
Tuttavia, questo paradigma che potremmo tranquillamente definire «classico» non fu fatto pro-
prio dalle istituzioni di governo americane, in quanto questo modello fu sostituito con una teoria,
adottata dai teorici del federalismo, secondo la quale l’individuo, all’interno del contesto politico,
è soprattutto consapevole del proprio interesse e prende parte al governo solo attraverso l’azione
mediatrice della designazione ed elezione dei rappresentanti.
Una volta abbandonato il paradigma repubblicano classico, di cui si conserva solo il lin-
guaggio dell’equilibrio e della stabilità, si fece strada il modello liberale all’interno del pensiero
federalista, e questo slittamento determinò la riformulazione dei paradigmi, che fu piuttosto con-
sistente durante gli anni della rivoluzione conservatrice (1787-1789):
181
Ivi; p. 875.
120
la nuova federazione americana dimostrava di potere esser sia una repubblica sia un impero, limitata al continente
nuovo nelle sue dimensioni iniziali e, tuttavia, capace di ulteriore estensione proprio con l’applicazione allargata del
suo principio federativo…182
Il linguaggio della virtù e della corruzione parve lasciare lo spazio alle esigenze di allargamento
territoriale della federazione che, in quel momento storico, necessitando di stabilità e continuità
procrastinò il recupero della virtù repubblicana a un momento storico che si sarebbe poi dovuto
realizzare. Ma la retorica della virtù e della corruzione non abbandonò del tutto il campo del
pensiero politico americano, anzi, essa si fece sentire con un certo vigore «non solo come so-
pravvivenza di qualcosa lento a morire anche dopo che ne era stata divelta la radice», ma la sua
importanza si rivelò in un ambito ancora più importante e cruciale come quello della teoria costi-
tuzionale. La teoria dell’umanesimo civile che definiva una relazione tra partecipazione politica
e natura umana fu abbandonata a favore di una concezione di «una forma di società politica in
cui il singolo potesse essere libero e potesse conoscere se stesso proprio in base al rapporto che
egli aveva con la società»183
. Più che Machiavelli, è Locke ad apparire in questa constatazione
della natura socievole dell’americano, il quale tende a perseguire un obiettivo (il ritorno alla na-
tura) che comunque andrà incontro a frustrazioni e delusioni. Furono proprio queste disillusioni a
fare ritornare con forza il codice retorico della virtù e della corruzione con la pretesa di potere
spiegare e interpretare la storia politica americana moderna. Già Alexander Hamilton aveva de-
nunciato il pericolo machiavelliano della corruzione e l’allontanamento dall’ideale repubblicano.
Ma più incisive furono, comunque, le pagine di Thomas Jefferson, specialmente quelle Notes on
the State of Virginia del 1785 di cui Pocock riporta un brano con il fine di perorare la sua teoria
storiografica:
182
Ivi; p. 881. 183
Ivi; p. 885.
121
Quanti lavorano la terra sono il popolo eletto di Dio, posto che ci sia un popolo eletto, i cui petti egli ha fat-
to sede di una virtù solida e genuina. Lì è il focolare in cui egli tiene acceso quel fuoco sacro, che, altrimenti, scom-
parirebbe dalla faccia della terra. La corruzione della morale presso la massa dei coltivatori è un fenomeno di cui
non ci è noto esempio alcuno in nessuna età e in nessun paese. La corruzione è il carattere impresso su coloro i quali,
non guardando, per procurarsi di che vivere, al cielo, al proprio terreno e al proprio lavoro (come è, invece, il caso
dell’agricoltore) fanno dipendere il proprio vivere dalle aleatorietà e dai capricci dei clienti. La dipendenza genera
asservimento e venalità, soffoca il germe della virtù e appresta gli strumenti idonei ai piani dell’ambizione. Una si-
tuazione del genere in virtù del progresso e dell’effetto naturale delle arti talvolta forse per circostanze accidentali ha
tardato a manifestarsi. Ma parlando in generale, il rapporto corrente tra l’insieme delle altre classi di cittadini e la
classe degli agricoltori è il rapporto che sta tra le membra malate di uno stato e quelle sane; e proprio in tale rapporto
si ha il barometro opportuno per misurare a quale grado di corruzione si sia giunti… Le folle delle grandi città sono
di tale ausilio ad un retto ordinamento, quanto lo sono le piaghe rispetto alla vigoria del corpo umano. Sono i com-
portamenti e l’animo di un popolo a preservare sana una repubblica. Qualora si abbia una loro degenerazione, allora
si sviluppa un cancro che ben presto si estende fino al cuore della costituzione di quel popolo184
Pocock scorge in questo passo di Jefferson da un lato l’eco rousseauiana dell’uomo che
non può fare a meno di diventare civile, dall’altro lato evidenza il lamento dell’estensore della
Dichiarazione d’indipendenza relativo all’uomo incapace di cedere alla corruzione. Al pari di
ogni repubblicano classico anche Jefferson è sostenitore della virtù. Solo che, a differenza dei
pensatori federalisti lockiani, egli non la ritrovava nelle naturali condizioni umane quanto piutto-
sto nella condizione del coltivatore. Secondo Pocock, Jefferson pensava a un ideale romano di
repubblica che non facesse riferimento tanto a Catone quanto a Tiberio Gracco, scorgendo il se-
greto nella conservazione della virtù nelle comunità di piccoli coltivatori.
Ma nel brano di Jefferson emerge pure un tema che aveva attraversato il pensiero di Har-
rington, cioè il rapporto tra commercio e virtù. I «capricci dei clienti» e, in generale, una econo-
mia che sovrasta l’agricoltura è fonte di corruzione laddove l’interesse personale e individuale si
184
Cit. in Pocock, Il momento machiavelliano, op. cit.; p. 895.
122
sostituisce alla virtù che Dio ha iniettato nel petto dell’agricoltore. Il ritorno alla natura di cui si
parla non è quello proprio del primitivismo dei puritani, ma si tratta piuttosto di una natura in cui
l’uomo riesce a realizzare le istanze proprie del repubblicanesimo classico consistenti nella rea-
lizzazione della natura umana attraverso la partecipazione politica e la vita activa.
La storia del pensiero politico moderno disegnata da Pocock termina con la considerazio-
ne dell’esistenza di un Momento machiavelliano che, partito da Firenze, ha interessato prima
l’Inghilterra e poi i coloni americani. Questo machiavellismo che Pocock definisce di stampo e
di natura aristotelica ha avuto un suo peculiare sviluppo teorico attraverso la constatazione che la
teoria repubblicana si fonda anche sull’antitesi virtù- corruzione.
Furono, secondo Pocock, proprio la retorica di virtù e corruzione a determinare la possi-
bilità di rintracciare un lessico del repubblicanesimo che ha attraversato gran parte della storia
del pensiero politico moderno e che, nato nella polis ateniese ha raggiunto, passando per i testi
degli umanisti fiorentini e degli scrittori inglesi, il pensiero politico americano:
Il timore di una corruzione invadente e contagiosa contribuì ad indirizzare gli americani in una direzione precisa:
rinnovare la virtù in una struttura repubblicana della vita politica e respingere la monarchia parlamentare, a cui (tutti
lo ammettevano) andava inevitabilmente congiunta una certa dose di corruzione. E così il contrasto tra virtù e corru-
zione viene a costituire il momento machiavelliano185
.
185
Ivi; p. 918.
123
Capitolo 6
Il repubblicanesimo à la Skinner:
la libertà neo-romana
6.1 La libertà e l’indipendenza dei Comuni
Il capitolo iniziale della tesi di Quentin Skinner concernente la teoria repubblicana ri-
guarda la storia dei Comuni italiani e la loro lotta contro quei poteri, quali l’Impero e il Papato,
che ne mettevano in discussione i valori e la legittimità. La stagione comunale che aveva interes-
sato l’Italia settentrionale è per Skinner il laboratorio storico privilegiato da cui prendere le mos-
se per lo studio e l’analisi del linguaggio repubblicano. Le libere città «avevano sviluppato una
forma di vita politica completamente in contrasto con il presupposto corrente secondo cui la mo-
narchia ereditaria costituiva l’unica valida forma di governo»186
, diventando sempre più deside-
rose di libertà e di autonomia e sempre più desiderose di difendere questi valori da ingerenze e-
sterne. I comuni difesero le loro prerogative più volte dai tentativi imperiali di riunire il Regnum
Italicum all’Impero. Federico Barbarossa nella seconda metà del secolo XII, Federico II nella
prima metà del Duecento, Enrico di Lussemburgo nel 1310 e Ludovico il Bavaro nel 1327 tenta-
rono inutilmente l’impresa di sottomettere i comuni alla volontà imperiale.
Sulla storia dei Comuni come esperienza di salvaguardia della libertà aveva già scritto
Simonde de Sismondi nel 1832. Nella sua Storia delle repubbliche italiane, lo storico ed econo-
mista svizzero sostenne che fu nelle repubbliche italiane che nacque «la scienza di governare gli
uomini per il loro bene, per lo sviluppo delle loro facoltà industriali, intellettuali e morali, per
186
SKINNER, Q., Le origini, op. cit.; p. 83.
124
l’aumento della loro felicità»187
. Lo stesso giudizio venne confermato poi da Carlo Cattaneo, il
quale, nel saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane del 1858, scris-
se che il merito delle repubbliche fu di «aver diffuso sino all’ultima plebe il senso del diritto e
della dignità civile»188
. La storia del repubblicanesimo tracciata da Skinner si inserisce sicura-
mente in questa bibliografia tendente ad esaltare l’esperienza delle libere città italiane, ma quella
di Skinner è una storia che pone in risalto come le armi di difesa dei Comuni contro Impero e
Papato non furono solo quelle utilizzate sul campo di battaglia ma furono anche quelle di tipo i-
deologico, finalizzate a rivendicare il diritto dei Comuni a conservare la loro libertà e di proteg-
gerla da ingerenze esterne:
Da numerosi proclami ufficiali appare evidente che gli apologeti dei Comuni abitualmente avevano in mente due i-
dee piuttosto chiare e distinte nella difesa delle loro «libertà» contro l’Impero: una era l’asserito diritto di essere li-
beri da qualsiasi controllo esterno sulla loro vita politica, in altre parole la rivendicazione della propria sovranità;
l’altra consisteva nella riaffermazione del corrispondente diritto di autogovernarsi come reputavano più opportuno,
ossia nella difesa delle loro strutture repubblicane esistenti189
.
