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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “LA SAPIENZA”di ROMA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
DOTTORATO IN STORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI
XXV CICLO – A.A. 2012-2013
SANTA SEDE E STATI UNITI TRA IL 1936 E IL 1939
CANDIDATO:
DOTT. MASSIMO SABA
TUTOR:
CHIAR.MO PROF: GIUSPPE IGNESTI
DIRETTORE DEL DOTTORATO:
CHIAR.MO PROF. G. LUIGI ROSSI
INDICE
Introduzione
I La fase iniziale: i rapporti tra Vaticano e Washington fra il Settecento e la Grande Guerra
1.1 Dalle origini alla rottura ..........................................………………… 11.2 L’interruzione dei rapporti diplomatici ufficiali (1867)
………………………...............................................................……….. 131.3 La ricerca di una difficile intesa: dal 1867 al tentativo di mediazione del 1916-
1918 ……………………………………………....…... 171.4 Strategie vaticane tra la fine della Grande Guerra e Versailles (1918-1920)
……………...………………………………………………………….. 44
II Santa Sede e Stati Uniti: la transizione degli anni Venti (1920-1930)
2.1 La fase successiva alla guerra: il dopo Wilson ……….………..….....512.2 Il nativismo anti-cattolico ed il National Catholic Welfare
Council ....................................................................................………….. 572.3 I repubblicani al potere; prove di intesa fra Harding e Bonzano ..42.4 Il dopo Bonzano, il Ku Klux Klan e il nativismo anti-cattolico .........................
………………………………………………………………………. 882.5 La questione messicana ………………………………………....…………….. 972.6 L’avvento del fascismo e i Patti Lateranensi ....………………………101
III Gli anni del disgelo (1930-1943)
3.1 Roosevelt e il “New deal” ...………………………………………….….. 1083.2 Nuove line di intesa fra Vaticano e Stati Uniti …………....……. 1133.3 Verso la ripresa dei rapporti diplomatici: dalla questione russa all’incontro
Pacelli-Roosevelt ………………………………....……….. 1203.4 Gli anni della preparazione all’intesa (1937-1938) ……....…. 1353.5 La stretta finale: il 1939, l’anno della svolta ….…………...……. 1433.6 Il rappresentante di Roosevelt, Myron C. Taylor …....……….. 153
IV Il carteggio Taylor
Bibliografia
Introduzione
Con questo lavoro di ricerca si intende ricostruire ed analizzare uno degli
aspetti più interessanti della storia dei rapporti fra Santa Sede e Stati Uniti del
XX secolo, cioè il ripristino delle formali relazioni diplomatiche fra i due stati.
L’interesse per questa tematica è nato a seguito della lettura del volume di
Ennio Di Nolfo “Vaticano e Stati Uniti 1939-1952” opera fondamentale per
l’argomento, nella quale si fa particolare riferimento al carteggio di Myron
Taylor, l’inviato personale del presidente Roosevelt presso Pio XII.
Nel 1939, con l’inizio e successivamente l’inasprimento del secondo conflitto
mondiale, il presidente statunitense Roosevelt stava entrando nell’ordine di
idee di un intervento americano diretto nel conflitto, evento che avrebbe
richiesto l’adozione di scelte coraggiose. Una di queste fu la decisione di
ripristinare i rapporti diplomatici con la Santa Sede; il Presidente rese nota la
sua volontà nel messaggio natalizio a Pio XII, il 23 dicembre 1939.
Parallelamente all’invio di Myron C. Taylor in Vaticano come suo
rappresentante personale, si alzò un coro di decise proteste sia da parte delle
autorità fasciste, sia da parte dell’opinione pubblica che del protestantesimo
americano. Per Mussolini, e per la Germania nazista, il riavvicinamento fra Usa
e Santa Sede rappresentava il pericolo di consolidamento delle potenze
avverse all’Asse, mentre per la gran massa dell’opinione pubblica americana
esso rappresentava una violazione del principio di separazione tra Stato e
Chiesa.
Effettivamente, a partire dalla chiusura della legazione Usa presso la Santa
Sede nel 1867, i rapporti con il pontefice erano stati complicati, a causa anche
delle continue manifestazioni di anti-cattolicesimo che si erano susseguite a
tutti i livelli della società statunitense. Ufficialmente la missione americana era
stata soppressa dal Senato per una questione di fondi, i veri motivi erano da
cercarsi altrove, innanzitutto nella visione del Vaticano come simbolo
dell’oscurantismo e dell’ancien régime, e della inconciliabilità del carattere
chiuso della Chiesa con il modello statunitense.
La questione dei rapporti fra i due Stati tornò prepotentemente d’attualità
durante la Prima guerra mondiale, soprattutto a causa dell’atteggiamento di
chiusura verso il Vaticano del presidente americano, Woodrow Wilson. Egli era
un fervente anti-cattolico, e la sua avversione, seppure in linea con i dettami
della cultura wasp, lo portò al rifiuto di qualunque iniziativa di pace promossa
da Benedetto XV, e alla decisa affermazione della diversità tra il progetto
americano di rifondazione del sistema internazionale e quello del pontefice.
Inoltre due ordini di problemi allontanavano la prospettiva di riavvicinamento
con la Santa Sede: in primo luogo la poderosa ondata di nazionalismo che
pervadeva la società statunitense negli anni successivi alla Grande Guerra, che
si concretizzava nel nativismo anti-cattolico; in secondo luogo i difficili rapporti
tra la Chiesa centrale di Roma e la Chiesa cattolica nordamericana, che veniva
accusata di eterodossia.
Nel dopo Wilson quindi tutte le amministrazioni repubblicane, ad eccezione
dei piccoli segnali distensivi lanciati dalla presidenza Harding, non dedicarono
tempo ed energie al dialogo con la Santa Sede.
La svolta nei rapporti fra Usa e Vaticano si ebbe con la presidenza Roosevelt da
una parte e la figura di Eugenio Pacelli dall’altra.
Nella seconda metà degli anni Trenta ci fu una reale convergenza tra la
dottrina sociale della Chiesa e i principi del New Deal rooseveltiano. Non
minore fu l’importanza dell’impegno di alcuni uomini come i cardinali
statunitensi Mundelein e Spellman, e gli uomini dello staff presidenziale, che
resero possibile la riabilitazione del cattolicesimo nel tessuto socio-politico
nazionale e la ripresa dei rapporti diplomatici. Dalla visita dell’allora cardinale
Pacelli negli Usa nel 1936, all’invio a Roma di Myron Taylor nel 1940,
l’avvicinamento fra i due Stati fu lungo ma proficuo.
Per quanto riguarda la storiografia riguardante la ricostruzione dei rapporti
politico-diplomatici tra Stati Uniti e Santa Sede, l’apporto delle fonti varia a
seconda del periodo.
Sulla fase che va dall’inizio dei rapporti fra i due Stati alla fase
immediatamente successiva alla Grande Guerra, vanno sottolineati i lavori di
Francis Leo Stock, riguardanti la raccolta di documenti delle rappresentanze
consolari fino al 1867, oltre che quelli di Luigi Bruti Liberati e di Dragoljub R.
Zivojinovic.
Per quanto riguarda il ventennio tra le due guerre vanno citati i volumi di
George Q. Flynn e di Gerald P. Fogarty. Il secondo in particolar modo analizza
con precisione i motivi ed i protagonisti del riavvicinamento della seconda
metà degli anni Trenta, mettendo in luce l’importanza della figura di Francis
Spellman.
All’interno della pubblicistica italiana lo studio più autorevole è quello del Prof.
Ennio Di Nolfo, “Vaticano e Stati Uniti 1939-1952”, ma di non minore
importanza risulta il recente volume di Luca Castagna, “Un ponte oltre
l’oceano”, esaustivo in particolar modo nella ricostruzione delle vicende
interne alla società e alla gerarchia ecclesiastica americana negli anni Venti e
Trenta.
Altrettanto importante è risultata la consultazione di altri volumi: “Usa e
Santa Sede. La lunga strada” di Jim Nicholson, ex ambasciatore statunitense
presso la Santa Sede, illuminante per quanto concerne la prospettiva
americana della vicenda, ed il lavoro di Massimo Franco “Imperi paralleli”.
Entrambi i volumi offrono una visuale di ampio raggio dei rapporti fra Usa e
Vaticano, ricostruendoli a partire dalla nascita dello stato americano fino ai
nostri giorni.
Per quanto concerne le fonti di carattere archivistico sono stati utilizzati per
questa ricerca alcuni documenti dell’Archivio Segreto Vaticano, e
segnatamente i fondi “Rappresentanze Pontificie, Delegazione Apostolica degli
Stati Uniti d’America”, “Segreteria di Stato”, e “Sacra Congregazione dei
Vescovi e Regolari”, ed i fondi “Gabinetto” e “Affari Politici, 1919-1930/1931-
1945” dell’Archivio Storico-diplomatico del ministero degli Affari Esteri.
Capitolo 1
La fase iniziale: i rapporti tra Vaticano e Washington fra il
Settecento e la Grande Guerra
1.1 Dalle origini alla rottura (1797-1867)
La seconda metà degli anni Trenta del ventesimo secolo rappresenta il periodo
storico in cui si concretizzò il riavvicinamento fra Santa Sede e Stati Uniti, sia
per quanto riguarda le relazioni politico-diplomatiche, sia da un punto di vista
socio-economico. Lunga fu però la gestazione di questa vicenda, che merita
dunque una ricostruzione storica che pone le sue basi nel XVIII secolo.
Ancor prima della nascita degli Stati Uniti esisteva sul territorio nordamericano
una cultura anti-papista profondamente radicata; a tal proposito il 4 agosto
1779 così scriveva John Adams al Congresso: “Congress will probably never
send a minister to his Holiness, who can do them no service, upon condition of
receiving a Catholic legate or nuncio in return; or, in other words, an
ecclesiastical tyrant, which, it is to be hoped, the United States will be too wise
ever to admit in their territories”1. Le parole di Adams riflettevano il
sentimento comune, nel neonato stato americano, di avversione alla Santa
Sede in quanto facente parte del “vecchio mondo Europa” nel suo insieme,
della quale avversione la Dichiarazione di indipendenza costituiva il manifesto,
la presa di distanza dalle diseguaglianze presenti in tutta Europa. Inoltre il
discorso di Adams al Congresso prefigurava quello che sarebbe stato il
prosieguo delle relazioni tra Stati Uniti e Vaticano, cioè un rapporto segnato,
per circa due secoli, da ostilità e incomprensioni.
Verso la fine del Diciottesimo secolo l’atteggiamento americano iniziò a
cambiare, innanzi tutto sotto la spinta di motivi di carattere commerciale: i
primi governi americani acconsentirono alle richieste di contatti più formali da
parte del Vaticano (fin dal 1783 la Santa Sede aveva manifestato il suo
interesse ad intrattenere rapporti diplomatici con la nuova Confederazione
americana) “in cambio” dell’apertura dei porti di Ancona e Civitavecchia alle
navi statunitensi, snodi essenziali per le merci americane dirette in Europa
orientale e nel Mediterraneo.
1 P. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill-London, North Carolina University Press, 2004, p.104, citato in Luca Castagna, Un ponte oltre l’oceano, Bologna, Il Mulino, 2011, p.47.
Fu proprio il presidente John Adams, in passato fervente oppositore delle
relazioni tra i due stati, ad inviare in Vaticano nel 1797 il primo console
americano, Giovanni Sartori, il quale fu uno degli undici consoli a
rappresentare gli interessi dell’America fino al 1867. Anche non essendo
ambasciatori il governo pontificio garantiva loro privilegi e favori inusuali, tra
cui quello di essere ricevuti a tutte le cerimonie ufficiali allo stesso modo con
cui erano ammessi i diplomatici delle altre nazioni. L’ufficio consolare, oltre a
proteggere gli interessi commerciali ed a occuparsi delle necessità degli
americani all’estero, offriva l’occasione di controllare, da una posizione
privilegiata, l’agitazione rivoluzionaria che si diffondeva in Europa nel XIX
secolo, come ad esempio testimonia un cablogramma inviato a Washington
nel 1831 dal successore di Sartori, Felix Cicognani, in cui si riferisce della
presenza di truppe austriache nello Stato Pontificio e del progetto di Gregorio
XVI di fuggire in Spagna.
Roma era un centro di raccolta di informazioni e la legazione nel Vaticano
costituiva un importante “punto di ascolto” non solo sulla Santa Sede ma su
tutta Europa2.
2 F. Cicognani lettera a M. Van Buren, Roma 21 febbraio 1831, in F.L. Stock, Consular Relations Beetween the United States and the Papal States: Instructions and Despatches, vol. II, ed. L.F.Stock, Catholic University Press, Washington, 1933, p.33, citato in Jim Nicholson, Usa e Santa Sede. La lunga strada, Roma, Trenta Giorni Edizioni, 2004, p.15.
L’ascesa di Pio IX al soglio pontificio favorì un salto di qualità nelle relazioni
diplomatiche fra Vaticano e Usa; l’impronta liberale che Mastai Ferretti diede
al suo pontificato venne accolta con entusiasmo negli Stati Uniti; così Di Nolfo:
“L’eco delle riforme di Pio IX raggiunse gli Stati Uniti e la tinta liberale di queste
riforme fece si che, accanto ai cattolici, anche altri esponenti del mondo
politico americano si trovassero affiancati nel sostenere l’opportunità di
istituire regolari relazioni diplomatiche tra i due Stati”3.
Nel giugno del 1847 Pio IX manifestò al console Brown il desiderio di stabilire
relazioni diplomatiche fra i due governi; nel dicembre dello stesso anno il
presidente Polk si espresse favorevolmente in proposito, elevando la qualifica
del funzionario da console a “chargé d’affaires”: un passo in avanti che scatenò
un aspro dibattito nel Congresso. Infatti nella seduta del 21 marzo 1848 il
Senato discusse la proposta di inserire nel bilancio federale uno stanziamento
di fondi per il chargé d’affaires presso il Papa; due furono gli argomenti a
favore dell’elevazione di livello della missione. Il senatore Lewis Cass,
favorevolmente impressionato dal sostegno che il pontefice stava mostrando
per i moti popolari europei, si espresse in favore dell’invio di un vero e proprio
ambasciatore , in base al fatto che la Santa Sede esercitava un potere
temporale morale. Nicholson ci riporta una parte del discorso di Cass: “Gli
3 Ennio Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 (dalle carte di Myron C. Taylor), Milano, Franco Angeli, 1978, p. 19.
occhi della cristianità sono sul suo sovrano. Egli ha dato il primo colpo al
dispotismo e il primo slancio verso la libertà. Molto ci si aspetta da lui…La
diplomazia d’Europa troverà pieno impiego alla sua Corte, e i suoi inviati più
esperti saranno lì in Vaticano. Anche il nostro governo dovrebbe esservi
rappresentato”4.
La seconda argomentazione in favore delle relazioni formali era sostenuta dal
senatore dello stato di New York John Dix, il quale sottolineava i benefici
commerciali di un rapporto più completo con il Vaticano. A dispetto di molti
altri senatori che valutavano lo Stato pontificio privo di interesse dal punto di
vista commerciale, Dix argomentava che: “A dispetto della depressa condizione
della dell’industria dello Stato Pontificio, non c’è Paese capace di una più ricca
e varia produzione; e se le misure della riforma in atto saranno portate avanti,
e la condizione sociale, così come quella politica, della popolazione sarà
migliorata dall’abrogazione delle cattive leggi, io non conosco nessuno Stato
della stessa grandezza che possa sperare in una maggiore prosperità”5.
Le obiezioni di carattere religioso ebbero un ruolo marginale nel dibattito del
1848. Una delle poche voci contrarie all’invio del chargé d’affaires, il senatore
Andrew Butler, sosteneva che la missione avrebbe avvantaggiato la religione
4 Dibattito sulla Missione presso lo Stato Pontificio, 21 marzo 1848, in Congressional Globe, Blair and Rives, Washington DC, 1848, p.405, citato in Jim Nicholson, op. cit., p.17.5 Ivi, p.18.
cattolica negli Usa. Ma Cass fu svelto nel fare l’importante distinzione che gli
Stati Uniti avrebbero inviato il loro rappresentante al Papa nella sua qualità di
sovrano e che questo non aveva nulla a che fare con il suo ruolo di capo della
Chiesa cattolica romana.
Alla fine il disegno di legge fu approvato e Jacob L. Martin fu nominato da Polk
come primo chargé d’affaires presso il Vaticano, però persistevano
preoccupazioni sui conflitti di carattere religioso, tanto che il segretario di
Stato Buchanan istruì Martin di: “evitare attentamente di interferire anche
minimamente nelle questioni ecclesiastiche, anche se queste avessero
riguardato gli Stati Uniti o qualsiasi altra parte del mondo”6.