Il significato di libertà come indipendenza dall’Imperatore e come diritto all’autogoverno
lo si ricava dai testi di natura giuridica che, a partire dalla fine del secolo XII, furono scritti co-
piosi sotto forma di glosse al codice civile romano che, dalla fine del secolo precedente, veniva
usato come strumento teorico e pratico per gli studenti di diritto delle università di Ravenna e di
Bologna. Dai codici antichi emergeva senza possibilità di confutazione la tesi che il princeps,
equiparato all’Imperatore del Sacro Romano Impero, dovesse essere considerato l’unico sovrano
e reggitore del mondo. «Ciò implicava – sostiene Skinner – che fino a quando si fosse continuato
187
DE SISMONDI, S., Storia delle repubbliche italiane, a cura di P. Schiera, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; p. 5. 188
CATTANEO, C., La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in Opere scelte, a cura di D. Ca-
stelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino, 1972; vol. IV, p. 123. 189
Ivi; pp. 52-53.
125
ad usare il metodo letterale dei glossatori nell’interpretazione del diritto romano, i Comuni non
avrebbero avuto alcuna possibilità di rivendicare qualsiasi indipendenza de jure dall’Impero»190
.
Il risultato di questa interpretazione era di negare ai Comune qualsiasi forma di autorità,
di libertà e di autonomia. Quindi, se i Comuni volevano affermare le loro rivendicazioni doveva-
no giustificarle sul piano giuridico cambiando il modo di pensare dei giuristi nei confronti dei te-
sti del diritto antichi, avviando una nuova operazione di interpretazione e comprensione di questi
testi. Il primo protagonista di questo orientamento fu un giurista del secolo XIV, Bartolo di Sas-
soferrato, il quale, di fronte alle minacce imperiali, approntò una modifica nella prospettiva in-
terpretativa dei testi antichi col tentativo di «fornire ai Comuni lombardi e toscani un alinea di
difesa giuridica e non meramente retorica della loro libertà nei confronti dell’Impero»191
.
Prima di tutto Bartolo si staccò dal modo proprio dei glossatori di intendere il conflitto tra
la legge e i fatti. Questi sostenevano che fosse sempre l’interpretazione letterale della legge a do-
ver guidare e dirigere i fatti, mentre Bartolo si impegnò a dimostrare che il conflitto si sarebbe ri-
solto solo a condizione che la legge si fosse adeguata ai fatti. Questa tesi serviva a Bartolo per
perorare la causa dei Comuni contro le pretese di sovranità dell’Impero. Infatti, benché il giurista
riconoscesse l’Imperatore come unico dominus mundi, tuttavia sosteneva che vi sono popoli che
non gli obbediscono, tra cui quelli di alcune città dell’Italia settentrionale. Queste città, osserva
Bartolo, essendo abitate da gente libera che è in grado di fare leggi e di autogovernarsi, prospet-
tano una diversa situazione giuridica che è consolidata dai fatti. Quindi, la legge e l’Imperatore
devono essere disposti ad accettare la situazione de facto.
Il merum Imperium è una prerogativa di queste città in quanto non vi è nessuna autorità
superiore riconosciuta se non la popolazione stessa, la quale possiede in particolare lo stesso po-
tere che l’Imperatore possiede in generale. Ma è bene sottolineare che questo merum Imperium
non deve essere concesso alle città dall’Imperatore, in quanto non deve trattarsi altro che di una
190
Ivi; p. 54. 191
Ivi; p. 86.
126
sovranità riconosciuta dal punto di vista giuridico per il semplice fatto che la legge deve ade-
guarsi ai fatti.
Il passo successivo compiuto da questo giurista, le cui glosse ai testi antichi sono state da
Skinner considerate di notevole importanza, è consistito nella dichiarazione che se un popolo è
libero di scegliere i suoi ordinamenti allora il suo sistema politico deve essere quello
dell’autogoverno repubblicano. In un suo commento al Digesto giustinianeo (In I Partem Codicis
Commentaria) dove Bartolo discute del diritto al ricorso in appello, il giurista sostiene che nelle
libere città il giudice in appello può anche essere il popolo, poiché esso costituisce un’entità su-
periore ed è quindi simile a un Imperatore.
Ma a un certo punto della storia dell’Italia comunale l’Imperatore non fu la sola autorità
che costituiva un pericolo per l’esercizio dell’autogoverno repubblicano. Dopo di esso, infatti, e
dopo che le pretese imperiali furono frustrate e mortificate dalla resistenza dei Comuni, fu il Pa-
pa a tentare di estendere la sua sovranità sull’Italia settentrionale. Durante la lotta dei Comuni i-
taliani contro l’Impero il Papa era stato un alleato che aveva sostenuto le pretese di libertà delle
città del nord Italia nei confronti del potere imperiale. Una volta che l’Impero non costituì più un
pericolo fu lo stesso Papato a incominciare ad aspirare al dominio del Regnum Italicum. Ales-
sandro III, Urbano IV, Gregorio X, Martino IV, Nicola IV, Bonifacio VIII più volte tentarono di
intromettersi tra le fazioni delle città comunali con lo scopo di imporre in maniera surrettizia la
loro autorità. Quando i Comuni percepirono la minaccia politica e propagandistica del Papato i-
niziarono a rivendicare anche contro di esso le prerogative di ingerenza e di autogoverno. Tra le
voci che per prime si levarono per allontanare l’ingerenza papale le più importanti furono quelle
di Dante e quelle di Marsilio da Padova. I linguaggi individuati da Skinner in questi due autori
che sostengono la non interferenza papale nelle questioni politiche non sono più quello della li-
bertà e dell’autogoverno, propri della battaglia ideologica contro l’Impero, ma quello della pace,
e del governo secolare.
127
Nel De Monarchia, opera scritta tra il 1309 e il 1313, Dante analizza le cause della man-
canza di pace e tranquillità in Italia e ne individua due principali: la negazione della legittimità
dell’Impero e la falsa credenza per cui l’autorità imperiale dipenda dall’autorità della Chiesa.
Sebbene Dante fosse un sostenitore della sovranità assoluta dell’Imperatore egli si trova in ar-
monia e accordo con l’ideologia comunale quando afferma che proprio il governo
dell’Imperatore garantirebbe la libertà al suo massimo livello in quanto il governo monarchico
garantisce agli uomini di dipendere da se stessi e non da altri.
In maniera più sistematica, il problema del tentativo di papale di interferire con gli affari
delle città libere italiane fu affrontato da Marsilio da Padova nel Defensor Pacis, opera completa-
ta nel 1324. Anche in quest’opera, Skinner vi rileva un linguaggio teso a sostenere un’ideologia
della difesa delle libertà tradizionali contro il Papato. Scrive lo storico di Cambridge:
La soluzione proposta da Marsilio consiste essenzialmente nella semplice ma audace affermazione che i
governanti della Chiesa hanno del tutto frainteso la natura della Chiesa stessa nel presupporre che essa sia il tipo di
istituzione capace di esercitare qualsiasi giurisdizione legale, politica o in altre forme «coattiva»192
.
Marsilio ricorda che Cristo mostrò il suo convincimento di dare a Cesare quel che è di Cesare
pagando un tributo in denaro. Marsilio fece quindi intendere che gli uomini di Chiesa erano sog-
getti al giudizio dei governanti di questo mondo e che la Chiesa fondata da Cristo non fosse asso-
lutamente da considerare un organo giurisdizionale. La plenitudo potestatis rivendicata dai papi è
– secondo Marsilio – un derivato della interpretazione errata dei testi sacri. Il Papa non solo deve
sottostare al potere del Concilio ma egli non può rivendicare alcuna autorità secolare, la quale è
esclusiva prerogativa del legislatori humanus fidelis, «termine usato da Marsilio per definire il
più elevato potere secolare di ciascun Regno o Comune»193
.
192
Ivi; p. 70. 193
Ivi; p. 73.
128
Essendo solo il legislatore umano il solo legittimato alla giurisdizione sugli individui,
Marsilio conclude che ogni tentativo papale di assicurarsi il dominio dell’Italia settentrionale de-
ve essere accantonato perché si tratterebbe di una usurpazione o di una conquista delle giurisdi-
zioni «che propriamente appartengono esclusivamente alle autorità secolari»194
.
6.2 La retorica della libertà
La storiografia del pensiero politico solitamente sostiene che il lessico del repubblicane-
simo non compaia in Italia se non prima dell’inizio del Quattrocento. Invece, a proposito
dell’ideologia repubblicana, scrive Skinner: «Si può sostenere che gli studiosi del pensiero poli-
tico rinascimentale non hanno dato il giusto rilievo al sorgere di questa ideologia nel tardo due-
cento e nel primo trecento»195
. Rispetto alla storia del pensiero politico repubblicano elaborata da
Pocock, che fa riferimento all’ideale della virtù repubblicana come a un tema proprio del lessico
degli Umanisti, Skinner elabora una storia del repubblicanesimo i cui temi e i cui linguaggi ven-
gono utilizzati e fatti propri già dai giuristi del tardo Duecento. I motivi di questa convinzione lo
storico di Cambridge li individua grazie alla constatazione che gli scrittori di quel periodo che si
occuparono delle teorie dell’autogoverno repubblicano disponevano di due diverse tradizioni in
cui si potessero riscontrare il vocabolario e i valori della libertà civile. La prima era quella della
retorica che, in quegli anni, si stava affermando come disciplina autonoma nelle università
dell’Italia settentrionale. La seconda, invece, derivava dagli studi dei testi della Scolastica.
Il pensiero e il linguaggio della libertà repubblicana divenne sempre più pervasivo nei
pensatori duecenteschi allorché l’esperienza comunale, che aveva determinato interminabili e
sanguinose lotte tra fazioni, si concluse con il passaggio del potere a un despota (signore) con lo
194
Ivi; pp. 74-75. 195
Ivi; p. 83.
129
scopo di riportare ordine e pace alla comunità. Tuttavia, questo processo non eclissò del tutto
l’ideale di libertà e di autogoverno che aveva caratterizzato gli anni precedenti, e proprio la tra-
dizione retorica e quella Scolastica dimostrano che non era del tutto sopito lo slancio intellettuale
di chi rifiutava la signoria:
Entrambe queste tradizioni [quella retorica e quella Scolastica] resero possibile ai protagonisti delle «libertà» re-
pubblicane di concettualizzare e difendere i valori peculiari della loro esperienza politica, ed in particolare di argo-
mentare che era possibile curare il male delle fazioni e, di conseguenza, che sostenere la libertà poteva essere com-
patibile con la conservazione della pace196
.
Per capire come la retorica avesse influenzato il pensiero politico bisogna comprendere
gli scopi pratici dell’insegnamento della retorica stessa. In un primo tempo, a Bologna, si inse-
gnò ai giovani il modo appropriato di redigere lettere ufficiali «con la massima chiarezza e forza
di persuasione»197
. Per questo scopo furono scritti dei manuali – tra cui si ricordano quello di
Adalberto Samaritano dal titolo Praecepta dictaminum e le due opere di Boncompagno da Signa
Rhetorica antiqua e Retorica Novissima – che stabilivano le rigide regole in base alle quali scri-
vere le lettere ufficiali. Ma attraverso questi modelli che i dictatores dell’Ars Dictaminis inse-
gnavano si andò lentamente insinuando la consapevolezza che si stava andando oltre le formule
retoriche e si stava iniziando ad occuparsi di questioni di legge e di questioni politiche delle città
italiane. L’Ars Dictaminis si unì, quindi, progressivamente all’Ars Aregendi, cioè l’arte di pro-
nunciare discorsi ufficiali in pubblico, e le due discipline si riunirono in una nuova figura che al
tempo stesso riuniva il retore e il pensatore politico.