Le vicende politiche italiane ed europee ben presto incrinarono la fama di
riformatore di cui Pio IX beneficiava, infatti dal punto di vista protestante
l’opposizione del Papa alla Repubblica romana costitutiva la conferma di come
l’iniziale slancio liberale del pontefice fosse stato transitorio. Nel frattempo,
nel periodo in cui i rivoluzionari costrinsero il Papa a rifugiarsi a Gaeta, vi fu un
episodio esemplificativo di quale fosse l’atteggiamento degli Usa verso il
Vaticano e Pio IX in particolare. Proprio a Gaeta, nel 1849, ebbe luogo la prima
visita di un papa sul suolo statunitense, visita che si trasformò in un disastro
6 Ivi, p. 19.
diplomatico. Il pontefice si trovava a colloquio con Ferdinando II di Borbone,
quando l’incaricato Usa a Napoli, John Rowan si vide, in qualche modo
“costretto” ad invitare le due personalità all’inaugurazione della fregata USS
Constitution, ormeggiata nel porto della cittadina. Il Papa e il Re furono accolti
a bordo dal capitano John Gwinn, il quale però, sottolinea Nicholson: “aveva
ricevuto un ordine scritto di non accogliere i due uomini a bordo perché
entrambi stavano difendendo i loro troni contro i rivoluzionari, e gli Stati Uniti
volevano mantenere una stretta neutralità…la USS Constitution non era
semplicemente un simbolo degli Stati Uniti d’America, ma secondo la legge
della marina militare, era suolo statunitense extraterritoriale”7. Sull’episodio
Massimo Franco: “il pontefice fece il mestiere di papa, incurante delle
implicazioni che qualunque suo gesto avrebbe avuto sull’opinione pubblica al di
là dell’Atlantico. Così…impartì benedizioni, andò a trovare i marinai, e regalò
corone di rosari ai cattolici dell’equipaggio, come se si fosse trovato davanti ai
pellegrini ricevuti in udienza”8. Ed ancora: “il pregiudizio imperante sull’altra
sponda dell’Atlantico era speculare alla profonda ignoranza vaticana sulla
complessità della società statunitense. L’ipersensibilità a ogni ingerenza, vera o
presunta, alla separazione netta fra Stato e religione, fra politica e fede, alla
7 Ivi, p. 20.8 Massimo Franco, Imperi Paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto 1788-2005, Milano, Mondadori, 2005, p. 35.
Santa Sede appariva eccessiva: non la comprendeva fino in fondo, e forse
sperava di aggirarla comportandosi con i cattolici del Nuovo Mondo come
faceva con quelli europei. Ma la differenza era fondamentale, e ogni passo
falso provocava reazioni incalcolabili, delle quali non si avvertiva la profondità
e alle quali si contrapponeva un misto di stupore e di senso di offesa, di lesa
sacra maestà”9.
Nel 1854 il Congresso elevò il rappresentante a Roma al rango di Minister, ma
nonostante questo la missione americana sembrava una sede sempre meno
ambita; questo per tutta una serie di ragioni, sia interne che esterne. Tra le
prime, il ferreo controllo dell’amministrazione statunitense, preoccupata dalle
possibili ripercussioni interne di qualunque apertura eccessiva verso il papa, e
soprattutto i salari ritenuti troppo bassi, perché il governo non poteva elargire
alte retribuzioni per una missione ritenuta illegittima dalla maggior parte
dell’opinione pubblica. Tra le ragioni esterne, il rigido e asfissiante protocollo
vaticano. Così tutti i ministri residenti a Roma dal 1854 al 1863 si dimisero
poco dopo la nomina; si tratta nello specifico di Cass, John Stockton,
Alexander W. Randall, e Richard M. Blatchford. Rufus King invece fu minister
per il periodo dal 1863 al 1867, e sarebbe stato l’ultimo rappresentante
americano presso la Santa Sede per un lungo periodo. L’arco temporale della
9 Ivi, p. 34.
missione di King fu un periodo complicato sia per gli USA, impegnati nella
guerra civile, sia per lo Stato Pontificio, impegnato a fronteggiare le crescenti
opposizioni al potere temporale del papa.
In questo periodo un incidente mise a dura prova le relazioni diplomatiche fra
Stati Uniti e Vaticano: nel 1863 Pio IX inviò una lettera agli arcivescovi di New
York e di New Orleans, uno geograficamente nordista e l’altro sudista,
rivolgendo loro un appello per la pace. Il presidente confederale Jefferson
Davis rispose alla lettera del papa, il quale a sua volta rispose, rivolgendosi
direttamente: "all’illustre e onorabile Jefferson Davis, presidente degli Stati
confederati d’America”10. L’atteggiamento del papa fu recepito dai nordisti
come una inopinata scelta di campo, nonostante il segretario di Stato vaticano,
Antonelli, negasse qualsiasi finalità politica; infatti secondo Franco: “ il guaio,
per la Santa Sede, era che quella lettera sembrava schierare Pio IX dalla parte
più retriva della società americana; e soprattutto, di quella perdente. Il
risultato fu di mantenere unito il clero americano; ma al prezzo di connotarsi
come chiesa conservatrice, lasciando ai protestanti la bandiera del progresso…
si sarebbe rivelata di lì a quattro anni uno dei motivi inconfessati della rottura
di fatto delle relazioni diplomatiche tra Washington e la Roma papalina”11.
10 Nicholson, op. cit., p. 22.11 Franco, op. cit., p. 37.
1.2 L’interruzione dei rapporti diplomatici ufficiali (1867)
Dalla fine del 1866 circolavano ormai insistentemente alcune voci, all’interno
dell’amministrazione americana, riguardanti l’imminente cessazione dei
rapporti diplomatici con la Santa Sede, considerata ormai un partner scomodo,
sia a livello di politica interna che estera.
Il pretesto per porre in essere la chiusura della delegazione a Roma fu una
diceria riguardante la libertà religiosa dei protestanti all’interno della Città del
Vaticano; infatti fin dalla prima missione americana presso il Vaticano, le
autorità pontificie avevano autorizzato la celebrazione delle funzioni religiose
protestanti, in un primo momento a casa del rappresentante americano,
successivamente, data la numerosa affluenza, in un appartamento rispondente
all’autorità degli Usa. Il New York Times riportava invece la notizia che il Papa
avesse impedito la prosecuzione delle cerimonie: fatto che lo stesso minister
americano, Rufus King, negava con decisione in una nota urgente indirizzata al
Dipartimento di Stato.
Nonostante gli sforzi di King, il 28 febbraio 1867, il Congresso approvò la legge
che proibiva di stanziare i fondi per qualunque missione diplomatica degli Stati
Uniti presso la Santa Sede12. In questo modo non si interrompevano
formalmente le relazioni diplomatiche, ma si impediva la possibilità che queste
proseguissero. Tutto ciò in larga parte era dovuto al venir meno delle ragioni
che avevano contribuito alla istituzione della missione, e al prevalere delle
ragioni che la avversavano. Al proposito Di Nolfo: “Nel 1867, all’indomani della
guerra di Secessione americana, l’importanza dei commerci con il Lazio, cioè la
sola parte degli Stati pontifici ancora nelle mani del Papa, era certamente assai
ridotta. Del pari il ruolo della Santa Sede come posto d’osservazione della
politica europea era decaduto, come pure la misura di simpatia di cui il Papato
e personalmente Pio IX potevano godere presso i liberali americani era
certamente assai ridotta”13.
Per quelli che, all’interno del Senato, erano stati fin dal primo momento
contrari, le relazioni diplomatiche con il Vaticano rappresentavano un
privilegio non dovuto concesso ai cattolici. Dopo il 20 settembre 1870 invece,
privato il pontefice di ogni potere temporale, il problema delle relazioni con la
Santa Sede acquisiva aspetti inediti e non sfuggiva a valutazioni riguardanti il
12 Nicholson, op. cit., p. 24.13 Di Nolfo, op. cit., p. 20-21.
carattere religioso dell’autorità pontificia. Franco sottolinea che: “in sostanza,
mano a mano che il ruolo del papato veniva circoscritto a livello territoriale e
messo in discussione politicamente, i senatori statunitensi, con notevole
anticipo rispetto alla caduta dello stesso Stato Pontificio, prendevano coscienza
della natura puramente religiosa o prevalentemente religiosa della missione
pontificia nel mondo”14.
Comunque sia la decisione del Congresso del 1867 risultò essere la prova più
eclatante del pregiudizio antipapista presente nella società e nella
amministrazione americana. Di qui in poi, si sarebbero avuti soltanto rapporti
frammentari e irregolari fra i due Stati, almeno fino al 1940, anno in cui si
riavviarono le relazioni diplomatiche formali.
14 Franco, op. cit., p. 59.
1.3 La ricerca di una difficile intesa: dal 1867 al tentativo di mediazione
del 1916-1918
Dal 1867 in avanti tra i due Stati ci furono solamente contatti informali, come
testimonia la quasi completa assenza di documenti negli archivi dei documenti
diplomatici americani.
Il ripristino dei fondi per la missione Usa presso il Vaticano non fu neanche
lontanamente preso in considerazione dai vari governi che si susseguirono,
però va notato che mentre sotto le amministrazioni repubblicane la questione
dei rapporti con la Santa Sede fu praticamente ignorata, con la vittoria dei
democratici alle elezioni del 1912 divenne presidente degli Stati Uniti
Woodrow Wilson, un anticattolico convinto.
Wilson aveva manifestato la sua avversione nei riguardi degli immigrati
cattolici in tempi non sospetti, già dal 1902, quando ricopriva la carica di
rettore della università di Princeton, quando scriveva : “now there came
multitudes of men of the lowest class fom the south of Italy and men of the
meaner sort out from Hungary and Poland, men out of the ranks where there
was neither skill nor energy nor any initiative of quick intelligence,…as if the
countries of the south of Europe were disburdening themselves of the more
sordid and hapless elements”15. Da presidente Usa, Wilson continuò a non
ascoltare le istanze dei cattolici, come in occasione della rivoluzione messicana
del 1915 quando appoggiò il governo Carranza, che perseguitava la chiesa
cattolica. Durante la Grande Guerra poi l’inconciliabilità tra le posizioni di
Benedetto XV e Wilson diventò assoluta, perché la posizione da cui partiva
Wilson era di completa opposizione alla diplomazia del Vaticano, che
considerava solamente una ingerenza fuori luogo di un leader spirituale negli
affari politico-internazionali: da qui l’opposizione alla partecipazione della
Santa Sede ad eventuali conferenze di pace e a qualunque arbitrato tra paesi
belligeranti. Per tutta risposta il Vaticano criticava l’amicizia verso gli Inglesi
sempre mostrata da Wilson e l’appoggio in forma di armi alle potenze
dell’Intesa.
Sottolineamo comunque il fatto che l’anticattolicesimo di Wilson va
indubbiamente inquadrato in un contesto, quello americano, frammentato e
di difficile composizione. Tra il 1875 ed il 1890 la popolazione cattolica degli
Stati Uniti decuplicò a causa delle migrazioni provenienti dall’Europa; il veloce
incremento del numero dei fedeli pose dunque la Chiesa cattolica di fronte
all’esistenza di una sempre più radicata comunità cattolica all’interno di una
15 W.Wilson, A History of the American People, vol. 5, Charleston, Bibliolife, 2009, p.212, cit. in Castagna, op. cit., p. 61.
società multietnica, multinazionale e pluralistica, che in quanto tale non
riconosceva al cattolicesimo il monopolio della verità religiosa, ma anzi, ne
osteggiava il carattere oscurantista. I sacerdoti più giovani, per integrarsi
finirono per rifiutare il centralismo di Roma, individuando i punti deboli della
Chiesa cattolica proprio nella mancanza di rinnovamento e nel formalismo più
rigido. Roma vedeva con sospetto le differenze e le istanze del clero
americano, avendo paura che esso nascondesse addirittura nel suo interno
velleità di snaturare il cattolicesimo. Dal Concilio Plenario dei vescovi di
Baltimora del 1884 il Vaticano ebbe due importanti risposte riguardanti la
composizione della Chiesa americana. Prima di tutto che l’ingerenza vaticana
negli affari dell’episcopato americano non poteva andare d’accordo con la sua
vocazione autonomistica e di collegialità; in secondo luogo che la Chiesa
americana non poteva avere una linea politico-culturale unitaria, con una
gerarchia composta da tedeschi, francesi e irlandesi ed una popolazione
formata da una moltitudine di nazionalità. La Chiesa statunitense era divisa tra
le piccole diocesi dell’Ovest e le grandi diocesi metropolitane della costa
orientale, era divisa poi politicamente tra conservatori e progressisti, ed era
infine divisa da motivazioni di ordine linguistico (con lo scontro tra i vescovi di
lingua inglese da un lato e quelli di lingua tedesca e francese dall’altro).
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale la Santa Sede prese una
posizione favorevole alla causa dello schieramento degli Imperi Centrali ed in
particolar modo dell’impero austroungarico; questo perché una possibile
vittoria austro-tedesca avrebbe potuto restituire al pontefice il potere
temporale perso a causa dell’unificazione d’Italia, oltre che proteggere la
numerosa popolazione cattolica austriaca. Tuttavia dopo l’ingresso in guerra
dell’Italia dalla parte dello schieramento dell’Intesa (quindi al fianco di Gran
Bretagna e Francia) e la sottoscrizione italiana del Trattato di Londra (nel quale
si stabiliva l’esclusione del Vaticano dai futuri negoziati di pace), il Vaticano,
vedendo sfumare la possibilità di successo per gli Imperi Centrali, cercò
attraverso la sua diplomazia di instaurare un rapporto più stretto con gli Stati
Uniti, tale da indurre gli Usa stessi a supportare Benedetto XV nel permettergli
di ricoprire un ruolo di primo piano nella composizione del conflitto.
Così, il 4 agosto 1915 il cardinale Gasparri, segretario di stato vaticano, lanciò
una comunicazione diretta a tutte le nunziature apostoliche, e diretta anche a
Giovanni Bonzano, che non era un diplomatico ma il delegato apostolico negli
Stati Uniti. La circolare metteva in luce, dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, le
difficoltà vaticane di comunicazione sia con gli Stati non alleati dell’Italia, sia
con quelli neutrali, dunque una sorta di boicottaggio delle comunicazioni da
parte delle autorità italiane. Castagna riporta le parole del cardinale Gasparri:
“era chiaro, adunque, che la situazione creata alla Santa Sede dai fatti del 1870
fosse divenuta essenzialmente precaria ed incerta poiché (dipendente) da
mutevoli circostanze di uomini e di avvenimenti…ma se il Santo Padre per
ragioni che è facile comprendere, non chiama eserciti stranieri a ristabilirlo sul
suo trono temporale, ciò non significa che i governi degli Stati cattolici, o che
contino dei cattolici fra i loro sudditi, non abbiano il diritto di preoccuparsi della
situazione anormale della Santa Sede; essi ne hanno anzi il dovere”16. Bonzano
avrebbe dovuto discutere di questi problemi con i diplomatici italiani residenti
a Washington, con il Dipartimento di Stato e con i diplomatici americani
presenti a Roma, oltre che con il Ministero degli Esteri, ma non avendo il
Vaticano canali diplomatici ufficiali con gli Usa, gli unici validi interlocutori di
cui la Santa Sede disponeva erano Bonzano stesso e l’unico cardinale
americano del momento, James Gibbons.
Per quanto riguarda Gibbons, dopo la sua nomina ad arcivescovo di Baltimora
nel 1872, aveva stretto rapporti cordiali con molti presidenti americani, ma
non con Wilson. J. T. Ellis racconta che: “la sua vanità lo portò ad enfatizzare
gli sporadici incontri avuti alla Casa Bianca col Presidente, di cui era solito
16 ASV, DASU, titolo V (affari esteri), pos. 68, f. 3r, Gasparri a Bonzano, Vaticano 4 agosto 1915, citato in Luca Castagna, op. cit., p. 64.
raccontare con inopportuna dovizia di particolari i contenuti ai giornalisti, con il
solo risultato di attirarsi l’antipatia di Wilson e del suo entourage già
tendenzialmente ostili alla Chiesa cattolica”17. Bonzano non aveva avuto
maggior successo; il delegato apostolico era rimasto ai margini delle scarse
relazioni che un ristretto gruppo di sacerdoti aveva con la politica statunitense.
All’atto pratico l’opera dei due ecclesiastici non ebbe gli effetti sperati, e non
riuscirono ad aiutare più di tanto la Santa Sede nel suo intendimento di
migliorare i rapporti con i governi facenti parte dell’Intesa e con gli Stati Uniti.
Nel gennaio del 1916 il Vaticano venne a conoscenza del contenuto
dell’articolo 15 del Trattato di Londra, in cui si escludeva di fatto la Santa Sede
dalla eventuale conferenza di pace che sarebbe seguita alla fine delle ostilità;
la Segreteria di Stato definiva ingiusta questa possibile esclusione “sia perché
la Santa Sede rappresenta la più alta autorità morale del mondo, sia perché
essa non può dirsi propriamente neutrale, ma imparziale nel presente conflitto,
giacché molti di coloro che trovansi in guerra sono suoi figli e sudditi, e quindi
non può equipararsi alle altre potenze strettamente neutrali”18.
La Delegazione Apostolica di Washington ricevette nuove istruzioni e Bonzano
avrebbe dovuto lavorare per ottenere l’interessamento del governo americano
17 J. T. Ellis, The Life of James Cardinal Gibbons, vol. 2, Milwaukee, Bruce Publishing Company, 1952, pp. 231-232.18 ASV, DASU, titolo V, pos. 68, f. 5, Gasparri a Bonzano, Vaticano, 17 gennaio 1916.
alla risoluzione della questione romana tramite una campagna di
sensibilizzazione da parte degli organi di informazione. Prontamente la stampa
cattolica americana sostenne le ragioni del pontefice, ponendo con forza
l’accento sul diritto del Santo Padre di avere voce nelle vicende internazionali,
oltre che auspicando una soluzione positiva e risolutoria riguardo il perduto
status del Vaticano.