Dal punto di vista letterario, l’effetto immediato fu quello della creazione di due diverse
correnti di pensiero nell’ambito della politica. La prima riguardava quella rintracciabile nelle
196
Ivi; p. 84. 197
Ibid.
130
cronache cittadine, le quali determinarono la comparsa di una nuova storiografia civica dotata di
uno stile consapevolmente retorico e propagandistico rispetto a quelle provvidenzialistiche cura-
te dai sacerdoti nei secoli precedenti. Queste cronache spesso esortavano i cittadini a prendere le
armi per difendere i propri interessi e le proprie libertà dagli usurpatori e celebravano i valori re-
pubblicani come valori da tutelare e conservare. L’altra corrente di pensiero generò un tipo di
letteratura che discendeva direttamente dall’Ars Dictaminis, e riguardava la raccolta di consigli
destinati ai principi. Gli autori di questi trattati non si limitarono a presentare esclusivamente le
loro opinioni in merito alla politica, ma ebbero la presunzione di «presentarsi direttamente come
i naturali consiglieri politici dei governanti e degli stati-città»198
. Il tema che più è presente in
questa letteratura, e che tenderà a definire un genere, è quello dell’invito al principe a fare ricor-
so alla virtù, un argomento che non solo ha pervaso la ricostruzione storica del pensiero politico
moderno di Pocock, ma che anche Skinner rileva come tema principale della politica dell’epoca
moderna, anche se la sua analisi si ferma a un modello letterario che, seppure verrà fatto proprio
da quel grande affresco del genere che è Il Principe di Machiavelli, non ha tuttavia – secondo lo
storico di Cambridge – lo stesso peso teorico che avrà la concezione di libertà, almeno per ciò
che riguarda il linguaggio dell’ideale repubblicano.
La Scolastica è l’altra tradizione di pensiero a cui i sostenitori delle libertà repubblicane
poterono attingere per sostenere le loro tesi. Fu la traduzione in latino delle opere aristoteliche le
quali, a partire dall’inizio del secolo XII giunsero in Italia da Cordova tradotte in arabo, a gettare
le basi della Scolastica. I testi morali e politici dello stagirita, in un primo momento, furono con-
siderati pericolosi a causa della loro concezione contrastante con quella di Agostino. La Politica
di Aristotele considerava la politica una creazione assolutamente umana finalizzata alla realizza-
zione di fini umani e mondani. Egli non registrava alcuna escatologia nell’organizzazione politi-
ca ma, invece, sosteneva la vita civile della polis come un ideale fine a se stesso.
198
Ivi; p. 92.
131
Il giurista Bartolo più volte cita Aristotele con lo scopo di «adattare la teoria aristotelica
sulla società politica in modo da diagnosticare quali fossero le debolezza interne dei Comuni ita-
liani e cercare di porvi rimedio»199
. Ma chi meglio di ogni altro riuscì a diagnosticare le cause
della debolezza dei Comuni fu Marsilio, e lo fece sviluppando una teoria della sovranità popolare
attinta dal linguaggio dell’opera aristotelica. Marsilio lamenta nel Defensor pacis la mancanza di
autogoverno nelle città italiane e la lacerazione dovuta alla discordia tra le fazioni. La sua preoc-
cupazione è di chiedersi come possa un sistema di governo così ammirato essere così esposto
all’avvento dei despoti. La sua risposta si avvale del linguaggio dell’aristotelismo e del tomismo
in quanto sostiene che il tema scolastico della pax et concordia rappresenti il valore più alto della
vita politica. In fondo anche nel titolo della sua opera è sottolineato il tema della pace.
Tommaso aveva riproposto, sia nella Summa theologica che in un trattato incompiuto dal
titolo De Regno sive De Redimine Principatum, che la pace forniva «i mezzi per sostenere il be-
ne e la sicurezza del popolo»200
e Marsilio ripropone questa tesi nel Defensor pacis quando so-
stiene che la causa della perdita della libertà dei Comuni italiani sia da attribuire al verificarsi di
situazioni contrarie alla pace e alla tranquillità. Sono stati la discordia e l’antagonismo delle fa-
zioni a spiegare i disordini del Regnum Italicum e la fine del periodo comunale.
Il tema delle discordie civili come nemico della libertà è comune a tutti i pensatori scola-
stici, i quali si chiedono pure come sia possibile che ciò accada. La loro risposta consiste
nell’insistere «sulla necessità di accantonare tutti gli interessi di parte ed identificare il bene di
ogni singolo cittadino con quello della città nel suo complesso»201
. È un impegno che i filosofi
della Scolastica esprimono attraverso il concetto di bene comune, ossia attraverso il tentativo di
far convergere gli interessi della comunità con gli interessi dei singoli.
199
Ivi; p. 119. 200
TOMMASO D’AQUINO, De Regno sive De Redimine Principatum, cit. in SKINNER, Q., Le origini, op. cit., p. 127. 201
SKINNER, Q., Le origini, op. cit., p. 129.
132
Su questo tema, i retori e gli scolastici divergono, poiché i consigli politici che loro riten-
gono opportuno fornire sono in contrasto tra loro. I teorici scolastici non credono che le discipli-
ne retoriche siano importanti nella vita politica, non essendo esse altro che un modo per decorare
i discorsi. Per questo motivo questi si dedicano poco ai consigli da dare ai governanti per rivol-
gersi in primo luogo alle riflessioni sull’apparato di governo.
Più che come moralisti, essi si presentano come analisti politici, in quanto ripongono le proprie speranze di come
meglio promuovere il bene comune ed il regno della pace non già sulle virtù degli individui, bensì sull’efficacia del-
le istituzioni202
.
Poiché gli autori scolastici pensano che il maggior pericolo contro la pace sia caratterizzato dagli
interessi delle fazioni, essi, invece di moniti e di consigli morali, propongono riforme che ridu-
cano al minimo gli scontri tra le fazioni. Marsilio propone, per evitare che ciò accada, di non di-
videre le funzioni dei magistrati e di fare in modo che non si creino fazioni nella città ribadendo
che il governo appartiene al popolo tutto, ossia all’intero corpo cittadino.
Marsilio è qui spinto a una «rivalutazione» della tesi sulla sovranità popolare che solo in
parte il vocabolario della politica scolastica aveva sostenuto. Skinner rileva che mentre Tomma-
so si limita a scrivere – nella Summa theologica – «che, pur essendo il consenso del popolo es-
senziale al fine di fondare una società politica legittima, l’atto stesso di insediare un governante
implicava in tutti i casi da parte dei cittadini l’alienazione – più che la delega – della loro potestà
sovrana originaria» Marsilio, invece, sostiene la tesi opposta del popolo che continua sempre ad
essere sovrano e legislatore sia quando fa le leggi da se stesso sia quando attribuisce a qualcun
altro la funzione di legiferare. Scrive, a proposito, Skinner:
202
Ivi; p. 132.
133
Per Marsilio, anche se il popolo acconsente a trasferire il diritto di esercitare la propria sovranità ad un governante
supremo o ad un magistrato, essi non possono mai divenire il legislatore in senso assoluto, ma solo in senso relativo
e per un periodo di tempo particolare. La suprema autorità deve costantemente rimanere nelle mani del popolo stes-
so, che può sempre controllare o perfino rimuovere i suoi governanti, se non agiscono secondo i poteri, strettamente
limati, a loro conferiti203
.
6.3 La libertà repubblicana
Ritornando al discorso sulla la retorica, Skinner ne traccia una storia che evidenzia come
a cavallo dei secoli XIII e XIV gli studi retorici subirono l’influenza sempre più pervasiva degli
esempi antichi. Nel XIII secolo l’università di Parigi accolse dictatores i cui modelli teorici e sti-
listici erano fermamente ancorati a quelli dei testi classici.
Questa nuova forma di approccio alla retorica si diffuse rapidamente a Padova e Arezzo.
Emersero personaggi di spicco come Lovato Lovati, che studiò gli effetti metrici delle tragedie di
Seneca e Guido d’Arezzo, che accusò i fiorentini di avere contribuito alla sconfitta di Montaperti
nel 1260 per colpa del gioco distruttivo delle fazioni. Ma tra i personaggi di spicco va annoverato
Brunetto Latini, i cui Li Livres dou Tresor costituiscono l’opera di «un dictator della nuova
scuola, in quanto accomuna ad informazioni e consigli più convenzionali, estese citazioni da Pla-
tone, Seneca, Sallustio, Giovenale e specialmente Cicerone»204
. L’innovazione più importante
che si trova in questi autori, i quali si trovarono a scrivere proprio durante quel drammatico pas-
saggio dalla civiltà comunale a quella della signoria, è nel carattere sistematico degli argomenti
politici esposti. Essi non persero fiducia nelle perdute tradizioni repubblicane:
203
Ivi; p. 136. 204
Ivi; p. 101.
134
Di fronte alla possibilità di estinzione di un’intera tradizione politica, essi reagirono elaborando la prima vera e pro-
pria difesa dei valori politici repubblicani. Attingendo dal background letterario e retorico che abbiamo delineato,
essi procedettero a sviluppare un’ideologia consacrata non solamente a sostenere i valori centrali delle libertà repub-
blicane, ma anche volta ad analizzare le cause della loro vulnerabilità e ad accertare quali fossero i metodi migliori
per tentare di assicurarne la continuità205
.
Una ideologia, quella di questi uomini, che venne esposta per mezzo di una struttura di pensiero
dal carattere argomentativo rigoroso e il cui punto di partenza «è rappresentato dall’ideale di li-
bertà, vista nel suo significato tradizionale di indipendenza e autogoverno»206
.
L’effetto più immediato della nuova retorica fu soprattutto quello di rivedere la storia di
Roma e di rivalutare il periodo repubblicano rispetto a quello imperiale. Il motivo di questa riva-
lutazione risiede nel fatto che furono gli autori latini di quel periodo a fornire una idea di libertà
il cui linguaggio fu ripreso nell’Italia settentrionale del Duecento e del Trecento poiché fu in
grado di fornire le coordinate semantiche necessarie per rispondere alle inquietudini del falli-
mento dell’esperienza comunale. Ma questo linguaggio intraprese poi un percorso che lo portò
ad attraversare il Rinascimento e l’ideale machiavelliano della repubblica delineato nei Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio per sbarcare sulle coste inglesi negli anni immediatamente suc-
cessivi alla decapitazione di Carlo I e la proclamazione del Commonwealth. Questa è la ragione
per cui l’idea di libertà che secondo Skinner è alla base dei valori repubblicani verrà qui seguita
abbandonando un percorso rigidamente storico-cronologico per scorgerla invece nel suo apparire
proprio nei testi di quegli studiosi inglesi del diritto romano del secolo XVII, i quali avevano so-
stenuto la necessità di rivalutare un tipo di linguaggio della libertà che fosse alla base dei valori
della società repubblicana, linguaggio già apparso nel vocabolario giuridico romano e che per
205
Ivi; p. 103. 206
Ibid.
135
questo motivo Skinner ribattezzerà come il linguaggio proprio della teoria neo-romana della li-
bertà.
Già i difensori delle città del nord Italia fondavano la loro cultura giuridica sulla tradizio-
ne del diritto romano, ma fu a partire dal 1642, cioè quando scoppiò la guerra civile in Inghilterra,
che le questioni relative ai rapporti tra la libertà civile e l’obbligazione politica furono risolte a-
vendo come riferimento teorico i testi degli storici e dei moralisti romani. Scrittori inglesi impe-
gnati nella propaganda repubblicana come Henry Neville, Argernon Sidney, Marchamont Ne-
dham, John Hall, Francis Osborne, John Milton, James Harrington sono accomunati dal fatto di
avere esposto una teoria della libertà piuttosto condivisa:
Il primo dei loro assunti condivisi è che qualsiasi discussione di ciò che significa per un singolo cittadino
possedere o perdere la libertà deve essere collocata nel contesto della spiegazione di ciò che significa per
un’associazione civile essere libera207
.
La libertà di cui questi autori parlano non è quella del suddito hobbesiano di fare qualun-
que cosa egli voglia fino a quando la legge non glielo impedisca con l’obbligo, e non è neppure
quella del liberalismo di matrice lockiana. In generale, si può con certezza affermare che non si
tratta di nessuna concezione sulla libertà che investe la sfera individuale, ma piuttosto si tratta
della libertà propria delle repubbliche e del governo libero.
La chiave per capire ciò che questi scrittori hanno in mente quando predicano la libertà di intere comunità
sta nel riconoscere che essi assumono nel modo più serio possibile l’antica metafora del corpo politico208
.
207
SKINNER, Q., Liberty Before Liberalism, C.U.P., Cambridge, 1998; trad. it. a cura di M. Geuna, La libertà prima
del liberalismo, Einaudi, Torino, 2001; p. 21. 208
Ivi; p. 22.
136
Questi autori fanno propria l’analogia tra corpo naturale e corpo civile e la utilizzano per
spiegare in che modo l’uno e l’altro siano suscettibili di perdere la loro libertà. Come gli indivi-
dui sono liberi di agire a condizione che non vi siano impedimenti che limitino la loro volontà,
allo steso modo i corpi politici sono liberi a condizione di non subire costrizioni. Gli stati, quindi,
sono liberi solo se sono in grado di autogovernarsi, cioè solo se i loro membri sono gli unici a
determinare le azioni del corpo politico.
Questo tipo di concezione trae ispirazione dai Discorsi di Machiavelli, il quale a suo tem-
po dichiarò di volere «porre il ragionare di quelle cittadi che hanno avuto il loro principio sotto-
posto a altrui» e di quelle «che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù esterna, ma si so-
no subito governate per loro arbitrio»209
. Parlando di queste ultime il segretario fiorentino mette
in rilievo la loro capacità autogovernarsi e di custodire le loro libertà. La conseguenza di questo
assunto è che se una repubblica vuole essere considerata libera, le sue leggi devono essere ap-
provate con il consenso di tutto il corpo politico. Se ciò non accade, il corpo politico agirà spinto
da una volontà diversa dalla sua e sarà di conseguenza privo della sua libertà. Parlare di corpo
politico dotato di volontà non significa riferirsi ad una sostanza metafisica, quanto piuttosto alla
somma delle volontà dei cittadini che si esprime in una maggioranza. Sebbene nella sua isola di
Oceana Harrington abbia indicato la difficoltà di un tipo di governo che coinvolga tutti i cittadini,
gli scrittori inglesi del secolo XVII trovano la soluzione a questa difficoltà concordando sul fatto
che il popolo esprime una maggioranza che elegge una assemblea nazionale che rappresenta tutta
la massa popolare.
Il popolo è, allora, libero se riesce ad esprimere da se stesso le leggi che lo governano e
se è libero di nominare dei rappresentanti. Ma questa condizione non è sufficiente alla garanzia
della libertà civile. Gli scrittori inglesi di cui Skinner si è occupato si pongono tutti il problema
di quegli stati che non sono governati dalla volontà dei cittadini ma piuttosto da qualche volontà
209
MACHIAVELLI, N., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, op. cit.; I.2, p. 109.
137
che non sia il corpo politico nel suo insieme. Così come la singola persona che non può più go-
vernarsi con la sua volontà vive in condizione di schiavitù, allo stesso modo i corpi politici sono
privati della libertà quando sono governati da una volontà diversa da quella che essi sono in gra-
do di esprimere. Ancora una volta è Machiavelli l’ispiratore di questa tesi. Distinguendo le città
che hanno avuto «principio libero» da quelle che non hanno avuto «la loro origine libera»210
que-
ste ultime vengono descritte come città in condizione di schiavitù. La matrice intellettuale di
questa teoria machiavelliana è da rintracciare negli storici e nei moralisti romani i quali, a loro
volta, derivavano questi punti di vista quasi interamente dalla tradizione giuridica romana, tra-
mandata e custodita nel Digesto.
È proprio dalle pagine del Digesto che si ricava il concetto di schiavitù individuale in op-
posizione a quello di libertà. Ma la distinzione che qui viene operata è piuttosto sottile, in quanto
analizza la condizione di schiavitù tenendo presente un’ulteriore distinzione riguardante il diritto
delle persone: «la distinzione tra coloro i quali sono sui iuris, sottoposti alla loro propria giuri-
sdizione o diritto, e coloro i quali non lo sono»211
. Così come uno schiavo resta tale pure se il suo
padrone è magnanimo oppure assente, poiché resta comunque soggetto al potere di un’altra per-
sona, allo stesso modo uno stato non garantisce la libertà politica se resta nella condizione di ob-
noxius cioè permanentemente soggetto alla volontà altrui. Già Sallustio, nel De coniuratione Ca-
tilinae, lamenta il fatto che quando la repubblica aveva consegnato il diritto e l’autorità nelle
mani di pochi, tutti gli altri membri dello stato furono resi obnoxii, ossia costretti a vivere in una
situazione di costante sudditanza nei confronti dei primi. E questa condizione equivale alla perdi-
ta della libertà civile.
Ma, secondo Skinner, questo modo di concepire la libertà civile come condizione di non
dipendenza dalla volontà di una parte dei cittadini oppure di uno stato è, più di altre, una eredità
liviana: «I primi sei libri delle Storie sono per lo più dedicati a descrivere come il popolo di Ro-
210
Ivi; I.1; p. 105. 211
SKINNER, Q., La libertà prima del liberalismo, op. cit.; p. 31.
138
ma si liberò dai suoi primi re e si ingegnò a cercare un stato libero»212
, scrive lo storico inglese.
E continua sottolineando come Tito Livio abbia parlato dello stato libero come di uno stato in
grado di produrre da sé le leggi e in cui tutti i cittadini fossero da considerare ugualmente sogget-
ti all’imperium delle leggi e non degli uomini. Sul rapporto tra legge e libertà, va poi ricordato
che ne hanno sostenuto lo stretto legame anche Sallustio, che riporta un discorso di Emilio Lepi-
do il quale proclama la libertà del popolo romano perché obbedisce solo alle leggi, e Cicerone,
che nell’orazione Pro Cluentio afferma: «legum idcirco omnes servi sumus ut Liberi esse possi-
mus» («siamo quindi tutti servi delle leggi per poter essere liberi»)213
.
Sostenere l’imperium delle leggi significa sostenere che il mantenimento della libertà ci-
vile è sottoposto al tipo di governo che regge uno stato: una monarchia, in cui a governare è un
solo uomo, è incompatibile con la libertà pubblica; mentre la repubblica garantisce quel tipo di
governo il cui tratto distintivo è l’assenza della condizione di schiavitù.
Il governo repubblicano garantisce, poi, non solo vantaggi ai cittadini ma alla repubblica
tutta, dirigendola verso la grandezza. Il motivo lo spiega Machiavelli:
La ragione è facile a intendere, perché non il bene particulare ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E
sanza dubbio questo bene comune non è osservato se non nelle repubbliche […]. Al contrario interviene quando vi è
uno principe, dove il più delle volte quello che fa per lui offende la città […]214
.
Secondo il segretario fiorentino gli stati che vivono in libertà, essendo che i loro cittadini si sen-
tono tutti dei principi, in quanto vivono in condizione di libertà e non di schiavitù, possono ambi-
re alla conquista e all’accrescimento dei loro territori. È come se le repubbliche riuscissero ad
esercitare una forza politica di tipo centripeto, in base alla quale i suoi cittadini devono costan-
212
Ivi; p. 34. 213
Cfr. VIROLI, M., Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 1999; p. 32. 214
MACHIAVELLI, N., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, op. cit.; II.2, p. 241.
139
temente difendere la loro prerogative di libertà e di sovranità, e una forza politica di tipo centri-
fugo, tesa ad allargare il potere verso l’esterno, quasi a dare sfogo a un surplus di sovranità.
Per concludere, si vuole solo porre in evidenza che diverso è risultato il percorso tracciato
da Skinner per disegnare il cammino della teoria repubblicana, rispetto a quello di Pocock. Skin-
ner è partito dalla Roma repubblicana per giungere, attraverso i secoli di Bartolo, di Marsilio e di
Machiavelli, nell’Inghilterra del periodo rivoluzionario, mentre Pocock era partito da un altro
punto geografico dell’antichità, la polis di Aristotele, per sbarcare sulle coste atlantiche degli at-
tuali Stati Uniti. Sebbene i due storici del pensiero politico abbiano fatto ricorso al medesimo
metodo di ricerca storica per sostenere teoreticamente il loro lavoro, le storie del repubblicane-
simo che sono emerse dai loro testi hanno mostrato di prendere, come abbiamo visto, direzioni
non convergenti.