Bonzano si adoperò per trovare la collaborazione degli editori cattolici e
ricevette pronta risposta soprattutto da Nicholas Gonner, direttore di “Catholic
Tribune” e di Richard Tierney, editore di “America”, la rivista dei Gesuiti.
Questa azione di propaganda risultò molto efficace solo in ambito cattolico
però non ebbe effetti positivi nello stemperare, per esempio, le istanze anti-
papiste dei protestanti, o nell’incentivare l’amministrazione ad impegnarsi
nella risoluzione della questione romana. L’azione di Giovanni Bonzano era
frenata oltretutto da un paio di problematiche: in primis lo status di
rappresentante pontificio presso la gerarchia ecclesiastica statunitense, e non
di diplomatico (non possibile in quegli anni vista la mancanza di relazioni
diplomatiche) lo costringeva ad agire con assoluta prudenza soprattutto con
l’opinione pubblica, non potendo riportare ufficialmente le posizioni della
Santa Sede; in secondo luogo l’enorme estensione del territorio degli Stati
Uniti, collegata alla giovane età dell’istituzione apostolica, rendevano difficile
per Bonzano poter contare su contatti affidabili in tutto il paese: “i rapporti tra
la Delegazione, il clero e la società civile erano decisamente meglio articolati
sulla costa atlantica; il fatto che Bonzano fosse dovuto ricorrere al vescovo di
Salt Lake City per questioni legate ad un giornale edito a Los Angeles,
d’altronde, è una dimostrazione di come, nonostante la fiducia della segreteria
di Stato, la Delegazione Apostolica non potesse esercitare efficacemente
quell’indispensabile ruolo di mediazione tra la gerarchia ecclesiastica e il ceto
dirigente federale”19.
Tra il 1916 ed il 1917 sembrò esserci la possibilità di un’intesa tra Vaticano e
Usa. Wilson nel dicembre del 1916 propose una conferenza di pace , in nome
delle potenze neutrali. Bonzano fu inviato da Gasparri a partecipare
all’incontro, riscontrando il gradimento del segretario di stato Lansing e della
Casa Bianca.
Allo stesso tempo il Vaticano cercava di carpire da Guglielmo II dei segnali di
apertura al negoziato; qualche giorno prima gli Imperi Centrali avevano
prospettato un’apertura per un negoziato di pace che però non era stato
accolto positivamente dalla diplomazia vaticana, la quale invece si mostrava
19 Castagna, op. cit., p. 83.
molto più interessata alla proposta di Wilson. Ma in che cosa consisteva la
proposta di pace del presidente americano?
Wilson la illustrò all’inizio del 1917: egli prospettava la necessità di una pace
senza vittoria, auspicando l’accettazione dalle parti in causa del ripristino dello
status quo precedente alla guerra, la creazione di un organismo internazionale,
ed il disarmo congiunto delle forze in guerra.
Invece che ottenere gli effetti sperati, la guerra entrava nella sua fase più acuta
e Wilson si rendeva conto della ormai assoluta necessità dell’ingresso degli Usa
nel conflitto, perché solamente un intervento americano risolutivo gli avrebbe
consentito di svolgere un ruolo di primo piano a guerra finita; ecco che “ il suo
stesso progetto di pace senza vittoria diventava raggiungibile solo attraverso la
vittoria di una delle due parti in causa”20.
Il 16 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra dichiarando guerra alla
Germania, evento che ebbe delle grosse ripercussioni anche sulla prosecuzione
delle strategie vaticane, considerato il fatto che la Santa Sede si era schierata
in un primo momento con gli Imperi Centrali, e la discesa in guerra americana
a fianco dell’Intesa dimostrava chiaramente quanto fosse stata inadeguata la
mediazione operata da Bonzano e Gibbons: “la crociata per la democrazia che
20 M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Laterza, Roma-Bari, 2008, p.204, citato in Castagna, op. cit., p. 87.
gli Usa si apprestavano ad iniziare non prevedeva alcun tipo di coinvolgimento
del pontefice, che, anzi, costituiva un ostacolo al perseguimento degli obiettivi
wilsoniani”21.
Oltretutto all’interno del mondo cattolico vi erano state reazioni molto diverse
all’entrata in guerra statunitense. L’episcopato americano sosteneva senza
riserve la decisione di Wilson, mentre la Santa Sede sembrava ormai
rassegnata a non collaborare con gli Usa per il futuro negoziato di pace;
testimonianza di questa rassegnazione il silenzio assoluto e la mancanza di
comunicazioni tra segreteria di Stato, Gibbons e la Delegazione Apostolica
nella primavera-estate del 1917, segnale questo di un cambiamento di
strategia del Vaticano per quanto concerne la mediazione per la pace. In effetti
con la dichiarazione di guerra americana alla Germania veniva meno la
possibilità di ottenere la salvaguardia della integrità territoriale austro-tedesca,
condizione principale per una eventuale soluzione della questione romana,
così la Santa Sede per riabilitarsi agli occhi dell’Intesa inviò nel maggio 1917
Eugenio Pacelli come Nunzio in Baviera. Il Vaticano, che in quel momento
credeva che dipendesse dalla Germania la possibilità o meno di arrivare ad un
negoziato di pace, chiese ai tedeschi la restituzione della regione dell’Alsazia-
Lorena, l’indipendenza del Belgio, e l’assenso alla riduzione degli armamenti.
21 Ivi, p. 88.
Ma anche questa iniziativa vaticana non ebbe l’effetto sperato, complice pure
il cambiamento di governo che portò alla nomina ai vertici dell’esercito di
Hindenburg e Ludendorff, con i quali fu sancita la supremazia dei militari sul
parlamento e sull’Imperatore.
La Santa Sede non aspettò la risposta definitiva tedesca riguardo le richieste
effettuate da Pacelli, e decise di rendere noto il suo piano subito, dal 1
agosto; in questo modo Benedetto XV non poteva essere accusato di un suo
accordo preliminare con la Germania, sfruttando il fatto che il 2 agosto le
potenze dell’Intesa si sarebbero riunite a Londra, avendo l’occasione così di
discutere il documento pontificio.
Il 1 agosto 1917 Benedetto XV promulgò la “Lettera ai capi dei popoli
belligeranti”. Essa costituiva “un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle
Nazioni”, con essa il pontefice intendeva sottolineare il primato della forza
morale del diritto sulla forza materiale delle armi, e auspicava: “un giusto
accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti…e,
in sostituzione delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione
pacificatrice…si tolga ogni ostacolo alle vie della comunicazione dei popoli con
la vera libertà e comunanza dei mari”. Sulle questioni territoriali: “ma questi
accordi pacifici…non sono possibili senza la reciproca restituzioni dei territori
attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia
del Belgio…sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione
delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come
quelle ad esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e la
Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura
con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito
conciliante, tenendo conto…delle aspirazioni dei popoli”.
Purtroppo non vi furono risposte positive da parte dei governi dei paesi in
guerra.
In particolar modo gli Stati Uniti non accolsero positivamente il documento
pontificio; infatti dai documenti diplomatici americani veniamo a conoscenza
del fatto che il Segretario di Stato Lansing in una lettera a Wilson del 13 agosto
del 1917 credesse che la Nota di Benedetto XV: “emanates from Austra-
Hungary and is probably ssanctioned by the German Government”22. Con
l’ambasciatore italiano Lansing non seppe nascondere la sua irritazione, né:
“trattenersi dal confidare che la proposta del Vaticano non poteva cadere in
questo momento meno opportuna”23.
22 FRUS, LP, vol. 2, The Secretary of State (Lansing) to President Wilson, Washington 13 agosto 1917, p. 43.23 ASMAE, APOG, b. 177, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington 14 agosto 1917, CITATO IN Castagna, op. cit., p. 92.
Il 27 agosto Wilson prese posizione anche a nome dei governi alleati, inviando
una lettera all’ambasciatore americano in Gran Bretagna, Nelson Page; con
questo documento il presidente degli Stati Uniti voleva inviare una risposta
ufficiale alla Santa Sede, infatti il presidente chiedeva all’ambasciatore di
inoltrare il messaggio al Ministro degli Esteri Balfour, il quale avrebbe avuto il
compito di far arrivare la risposta al Santo Padre.
Secondo Wilson la Nota di Benedetto XV mirava ad una riaffermazione dello
status quo ante bellum, tralasciando però il fatto che: “the intolerable wrongs
done in this war by the furious and brutal power of the Imperial German
Government ought to be repaired, but not at the expense of the sovereignty of
any people”24; e ancora, lo scopo della partecipazione degli Usa al conflitto era:
“to deliver the free peoples of the world from the menace and the actual power
of a vast military establishment controlled by an irresponsible government
which, having secretly planning to dominate the world, proceeded to carry the
plan out without regard either to the sacred obligations of treaty or the long-
established practices and long-cherished principles of international action and
honor”25. Il regime tedesco per Wilson non rappresentava un interlocutore
attendibile per instaurare una futura trattativa di pace: “we can not take the
24 FRUS, 1917, Supplement 2, Vol. 1, The Secretary of State (Lansing) to the Ambassador in Great Britain (Page), Washington 27 agosto 1917, p. 179.25 Ivi, p. 178.
word of the present rulers of Germany as a guarantee (…) we must await some
new evidence of the purposes of the great peoples of the Central Empires”26. Il
Presidente credeva che il messaggio del papa fosse più una richiesta di
armistizio che, come riporta Castagna: “un mezzo per smuovere le coscienze
europee ed indurle a combattere il dispotismo. Riaffermando l’inconciliabilità
tra i presupposti stessi dell’iniziativa papale e le ragioni della guerra condotta
dai governi alleati, quindi, le parole del Presidente statunitense posero una
seria ipoteca sull’esclusione della Santa Sede dai negoziati di pace”27.
La risposta di Wilson riscosse grande ed immediato successo presso i Paesi in
guerra contro gli Imperi Centrali, e tutti concordarono nel ritenere la proposta
del pontefice molto favorevole alla Germania.
Leggiamo sempre dai documenti diplomatici statunitensi la posizione di Gran
Bretagna e Francia rispetto alle dichiarazioni del presidente americano.
Da Londra l’ambasciatore Page rendeva noto al governo, il 30 agosto del 1917,
che: “the reception of the President’s answer to the Pope by the government,
the press, and (…) by the whole British public, is more enthusiastic than the
reception of any previous declaration”28.
26 Ivi, p. 179.27 Castagna, op. cit., p. 94.28 FRUS, 1917, Supplement 2, Vol. 1, The Ambassador in Great Britain (Page) to the Secretary of State, Londra 30 agosto 1917, p. 181.
Da Parigi Sharp rendeva noto che la posizione statunitense era in linea con la
posizione dei Paesi alleati: “there is common accord that the views therein
expressed are thoroughly representative of those held by the Allied powers,
and they are especially welcomed at this time as forecasting the nature of
conditions upon which a satisfactory and permanent peace can come”29.
Va sottolineato il fatto che la Santa Sede oltre alla contrarietà delle potenze
dell’Intesa dovette registrare anche il mancato supporto di Paesi sui quali la
diplomazia vaticana credeva di poter contare, come la Spagna, la quale
riconobbe: “il cuore paterno della Santa Sede” aggiungendo che “avrebbe
voluto trovare una formula che in uno spirito di giustizia portasse al mondo il
beneficio della pace”30.
Negativo in generale anche il giudizio sulla Nota della stampa statunitense; in
special modo il “New York Times” il quale in buona sostanza accusa Benedetto
XV di aver lasciato irrisolti i veri problemi del conflitto, equiparando le
responsabilità morali di tutti i paesi belligeranti. In contrapposizione alla
maggior parte della stampa degli Stati Uniti e quindi a difesa delle affermazioni
del Papa, si mosse soprattutto la stampa cattolica americana, che iniziò una
vera e propria opera di demolizione delle critiche provenienti dai quotidiani
29 Ivi, The Ambassador in France (Sharp) to the Secretary of State, Parigi 31 agosto 1917, p.182.30 ASMAE, APOG, b. 177, Comunicazione dell’Ambasciatore in Spagna, trascritta da Sonnino il 13 settembre 1917, citato in Castagna, op. cit., p. 95.
americani; in particolar modo si distinsero la rivista dei gesuiti, “America” e
“The Catholic World”.
Pur avendo insistentemente difeso la Nota, la stampa cattolica, fino al
dicembre 1917 ,non aveva sottolineato i possibili punti di contatto tra la Nota
stessa e la posizione di Wilson: invece fu con l’articolo del conte Giuseppe
Dalla Torre che fu considerata una possibile comunanza di vedute tra il testo
del Papa e le azioni del Presidente31. L’articolo descriveva la visione politica di
Benedetto XV soprattutto sulla riorganizzazione interna delle nazioni, e
Castagna sottolinea il fatto che: “dopo circa un mese di silenzio, esso, inoltre,
lasciava intendere che la Santa Sede avesse accolto con meraviglia la risposta
negativa degli Stati Uniti a nome degli alleati, dal momento che la Nota, in
sostanza, riaffermava gli stessi principi esposti da Wilson durante l’inverno
1916-1917”32.
Ma in modo ancor più veemente la stampa cattolica si mosse dopo la
enunciazione da parte del Presidente Wilson, dei suoi quattordici punti, cioè
dopo l’8 gennaio 1918.
I giornali cattolici volevano si accentuare le similitudini tra la Nota ed i
Quattordici punti, ma volevano ancor di più alimentare la polemica contro
31 Ivi, p. 98.32 Ivi, p. 99.
l’articolo 15 del Trattato di Londra, che di fatto escludeva la Santa Sede
dall’eventuale conferenza di pace. La mobilitazione della stampa cattolica
iniziò da Pittsburgh con il direttore di “The Messenger” John Wynne, ma si
estese ben presto alla costa atlantica e a tutto il Paese.
L’emendamento dell’articolo 15 era sempre più l’obbiettivo principale della
diplomazia vaticana; e proprio a questo proposito arrivavano segnali
incoraggianti soprattutto da Londra. Gasparri auspicava una azione di Gibbons
atta da un lato a mettere pressione sul presidente Usa e dall’altro lato a far
pesare l’influenza dei cattolici nei Paesi alleati; però durante la sua prima
missione a Roma Sigorney Fay, il delegato della Croce Rossa americana in
Italia, convinse il segretario di Stato vaticano della difficoltà di un’azione
diretta con Wilson consigliando invece di contattare l’ambasciata inglese a
Washington, in quanto egli intratteneva ottimi rapporti sia con il ministro degli
Esteri lord Balfour che con l’ambasciatore presso la Santa Sede de Salis, e
sapeva per certo che la campagna dei giornali cattolici statunitensi avevano
impressionato il governo britannico, che sembrava considerare l’opportunità
di abolire l’articolo 15. Il cardinale Gibbons seguì le direttive di Fay, così la
rivista “America” pubblicò un articolo in cui si spingevano i cattolici a
supportare Benedetto XV nel momento del bisogno. Il 24 febbraio Gibbons
incontrò l’ambasciatore inglese Reading, e partendo dalla considerazione che
solamente nell’esercito statunitense i soldati cattolici erano il 35 per cento del
totale, l’ipotesi, vagheggiata dal cardinale, della creazione di un fronte
internazionale deciso nel sostenere la richiesta di partecipazione del Vaticano
alla conferenza di pace, intimorì lord Reading tanto da spingerlo ad inviare al
ministro Balfour un telegramma con le osservazioni di Gibbons e la richiesta
urgente di ascoltare il parere degli Alleati a modificare il patto segreto del
191533. In realtà il governo americano rimase ancorato alle sue posizioni.
L’atteggiamento dell’Italia riguardo l’eventuale modifica dell’articolo 15 era di
totale chiusura. Il ministro degli Esteri Sonnino, dal marzo 1918, era a
conoscenza di una lettera in cui Gasparri attribuiva all’ambasciata italiana negli
Usa la diffusione di alcune notizie per cui sarebbe stata “riprovata la complicità
vaticana nella campagna austro-tedesca, e che l’Austria ha promesso al
Vaticano il ristabilimento del potere temporale”34. Nel luglio 1918 poi gli
ambasciatori italiani a Washington, Londra e Parigi vennero a conoscenza,
tramite il ministero, della proposta di modifica dell’articolo 15 discussa da lord
Balfour e dal cardinale belga Mercier su suggerimento di Gasparri35; tale
proposta equiparando la condizione di tutti i Paesi non belligeranti, minacciava
33 Ivi, p. 103.34 ASMAE, APOG, b.177, Monti a Sonnino, Roma 14 marzo 1918.35 Ivi, Sonnino alle Ambasciate di Parigi, Londra e Washington (telegramma n. 1111), Roma 3 luglio 1918.
di togliere al governo italiano il potere di veto sull’ammissione della Santa
Sede alla conferenza di pace. Osservava Sonnino: “Per mio conto noi non
possiamo in alcun modo consentire che si ponga in discussione qualsiasi
revisione, modificazione o sostituzione delle disposizioni sancite”36, chiedendo
alle ambasciate di : “agire sollecitamente per sventare tentativo della Santa
Sede tenendomi esattamente informato del seguito della questione”37.
Il timore principale di Sonnino era un cedimento del presidente Wilson in
seguito all’iniziativa inglese, e infatti il 2 agosto egli scriveva all’ambasciatore a
Washington, Macchi di Cellere: “Vengo informato in via confidenzialissima che
il Vaticano lavora costà per ottenere che il Presidente Wilson prenda iniziativa
presso Regio Governo per raccomandare modificazione dell’Art. 15 della
Convenzione di Londra, nel senso che tutte le potenze alleate convengano tra
loro che nessuno Stato neutrale possa essere ammesso alla Conferenza della
pace senza il loro consenso”38.
Secondo Macchi di Cellere però l’Italia doveva stare tranquilla, perché il
governo americano: “rifugge e rifuggirà fino all’ultimo da qualunque
dichiarazione e manifestazione non dirò impegnativa ma soltanto
compromettente (essendo) in piena dissonanza colle tendenze e aspirazioni
36 Ibidem.37 Ibidem.38 Ivi, Sonnino a Macchi di Cellere, (riservato), Roma 2 agosto 1918.
vaticanesche”39. Alle impressioni dell’ambasciatore italiano seguivano poi delle
confidenze, raccolte dallo stesso Macchi di Cellere, di Lansing: “Siamo una
repubblica, né al pari della Francia, della Svizzera e altre repubbliche sentiamo
il bisogno di stringere rapporti colla Santa Sede, le cui finalità – aveva confidato
il segretario di Stato – sono in aperto contrasto con gli ideali democratici
dell’America”40; quindi le parole di Lansing erano estremamente chiare
riguardo gli intendimenti degli Usa. A tal proposito il governo americano aveva
reso noto in più occasioni la sua decisa e ferma volontà di non voler in alcun
modo scendere a compromessi né sulla questione della dissoluzione
dell’impero Austro-ungarico né sul coinvolgimento della Santa Sede nella
Conferenza di pace. Non contenta dei risultati ottenuti, la segreteria di Stato
vaticana, tramite la Delegazione apostolica a Washington, fece pervenire al
presidente Wilson il testo di un appello di pace firmato da Benedetto XV; la
risposta del presidente destò preoccupazione in Vaticano: si trattava di una
lettera fredda e formale “quasi un atto di cortesia, inoffensivo nella misura in
cui evitava accuratamente di affrontare gli argomenti su cui invece il pontefice
sperava che il Presidente si pronunciasse”41.
39 Ivi, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington 24 agosto 1918.40 Ibidem.41 Citato in Castagna, op. cit., p. 107.
1.4 Strategie vaticane tra la fine della Grande Guerra e Versailles (1918-
1920)
Le potenze dell’Intesa, vincitrici del conflitto, dovettero costruire a Versailles
un nuovo ordine mondiale. La Conferenza durò sei mesi, dal gennaio al giugno
del 1919.
Wilson anticipò il suo arrivo in Europa per concertare con gli alleati la strategia
comune da portare avanti durante le consultazioni. A questo scopo visitò la
Francia, la Gran Bretagna e l’Italia. Proprio il viaggio in Italia, programmato per
la prima parte del gennaio 1919, rappresentò per il Vaticano una ulteriore
occasione per provare a convincere Wilson a rimettere mano all’articolo 15 del
Patto di Londra e a trovare una soluzione della questione romana.
Dagli Usa il vescovo Hayes, futuro arcivescovo di New York, stava mettendo
insieme un gruppo di personalità americane che potessero, con la loro
influenza, facilitare un incontro tra il Presidente e Benedetto XV. Nel frattempo
il cardinale di Boston, William Henry O’Connell, esprimeva la propria
contrarietà all’esclusione del Vaticano dalla Conferenza, e criticava l’eccessiva
deferenza del cardinale Gibbons riguardo all’appello del cardinale formulato il
27 novembre, nel quale Gibbons chiedeva a Wilson di incontrare il pontefice
durante la sua permanenza a Roma; a tale richiesta il Presidente non rispose
chiaramente, ma ringraziò per il suggerimento. Si trattava chiaramente
dell’ennesima bocciatura per Gibbons, che dimostrava come, negli anni, non
avesse esercitato la minima influenza e capacità di convincimento nei
confronti del presidente Usa.
Alla fine, anche se più per etichetta che per sincero convincimento, Wilson
incontrò Benedetto XV, il 9 gennaio 1919. Probabilmente fu il suo consigliere
personale, Joseph Tumulty, a fargli cambiare idea42. Castagna: “Quando (…) si
era delineata la possibilità di una visita al papa, il Presidente aveva
impulsivamente rifiutato. Tra le forze che egli intendeva mobilitare a sostegno
del suo progetto di pace non figurava la chiesa cattolica, oppure, se mai ci
fosse stata, avrebbe senz’altro avuto un ruolo marginale. Le sue difficoltà a
42 FRUS, 1919, The Paris Peace Conference. Vol. 1, Tumulty a Wilson, Washington 18 dicembre 1918, p. 150.
relazionarsi col Vaticano, d’altronde, non erano mai state solamente
confessionali. Infatti, se, da presbiteriano, aveva sempre seguito con diffidenza
l’espansione dell’elemento cattolico, come leader politico non intendeva, nota
Danilo Veneruso, subire la concorrenza di una democrazia alimentata dal
cristianesimo quale era stata delineata nella proposta di pace di Benedetto”43.
Dell’incontro non vi è quasi traccia nei documenti ufficiali americani né negli
archivi vaticani, a testimonianza del fatto che, nonostante le aspettative della
Santa Sede, fu un colloquio privo di spunti significativi, e nel quale non
vennero trattate questioni riguardanti la successiva conferenza di Parigi.
L’argomento dell’indipendenza dallo Stato italiano divenne il nuovo tema che il
Vaticano cercò di introdurre alla conferenza di Parigi dopo il fallimento
riguardo alla partecipazione ai negoziati; il compito di portare a Parigi il tema
della sovranità territoriale del Papa fu affidato all’arcivescovo di Bruxelles,
Mercier. Ma il cardinale, nonostante il prestigio personale di cui godeva presso
i vincitori, non riuscì a smuovere le acque in quel senso, anzi non ebbe
successo nemmeno la sua iniziativa volta a concludere le trattative di Versailles
con un rito religioso nella cattedrale di Notre Dame.
43 Citato in Castagna, op. cit., p. 110.
Segnali migliori , dalla primavera del 1919, arrivarono alla Santa Sede dalla
delegazione italiana a Versailles: in seguito alla questione della Dalmazia e di
Istria, Vittorio Emanuele Orlando ed il ministro Sonnino lasciarono la
conferenza chiedendo aiuto alla Santa Sede per quanto riguardava la città di
Fiume, offrendo in cambio l’impegno italiano nella risoluzione della questione
romana.
Era la prima volta che il governo liberale, di solito sordo rispetto alle richieste
pontificie, mostrava la buona volontà di collaborare con il Vaticano. Nel
giugno 1919 ci fu l’incontro tra Orlando e l’incaricato apostolico Bonaventura
Cerretti; tuttavia le trattative fra Vaticano e Italia cessarono prematuramente a
causa della imminente caduta del governo Orlando.
Nel febbraio del 1920 Gasparri esortava Bonzano ad agire verso Wilson per
fargli assumere: “un atteggiamento più favorevole verso l’Italia mettendo in
evidenza che altrimenti la pace interna Italia sarebbe gravemente
compromessa con gravi ripercussioni in tutta Europa”44; Bonzano interpellò
quindi dei personaggi che potevano risultare importanti per ottenere tale
scopo: in particolare l’arcivescovo di Philadelphia Dennis Dougherty disse a
Bonzano di essersi mosso con il Ministro della Giustizia Palmer, e Patrick Hayes
44 ASV, DASU, titolo V, pos. 101, f.3 Gasparri a Bonzano, Vaticano 23 febbraio 1920.
di New York voleva esporre il problema al nuovo segretario di Stato Bainbridge
Colby, in occasione della cerimonia per il suo insediamento. Entrambi
dovevano ammettere che quello non era il momento migliore per esporre la
questione al Presidente.
Wilson, per arrivare alla conclusione degli incontri di Versailles con dei risultati
concreti, dovette mediare tra le varie richieste dei Paesi partecipanti. Il
Trattato del 28 giugno 1919 non fu accettato serenamente negli Stati Uniti; le
obiezioni erano molteplici, però si sottolineava soprattutto la limitazione della
sovranità nazionale degli Usa derivante dalla partecipazione alla Società delle
Nazioni. L’operato di Wilson a Parigi veniva criticato in particolar modo dalla
corrente internazionalistica dei repubblicani, e da una parte degli intellettuali
di simpatie democratiche; situazione non facile in vista delle presidenziali del
1920. Successivamente, nel novembre del 1919, e poi definitivamente nel
marzo del 1920, il Senato americano non ratificò né il trattato di pace né
l’adesione alla Società delle Nazioni, ma ancor prima di questi eventi il
presidente americano era stato colpito da un infarto che compromise di molto
la sua operatività; in un momento così delicato, sia a livello politico che
personale, Wilson non considerò nemmeno lontanamente la possibilità di
soddisfare le rivendicazioni territoriali del Vaticano, ma egli non sarebbe stato
ancora a lungo l’interlocutore della Santa Sede. Alle elezioni presidenziali del
1920 trionfarono i repubblicani, e Warren Harding divenne il nuovo
presidente.
Capitolo 2
Santa Sede e Stati Uniti: la transizione degli anni Venti
(1920-1930)
2.1 La fase successiva alla guerra: il dopo Wilson
Negli Usa, nella fase immediatamente successiva alla guerra, si diffuse un
radicato senso di insoddisfazione e delusione. Le basi sulle quali il presidente
Wilson aveva cercato di fondare, o meglio di rifondare, il sistema
internazionale, si erano rivelate troppo deboli o non adeguate.
Dunque nel dopoguerra, scemato l’entusiasmo della fase iniziale in cui gli Usa,
spinti dal proprio presidente, sembravano poter interpretare il ruolo di Paese
leader di un nuovo, democratico, ordine internazionale, si cominciò a
ragionare sulle contraddizioni dell’impianto universalistico wilsoniano: il
Wilsonismo, e la guerra, furono percepiti come eventi negativi. Nel dibattito
interno americano dell’epoca prendeva corpo l’ipotesi che il vero errore fosse
stato il fatto di avere anteposto agli interessi nazionali presunti obblighi
internazionali, non capendo che la leadership economico-finanziaria,
indiscutibilmente a stelle e strisce, non era automaticamente trasferibile sul
piano politico e diplomatico, anche con uno strumento efficace in prospettiva
come la Società delle Nazioni.
Ecco così che la necessità primaria delle amministrazioni repubblicane che si
succedettero dopo la guerra fu quella di prendere le distanze dal wilsonismo.
Questa esigenza si manifestò attraverso un atteggiamento molto più mite in
politica estera, più conservatore ma non per questo isolazionista, che, secondo
il Castagna: “da un lato, era alimentato dal desiderio di oblio della guerra, ma,
dall’altro, faceva propria la convinzione che fosse necessaria l’attivazione di
meccanismi che ne impedissero il ripetersi”45.
Durante gli anni venti le amministrazioni americane ebbero come scopo
principale quello di affrancarsi il più possibile dagli schemi del wilsonismo,
comportando nei rapporti con la Santa Sede il ritorno alla situazione pre-
bellica, una situazione fatta di indifferenza a livello diplomatico e di avversione
ideologica dal punto vista confessionale.
L’anti-papismo di Wilson risultava da una parte comune alle istanze
ideologiche della cultura wasp, dall’altra palesava una forte idea di
inconciliabilità di fondo tra il proprio ideale di ricostruzione del sistema
internazionale e quello di Benedetto XV.
La prima guerra mondiale aveva consacrato gli Stati Uniti come prima potenza
mondiale; il centro del potere non risiedeva più nella vecchia Europa, anche
perché gli Usa si apprestavano a rivestire il ruolo di Paese creditore con il quale
tutti i Paesi europei, e non solo, avevano ingenti debiti. L’auto-esclusione
americana dalla Società delle Nazioni raddoppiò le incertezze caratterizzanti la
politica internazionale degli anni Venti, ma fu compensata dall’attivismo sul
fronte economico-commerciale, dove gli Usa assunsero una posizione di
45 Luca Castagna, op. cit., p. 117.
avanguardia nelle iniziative più importanti. Si creò un legame molto stretto tra
stabilità internazionale, primato statunitense e recupero dei crediti di guerra,
dal quale legame derivava l’impegno americano atto a creare i presupposti
per una ripresa delle sofferenti economie europee da cui dipendevano sia la
stabilità politica europea, sia il ridimensionamento delle spinte rivoluzionarie.
Nell’agenda delle priorità statunitensi del dopoguerra non secondario risultava
essere l’impegno per risanare gli squilibri determinatisi a Versailles, oltre che le
questioni riguardanti il disarmo e le riparazioni. Queste le direttive di politica
estera americana che si trovarono a dovere affrontare le tre amministrazioni
repubblicane che governarono dal 1921 al 1933.
L’opinione pubblica americana accolse con grande entusiasmo l’avvento dei
repubblicani, e Warren Harding vinse forse proprio perché non poteva essere
identificato con nessuno dei progetti per ristrutturare gli Stati Uniti. Ne delinea
un profilo puntuale Luca Castagna: “Contrariamente agli altri potenziali
candidati del Grand Old Party (…) egli non aveva mai provato a rivivere il
Trattato di Versailles e la Società delle Nazioni. Le sue idee su gran parte delle
controverse questioni di quel periodo, solitamente espresse con un’oratoria
zeppa di luoghi comuni, erano indefinite, per cui, durante la campagna
elettorale, si limitò a fare una dozzina di dichiarazioni, senza mai chiarire quale
fosse la propria posizione. Eppure, nelle presidenziali del 1920 ciò bastò per
ottenere il successo”46. Lunga è la lista delle motivazioni che spinsero gli
elettori statunitensi a cambiare voto e ad accordare la propria preferenza ai
repubblicani. Gli americani erano stanchi degli enormi sacrifici causati dalla
guerra, della sterile discussione interna sulle modalità della pace e dei capricci
degli alleati europei; ma soprattutto, dopo il 1919, erano impauriti dalla
massiccia ondata di scontri razziali e dalla drammatica recessione economica.
Sentimenti comuni sia tra i professionisti, che temevano ora la violenza dei
radicali e dei lavoratori in sciopero, sia tra i diversi gruppi etnici, soprattutto
irlandesi, italiani e tedeschi, che ritenevano gli accordi di Versailles
esageratamente filo-inglesi.
Harding, in un discorso tenuto a Boston nel 1920, sembrò poter assecondare
tutte le speranze e i bisogni degli americani, promettendo agli Usa quello di cui
il paese aveva più bisogno in un contesto simile: il ritorno alla normalità.
2.2 Il nativismo anti-cattolico ed il National Catholic Welfare Council
46 Citato in Castagna, op. cit., p. 124.
Gli Stati Uniti, negli anni 20, erano una nazione che attraversava una fase di
transizione, in cui nacque e si sviluppò velocemente una poderosa ondata
nazionalistica. Mario Del Pero definì questo ritorno al nazionalismo “quella
bestia di patriottismo”, e possiamo raggruppare in esso il fondamentalismo
religioso, il proibizionismo, il libertarismo; tutte manifestazioni del nativismo,
alla base delle quali vi era una profonda esigenza di stabilità ed ordine.
Gli americani intimoriti dalla possibilità della degenerazione della questione
razziale e dal declino della nazione pensarono che dando la propria preferenza
elettorale ai repubblicani sarebbero riusciti a porre le condizioni per una
restaurazione dell’equilibrio sociale antecedente alla prima guerra mondiale.
Ciò, per quanto concerne i rapporti etnici, doveva palesarsi in una
predominanza dei protestanti bianchi sulle altre “razze”: si trattava della
mobilitazione compatta della grande massa dell’America wasp che difendeva
la propria identità dai possibili attacchi da parte di minoranze etnico-razziali.
Fu un vero e proprio conflitto culturale tra i nativi bianchi e protestanti e le
altre razze “emergenti”, in particolare tedeschi ed irlandesi.
Durante la metà del 1920, in seguito all’aumento degli sbarchi di nuovi
immigrati ad Ellis Island, e soprattutto dopo l’adozione da parte del Congresso
del National Origins Act del 1924, il movimento nativista prese nuova linfa. Vi è
da sottolineare il fatto che il nativismo non esaurì la propria carica ideologica e
culturale nell’anglo-sassonismo e nelle altre espressioni di intolleranza,
conformismo etico e conservatorismo politico, bensì esso esplicitò il suo
devastante potenziale estremistico attraverso l’anticattolicesimo.
Il movimento propriamente chiamato “nativismo” non aveva come scopo
principale quello di esaltare il protestantesimo, né aveva l’obiettivo di colpire i
cattolici o gli ebrei per la loro religione, ma intendeva privilegiare chi era nato
e vissuto sempre negli Stati Uniti. I nativisti si scagliavano contro le persone
non assimilabili ai valori del nuovo continente, proprio per questo motivo il
Vaticano era odiato, perché con la sua gerarchia non permetteva
l’assimilazione, o per dirla come Massimo Franco: “era un ostacolo a quella
mescolanza virtuosa e indispensabile perché tutti si riconoscessero nella nuova
nazione-continente”47.