Questa differenza storica non resta fine a se stessa. Le due diverse concezioni del vivere
civile hanno indicato anche due distinte vie e due diversi linguaggi per la discussione relativa alle
questioni di teoria politica. Se da un lato la concezione neo-aristotelica di Pocock ha sollecitato i
teorici del comunitarismo ad affermare la natura politica degli individui, dall’altro lato l’ideale di
libertà repubblicano descritto da Skinner ha incoraggiato la ricerca dei teorici del liberalismo. La
differenza, quindi, delle storie del repubblicanesimo che i due storici di lingua inglese hanno
tracciato, ha, di volta in volta, spinto gli interessi degli scienziati della politica a rivolgere i loro
interessi ora a uno storico ora all’altro, con il fine di sostenere diversi apparati teorici in merito
alla natura del rapporto politico. Sarà compito dell’ultima parte di questo lavoro cercare di espor-
re nella maniera più chiara possibile quest’aspetto importante dell’opera di John Pocock e di
Quentin Skinner.
140
PARTE TERZA
TEORIA
141
Capitolo 7
Conclusioni teoriche
7.1 Una teoria della libertà
La tesi di Skinner sulle caratteristiche della libertà repubblicana presenta dei tratti caratte-
ristici rispetto alle precedenti concezioni della libertà politica. Sia essa stata esposta dai teorici
del liberalismo classico o dai teorici della filosofia analitica, la concezione della libertà non ha
avuto, prima di Skinner, una spiegazione dettagliata in merito ai linguaggi utilizzati per espri-
merla.
La teoria repubblicana illustrata da Skinner presenta due fondamentali caratteristiche in
merito all’idea politica di libertà: in primo luogo la libertà è intesa come assenza di interferenza e
in secondo luogo come assenza di dominazione o dipendenza da parte di individui o istituzioni.
Non è sufficiente rilevare l’assenza di agenti esterni che interferiscono con le azioni che gli indi-
vidui desiderano compiere per parlare di libertà politica, ma è necessario, come insegna la teoria
neo-romana della libertà, che i cittadini non dipendano da qualche individuo o da qualche istitu-
zione che in ogni momento possano opprimere gli obiettivi che le persone vogliono perseguire. È
sulla sottile differenza tra interferenza e dipendenza che si gioca la partita semantica dell’idea di
libertà: mentre «l’interferenza è un’azione, o un ostacolo all’azione, la dipendenza è un condi-
zionamento della volontà che ha come segno distintivo il timore»215
. E se il timore (inteso come
preoccupazione costante che qualcuno possa interferire sull’agire libero di qualcun altro) non è
allontanato dall’ambito dell’associazione politica, non è possibile che un cittadino possa speri-
mentare la libertà.
215
VIROLI, M., Repubblicanesimo, op. cit.; pp. 20-21.
142
La teoria neo-romana della libertà è, quindi, una teoria decisamente esigente della liber-
tà216
che prende con risolutezza le distanze dalle concezioni elaborate in precedenza, specialmen-
te da quella liberale:
Che cosa separa, allora, la concezione neo-romana della libertà da quella liberale? Ciò che gli scrittori neo-
romani ripudiano, avant la lettre, è l’assunzione chiave del liberalismo classico secondo cui la forza o la minaccia
coercitiva del ricorso ad essa costituiscono le uniche forme di costrizione che interferiscono con la libertà individua-
le. Gli scrittori neo-romani insistono, per contro, che il vivere in una condizione di dipendenza è, in se stesso, una
fonte ed una forma di costrizione. Riconoscere di vivere in una tale condizione, questo atto di per se stesso è suffi-
ciente a costringerti a non esercitare alcuni tuoi diritti civili217
.
L’assenza di dipendenza è fondamentale, insieme all’assenza di interferenza, alla realiz-
zazione di quella forma di libertà politica che ha caratterizzato il pensiero repubblicano. Se per il
pensiero liberale è sufficiente che non vi siano «forme di costrizione» che opprimano la libertà
dell’individuo, per il repubblicanesimo, invece, vi è bisogno dell’elemento supplementare della
non dipendenza per la realizzazione del vivere civile.
A riconoscere l’assenza di dominazione o dipendenza come elemento fondamentale della
libertà repubblicana è stato, prima di Skinner, Philip Pettit218
, le cui teorie sono confluite in un
testo che ha per titolo Republicanism. A Theory of Freedom and Government. Rispetto a Skinner,
per il quale la libertà repubblicana contempla sia l’assenza di interferenza che di dominio, Pettit
sostiene sì che libertà repubblicana comprenda l’assenza di dominio e di interferenza, ma ritiene
quest’ultima meno significativa rispetto alla mancanza di dominazione. La sua idea di non domi-
nio consiste nella «condizione di cui si gode quando si vive in presenza di altri individui e quan-
216
Cfr. VIROLI, M., Repubblicanesimo, op. cit., p. 20 sgg; GEUNA, M., La libertà esigente di Quentin Skinner, Intro-
duzione a Skinner, La libertà prima del liberalismo, op. cit., p. xxviii. 217
SKINNER, Q., La libertà prima del liberalismo, op. cit.; p. 55. 218
Scrive Skinner nella Prefazione a Libertà prima del liberalismo: «Sono consapevole del fatto di avere uno specia-
le debito nei confronti di Philip Pettit e dei suoi scritti sulla libertà, dai quali sono stato profondamente influenzato»,
op. cit.; p. 4.
143
do, in virtù di un progetto sociale, nessuno occupa una posizione predominante»219
. Solo a questa
condizione, secondo Pettit, è possibile realizzare l’ideale di libertà proprio della repubblica. Egli
pone l’accento sull’aspetto del non dominio perché sostiene di non avere mai ritrovato negli
scrittori politici repubblicani una critica significativa alle limitazioni che la legge può imporre
agli individui, i quali accettano le restrizioni della libertà qualora questa sia prescritta dalla legge
stessa220
.
Sebbene la concezione di Skinner sia decisamente più composita rispetto a quella di Pettit,
si può comunque affermare che entrambi negano che la libertà politica sia una forma di libertà
positiva. Il dibattito sul concetto di libertà, inaugurato dal saggio di Isaiah Berlin del 1958, Two
Concepts of Liberty, si era concentrato, nel quadro della filosofia politica di stampo analitico,
sulla distinzione tra libertà positiva e libertà negativa. Nel descrivere la libertà negativa Berlin
aveva ripreso la concezione sulla libertà dei moderni di Benjamin Constant,221
distinguendo la
libertà positiva, che consiste nel «desiderio dell’individuo di essere padrone di se stesso»222
e nel
desiderio di governarsi e di partecipare al processo grazie al quale la sua vita è gestita e control-
lata, dalla libertà negativa, così definita perché si realizza grazie alla mancanza di forze coerciti-
ve che impediscono l’agire umano:
Normalmente si dice che io sono libero nella misura in cui nessun individuo o gruppo di individui interferi-
sce con la mia attività. In questo senso la libertà politica è semplicemente l’area entro cui una persona può agire sen-
219
PETTIT, P., Republicanism. A Theory of Freedom and Government, Oxford University Press Inc., New York,
1997; trad. it. di Costa P., Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, Milano, 2000; p.
85. 220
Per una descrizione storica del governo della legge rispetto a quello degli uomini si veda il par. 6.3. 221
Quando Constant si chiede cosa significhi la parola libertà, così risponde: «È per ognuno il diritto di essere sotto-
posto soltanto alle leggi, di non poter essere arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo,
per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui», CONSTANT, B., La libertà degli antichi, paragonata a
quella dei moderni, Einaudi, Torino, 2001; p. 6. 222
BERLIN, I, Two Concepts of Liberty, in Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford, 1969; trad. it. di
G. Rigamonti e M. Santambrogio, Due concetti di libertà, ora in ID., Libertà, Feltrinelli, Milano, 2005; p. 181.
144
za essere ostacolata da altri. […] Perciò si può parlare di mancanza di libertà politica soltanto se qualcuno ci impedi-
sce il raggiungimento di un obiettivo223
.
Quentin Skinner si inserisce a pieno titolo in questo dibattito sulla libertà negativa. Ri-
prendendo la tesi di Berlin sui due concetti di libertà, tesi che negli anni Ottanta fu discussa am-
piamente nell’ambito della filosofia analitica224
, Skinner sostiene che la concezione neo-romana
è una concezione negativa della libertà. La libertà proposta dai pensatori neo-romani si definisce
per via negativa in quanto è caratterizzata dall’assenza di costrizione. Per costrizione, poi, Skin-
ner intende, come si è già visto sopra, non solo l’assenza di interferenza ma anche quella di do-
minio o dipendenza. Fino ad un certo punto, quindi, la concezione della libertà neo-romana è si-
mile a quella dei pensatori liberali, per i quali «la presenza della libertà è sempre segnata
dall’assenza di qualche cosa, e più in specifico dall’assenza di qualche forma di restrizione o di
costrizione»225
, ma se ne distacca nettamente in quanto i liberali intendono la costrizione come
l’azione di uomini o istituzioni che ricorrono alla forza o alla minaccia con lo scopo di interferire
con la libertà individuale mentre per Skinner la costrizione è intesa non solo come forma attiva
di interferenza ma anche come esercizio di un potere in forza del quale gli individui sperimenta-
no il pericolo costante che la loro libertà subisca una interferenza.
Rispetto a Pettit, per il quale la concezione della libertà come non dominio costituisce una
terza forma di libertà226
, dopo quella positiva e quella negativa, la posizione di Skinner non è co-
sì gravida di conseguenze teoriche suscettibili di determinare una nuova figura categoriale. Skin-
ner intende la concezione neo-romana della libertà come una forma particolare di libertà negativa.
Le sue idee e il suo linguaggio si muovono all’interno di una concezione dicotomica della libertà,
223
Ibid., p. 172. 224
Cfr. MACCALLUM, G. C., Negative and Positive Freedom, in (a cura di P. Laslett, W. G. Runciman e Q. Skinner)
Philosophy, Politics and Society, Oxford University Press, Oxford, 1972; pp. 174-193. 225
SKINNER, Q., La libertà prima del liberalismo, op. cit., p. 40. 226
PETTIT, P., The Republican Idea, in J. Braithwaite e P. Pettit, Not Just Deserts, Claredon, Oxford, 1990; pp. 54-85.
145
insistendo sulle peculiarità della libertà negativa e indicando la libertà dei pensatori neo-romani
come forma peculiare di questo tipo di libertà derivante da un concetto più ampio di costrizione.
7.2 Due teorie della cittadinanza
Skinner ritiene che la libertà neo-romana non consista nell’autodeterminazione della col-
lettività e nemmeno nella partecipazione politica. Se fosse così si avrebbe una concezione positi-
va della libertà. Invece egli sostiene che la libertà dei pensatori neo-romani sia, come abbiamo
visto sopra, una libertà negativa. Questa presa di posizione teorica prevede che l’uomo non sia
considerato un animal politicum et sociale, come voleva la tradizione tomistica, ma un essere co-
stantemente esposto alla corruzione.
Secondo l’opinione di Skinner, la visione aristotelica e tomistica non costituisce l’unica
possibile alternativa alla definizione del cittadino. Sia la concezione dello stagirita227 che quella
di Tommaso, che disegnano l’uomo come un animale naturale sociale et politicum, sostengono
che i fini umani abbiano un carattere fondamentalmente sociale. La piena realizzazione umana
sarebbe, quindi, determinata dall’impegno nell’attività di partecipazione politica, e la libertà di
un uomo del genere sarebbe una libertà decisamente positiva.
Un’idea del genere la si può sicuramente ricavare dalla concezione della virtù repubbli-
cana di cui ha parlato Pocock, il quale ha sostenuto che i pensatori e gli scrittori repubblicani
hanno difeso costantemente il primato della vita activa sulla vita contemplativa. La sua storia del
pensiero repubblicano ha rilevato la presenza di idee aristoteliche che, passando attraverso Ma-
chiavelli e Harrington, hanno caratterizzato il linguaggio dei coloni americani. Lo storico neoze-
227
Scrive Aristotele: «è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole»,
« Per natura, dunque, è in tutti la spinta verso siffatta comunità». Politica, 1253a, op. cit.
146
landese ha affermato che il cittadino di Machiavelli, nonché quello dei repubblicani inglesi e dei
rivoluzionari americani, altro non sia che la reincarnazione dello zoon politikon aristotelico che
realizza stesso per mezzo della partecipazione politica e per mezzo di una idea condivisa di bene
comune. La conseguenza di questa tesi storiografica di Pocock è stata quella di porre in rilievo
l’assenza di una spaccatura tra l’idea antica e quella moderna di cittadinanza, come affermava il
paradigma dei seguaci di Leo Strauss. Secondo Pocock non va assolutamente negata la prevalen-
za di un concetto di cittadinanza antica nel mondo cosiddetto «moderno», poiché vi è stata una
traduzione di un determinato lessico dalla polis ateniese alla Firenze del Quattrocento. Questo
lessico è stato da Pocock descritto come aristotelico:
La ragione di questa mia ostinazione è che l’idioma aristotelico articolava classicamente la posizione secondo la
quale l’essere umano era per natura un cittadino, che la cittadinanza era la forma nella quale questa materia doveva
essere organizzata, e al tempo stesso definiva la cittadinanza come un rapporto di uguaglianza – politica, attiva e di-
scorsiva – con altri esseri umani capaci di cittadinanza e di eguaglianza228
.
L’idea di cittadino che emerge da questa formulazione teorica non è, scrive Pocock, quel-
la di Hobbes, il quale «delineava una alienazione delle armi al sovrano, e una alienazione del sé
alla rappresentanza», ma quella descritta da Harrington, il quale proponeva che sia le armi che la
rappresentanza fossero entrambe nelle mani dell’individuo, «dichiarando dunque che l’individuo
non poteva essere se stesso, o conoscersi al cospetto di Dio se non esercitava capacità decisionali
e se non praticava l’uguaglianza, e che non poteva far questo se non a condizione di possedere i
fondamenti materiali del suo sé politico»229
.
228
POCOCK, J. G. A., Cittadini, clienti e creditori: la repubblica come critica del mutamento storico, in (a cura di)
VIROLI, M., Libertà politica e virtù civile. Significati e percorsi del repubblicanesimo classico, Fondazione Giovan-
ni Agnelli, Torino, 2005; p.136. 229
Ivi; p. 142.
147
Il cittadino è, quindi, colui che realizza la sua natura solo attraverso la partecipazione alla
vita della cosa pubblica e questa forma di concepire la cittadinanza ha una ascendenza antica che
il mondo moderno ha ereditato. La realizzazione della natura umana si definisce piena e comple-
ta solo sulla base di una ideologia che la disegna come fondamentalmente morale e finalizzata a
perseguire determinati fini normativi. In questo senso l’ambito di azione del cittadino prevede
una convergenza tra libertà e impegno civico fondata sul principio che l’essenza della natura
umana sia fondamentalmente sociale e politica, per cui solo all’interno del consorzio politico si
realizza la possibilità di conseguire la piena libertà perché «la forma di associazione politica che
dovremo conservare e difendere sarà, naturalmente, proprio quella forma in cui la nostra libertà
di essere veramente noi stessi potrà trovare la più completa realizzazione»230
.
Se l’idea di cittadino che emerge dalla storia del repubblicanesimo di Pocock è quella di
un individuo che naturalmente è votato agli affari e agli interessi della res publica, meno natura-
listica è invece la figura del cittadino che la teoria neo-romana della libertà ha tratteggiato. La
particolare forma di libertà negativa prevista dalla teoria neo-romana presume la partecipazione
del cittadino alle questione politiche non già perché sia quella la sua destinazione naturale, ma
perché se vuole conservare la res publica e salvarla dalla degenerazione tirannica il cittadino de-
ve partecipare attivamente alle sue vicissitudini e alle sue vicende. A differenza dei filosofi poli-
tici aristotelici o scolastici, gli scrittori neo-romani «non suggeriscono mai che vi siano alcuni
specifici fini che dobbiamo realizzare per poter ritenere di essere completamente o veramente li-
beri»231
. Essi piuttosto sostengono che la libertà vada conquistata, mantenuta e salvaguardata at-
traverso l’impegno politico e la vita activa.
Gli scrittori neo-romani hanno fatto ricorso alla metafora del corpo politico per spiegare
che uno stato è libero quando, come una persona, può agire secondo la sua volontà senza subire
230
SKINNER, Q., L’ideale repubblicano di libertà politica (1990), in Id., La libertà prima del liberalismo, op. cit., p.
86. 231
Ivi; p. 91
148
costrizioni da parte di altri. L’effetto benefico di questo tipo di azione consiste nel conseguire
grandezza civica e ricchezza per lo stato, come ricorda Machiavelli nei Discorsi:
E facil cosa è conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione del viver libero: perché si vede per esperienza le
cittadi non aver mai ampliato né di dominio né di ricchezza se non mentre sono state in libertà232
.
Ma un effetto ancora più benefico si può conseguire in uno stato libero, un dono di cui solo i cit-
tadini che vi abitano possono goderne. Si tratta della libertà personale, «intesa nel senso ordina-
rio, per cui ogni cittadino rimane libero da qualunque tipo di costrizione (e specialmente da quel-
le che derivano dalla dipendenza personale e dalla servitù) e di conseguenza rimane libero di
perseguire i fini che si è scelto»233
. È un tipo di libertà differente rispetto alle concettualizzazioni
politiche dei filosofi aristotelici e scolastici: i partigiani della libertà di matrice romana non so-
stengono che gli uomini abbiano dei fini da realizzare per poter sentirsi liberi, ma, al contrario,
sottolineano che, essendo gli uomini diversi, in quanto appartengono a differenti classi del popo-
lo, e avendo, di conseguenza, diverse inclinazioni, essi «considereranno la libertà come un mez-
zo per ottenere fini differenti»234
. Alcuni vorranno essere liberi di perseguire l’onore, la gloria e
il potere, altri vorranno semplicemente essere lasciati liberi di agire come meglio credono. Essere
liberi, seconda questa prospettiva, significa allora non essere ostacolati nel perseguimento del fi-
ne che ci si è prefissati.
Per realizzare questa forma di libertà gli scrittori neo-romani sostengono che l’assetto co-
stituzionale debba essere quello di un governo che esprime la volontà di tutta la comunità. Per
questa ragione concludono che sia preferibile istituire una repubblica come forma di governo che
232
MACHIAVELLI, N., Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, op. cit.; II.2, p. 249. 233
SKINNER, Q., L’ideale repubblicano di libertà politica, op. cit.; p. 91. 234
Ibid.
149
si oppone alla monarchia o alla tirannia. Bisogna, quindi, prima di tutto, cercare di capire come
questa forma di governo viene istituita e come viene mantenuta. Scrive Skinner:
Gli scrittori che sto esaminando, in effetti, forniscono tutti la stessa risposta. Essi sostengono che una re-
pubblica autogovernata può essere mantenuta solo se i suoi cittadini coltivano quella qualità indispensabile che Ci-
cerone ha descritto come virtus, che i teorici italiani più tardi hanno reso con virtù, e che i repubblicani inglesi hanno
tradotto con le espressioni civic virtus e public-spiritedness235
.
La virtù esprime l’insieme delle qualità che ognuno deve possedere in qualità di cittadino.
Non si realizza, attraverso la virtù, la natura umana, come affermava Pocock leggendo i pensatori
politici del Quattrocento, ma essa è costituita da quell’insieme di qualità che consentono, secon-
do Skinner, di «servire di buon grado il bene comune», di difendere «la libertà della nostra co-
munità» e di garantire sia la sua grandezza che la nostra libertà individuale236
. Queste qualità
vengono da Skinner individuate nel «coraggio» e nella «determinazione» di difendere la repub-
blica dai pericoli di minacce di asservimento da parte di nemici esterni. Se si venisse conquistati
si dovrebbero servire i fini del nuovo padrone e si perderebbe, di conseguenza, la libertà. Compi-
to della comunità è, invece, quello di non affidare ad altri la difesa della propria libertà poiché
nessuno più della comunità stessa è in grado di preoccuparsi della propria vita e della propria li-
bertà. Altre qualità sono la «prudenza» e tutte quelle «qualità civiche» necessarie per giocare un
ruolo attivo nella vita pubblica. Le decisioni del corpo politico devono essere prese da nessun al-
tro che non sia il corpo politico stesso, altrimenti, come accadrebbe se il corpo naturale fosse in
condizione di schiavitù, anche il corpo politico verrebbe indirizzato a perseguire non i suoi fini
ma quelli di chi ha il controllo su di esso. Quindi, «per evitare tale condizione di servitù, e quindi
235
Ivi; p. 93 236
Ibid.
150
per garantirci la nostra libertà individuale, dobbiamo coltivare le virtù politiche e dedicarci con
tutto il cuore a una vita di impegno civico»237
.
È una concezione «forte» della cittadinanza, quella di Skinner, che tuttavia dà origine ad
una seria difficoltà consistente nel fatto che la partecipazione politica e la cura della comunità
non sono qualità che vengono messe in atto con continuità e coerenza. Come Machiavelli aveva
fatto notare nel primo libro dei Discorsi238
, gli uomini sono generalmente riottosi e poco propen-
si ad agire per il bene pubblico, essendo essi tendenzialmente «corrotti», termine che i pensatori
repubblicani utilizzano per indicare l’inclinazione naturale degli uomini ad ignorare il bene della
comunità per dedicarsi al perseguimento degli interessi personali. La corruzione significa sem-
plicemente ignorare il fatto che una società politica che voglia definirsi libera ha buone ragioni
per porre il bene comune al di sopra di quello individuale:
La corruzione, in breve, è semplicemente una mancanza di razionalità, un’incapacità di riconoscere che la nostra
stessa libertà dipende dalla nostra dedizione alla virtù e dal nostro impegno nella vita pubblica239
.