L’avversione al cattolicesimo aveva radici profonde nella storia e nella cultura
degli Stati Uniti: fin dal 1800 la fede cattolica era il bersaglio preferito
dell’opinione pubblica protestante, e la pubblicista aveva nella critica
all’operato dei papi il proprio passatempo favorito. Negli anni Trenta
dell’Ottocento il reverendo Brownlee, direttore di una delle riviste
47 Massimo Franco. Op. cit. p. 51
anticattoliche più famose del tempo (l’American Protestant Vindicator),
sostenne la tesi di una cospirazione papale internazionale avallata dai
monarchi cattolici d’Europa per distruggere la libertà degli americani
attraverso l’infiltrazione degli immigrati nel tessuto sociale del Paese. Inoltre
era radicata la convinzione che, negli Usa, i cattolici privilegiassero sempre
l’obbedienza ai dettami del pontefice anche quando questi fossero non
compatibili con gli interessi degli Stati Uniti. L’anti cattolicesimo era fin dalle
origini condiviso tra democratici e repubblicani, e prese nuova linfa in seguito
all’incremento demografico nazionale di fine Ottocento, che fu determinato
dall’ingresso negli Usa di grandi flussi di immigrati europei, perlopiù cattolici.
L’American Protective Association (Apa), sottolineava spesso e volentieri la
contrapposizione fra americanismo e cattolicesimo, e nonostante i cattolici
parteciparono alla Grande Guerra con il notevolissimo numero di circa quattro
milioni e mezzo di unità, questo non bastò a fare affievolire i toni delle voci
contrarie dei protestanti.
Nel dopoguerra il movimento nativista mantenne una marcata matrice anti-
cattolica, che proliferò velocemente soprattutto nelle province del Sud degli
Stati Uniti. Il terreno fertile per questa dilagante ondata nativista fu il clima di
generale insicurezza creatosi in seguito alle nuove ondate immigratorie che
stavano stravolgendo gli equilibri demografici ed economici. Quindi i piccoli
centri e le aree rurali guardavano con grande preoccupazione alla mescolanza
di razze e di religioni presente nelle grandi città, alimentando il nuovo
fondamentalismo protestante: numerosi furono i circoli intellettuali che si
fecero promotori del recupero dei valori tradizionali dell’America del secolo
passato, in contrapposizione al declino morale verso il quale la società
americana sembrava destinata. Comunque il nativismo anti-cattolico non ebbe
a livello nazionale lo stesso livello di intolleranza raggiunto negli Stati del Sud.
E’ interessante analizzare quale fosse, nel momento di maggior proliferazione
dei movimenti nazionalisti anti-cattolici , l’atteggiamento della politica
statunitense nei confronti dei cattolici stessi, quali fossero i contraccolpi nei
rapporti con la Santa Sede, e quale la reazione dei cattolici statunitensi. Le
amministrazioni repubblicane che si successero negli anni Venti non misero in
atto iniziative di forte opposizione ai nativisti. Lo stesso Harding non si
dimostrò troppo interessato alla vicenda. Per quanto riguarda invece la
possibilità di una ripresa delle relazioni diplomatiche con il Vaticano, il
disinteresse del nuovo presidente era dovuto più a motivazioni di
opportunismo politico che a ragioni di carattere ideologico (Harding non era di
certo un fervente antipapista come Wilson); però sotto la presidenza Harding
qualcosa iniziò a cambiare: non ci furono contatti diretti espliciti tra i due Stati,
ma, nel momento di maggiore forza del movimento nativista, il cattolicesimo
statunitense iniziò al suo interno una fase di cambiamento e di
ristrutturazione, spinta anche dal Vaticano .
Nel periodo di passaggio tra Benedetto XV e Pio XI la chiesa cattolica
statunitense attraversò un periodo di passaggio, anche abbastanza
tormentato, che portò alla costituzione di strutture organizzate atte a
cambiare il corso dei rapporti con la chiesa centrale di Roma.
Va sottolineato il fatto che la Chiesa cattolica americana, al momento
dell’ingresso degli Usa nella prima guerra mondiale, non avesse alcun tipo di
struttura organizzata a livello nazionale; dopo il concilio plenario di Baltimora
del 1884 le riunioni annuali dei vescovi avevano costituito l’unico momento di
organizzazione. Però la guerra rese necessario il potenziamento e
l’ampliamento degli strumenti di contatto tra la gerarchia ecclesiastica del
Vaticano e le organizzazioni cattoliche impegnate negli usa e in guerra.
Nell’agosto 1917 si tenne a Washington un incontro tra tutte le diocesi
americane e le società cattoliche. Il meeting fu organizzato da John Burke,
l’editore di “The Catholic World”. Alla fine dei lavori, con l’assenso dei cardinali
Gibbons e O’Connell, fu costituito il National Catholic War Council: esso
nasceva per studiare, unificare e coordinare tutte le iniziative cattoliche
riguardanti la guerra48. Il successo del War Council fu grandissimo; esso
contribuì alla realizzazione delle iniziative più disparate: dalla raccolta fondi al
finanziamento delle iniziative dei Cavalieri di Colombo, dal sostegno
psicologico ai soldati americani in guerra all’istituzione della scuola cattolica
per i Servizi Sociali. Al proposito Castagna: “Sia il clero, sia il laicato cattolico
uscirono dall’esperienza bellica persuasi del fatto che l’unità di intenti fosse la
propria forza e che, viceversa, il protestantesimo con le sue molteplici varianti
non potesse garantire alla nazione un’appropriata guida morale e spirituale”49.
Tale quindi il successo di questa nuova organizzazione nazionale, che Burke,
nell’ottica di una più efficace promozione degli interessi cattolici a guerra
finita, pensò di rendere permanente l’organizzazione il cui compito si sarebbe
esaurito una volta cessate le ostilità. Però la volontà di Burke si scontrò ben
presto con l’ostilità dei vescovi, che temevano che la nuova struttura potesse
scalfire la propria autorità a livello locale, e che essa stessa potesse diventare
nel tempo uno strumento di cui si sarebbe servita la Santa Sede per controllare
maggiormente l’episcopato americano, che da sempre aveva preoccupato il
governo centrale del Vaticano, a causa della sua vocazione autonomistica.
48 Castagna, op. cit., p. 140.49 Ivi, p.141.
L’occasione per discutere della questione fu rappresentata dalla celebrazione
del giubileo d’oro del cardinale James Gibbons, cerimonia svoltasi il 20
febbraio 1919 a Washington.
Benedetto XV inviò come suo rappresentante l’arcivescovo Bonaventura
Cerretti, diplomatico di provata esperienza. Già dalla scelta del suo
rappresentante si evince l’importanza che il pontefice aveva accordato
all’evento. Il papa era ben conscio dell’importanza della potenza finanziaria
degli Stati Uniti in quel particolare contesto storico-sociale: solamente gli Usa
avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico necessario per aiutare e
risollevare i Paesi e le popolazioni messe in ginocchio dal conflitto. Oltre che
dal punto di vista umanitario, tra l’altro aspetto oggetto della massima
considerazione nella ultima parte del papato di Benedetto XV, l’aiuto
economico americano avrebbe consentito di allentare le grandi tensioni sociali
che affliggevano gli Stati europei, contribuendo a tenerli lontani da possibili
tentazioni rivoluzionarie. Dunque la cerimonia in onore di Gibbons divenne
l’occasione giusta per parlare soprattutto del ruolo che la chiesa americana
avrebbe dovuto svolgere a sostegno delle strategie di pace della diplomazia
vaticana. Gibbons, l’operato del quale non aveva mai convinto negli anni né
Gasparri né Bonzano, diede immediatamente seguito alle richieste di Cerretti:
egli nominò un comitato composto da tre arcivescovi e quattro vescovi, i quali
sottoposero al giudizio degli altri prelati una bozza di progetto che proponeva
di affiancare agli incontri annuali di tutta la gerarchia un organo permanente
scelto dai vescovi per coordinare le attività cattoliche nel periodo intercorrente
tra i diversi incontri generali.
Il 1 maggio 1919, dopo l’approvazione di Benedetto XV, Gibbons inviò una
lettera ai vescovi, spiegando che con questa nuova organizzazione la Chiesa
statunitense faceva un deciso passo avanti nel raggiungimento di quella
coesione necessaria per avvicinarsi ai luoghi del potere politico. Nel settembre
successivo, in seno all’assemblea dei vescovi di Washington, si discusse la
proposta di Muldoon che prevedeva la creazione di un comitato esecutivo
composto da sette prelati che avrebbero controllato cinque dipartimenti
permanenti (istruzione, azione sociale, laicato, stampa, missioni interne ed
estere). Alla fine dei lavori l’assemblea sancì la nascita del National Catholic
Welfare Council. Questa istituzione rifletteva, a livello locale, i conflitti esistenti
nel Vaticano fra i cardinali contrari a Benedetto XV, come Merry del Val,
Pompilj, De Lai, e il segretario di Stato, Gasparri, l’uomo più vicino al papa.
Dopo la morte del cardinale James Gibbons (avvenuta nel marzo 1921), la
sopravvivenza del Welfare Council dipendeva da chi sarebbe stato “eletto” a
succedergli. Il più accreditato a raccogliere il testimone di Gibbons sembrava
essere l’arcivescovo di Boston, William Henry O’Connell. Egli era un
fedelissimo di Pio X, del quale apprezzava l’anti-modernismo e la rigida
impostazione dottrinale; O’Connell stesso era stato inoltre uno dei più feroci
oppositori all’istituzione del Welfare Council stesso, ed era pronto, se se ne
fosse presentata l’occasione, a mettere in atto lo smantellamento
dell’organizzazione stessa.
Ad ingarbugliare gli eventi arrivò la morte di Benedetto XV, avvenuta il 22
gennaio 1922. Dopo un conclave lunghissimo e tormentato, vi fu la fumata
bianca, con la quale Achille Ratti divenne il nuovo pontefice: egli scelse di
chiamarsi Pio XI. Il primo passo del papa fu la nomina del segretario di stato,
ruolo in cui fu confermato Pietro Gasparri. Proprio in questa scelta, a suo
modo coraggiosa in quanto rara, Pio XI mise subito in mostra una
caratteristica che segnò tutto il suo pontificato: la sua ferma determinazione.
Ratti papa e Gasparri segretario di stato rappresentarono un duro colpo per la
frangia dei “tradizionalisti”, cioè Merry del Val, O’Connel e Dougherty. In
particolare i due cardinali americani arrivarono in ritardo in Vaticano, non
potendo partecipare così al conclave; era la seconda volta consecutiva che ciò
accadeva (la prima fu nel 1914). O’Connell incontrò Gasparri appena arrivato a
Roma, lamentandosi di non aver ricevuto attraverso la delegazione apostolica
né notizie riguardanti l’aggravarsi delle condizioni di salute del papa, né
assicurazioni sullo slittamento del conclave stesso. Le parole di O’Connell
volevano insinuare l’esistenza di un disegno per non far votare i cardinali
statunitensi, ma risultavano inutili e incomprensibili in quanto smentite dai
fatti, cioè in primis dalla grande eco che aveva avuto la malattia di Benedetto
XV sulla stampa americana, in secondo luogo dallo scambio di lettere
intercorso tra la segreteria di Stato e Bonzano. La polemica di O’Connell
ottene un risultato: con il motu proprio Cum proxime Pio XI prolungò di due o
tre giorni, fino ad un massimo di diciotto l’ingresso dei cardinali in conclave50.
Ma il risultato più importante per O’Connell e gli altri porporati americani fu
ottenuto grazie al decreto firmato dal cardinale De Lai, che disponeva circa la
dissoluzione immediata del National Catholic Welfare Council (25 febbraio
1922). Si trattava di una vicenda turbolenta: i tradizionalisti ottennero la
soppressione in un momento di transizione, con la complicità di De Lai, non
conoscendo lo stesso Pio XI a fondo la situazione, credendo anzi si trattasse di
una decisione già stabilita da Benedetto XV. La reazione del Welfare Council
non tardò ad arrivare; fu inviato immediatamente un cablogramma diretto al
papa. E soprattutto fu inviata una delegazione a Roma, guidata dal vescovo di
50 Ivi, p. 153.
Cleveland Joseph Schrembs. Il vescovo portò con se una petizione, firmata
dalla gerarchia ecclesiastica statunitense al completo. Nella petizione si diceva:
“Upon the the whole Hierarchy of our country it (il decreto) seems to put the
stigma of a suspected loyalty and incompetence; and it suppresses our most
cherished organization upon which we had founded the greatest hopes for the
defense and prosperity of religion in our country”51.
Una volta a Roma Schrembs ebbe l’occasione di confrontarsi con il firmatario
del decreto della Congregazione Concistoriale, De Lai, il quale non negò il
timore che il Welfare Council avrebbe potuto creare problemi alla Santa Sede
per quanto riguarda il controllo dell’episcopato Usa.
Comunque sia, Gasparri riuscì a spiegare la situazione a papa Ratti, e a farlo
tornare sulla sua decisione: il 22 giugno la Congregazione Concistoriale revocò
il precedente decreto e autorizzò i vescovi americani a riunirsi di nuovo in
settembre. Il 4 luglio poi la Congregazione indirizzò al Council alcune direttive,
la più importante delle quali era quella che prevedeva che la parola Council
(connotata specificamente nel diritto canonico) fosse sostituita con un termine
diverso e più generico, sottolineando il carattere meramente consultivo
51 ACUA, ANCWC, OGS, box 60, fold. 29, Administrative Committee, Petition to His Holiness, Pope Pius XI, 25 aprile 1922, citato in Castagna, op, cit., p. 156.
dell’organizzazione. Il nome venne cambiato in National Catholic Welfare
Conference.
La Welfare Conference diventò uno strumento di pressione sul governo, e
durante gli anni Venti e Trenta interpretò un importante ruolo di mediazione
fra la Santa Sede e la politica statunitense. Essa, con la sua struttura di tipo
orizzontale, rappresentava da una parte il ritorno alla tradizionale collegialità
della chiesa cattolica negli Usa, dall’altra invece l’accantonamento del rigido
modello gerarchico piramidale, rivelatosi non efficace per attenuare i toni della
polemica anti-papista e per riattivare il dialogo con gli Usa.
La decisione di papa Ratti del 22 giugno 1922 fu importante in quanto anticipò
di quattro anni il pronunciamento della Santa Sede riguardante le adunanze
generali dei vescovi, e soprattutto perché il pontefice dispose circa la
partecipazione obbligatoria dei nunzi e dei delegati apostolici.
Difatti la collaborazione tra la Delegazione apostolica e la gerarchia
ecclesiastica americana divenne imprescindibile per la Santa Sede, ed era vista
da essa come un efficace metodo per combattere l’ostilità verso il
cattolicesimo da un lato, e dall’altro come mezzo per ripristinare i contatti con
il governo americano.
2.3 I repubblicani al potere; prove di intesa fra Harding e Bonzano
Negli anni successivi alla fine del conflitto il panorama politico statunitense
vide una decisa prevalenza del partito repubblicano.
Il dato caratterizzante la prima metà degli anni Venti fu il calo della
percentuale dei votanti, soprattutto in occasioni delle elezioni presidenziali del
1920 e del 1924, e successivamente delle congressuali; a disertare le urne
furono in particolar modo i più poveri e i meno istruiti. Per gli esponenti più
conservatori del partito repubblicano, quelli maggiormente attenti a
conquistare i favori dell’alta finanza e degli industriali, la disaffezione
dell’opinione pubblica verso la politica, non era un motivo di preoccupazione,
al contrario, l’assenza dei ceti popolari dall’elettorato era un fatto positivo.
I repubblicani usarono quote di ingresso per limitare l’accesso al potere a
etnie, culture e religioni ritenute indesiderate, in modo che così non potessero
in alcun modo nuocere alla sbandierata purezza wasp della nazione.
Nonostante la matrice nativista dei governi che si susseguirono durante gli
anni Venti, il primo impatto del Delegato Apostolico Giovanni Bonzano con i
repubblicani non fu negativo. Al contrario il Grand Old Party sembrò fin
dall’inizio intenzionato a instaurare con il Vaticano un rapporto pacifico e
basato sulla collaborazione. Ciò rappresentava, almeno formalmente, un
deciso passo in avanti rispetto alla linea intransigente tenuta con decisione da
Wilson.
Ancor prima dell’insediamento di Harding alla Casa Bianca, avvenuto nel marzo
1921, erano circolate voci riguardanti una possibile ripresa delle relazioni fra
Stati Uniti e Vaticano, le quali, visti i precedenti non proprio facili,
rappresentavano se non altro un fattore di novità52. Pare che ad interessarsi
alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Usa e Santa Sede fu il Foreign Office
britannico, tramite il colloquio tra il conte De Salis, diplomatico inglese a
Washington, e Bonzano, nel gennaio 1921. In quella occasione il delegato
pontificio espose le sue opinioni al riguardo: in primis Bonzano teneva in gran
conto la possibile energica reazione dei nativisti più intransigenti e anti-papisti;
in secondo luogo egli aggiunse che: “tali relazioni, se mai venissero ristabilite,
sarebbero come quelle tra il Brasile e la Santa Sede; a meno che gli Stati Uniti,
in vista degli interessi delle popolazioni quasi esclusivamente cattoliche di
Portorico e delle Isole Filippine, non preferissero di conchiudere un concordato
al loro riguardo”53.