Non ha senso, per questa idea di cittadinanza attiva, asserire la bontà della tesi liberale di
Adam Smith per la quale gli interessi particolari garantirebbero la crescita e il bene della comu-
nità, come spiega la dottrina della «mano invisibile». Gli scrittori repubblicani vedono i partico-
larismi sempre e comunque come forme di corruzione, e vedono, viceversa, proprio nel supera-
mento della corruzione la condizione per realizzare la libertà individuale. I cittadini, che per na-
tura sono interessati alla loro sfera privata, possono agire in maniera virtuosa e sperare conse-
237
Ibid. 238
«E si può fare questa conclusione: che dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono;
dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le nono son mosse da uno che con estrema forza le fac-
cia osservare tanto che la materia diventi buona»Discorsi, op. cit.; I.17, p. 155. 239
SKINNER, Q., L’ideale repubblicano di libertà politica, op. cit.; p. 91.
151
guentemente di ottimizzare una libertà che se lasciata al loro arbitrio getterebbero via, solo attra-
verso la loro fiducia nel «potere coercitivo della legge»240
.
Machiavelli scriveva che «la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fan-
no buoni»241
. Egli forniva una spiegazione della relazione tra legge e libertà che contrastava net-
tamente con quella contrattualistica. Mentre per Hobbes e Locke la legge è una forza coercitiva
che salvaguarda la nostra libertà dalle interferenze di altri, impedendo a questi ultimi di invadere
lo spazio dei nostri diritti, per gli scrittori repubblicani «la legge salvaguarda la nostra libertà non
semplicemente attraverso la coercizione degli altri, ma anche obbligando direttamente ognuno di
noi ad agire in un modo particolare»242
.
Per Hobbes e Locke la libertà la possediamo naturalmente. Per scrittori come Machiavelli,
invece, è la legge che obbliga le persone ad agire in un modo tale da preservare le istituzioni di
uno stato libero che, contemporaneamente, conserva le libertà individuali. E in questo suo atto
obbligante nei confronti del cittadino la legge trae anche la sua giustificazione, perché se così
non fosse, lo stato e l’individuo verrebbero ad essere inghiottiti da una situazione di schiavitù.
La sintesi della forma di cittadinanza che dalla storia del repubblicanesimo e dalla teoria
della libertà di Skinner può essere tracciata si riassume in un cittadino che, più che sui suoi diritti,
si concentri sui suoi doveri. «Dobbiamo – scrive Skinner – prendere i nostri doveri sul serio e,
invece di sottrarci a qualsiasi cosa ecceda “le esigenze minime della vita sociale”, dobbiamo cer-
care di adempiere i nostri impegni pubblici nel miglior modo possibile»243
. Questa la conclusio-
ne dello storico di Cambridge, alternativa e, in un certo senso, antagonista rispetto alla forma
della cittadinanza che lo zoon politikon aristotelico ripreso da Pocock aveva sostenuto. Per Skin-
ner non è questo cittadino l’unico che una teoria sulla cittadinanza possa concepire, e lo chiarisce
con molta nitidezza:
240
Ivi; p. 95. 241
MACHIAVELLI, N., Discorsi, op. cit.; I.3, p. 115. 242
SKINNER, Q., L’ideale repubblicano di libertà politica, op. cit.; p. 95. 243
Ivi; p. 99.
152
L’assunzione aristotelica e tomistica che una sana vita pubblica deve essere fondata su di una concezione
dell’eudaimonia non costituisce affatto l’unica alternativa a disposizione, se vogliamo recuperare una visione della
politica basata non solo su procedure corrette, ma su significati e scopi condivisi. Sta a noi riflettere sulla potenziale
rilevanza di una teoria che ci dice che se desideriamo massimizzare la nostra libertà individuale dobbiamo smettere
di riporre la nostra fiducia nei principi e assumerci invece l’onere della cura e degli affari pubblici244
.
7.3 Migrazioni teoriche
La teoria repubblicana differisce dal liberalismo classico non solo perché elabora una di-
versa e più articolata concezione del linguaggio connesso alla libertà politica, ma anche perché,
come si è detto sopra, vi è una maggiore attenzione teorica ai doveri rispetto ai diritti. Il liberali-
smo classico aveva elaborato la teoria dei diritti naturali inalienabili, teoria che dai repubblicani
viene criticata poiché sostengono fondamentalmente che siano solo la consuetudine e la legge a
riconoscere i diritti, i quali sono, quindi, storici e non naturali.
Già il lavoro storiografico di Pocock aveva riportato alla luce un tipo di linguaggio politi-
co totalmente alternativo rispetto a quello del giusnaturalismo moderno. I concetti chiave del re-
pubblicanesimo come «virtù», «bene comune», «doveri» erano nettamente in opposizione a quel-
li right-based del contrattualismo moderno245
. Questa distanza la si osserva ancora meglio se si
leggono i testi di quei filosofi politici communitarians che insistono molto sulla contrapposizione
tra repubblicanesimo e politiche right-based. Alasdair MacIntyre crede che i diritti umani siano
streghe e unicorni246
, mentre Michael Sandel precisa che «invece di definire i diritti in base a
principi neutrali fra le diverse concezioni del bene, la teoria repubblicana interpreta i diritti alla
244
Ivi; p. 100. 245
BACCELLI, L., Critica del repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 2003; p. 66. 246
Cfr. MACINTYRE, A., After Virtue, Duckworth, London, 1981; trad. it., Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano, 1988; p.
90.
153
luce di una particolare concezione della buona società, la repubblica che si autogoverna»247
. Sul-
la base di queste tesi, secondo le quali sembrerebbe «che le teorie neorepubblicane, nelle loro va-
rie forme, concordino sull’idea di una prevalenza deontica del dovere su quella del diritto sogget-
tivo, e sulla priorità del processo politico di autogoverno sui diritti fondamentali»248
, vengono e-
laborate due critiche. La prima si sofferma sul fatto che la riaffermazione dei doveri sui diritti è
da collegare a una ri-eticizzazione della politica e al superamento dell’autonomia dell’ambito po-
litico. La seconda evidenzia, invece, che la prevalenza del processo politico sui diritti segna un
distacco dallo Stato di diritto e riapre concezioni di democrazia plebiscitarie e populistiche, che
conducono alla tirannia della maggioranza249
.
La risposta degli storici e dei teorici del repubblicanesimo a queste accuse si fonda sul
principio che non vi sia alcuna presa di posizione critica da parte degli autori repubblicani nei
confronti dei diritti. Se è vero che Machiavelli non parla di diritti è pur vero che «l’idea moderna
dei diritti è perfettamente coerente con l’ideale repubblicano della libertà politica e della vita ci-
vile»250
, perché l’idea repubblicana di libertà, che contempla il non dominio, prevede che il citta-
dino realizzi il suo impegno di allontanare se stesso e la comunità a cui appartiene dalla schiavitù
attraverso l’assoggettamento alla legge. Attraverso il riconoscimento del diritto l’uomo ammette
di sottomettersi non all’arroganza di un altro essere umano, ma di sottomettersi invece al diritto
di comandare da parte di un suo simile, diritto che egli riconosce perché è al di sopra di chi co-
manda e di chi è comandato.
Oltre alla discussione politica sui diritti, le sollecitazioni teoriche suscitate dalle storie del
repubblicanesimo di Pocock e di Skinner hanno di fatto interessato diversi ambiti disciplinari.
Prima si accennava ai communitarians, ed in effetti fu proprio nell’ambito della teoria politica in
247
SANDEL, M., Democracy’s Discontent. America in Search of a Public Philosophy, Belknap, Cambridge (Mass.),
p. 279. Citato in BACCELLI L., Critica del repubblicanesimo, op. cit., p. 67. 248
BACCELLI L., Critica del repubblicanesimo, op. cit., p. 67. 249
Ivi; p.68. 250
VIROLI, M., Repubblicanesimo, op. cit.; p. 50.
154
senso stretto che, per esempio, le tesi di Pocock si fecero strada. I comunitaristi ricorsero alle tesi
dello storico neozelandese per contrastare la tesi liberale di John Rawls sull’uomo come unen-
cumbered self o atomic self. Le due tesi portanti del libro di Pocock (la continuità tra aristoteli-
smo e repubblicanesimo e il disegno della storia del repubblicanesimo come precedente e alter-
nativa a quella del liberalismo) bene si agganciavano ai loro scopi. Grazie al repubblicanesimo di
Pocock, infatti, i teorici comunitari hanno pensato all’«individuo repubblicano» di aristotelica
memoria come a un individuo «costitutivamente legato alla sua comunità politica». Questo indi-
viduo si realizza solo nella polis: «il suo Sé è un Sé situato, la sua identità si forma e si mantiene
nelle relazioni con gli altri membri della comunità»251
. I comunitari, rispetto ai liberali, analizza-
no la società politica prendendo le mosse dal fatto che questa condivide una nozione di bene co-
mune che motiva i cittadini a realizzare il loro dovere. Charles Taylor fa riferimento a questo
modello aristotelico quando scrive che «la definizione stessa di regime repubblicano classica-
mente inteso richiede un’ontologia diversa dall’atomismo» e sottolinea che «la solidarietà repub-
blicana sorregge la libertà perché fornisce la motivazione per la disciplina autoimposta»252
. I
comunitaristi andrebbero in questo modo a scavare in maniera ancora più profonda il solco che
divide il repubblicanesimo dal liberalismo. Per essi, infatti, la comunità identifica «uno spazio
relazionale che la teoria liberale è incapace di avvalorare e/o che la pratica liberale è destinata a
rimuovere»253
. La comunità è costituita da uomini che non vivono vite separate, e le cui relazioni
al suo interno avvengono tra persone affini e non distanti tra esse. I filosofi comunitaristi pensa-
no che la comunità sia costitutivamente tale, cioè pensano che essa sia uno «spazio di orienta-
menti morali ineludibili e di pratiche dalla cui densità è impensabile districarsi»254
, per cui la
251
GEUNA, M., La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, op. cit.;
p. 105. 252
TAYLOR, C., Cross-Purposes: The Liberal-Communitarian Debite, in (a cura di) N. L. Rosenblum, Liberalism
and the Moral Life, Harvard U. P., Cambridge, 1989; trad. it. Il dibattito tra sordi liberali e comunitaristi, in (a cura
di) A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992; pp. 151-153. 253
BESUSSI, A., Liberalismo e comunitarismo: le ragioni di un dissenso, in (a cura di) S. Maffettone e S. Veca, Ma-
nuale di filosofia politica, Donzelli, Roma, 1996; p. 6. 254
Ibid.
155
comunità non sarebbe altro che il luogo della realizzazione della naturale propensione dell’uomo
alla vita comune (lo zoon politikon aristotelico!).
Ma il repubblicanesimo di Pocock ha fatto sentire i suoi influssi anche in altri ambiti di-
sciplinari. È possibile leggere nel testo di Robert Dahl La democrazia e i suoi critici un paragrafo
che ha per titolo «La tradizione repubblicana» in cui è evidente il debito del professore america-
no nei confronti di Pocock:
Per tradizione repubblicana intendo un corpo di princípi, ben lungi dall’essere sistematico o coerente, le cui
origini vanno individuate […] nell’opera del critico più insigne della democrazia greca: Aristotele255
.
Analizzando la democrazia come governo del popolo capace di autogovernarsi, Dahl non può fa-
re a meno di confrontarsi non solo con l’origine aristotelica del repubblicanesimo, ma anche con
l’excursus storico delineato da Pocock:
Prendendo spunto da Aristotele, la tradizione repubblicana, elaborata attraverso le esperienze secolari della Roma
repubblicana e della Repubblica di Venezia, e interpretata in modi diversi e persino conflittuali durante il tardo Ri-
nascimento da scrittori fiorentini quali Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli, venne riformulata, rielaborata
e reinterpretata nell’Inghilterra e nell’America del XVII e XVIII secolo256
.
Anche se Dahl distingue due forme di repubblicanesimo, uno aristocratico che si pone il proble-
ma costituzionale di tenere a freno le pressioni della maggioranza e uno democratico che ha co-
me unico scopo la realizzazione del bene del popolo257
, è importante porre in evidenza come il
dibattito sulla democrazia riassunto nel suo testo sia stato pervaso dal linguaggio proprio del re-
255
DAHL, R., Democracy and its Critics, Yale U. P., 1989; trad. it. La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti,
Roma, 1990; p. 36. 256
Ivi; pp. 36-37. 257
Ivi; p. 39.
156
pubblicanesimo à la Pocock, a dimostrazione della forza dell’impresa storiografica dell’autore
del Machiavellian Moment.
Anche la discussione sulla costituzione americana fu interessata dal libro di Pocock. Ri-
chard Fallon, in un articolo dal titolo What is Republicanism and Is It Worth Reviving?, pubbli-
cato nel 1989 nella «Harvard Law Review», sottolineava la necessità di rivedere le modalità di
interpretare la cultura politica e costituzionale americana una volta che era mutata
l’interpretazione del linguaggio dei Founding Fathers258
. Il dibattito suscitato da quest’articolo259
ebbe per i giuristi non solo un significato storico ma anche un significato normativo, in quanto
questi si resero conto che il linguaggio repubblicano costituiva «una costellazione teorica a cui
attingere per fondare più adeguatamente la democrazia contemporanea»260
. Anche Cass Sunstein
intervenne nel dibattito individuando quattro principi fondamentali che definiscono il repubbli-
canesimo, principi che riteneva fondamentali anche per le democrazie odierne: la politica come
processo deliberativo, l’uguaglianza politica, il bene comune, la cittadinanza attiva261
. Frank Mi-
chelman, invece, ha sostenuto che il principio fondamentale del repubblicanesimo vada individu-
ato nella sua idea di libertà, intesa come strumento di autogoverno262
.
Jürgen Habermas, in Fatti e norme, ha ripreso la concezione di Michelman
sull’autogoverno per trattare la questione se la Corte costituzionale americana potesse sospende-
re le norme decise dal parlamento. Per descrivere la giurisprudenza costituzionale di stampo re-
pubblicano Habermas ha citato un brano dell’articolo di Michelman:
258
FALLON, R., What is Republicanism and Is It Worth Reviving?, in «Harvard Law Review», CII, 1989; pp. 1695-
1735. 259
Per il quale si veda GEUNA, M., La tradizione repubblicana e i suoi interpreti, op. cit.; pp. 105-107. 260
Ibid.; p. 106. 261
SUNSTEIN, C. R., Beyond the Republican Revival, in «The Yale Law Journal», XCVII, 1988; pp. 1539-1589. 262
MICHELMAN, F., Law’s Republic, in « The Yale Law Journal», XCVII, 1988; pp. 1493-1537.
157
Se la possibilità d’una costituzione repubblicana presuppone che il diritto nasca da un’incessante rivendicazione
normativa del popolo, ne consegue che i giudici costituzionali sono al servizio di questa possibilità quando aiutano a
far funzionare l’impegno popolare generatore di diritto263
.
Il filosofo tedesco ha evidenziato che l’atto di sospensione di una norma da parte della Corte co-
stituzionale è legittimato solo se derivato da un’autorità che può direttamente richiamarsi
all’autodeterminazione del popolo. Ma Habermas è andato oltre, perché da un lato ha riconosciu-
to che questa idea di autogoverno repubblicano di cui Michelman parla è aristotelica, dall’altro
ha dato per scontato il fatto che il repubblicanesimo abbia una storia che diverge dal liberalismo,
e questa storia è quella tratteggiata da Pocock:
Michelman si appoggia alla tradizione della «politica» aristotelica che – tramite la filosofia romana e il pensiero po-
litico del Rinascimento italiano – non solo ha ricevuto con Rousseau la sua moderna versione giusnaturalistica, ma
che (attraverso l’avversario di Hobbes, James Harrington) è anche entrata nel dibattito costituzionale americano co-
me alternativa al liberalismo di Locke ispirando la concezione democratica dei Padri fondatori264
.
La distanza tra repubblicanesimo e liberalismo, sancita dalla storiografia, si riflette anche
sulla pratica politica democratica. Laddove la concezione liberale intende lo Stato democratico
come l’istituzione che media per l’interesse di una società, intesa questa come sistema di indivi-
dui privati strutturato dall’economia di mercato, sistema in cui la politica ha la funzione di far
valere gli interessi sociali dei privati nei confronti dello Stato che, invece, si specializza nell’suo
dell’amministrazione del potere per fini comuni, la concezione repubblicana, per contro, conce-
pisce la politica non come mediazione ma come processo di socializzazione «attraverso cui indi-
vidui organicamente inseriti in comunità più o meno naturalmente solidali – facendosi consape-
263
MICHELMAN, F, Law’s Republic, cit. in HABERMAS, J., Faktizität und <geltlung. Beiträge zur Diskurstheorie des
Rechts und des Demokratischen Rechtsstaat, Suhrkamp Verlang, Frankfurt, 1992; trad. it. di L. Ceppa, Fatti e
norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano, 1996; p. 317. 264
Ivi; pp. 317-318.
158
voli della loro reciproca dipendenza – perfezionano e sviluppano con volontà e coscienza, come
cittadini dello Stato, i rapporti ereditati di riconoscimento reciproco»265
.
Le conseguenze, ai fini della valutazione del processo politico, di questa distinzione sono
evidenti in quattro ambiti teorici. Il primo è quello che già si è analizzato in precedenza e riguar-
da i «due diversi concetti di cittadinanza», di cui uno (quello liberale) è caratterizzato da una
forma di libertà negativa, mentre l’altro (quello repubblicano), da una forma di libertà positiva
che si esplica attraverso l’attività dei cittadini che prendono parte attivamente alla prassi comune.
Il secondo ambito teorico, pure esso già accennato, esamina il «concetto di diritto». Viene sotto-
lineata la distinzione tra la concezione liberale, in cui l’ordinamento giuridico vaglia, caso per
caso, chi siano gli individui che godono di diritti e di che tipo di diritti essi godono, e la conce-
zione repubblicana, in cui, invece, questi stessi diritti «soggettivi» rinviano a una dimensione
«oggettiva». Il terzo ambito teorico concerne la «natura del processo politico». Nella concezione
liberale la politica ha una natura agonistica il cui fine è quello di ottenere e conservare posizioni
di potere. Il successo politico, in questo modo, si misura con l’approvazione derivata dal voto
espresso dagli elettori. «Le loro decisioni elettorali hanno la stessa struttura delle scelte messe in
atto da utenti del mercato orientati al successo»266
. Lontana dalle logiche del mercato è invece la
concezione repubblicana, per la quale il processo politico tendente alla formazione dell’opinione
nella sfera pubblica e in quella del parlamento obbedisce «alle logiche specifiche della comuni-
cazione pubblica orientata all’intesa»267
. Il modello politico del repubblicanesimo non è il merca-
to, bensì il dialogo. Ecco che si parla di arena politica come luogo in cui la controversia è legit-
timata perché non è finalizzata a ottenere posizioni di potere ma perché ha come scopo il dibatti-
to in cui chi vince non è il singolo politico o il partito ma l’argomentazione che meglio risponde
alle esigenze del bene comune.
265
Ivi; p. 319. 266
Ivi; p. 324. 267
Ibid.
159
L’ultimo ambito teorico riguarda le «condizioni procedurali». Se è la logica del mercato a
pervadere la procedura politica, questa «perde ogni riferimento all’uso etico e morale della ra-
gione»268
. Il pensiero repubblicano ha insegnato, invece, a contrapporre la fiducia nei discorsi al-
la logica della concorrenza, a condizione che le pratiche discorsive siano quelle che assumono la
prospettiva degli altri membri della comunità e non quella del singolo: «Partecipando a questo
processo discorsivo di formazione dell’opinione e della volontà, i cittadini esercitano il loro dirit-
to di autodeterminazione politica»269
.
Avendo messo in discussione la continuità teorica tra aristotelismo e repubblicanesimo,
ed avendo evidenziando che non fu necessario attendere il recupero di Aristotele per la ricostru-
zione del pensiero repubblicano, gli esiti teorici e le migrazioni concettuali della storia del re-
pubblicanesimo di Quentin Skinner sono risultati diversi rispetto a quelli di Pocock. La matrice
neo-romana del concetto di libertà e la rilevazione di un linguaggio repubblicano nei dictatores
ha conferito al repubblicanesimo di Skinner un’autonomia teorica, configurandolo «come una
teoria politica ancora riproponibile nel nostro presente, una terza via possibile tra
l’individualismo liberale ed il comunitarismo di matrice aristotelica»270
. Per questo motivo, è dif-
ficile potere intravedere una migrazione del linguaggio repubblicano di cui parla Skinner verso
uno dei luoghi teorici che caratterizzano il linguaggio del dibattito politico contemporaneo, quel-
lo dei comunitaristi o quello dei liberali. È invece possibile sottolineare la novità teorica dello
storico di Cambridge il quale sembra poter percorrere una «terza via»271
tra i due partiti della
teoria politica. Una terza via che, avendo steso l’asfalto tra le due prevalenti concezioni della li-
bertà, quella positiva e quella negativa, ha fondato il suo impianto teorico sulla concezione neo-
romana della libertà di cui si è discusso sopra.
268
Ivi; p. 326. 269
Ibid. 270
GEUNA, M., La tradizione repubblicana e i suoi interpreti, op. cit.; p. 108. 271
Cfr. SPITZ, J.-F., Le rèpublicanisme, une troisième voie entre libéralisme et communautarisme?, in «Le Banquet»,
1995, n. 2; pp. 215-238.
160
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