La questione era molto delicata e, lo stesso Bonzano, preferiva muoversi con la
massima discrezione e calma possibile. D’altra parte, sempre più numerose si
facevano le notizie di un riavvicinamento tra le due parti, che ormai si rendeva
necessario un incontro diretto con il presidente americano.
Ecco che dunque, al contrario di quanto avveniva in precedenza sotto la
presidenza Wilson, con i repubblicani al governo il dialogo con la Santa Sede
divenne effettivo e collaborativo, anche se i tempi non si dimostravano ancora
52 Castagna, op. cit. p. 167.53 ASV, DASU, titolo II, pos. 206, f. 41.
pienamente maturi per un ripristino dei rapporti in tempi brevi. Si trattava
delle fasi iniziali di un riavvicinamento graduale che avrebbe avuto il suo
culmine durante gli anni Trenta.
Il primo dei numerosi incontri fra Bonzano e Harding si tenne il 29 aprile 1921;
il dialogo con il Presidente fu preceduto da un abboccamento con il senatore
McCormick, dal quale il delegato capì che i tempi per la ripresa delle relazioni
non erano ancora maturi. La visita alla Casa Bianca confermò quanto riferitogli
dal senatore; il Presidente esordì dicendo che: “in un Paese così vasto non
mancano i Protestanti i quali fanno più rumore degli altri e si allarmano per
tutto ciò che non corrisponde alle loro vedute”54, e ancora che alla lettere
richiedenti informazioni sulla vicenda egli rispondeva che un provvedimento in
materia ”dipendeva dal Congresso e per quanto gli costava, il Congresso non
aveva trattato, né sembrava disposto a trattare simili affari”55. Ma soprattutto
Harding fece notare che: “questo Paese ha relazioni diplomatiche soltanto con
le Potenze che hanno dominio temporale e sudditi e non coi Capi spirituali di
religioni” e quindi “non vedeva ragione, perché tra tante denominazioni
religiose, si dovesse avere relazioni con una di esse a preferenza delle altre”56.
54 Ivi, f. 59, Bonzano a Gasparri, Washington 3 maggio 1921.55 Ivi, f. 61.56 Ibidem.
La Casa Bianca diramò il comunicato ufficiale il 3 maggio;
contemporaneamente l’Osservatore Romano pubblicò un articolo dal titolo
Harding non crede necessaria la ripresa delle relazioni diplomatiche col
Vaticano.
Anche se l’incontro sostanzialmente si era chiuso con un nulla di fatto, il
Vaticano e Bonzano non potevano ignorare il cambiamento nei rapporti con
l’amministrazione americana, improntati ora alla massima cordialità. Castagna:
“Per il Delegato si trattava di un’importante conquista: frequentando
assiduamente i luoghi del potere politico federale, infatti, egli poteva assolvere
con maggiore efficacia a quella funzione di raccordo tra Washington e
Vaticano, che, per quanto non gli spettasse formalmente, era stata
sostanzialmente ignorata durante la presidenza Wilson”57.
In questa fase il Vaticano non rinunciava a promuovere, come capofila, la
strategia di stabilizzazione continentale portata avanti dalla politica e dalla
finanza americane: gli Usa non rinunciarono al ruolo di prima potenza
mondiale che la guerra aveva certificato. Essi dovevano da una parte mitigare
l’intransigente punitivismo francese e inglese verso la Germania, agendo su
disarmo e riparazioni, dall’altra non dovevano abbandonare la linea di non
57 Castagna, op. cit. p. 170.
intervento nelle vicende europee, essenziale per non scontentare l’opinione
pubblica americana. Il segretario al Tesoro, Andrew Mellon, sposava in questo
contesto storico-politico una linea di conciliazione verso i Paesi sconfitti; egli
rispondeva così a chi gli avesse domandato circa la riscossione completa dei
debiti di guerra: “se insistiamo su condizioni di pagamento troppo onerose non
riceveremo nulla. Dobbiamo quindi metterci d’accordo su condizioni che diano
al debitore delle ragionevoli probabilità, di vivere e prosperare”58.
In accordo con le direttive americane riguardanti il disarmo e il sistema di
sicurezza collettiva si colloca la partecipazione statunitense, tra il novembre
1921 ed il febbraio 1922, alla conferenza di Washington sugli armamenti
navali. Insieme a Francia, Gran Bretagna, Giappone e Italia, gli Usa decisero
riguardo la sospensione temporanea della costruzione delle imbarcazioni da
guerra di grandi dimensioni e fissarono un limite massimo di tonnellaggio. Gli
accordi di Washington rappresentarono per gli Stati Uniti un grande successo,
in quanto confermavano la possibilità dell’esistenza di un rapporto di
cooperazione fra le grandi potenze.
Al di fuori della conferenza di Washington, Harding si trovò a discutere della
riduzione degli armamenti anche con il delegato apostolico: il 4 gennaio egli
58 G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 40.
ricevette Bonzano per il consueto incontro di inizio anno. Il Presidente mostrò
approvazione per la proposta di Bonzano per il quale il modo di sistemare la
situazione tedesca era quello di risolvere il prima possibile il problema delle
riparazioni, e si rese disponibile a collaborare59. Insomma le parole di Harding,
confermando da una parte la sua buona disposizione verso i cattolici e
dall’altra il cordiale rapporto instauratosi con Bonzano, testimoniavano come
in questa fase i rapporti tra Santa Sede e Usa fossero fortemente caratterizzati
dall’atteggiamento della nuova amministrazione, in un momento in cui,
entrambi gli Stati, si trovavano uniti soprattutto nella lotta alla penetrazione
del comunismo in Italia e nell’Europa occidentale.
Questa nuova comunanza di intenti ebbe la possibilità di manifestarsi durante
la Conferenza di Genova (aprile 1922). Per amor del vero la partecipazione dei
due Stati fu scarsa o nulla, in quanto gli Stati Uniti non parteciparono e la Santa
Sede lasciò la conferenza anzitempo. Sostanzialmente la “pietra dello
scandalo” era costituito dalle richieste russe (discusse anche a Bruxelles) in
relazione alla carestia che stava attraversando il Paese, ma a più ampio raggio,
la posizione di entrambi era determinata dalle relazioni che Vaticano e Usa
intendevano intrattenere con l’Unione Sovietica.
59ASV, DASU, titolo V, poS. 63 B/3, f. 249, Bonzano a Gasparri, 12 gennaio 1922.
Il rifiuto degli Stati Uniti a partecipare alla Conferenza di Genova aveva una
duplice matrice: sul piano internazionale serviva agli Usa a ribadire la
mancanza di volontà di negoziazione con i sovietici, oltre che sottolineare la
propria autonomia decisionale nei confronti degli alleati europei; sul piano
interno invece significava rassicurare l’opinione pubblica, impaurita da una
possibile infiltrazione comunista in America, sul fatto che il governo avrebbe
mantenuto la linea di non intromissione nelle vicende politiche europee,
laddove avessero significato un accordo con Mosca. D'altronde come
sottolinea Castagna: “la possibilità di un maggiore coinvolgimento statunitense
nel tentativo di risollevare le sori dell’economia russa era subordinata alla
caduta del regime comunista (…) una pregiudiziale, questa, che non
rappresentava di certo una novità nell’atteggiamento degli Stati Uniti verso
Mosca. Infatti la stessa American Relief Administration (Ara), (…) era stata
utilizzata dalla Casa Bianca, oltre che per tutelare i cittadini statunitensi
residenti in territorio russo, come strumento per delegittimare il governo di
Lenin”60.
La Santa Sede partecipò alla fase finale della conferenza con Giuseppe
Pizzardo, sostituto alla Segreteria di Stato, al quale Pio XI aveva fatto
recapitare una lettera e un memorandum da consegnare ai delegati; nella
60 Castagna, op. cit. p. 177.
lettera il Pontefice chiedeva un intervento affinché la Russia restituisse i beni
confiscati al Vaticano durante la campagna anti-ecclesiastica portata avanti da
Lenin. Il documento non sortì l’effetto sperato, i delegati presenti non si
accordarono sulle richieste del Papa. Il riferimento del pontefice alla libertà di
espressione del credo religioso era da estendersi a tutti i cittadini russi 61. Pio XI
perseguiva l’unità della Chiesa universale, e proprio per questo gli osservatori
più attenti videro nell’appello del papa la volontà di riavvicinare il
cattolicesimo alle altre confessioni cristiane, in particolare a quella ortodossa.
Questa volontà del pontefice risaliva agli anni in cui aveva compreso appieno
la difficile realtà religiosa e sociale dell’Europa dell’Est, negli anni in cui aveva
ricoperti dei ruoli diplomatici in Polonia ed in Alta Slesia. Così quando divenne
papa, Ratti fu pronto ad intessere rapporti con il governo russo; nel 1921 il
rappresentante sovietico in Italia, Vorovskij, e monsignor Pizzardo avevano
parlato di una possibile intesa tra Vaticano e Mosca. Intesa che fu raggiunta il
12 marzo 1922. Mosca concesse l’installazione di una missione pontificia di
soccorso, con scopi solamente umanitari, senza ottenere in cambio quello che
più serviva in quel momento, cioè il riconoscimento de jure dalla Santa Sede,
essenziale per uscire dall’isolamento diplomatico in qui versava. Secondo Pio
XI l’accordo con i sovietici fu un successo; infatti senza praticamente
61 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos. 232, fasc. 56, f. 21, cit.
concedere nulla sul piano diplomatico il Vaticano tutelava senza intralcio i
cattolici russi e avrebbe potuto portare a casa un buon numero di conversioni
di ortodossi.
Ben presto però la Santa Sede si trovò a fronteggiare le requisizioni dei beni di
valore dalle Chiese e le conseguenti esecuzioni di esponenti del clero
ortodosso; la conferenza di Genova si trasformò così in una occasione per
denunciare la ripresa delle persecuzioni religiose ad opera dei sovietici. Pio XI
ebbe una ulteriore riprova della indifferenza delle potenze europee verso i
suoi appelli; infatti monsignor Pizzardo lasciò il consesso nell’indifferenza dei
partecipanti. Castagna: “Nonostante l’escalation di violenza ai danni del clero
cattolico e il crescente malcontento di alcuni cardinali della Curia romana per
la linea morbida tenuta fino a quel punto dal pontefice e dal segretario di
Stato, il Vaticano decise di non interrompere la Missione di soccorso istituita
nel marzo 1922, per non perdere completamente il contatto con i cattolici russi.
Tutti, ad ogni modo, furono d’accordo sul rifiuto di riconoscere formalmente il
nuovo stato sovietico”62.
Nonostante tutto la Missione Pontificia continuò a lavorare, in collaborazione
con l’American Relief Administration (ARA) la quale coordinava tutte le
62 Castagna, op. cit., p. 181.
operazioni di soccorso alla Russia. La National Catholic Welfare Conference
sosteneva l’ARA e suggerì al Pontefice di affidare la direzione della Missione
Pontificia al padre gesuita Edmund Walsh.
L’opinione pubblica americana non vedeva in senso positivo la collaborazione
con la missione in Russia. Tuttavia nell’agosto del 1923 l’ARA cessò il proprio
lavoro in Russia; poco dopo Pio XI richiamò a Roma Walsh, e, nel settembre del
1924 fu chiuso l’ultimo centro operativo della Missione pontificia.
In quegli anni sia la Santa Sede che gli Usa avevano cercato un riavvicinamento
con Mosca, mettendo da parte le discrepanze politiche e ideologiche; però il
tentativo di coesistenza non andò in porto, il compito risultava troppo difficile
per entrambi gli Stati. Ecco che così l’anticomunismo divenne un ulteriore
motivo di intesa fra Vaticano e Stati Uniti. Castagna: “Di comunismo in
generale, e, più specificamente, di libertà religiosa si sarebbe dibattuto molto
negli Usa sia nella seconda metà degli anni Venti, sia, soprattutto, durante la
decade successiva e, come si dirà, non sempre il punto di vista vaticano
avrebbe coinciso con quello degli Usa. Spronata da Roma, la Chiesa cattolica
statunitense ebbe, comunque, il “merito” di contribuire a sensibilizzare
l’opinione pubblica su una questione destinata a divenire prioritaria negli anni
precedenti il Secondo conflitto mondiale, dando così la sensazione che la
strategia di riorganizzazione culminata nell’istituzione della NCWC potesse,
attraverso un maggiore dinamismo, far si che anche la “voce” dei cattolici
venisse presa maggiormente in considerazione”63.
Si trattava di segnali incoraggianti per i rapporti fra i due Stati: almeno per
quanto riguarda i rapporti tra gerarchia ecclesiastica locale e governo federale
i tempi di incomunicabilità di Wilson sembravano passati. Ma la ripresa
effettiva dei rapporti “normali” tra Vaticano e Usa era ancora lontana a venire.
2.4 Il dopo Bonzano, il Ku Klux Klan e il nativismo anti-cattolico
Pio XI richiamò a Roma Giovanni Bonzano, nominandolo cardinale nel
dicembre del 1922. Come suo successore alla Delegazione Apostolica di
Washington fu chiamato Pietro Fumasoni Biondi. Forte di una già consolidata
esperienza diplomatica, infatti era stato Nunzio prima nelle Indie Orientali e
poi in Giappone, Fumasoni Biondi era consapevole delle difficoltà insite nel
63 Castagna, op. cit., p. xxx
ruolo affidatogli: l’inizio della sua permanenza negli Stati Uniti infatti
coincideva con la fase più radicale dell’invettiva anticattolica dei gruppi
nativisti presenti negli Usa.
Bisogna sottolineare il fatto che, durante la metà degli anni Venti, vi fu una
convergenza di elementi negativi che portarono ai più alti livelli le difficoltà per
il cattolicesimo americano da una parte, e per i rapporti fra Washington ed il
Vaticano dall’altra. Questi elementi negativi possono essere riassunti in due
filoni pricipali: il Ku Klux Klan e l’appoggio che l’organizzazione ottenne dal
nuovo presidente americano Coolidge.
In confronto agli obiettivi che il Klan perseguiva nel corso dell’Ottocento, vale a
dire soprattutto la disgregazione del potere politico dei neri del sud, i bersagli
del nuovo Klan erano gli ebrei, i cattolici, gli adulteri, e più in generale chi non
rientrava nei suoi canoni di purezza razziale e morale. Fino al 1923-1924 il
potere politico del Klan fu limitato, esprimendosi al massimo solo a livello
locale; fu soltanto con la nomina a Imperial Wizard ( la massima carica
esecutiva del KKK) di Hiram Evans, nel novembre 1922, che l’organizzazione
acquisì una dimensione più ad ampio raggio. Castagna: “Evans era diventato il
principale oppositore del fondatore del Klan, William J. Simmons (…) Nel luglio
1923, durante il meeting generale di Asheville, il nuovo Wizard sottolineò
l’importanza di migliorare il coordinamento tra le sezioni ormai sparse in ogni
angolo del Paese; chiese ai vari responsabili locali di pubblicizzare
maggiormente le attività dell’organizzazione attraverso newsletter e bollettini
mensili; ed esortò tutti gli iscritti ad una più attiva partecipazione alla vita
pubblica nei rispettivi Stati. Alla violenza, che aveva contraddistinto l’azione del
Klan fino a quel punto, Evans, inoltre, sostituì metodologie meno eclatanti, ma
più efficaci, come l’esercizio di pressioni sui politici e sulle forze dell’ordine”64.
La candidatura di Calvin Coolidge alle presidenziali del 1924 era la candidatura
ideale per il KKK. Egli era diventato presidente in seguito alla morte improvvisa
di Harding, risollevando le sorti del partito repubblicano. Per la maggior parte
degli americani la sua rettitudine garantiva la sopravvivenza delle antiche virtù
puritane attaccate dal multiculturalismo di quegli anni.
Coolidge, pur essendo dal punto di vista personale molto diverso dal
predecessore, dal punto di vista politico lavorò sulla falsariga di Harding; la
tutela degli interessi della finanza e dell’industria rimase prioritaria, come
altrettanto prioritario fu un atteggiamento impregnato di conservatorismo
anti-alienista, che gli valse il sostegno del Klan ed il voto di molti elettori
democratici delusi nelle elezioni del 1924.
64 Castagna, op. cit. p. 188.
Il cattolicesimo statunitense, per ovvie ragioni, vedeva con grande
preoccupazione questa special relationship fra Coolidge ed il Ku Klux Klan;
d’altronde, in misura ancora maggiore che nel recente passato, l’azione del
Klan assumeva sempre più marcatamente un comportamento anti-papista,
soprattutto dopo l’ascesa a Imperial Wizard di Hiram Evans.
Famoso rimase il discorso di Dallas del 24 ottobre 1924, in cui Evans spiegava
anche le ragioni che inducevano il KKK ad avversare il cattolicesimo negli Usa:
“No nation can endure that permits a higher temporal allegiance than to its
own government (…) the hierarchies of Roman and Greek Catholicism violate
that principle”65. Inoltre Evans auspicava che il governo americano accelerasse
il blocco dell’immigrazione e controllasse la condotta dei cattolici già
naturalizzati: si trattava di un atteggiamento molto duro nei confronti del
cattolicesimo, attaccato sia nella dimensione spirituale che governativa.
John Burke, il segretario generale della NCWC, fece sentire la sua voce in
risposta alle affermazioni di Evans. Egli disse che le parole dell’Imperial Wizard
non dovessero essere prese in considerazione in quanto smentite soprattutto
dall’impegno e dalla partecipazione dei cattolici alla Grande Guerra; era
soltanto il popolo americano a poter decidere se stare dalla parte del proprio
65 ACUA, ANCWC, OGS, box 78, fold. 24. Organizations: Ku Klux Klan (1923-1939), “The Washington Post”, 25 ottobre 1923, citato in Castagna, op. cit. p. 190.
Paese o dalla parte del Klan. Il messaggio di Burke voleva lasciare intendere
che la Chiesa americana non avrebbe prestato il fianco alle illazioni e alle
provocazioni, ma avrebbe garantito la propria lealtà al governo repubblicano,
così come avrebbero fatto i fedeli.
Resta da chiarire quale fosse la posizione di Fumasoni Biondi e della Santa
Sede in relazione al Ku Klux Klan. Purtroppo l’impossibilità della consultazione
delle fonti vaticane riguardanti il periodo del pontificato di Pio XI restringe di
molto la disponibilità di notizie di prima mano. Comunque dagli archivi della
National Catholic Welfare Conference trapela il fatto che la linea di neutralità
sposata dalla gerarchia ecclesiastica in risposta agli attacchi di Evans non
cambiò neanche durante la campagna elettorale del 1924, durante la quale il
segretario generale della Ncwc, Burke, chiarì la posizione dell’episcopato. Egli
spiegò che la Conference non avrebbe chiesto ai partiti nessun tipo di
condanna del Klan, né avrebbe sostenuto pubblicamente alcuna iniziativa atta
a combattere il KKK stesso; si sarebbe trattato di un errore fatale che Burke
non intendeva assolutamente commettere. Era evidente la volontà di non
mischiarsi alla competizione politica, e soprattutto la voglia di far giudicare
direttamente ai cittadini il KKK, comportamento questo della Conference che
avrebbe fatto guadagnare in credibilità alla Chiesa cattolica.
Comunque sia, le parole di Burke esponevano il programma dell’episcopato
nel primo dopoguerra: nel periodo in questione la Chiesa americana volle
fortemente consolidare la sua struttura istituzionale, e ottenne risultati molto
importanti in particolar modo nel campo dell’istruzione. Castagna sottolinea il
fatto che: “tali sviluppi, tuttavia, finirono per ridursi ad una sorta di esaltazione
autoreferenziale da parte della gerarchia, che isolò ulteriormente, piuttosto
che integrarlo, l’elemento cattolico dal resto della società. Tutti rivolti con zelo
all’esercizio del proprio ufficio educativo e pastorale, i vertici ecclesiastici,
infatti, tacquero sui molti problemi di natura economica e sociale, che allora
affliggevano non solo i cattolici, bensì la quasi totalità del popolo americano”66.
La Ncwc stessa mantenne lo stesso atteggiamento; al suo interno l’unica voce
discordante fu quella di John Ryan, il quale cercò di portare l’attenzione su
questioni come la giustizia sociale e soprattutto la tutela dei diritti dei
lavoratori. I suoi sforzi non riuscirono ad ottenere gli effetti sperati, ma egli
ebbe il merito di sollevare un’altra questione: quella della mancanza di leader
cattolici a livello nazionale, che fosse in grado di interpretare le istanze
provenienti dal mondo cattolico, portandole così alla ribalta in un progetto di
più ampio respiro. La questione fu una costante nella storia degli Usa fin dalla
loro nascita; la domanda ricorrente riguarda il motivo per cui i cattolici
66 Castagna, op. cit., p. 193.
statunitensi, seppure molto numerosi, non riuscissero ad avere un ruolo di
primo piano nella vita politica americana. Secondo il parere di Fumasoni Biondi
la Chiesa aveva delle responsabilità nette: “Anzitutto l’Episcopato non se ne è
curato; e poi credo che (…) questa deficienza debba attribuirsi alla mancanza di
Università Cattoliche dove si possono formare i Catholic Leaders”67. Castagna:
“L’incapacità di formare una classe dirigente in grado di favorire un seppur
minimo superamento dei pregiudizi nei confronti del cattolicesimo costituiva,
secondo il Delegato Apostolico, un lusso troppo grande in quel particolare
momento storico”68. Per Fumasoni Biondi non ci si poteva aspettare da
Coolidge la stessa buona disposizione mostrata da Harding, e quindi egli
giudicava molto difficile, se non impossibile, che dei cattolici avessero spazio
nella sua amministrazione; forse la gerarchia ecclesiastica avrebbe dovuto
esercitare delle pressioni presso il governo americano per cercare di cambiare
la situazione.
67 ASV, DASU, titolo I , pos. 122, f. 50, U.S. Constitution Papal Says Mgr. Bondi, citato in Castagna, op. cit., p. 196.68 Ivi, p. 197.
2.5 La questione messicana
La vicenda relativa alla situazione esistente in Messico dal 1915 in poi costituì,
durante gli anni Venti, una delle poche occasioni di reale incontro costruttivo
fra Stati Uniti e Vaticano.
Nel 1915 il presidente Wilson riconobbe la legittimità del governo Carranza,
nonostante l’espropriazione dei beni dei cittadini Usa in seguito alla
rivoluzione del 1911; il culmine della iniquità contro gli americani, e
dell’anticlericalismo fu rappresentato dalla Costituzione di Queretaro, del
1917. La prima autorevole voce contraria alla violenza del governo messicano
fu quella dell’arcivescovo di San Francisco, Edward Hanna. La situazione, dopo
le presidenze De la Huerta e Obregon, peggiorò nuovamente nel 1924 con
l’elezione di Plutarco Elias Calles: egli, tra le prime manovre adottate, rese
effettivo l’articolo 27 della Costituzione di Queretaro, che prevedeva la
nazionalizzazione delle terre, comprese quelle possedute dalla Chiesa. Inoltre
dal momento del suo insediamento aumentarono gli arresti di ecclesiastici, e
fu espulso dal Paese il Delegato Apostolico, Filippi, stessa sorte toccò al
successore, Caruana.
Non avendo canali diretti di comunicazione con gli Usa, la Santa Sede fece leva
sulla mediazione della Chiesa statunitense per cercare di normalizzare la
scabrosa situazione venutasi a creare al di sotto dei confini americani. Prima
Bonzano, dal 1921, e successivamente Fumasoni Biondi, cercarono di ottenere
garanzie circa la libertà religiosa. In particolare Fumasoni Biondi mobilitò i più
influenti rappresentanti dell’ episcopato e tenne costantemente aggiornato il
Vaticano riguardo l’opera di pressione continua sul governo statunitense della
NCWC. La Conference aveva sviluppato un programma incentrato su alcuni
punti, i più importanti dei queli erano: l’invio di una lettera di protesta al
Presidente Coolidge, e la pubblicazione di un rapporto per spiegare ai cattolici
statunitensi quale fosse la situazione della Chiesa in Messico. Ma nonostante
tutto il governo Usa ancora non sembrava intenzionato alla revisione della
scelta di riconoscere il governo di Obregon.
In questo contesto decise di intervenire fattivamente il segretario generale
della NCWC, padre Burke. Egli prima incontrò Coolidge, e poi raggiunse in
Messico l’ambasciatore statunitense Morrow (gennaio 1928) per partecipare
ai negoziati con Calles69. Dopo l’assassinio del successore di Calles, Obregon,
Burke continuò il proprio lavoro, coadiuvato anche da due arcivescovi
messicani, Diaz e Ruiz. Il nuovo presidente messicano, Portes Gil, operò delle
69 Castagna, op. cit., p. 200.
importanti aperture che resero possibile il raggiungimento di un accordo tra il
Messico e la Chiesa cattolica: il governo messicano avrebbe rispettato la libertà
religiosa dei cattolici, e avrebbe accolto di nuovo un Delegato Apostolico.
La soluzione della vicenda messicana attenuò le difficoltà del cattolicesimo
americano e fece notevolmente migliorare i rapporti fra Vaticano e Usa; prese
il via un processo di convergenza fra le posizioni degli Stati Uniti e quelle
vaticane.
Castagna: “La NCWC diede la sensazione di poter assolvere, almeno su
questioni non strettamente inerenti alla politica interna, a quel compito di
mediazione col governo su cui il Vaticano aveva riposto grandi aspettative sin
dalla sua istituzione; parimenti, l’utilizzo “intelligente” delle abilità negoziali di
padre Burke e la puntualità con cui aveva tenuto informata la Santa Sede
durante quel delicato momento, confermavano il fatto che Pietro Fumasoni
Biondi poteva essere ritenuto un valido successore di Bonzano, nonostante
l’atteggiamento non certo accondiscendente dell’amministrazione Coolidge”70.
70 Castagna, op. cit., p. 201.
2.6 L’avvento del fascismo e i Patti Lateranensi
L’avvento del fascismo negli Usa fu salutato come un evento in grado di
svolgere una funzione stabilizzatrice, e stabilizzandosi il potere di Mussolini i
consensi all’interno dei confini degli Stati Uniti aumentarono in maniera
esponenziale. Il ministro del Commercio, Hoover, era convinto che il governo
fascista avrebbe offerto importanti possibilità per il capitale statunitense di
investire in Italia. Anche Mellon, il segretario del Tesoro, faceva affidamento
sul fatto che l’Italia fascista si sarebbe distinta grazie a Mussolini.
Era un crescendo, da parte americana, di dichiarazioni di fiducia nel nuovo
governo italiano; si consolidò così un rapporto di tipo economico-finanziario
che ebbe il suo culmine nei primi dieci anni dopo il conflitto, e che avrebbe
portato benefici da una parte e dall’altra71.
Il Vaticano stesso, nel 1922, elogiava il duce per bocca dell’allora arcivescovo
di Milano Achille Ratti: “Un uomo formidabile. Convertito di recente, poiché
viene dalle fila dell’estrema sinistra, che ha lo zelo dei novizi che lo fa agire con
risolutezza”72. Eppure Mussolini agli esordi si era distinto per i suoi sentimenti
71 G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 45-98.72 “L’Illustration”, 9 gennaio 1937 citato in Y. Chiron, Pio XI, Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, P. 131.
anti-clericali e per la forza con cui attaccava la Chiesa e la sua gerarchia. Ma la
sua “progressiva evoluzione a destra non poteva non avere riflessi anche sul
piano dei postulati fascisti di politica ecclesiastica”73. Infatti nel suo primo
discorso alla Camera, il 21 giugno 1921, Mussolini proclamò che: “la tradizione
latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo (…) l’unica
idea universale che oggi esista a Roma è quella che s’irradia dal Vaticano”74.
Secondo Emma Fattorini l’affinità del Vaticano con il fascismo: “nasceva in
primo luogo dal credere di riconoscere, nelle concezioni di Mussolini, una
comune aspirazione verso quei valori cari dell’intransigentismo ottocentesco
che il papa si illudeva venissero ripristinati attraverso l’autorità, la famiglia,
l’ordine, la moderazione”75. Ma questa affinità era basata soprattutto sulla
convinzione di poter risolvere definitivamente, grazie al fascismo, la questione
della sovranità temporale dei papi. Pio XI guardava con sufficienza ai partiti
politici, anche a quelli cattolici, riteneva deboli i sistemi democratici ,
preferendo il rapporto diretto con gli Stati. Nel 1923 il pontefice arrivò a
sacrificare l’esistenza stessa del Partito popolare, al quale rimproverava
l’indifferenza verso la questione romana; ormai il Papa aveva riposto nel
fascismo tutte le speranze di conciliazione con l’Italia.
73 “Il Popolo d’Italia”, 18 novembre 1919, citato in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande Guerra alla conciliazione, Bari, Laterza, 1966, p. 80.74 Ivi, p. 8175 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, p. 29.
In seguito, spinta anche dalla stampa cattolica statunitense, allineata ormai
totalmente dalla parte di Mussolini, anche la gerarchia ecclesiastica americana
finì con l’adesione incondizionata alle posizioni del regime fascista. Si creò
dunque una comunanza di vedute tra l’episcopato ed i diplomatici italiani che
trovò nelle manifestazioni pubbliche il mezzo per rendere più forte il legame
tra le due parti76. Emblematica in tal senso la caloros accoglienza riservata al
console italiano a Chicago, Leopoldo Zunini, al Congresso Eucaristico
Internazionale del 1926, “ unico fra i Consoli esteri presenti alla funzione, ben
venuto, nella cattedrale, dandomisi posto immediatamente dopo i cardinali
Mundelein e Bonzano insieme al sindaco di Chicago Dever”77. Questi gesti
ostentati però non furono accolti con entusiasmo dalla totalità dell’opinione
pubblica americana: anzi furono accettati mal volentieri dalla grande massa
dell’opinione pubblica protestante, e più in generale, non appena si diffusero
le voci di possibili negoziati segreti tra governo fascista e Vaticano per la
risoluzione della questione romana, l’atteggiamento del popolo americano
divenne mano a mano più ostile nei confronti di Mussolini. Le trattative ebbero
inizio nel 1926, e conobbero momenti di alterna fortuna.
76 P. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill-London, North Carolina University Press, 2004, p. 174-183.77 ASMAE, AP1, SU, b. 1602, Zunini a Mussolini (telegramma), Chicago 19 giugno 1926.
Il duce conobbe le reazioni dell’opinione pubblica statunitense all’ipotesi di
riconciliazione con il Vaticano. Giacomo De Martino scrisse a Mussolini, in
data 28 febbraio 1928, che: “ogni volta che le notizie mettono in rilievo i
migliorati rapporti fra il Governo italiano e la Santa Sede, si verifica
naturalmente una ripercussione favorevole negli ambienti cattolici e una
sfavorevole negli ambienti protestanti, i quali riprendono l’argomento che il
Fascismo rappresenta un rafforzamento del cattolicesimo e che quindi lo
sviluppo del Fascismo negli Stati Uniti può minacciare le chiese protestanti.
Effetto contrario producono viceversa le notizie di controversie fra il R. Governo
ed il Vaticano”78. Inoltre il duce ricevette frequentemente lettere da cittadini
americani nelle quali essi auspicavano che Stato e Chiesa rimanessero separati.
Nonostante tutto i Patti Lateranensi furono firmati l’11 febbraio 1929: gli
accordi restituivano al Papa la sovranità dello Stato della Città del Vaticano, e
garantivano la personalità internazionale della Santa Sede.
Per il mondo cattolico statunitense si trattò di un risultato della massima
importanza, che fu celebrato entusiasticamente dai giornali e dai periodici
cattolici. Chiaramente di carattere opposto fu la reazione del mondo
protestante, e più in generale, del mondo liberale. Il settimanale metodista
“The Christian Advocate” arrivava a dire che i Patti spianavano la strada
78 ASMAE, AP1, SU, b. 1607, De Martino a Mussolini, Washington 28 febbraio 1928.
all’illegittima aspirazione del pontefice ad entrare a far parte della Società
delle Nazioni79.
Castagna: “La Casa Bianca, da parte sua, si dimostrò più che altro preoccupata
per le ricadute della convenzione finanziaria stipulata tra Roma e Santa Sede
sulla fragile economia italiana verso la quale, come detto, gli investitori Usa si
erano notevolmente esposti in quegli anni, soprattutto alla luce dei contrasti
che si originarono tra le due parti già all’indomani dell’accordo”80.
Il periodo successivo alla stipulazione dei Patti fu caratterizzato da un profondo
rinnovamento della Curia, accompagnato da un parallelo mutamento
dell’atteggiamento del Vaticano nelle questioni internazionali. Concretamente
papa Ratti, dopo le dimissioni di Gasparri da segretario di Stato nel 1929, cercò
una personalità in grado di “porre definitivamente l’accento sulle ragioni
pastorali che ispiravano l’azione diplomatica della Santa Sede, le cui finalità
non potevano apparire come subordinate agli interessi di nessuno Stato, in
primo luogo l’Italia”, timore che “era particolarmente cresciuto tra i cattolici
europei e d’oltreoceano dopo la stipula dei Patti lateranensi”81.
79 Citato in Castagna, op. cit., p. 219.80 Ivi, p. 219.81 S. Pagano, M. Chappin, G. Coco, I fogli di udienza del cardinale Eugenio Pacelli Segretario di Stato, Città del Vaticano, Collectanea Archivi Vaticani, 2010, p. 87.
Capitolo 3
Gli anni del disgelo (1930-1940)
3.1 Roosevelt e il “New Deal”
Nel luglio del 1932 il partito democratico scelse Franklin Delano Roosevelt
come candidato alla presidenza degli Stati Uniti. L’intenzione del candidato
democratico di rompere col recente passato fu chiara fin dal discorso con cui
egli accettava la nomination a presidente: in quella occasione Roosevelt si
impegnò ad avviare un nuovo corso per il popolo americano, attraverso la
sperimentazione di soluzioni alternative per far fronte positivamente alle
attese e ai bisogni degli Usa. Gli americani, nel 1932, avevano assoluto bisogno
di vedere una luce alla fine del tunnel, dopo tre anni dall’inizio della
pesantissima crisi economica del 1929. In precedenza Roosevelt aveva
maturato una importante esperienza come governatore dello Stato di New
York, dove era succeduto al cattolico Al Smith, a differenza del quale, non era
un ragazzo dei bassifondi, tutt’altro. Infatti faceva parte di una ricca famiglia
dell’aristocrazia terriera, ed aveva studiato nelle scuole più esclusive degli Usa.
Al proposito Giancarlo Giordano: “Roosevelt aveva fatto parte della società
cosmopolita del nordest (…) tutta la sua vita non era stata altro che una
preparazione ai più alti incarichi”82. Il candidato democratico aveva dalla sua
parte l’opinione pubblica, che vedeva in lui, nel suo ottimismo e nella sua forza
di volontà (fu colpito nel 1921 da una forma grave di poliomelite che lo
costrinse su una sedia a rotelle) la speranza di uscire dalla miseria della crisi
economica. Castagna: “Egli, infatti non era certo un fine pensatore, né
tantomeno un ideologo o un dottrinario, ma sapeva come scaldare i cuori di
quei milioni di forgotten Americans, che ricevettero un messaggio di sollievo
nei molti viaggi che egli fece prima delle elezioni nelle aree più colpite dalla
violenta recessione economica. Anche i suoi discorsi più ortodossi, miranti a
82 Giancarlo Giordano, La politica estera degli Stati Uniti, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 13.
rassicurare l’ala destra del partito e la spaventata middle class democratica,
contenevano moniti di carattere prettamente liberal, in cui veniva ribadita la
priorità verso i bisogni dei meno abbienti, anche a discapito delle esigenze di
bilancio”83.
Il New Deal non consisteva in un programma definito; attraverso di esso
Roosevelt intendeva alleviare le sofferenze del Paese con soluzioni nuove.
Come disse egli stesso nel discorso al Commonwealth Club nel settembre
1932, si trattava di un programma che aveva una robusta dose di ambiguità,
ma che spinse milioni di americani a votare per lui.
La vittoria di Roosevelt e l’inizio dell’era del New Deal comportò un
riallineamento nella politica americana. Negli anni Trenta venne a rompersi il
tradizionale legame tra il partito repubblicano, il mondo rurale e i
professionisti della classe media, la sopravvivenza della quale veniva garantita
dai programmi agricoli, dai sussidi e dai posti di lavoro introdotti dalle leggi
adottate durante il periodo della presidenza Roosevelt. Come conseguenza ci
fu dunque un cambiamento epocale: venne infranto il monopolio sulla
gestione della politica detenuto storicamente dalle élite bianche, anglosassoni
e protestanti. Il consenso risultava equamente distribuito fra tutte le classi
83 Citato in Castagna, op. cit., p. 227.
sociali, e non rappresentava solamente un voto di protesta contro Hoover e i
repubblicani, perché gli statunitensi apprezzavano quanto Roosevelt
rappresentava, la tenacia con cui aveva costruito la sua carriera politica a
dispetto della sua menomazione fisica, e soprattutto il messaggio di speranza
in un futuro migliore e lontano dalla crisi economica che aveva saputo lanciare.
Sottolinea Castagna che: “operò, infatti, in modo eclettico e con una
formidabile vastità di orizzonti, servendosi di pratiche discorsive altamente
metaforiche per mobilitare la nazione nella lotta alla crisi; pragmaticamente,
seppe miscelare meccanismi tradizionali di trasmissione clientelare all’interno
del partito con strategie di distribuzione delle risorse quanto mai efficaci,
attraverso la creazione di molteplici agenzie federali, nominalmente
indipendenti, ma in realtà controllate dal Presidente per gestire gli
innumerevoli programmi pubblici messi in opera. Divenne, in sintesi, il perno di
quella che potrebbe definirsi come una nuova “galassia” o, anche, un nuovo
“ordine democratico”, composto da due nuclei, uno più ristretto – di cui
facevano parte membri del gabinetto, consiglieri personali del Presidente,
leader del Partito, parlamentari democratici, giudici e accademici filo-
newdealisti – e, l’altro, invece, più ampio – comprendente attivisti e
professionisti legati alle agenzie create dal New Deal, alle strutture partitiche
locali, al mondo accademico, economico e, più in generale, dell’assistenza
sociale”84.
3.2 Nuove linee di intesa fra Vaticano e Stati Uniti
Alla metà degli anni Trenta, motivi di mutuo interesse tra la Chiesa cattolica e
l’amministrazione Roosevelt portarono alla nascita di una collaborazione tra il
governo americano e la gerarchia ecclesiastica. Venivano a combaciare,
completandosi a vicenda, i presupposti della dottrina newdealista, i principi
della dottrina sociale della Chiesa e le necessità di milioni di cattolici
statunitensi. Il legame sempre più stretto nato tra amministrazione
democratica e cattolicesimo può ricondursi dunque a due fattori principali: da
una parte la lungimiranza politica del presidente Usa, dall’altra la convergenza
tra i capisaldi del New Deal e i dettami della dottrina sociale della Chiesa
cattolica.
84 Citato in Castagna, op. cit. p. 229.
In questo contesto “la crociata del presidente Roosevelt contro la
disoccupazione, le ingiuste pratiche di lavoro, la discriminazione e la povertà
erano problemi che anche la gerarchia cattolica americana stava tentando di
affrontare con uguale vigore”85.
I cattolici, la cui gran massa era concentrata nelle fasce medio basse della
società Usa, furono pesantemente colpiti dalla crisi della fine degli anni Venti.
Nonostante l’inadeguatezza dei leader politici cattolici a livello locale e della
gerarchia ecclesiastica, occupata ad ampliare le proprie strutture istituzionali, il
cattolicesimo statunitense reagì alla crisi economica con inaspettata potenza, e
lo fece ancora prima che l’enciclica di denuncia del sistema capitalistico, la
Quadragesimo Anno, incontrasse l’interesse dell’opinione pubblica americana.
Nel maggio 1931 padre Blakely, editorialista di “America”, accusò il sistema
industriale statunitense di violare i principi di giustizia sociale su cui Leone XIII
aveva basato la Rerum Novarum nel 1891. In seguito illustri membri della
gerarchia ecclesiastica si mobilitarono in tal senso: l’arcivescovo di Cincinnati,
McNicholas, poneva l’attenzione sul grande divario che esisteva tra “the
comparatively small group possessing fabolous wealth and exercising the
enourmous influence that wealth confers” e chi invece non aveva “the very
85 Citato in Nicholson, op. cit., p. 28.
food and shelter necessary to keep body and soul togheter”86. Con il peggiorare
della crisi economica vi furono da parte cattolica proposte sempre più
concrete, come il joint statement del novembre del 1931, in cui l’episcopato si
espresse a favore dell’introduzione di un salario minimo di sussistenza per i
lavoratori e per una equa distribuzione dei profitti, con inoltre la convocazione
di una conferenza congiunta tra rappresentanti sindacali, industriali e governo
federale per discutere delle misure da adottare contro la crisi.
In altri casi, fu trovata nella diffusione delle encicliche di Leone XII e Pio XI la
possibilità più efficace per combattere la Grande depressione; durante l’estate
del 1932 il Catholic Central Verein of America approvò una risoluzione che
proponeva di basare i programmi governativi di ricostruzione sui punti
contenuti nella Quadragesimo Anno87.
Dunque agli inizi degli anni Trenta ci fu un fiorire di incontri e forum in cui le
varie correnti del cattolicesimo americano espressero il proprio malcontento
per il fallimento del sistema capitalistico e per il non-interventismo
dell’amministrazione Hoover, auspicando l’adozione di un programma di
ricostruzione che si rifacesse ai precetti della dottrina sociale della Chiesa
86 J.T. Mc Nicholas, Justice and Present Crisis, in “The Catholic Mind”, XXIX, 22 ottobre 1931, pp. 473-481, citato in Castagna, op. cit., p. 245.87 G. Q. Flynn, American Catholics & the Roosevelt Presidency, 1932-1936, Lexington, Kentucky University Press, 1968, p. 31.
cattolica e che avesse un maggiore impegno governativo in ambito economico-
sociale.
Comunque sia furono la nuova inclinazione riformista del mondo cattolico e la
collaborazione sia della gerarchia ecclesiastica che dell’opinione pubblica
cattolica, a rinforzare il rapporto tra l’amministrazione democratica e il mondo
cattolico statunitense negli anni in cui il New Deal divenne realtà88. In effetti la
stampa cattolica presentò i provvedimenti di Roosevelt come la versione
americana delle encicliche sociali dei papi, tanto che il reverendo O’Brien
definì il presidente Usa come l’”apostolo” del nuovo corso statunitense. Le
attestazioni di stima, anche esagerate, nei confronti di Roosevelt, vennero sia
da parte di organi di informazione, come il “The Catholic Herald” ed il “The
Catholic Telegraph”, sia da parte di organizzazioni cattoliche, come
l’International Catholic Truth Society, la National Catholic Alumni Federation e
la Catholic League for Social Justice.
Roosevelt fu molto abile, negli anni, a incentivare questo grande supporto da
parte cattolica, e riuscì ad invertire la tendenza che vedeva i cattolici
estromessi dalle più importanti cariche politiche. Infatti numerosi personaggi
di fede cattolica entrarono nella nuova squadra di governo, assumendo
88 G. Q. Flynn, op. cit., pp. 36-37.
posizioni di primissimo piano: fu ad esempio il caso di Thomas Walsh che
divenne ministro della Giustizia. Oltre ai laici, anche numerosi esponenti del
clero cattolico ottennero incarichi importanti all’interno dei programmi del
New Deal. Tra questi padre John A. Ryan fu uno dei più attivi, già direttore
dello United States Employment Service, Roosevelt lo nominò tra i tre membri
del Labor Policies Board. Ryan descrisse questa rivoluzione in atto, che stava
portando tantissimi cattolici laici e preti nell’amministrazione Usa, dichiarando
nel settembre del 1934 che: “there are more Catholics in public positions, high
and low, in the Federal Government today than ever before in the history of the
country”89.
Le nomine effettuate da Roosevelt rinforzarono l’immagine del presidente
negli ambienti cattolici, ma ancora più significativo risultò l’atteggiamento
della gerarchia ecclesiastica, che istaurò con Roosevelt un rapporto di massima
collaborazione: addirittura il cardinale O’Connell di Boston lo definì come un
uomo mandato dalla provvidenza per il bene degli Usa.
Il principale sostenitore del presidente statunitense nei primi anni di mandato
fu senza dubbio il cardinale di Chicago, George Mundelein, e il rapporto tra i
due è uno degli esempi più significativi del nuovo clima instauratosi tra i vertici
89 ACUA, ANCWC, box 23, fold. 21, Ryan a (James) Moran, Washington 28 settembre 1934, citato in Castagna, op. cit. p. 253.
della gerarchia statunitense e la Chiesa cattolica a partire dagli anni Trenta.
Roosevelt e Mundelein si incontrarono la prima volta nel maggio del 1933 , e
fu il primo di una lunga serie di incontri, che si protrassero fino alla morte del
porporato, avvenuta nel 1939, un rapporto “caratterizzato dalla stima
reciproca, sul quel Roosevelt – come ricorda Harold Ickes nel suo diario – fece
sempre grande affidamento, e che Mundelein coltivò sapientemente sia in
privato, sia nelle numerose occasioni nelle quali si schierò pubblicamente a
sostegno della politica presidenziale”90. Dal 1934 Roosevelt ebbe bisogno del
supporto di Mundelein, così come del sostegno degli altri cattolici che lo
sostenevano, a causa della delusione per i risultati del suo nuovo corso; infatti
l’iniziale entusiasmo per il programma di riforme da lui proposto stava
affievolendosi. Nell’insieme però la coalizione cattolica rooseveltiana tenne
bene. Tanto bene da garantire al presidente una rielezione schiacciante alla
presidenziali del 1936.
3.3 Verso la ripresa dei rapporti diplomatici: dalla questione russa
all’incontro Pacelli-Roosevelt
90 H. Ickes, The Secret Diary, cit. vol. 3, p. 53, citato in Castagna, op. cit., p. 256.
Nella seconda parte degli anni Trenta l’attenzione dell’amministrazione
americana si spostò dalla politica interna alle questioni internazionali,
riguardanti soprattutto problemi di carattere europeo.
Il giudizio del mondo cattolico americano riguardo la politica estera
dell’amministrazione Roosevelt durante i suoi primi quattro anni fu positivo, e
rafforzò la comunanza di vedute con il presidente, anche se tale giudizio
divenne più critico quando egli iniziò a paventare un maggiore impegno nelle
cose europee. Uno degli obiettivi principali della Santa Sede divenne quello di
collaborare con gli Usa per arginare l’escalation nazi-fascista, e la diplomazia
pontificia doveva quindi rinsaldare il proprio legame con Washington quanto
prima.
La questione della possibile penetrazione del comunismo negli Usa
rappresentò una delle principali preoccupazioni della Chiesa cattolica fin dal
1917. Infatti nell’aprile del 1932 il Segretario di Stato Eugenio Pacelli ordinò al
Delegato Apostolico Fumasoni Biondi di comunicare tempestivamente alla
Santa Sede qualunque informazione avesse avuto circa i progressi del
comunismo in terra statunitense. Fumasoni Biondi per svolgere il suo compito
si avvalse della collaborazione preziosa del reverendo McGowan della NCWC.
Successivamente, nel 1933, il segretario della Congregazione degli Affari
Ecclesiastici Straordinari, Giuseppe Pizzardo, comunicò al chargé d’affaires
Paolo Marella, come fosse di “particolare gravità la situazione degli Stati Uniti
d’America, anche per le situazioni che potranno partire dai focolai di idee
sovversive accesi ed alimentati in codesto paese”91.
Secondo Pizzardo l’unico mezzo per sventare il pericolo comunista era la
diffusione della conoscenza della dottrina sociale della Chiesa.
Stanti così le cose appare scontata la reazione vaticana alle notizie riguardanti
l’intenzione di Roosevelt di intavolare trattative per il riconoscimento del
governo di Mosca; Pacelli pensava che quest’idea fosse dannosa “alla causa
della civiltà, per l’incoraggiamento che da tale riconoscimento deriverebbe al
Bolscevismo e alla stessa compagine sociale e politica di cotesta repubblica”92.
Le voci dello scambio di ambasciatori fra i due Stati divennero sempre più
frequenti, e crearono divisioni anche all’interno dello stesso staff del
presidente; il Segretario di Stato Cordell Hull sollevò una questione
importante, quella delle ripercussioni in termini di consenso che l’apertura
all’Urss avrebbe potuto comportare, soprattutto considerando quanto gli
elettori cattolici fossero contrari a questa ipotesi. D’altronde il riavvicinamento
91 ASV, DASU, titolo II, pos. 412, f. 102, Pizzardo a Marella, rapp. n. 927/33, Città del Vaticano, 4 aprile 1933.92 Ivi, titolo V, pos. 157, f. 2v, Pacelli a Fumasoni Biondi (copia), rapp. n. 3741/32, Città del Vaticano 9 gennaio 1933.
Usa-Urss era caldeggiato dall’alta finanza e dall’industria, oltre che da
numerosi illustri quotidiani, il New York Times su tutti. Al contrario la stampa
cattolica si mostrava compatta nel non condividere le scelte del governo Usa.
Intanto la Santa Sede aveva chiesto alla Delegazione Apostolica una relazione
dettagliata su quale fosse il pensiero della gerarchia ecclesiastica americana
sulla questione. L’incaricato della relazione fu Paolo Marella, il quale
commentava così: “Sul primo punto – se, cioè, il riconoscimento dell’Urss da
parte degli Stati Uniti avesse potuto provocare effetti deleteri per la vita
sociale, religiosa e morale del Paese – la divergenza traevano origine da
considerazioni di natura pratica. Coloro che le avevano date – proseguì
l’incaricato – «ritengono che i pericoli e i danni già esistenti non verrebbero di
fatto ad essere aumentati da quella specie di riconoscimento che i fautori del
medesimo sembrerebbero proporre»; anzi, «non mancano coloro che il pericolo
verrebbe piuttosto a diminuire, per il fatto che le relazioni diplomatiche con la
Russia potrebbero dare al Governo degli S.U. [sic] maggiore possibilità di
controllare e perciò reprimere la propaganda sovversiva». Quanto al secondo
punto, la risposta dei vescovi, che, cioè, la gerarchia non debba prendere
posizione ufficialmente e pubblicamente contro il riconoscimento, «è giunta
quale era da prevedersi». Un’azione ecclesiastica in tal senso, infatti, «non
mancherebbe senza dubbio di provocare un vasto e forte risentimento, non
soltanto da parte di coloro che sono in favore del riconoscimento della Russia,
ma anche da parte di quelli, che pur essendo contrari ad esso, sono per
principio avversi a che la Chiesa si mischi, (come essi non finiscono mai di dire)
nelle cose politiche». Circa la terza e ultima questione trattata nella
comunicazione, Marella notò come l’ipotesi di una lettera pastorale
dell’episcopato sul comunismo fosse stata largamente dibattuta, ma ritenne di
dover convenire con «l’opinione di coloro che credono che una tale pastorale,
al presente, non farebbe altro che esagerare l’importanza del Comunismo in
questo Paese, e dare così alla propaganda Sovietica nuova ansa di vita”93.
La gerarchia ecclesiastica sperò a lungo che gli Usa abbandonassero l’idea di
riconoscere l’Urss, però Marella, riportando le parole di Hayes disse che:
“prima o poi la questione verrebbe posta sul tappeto, con la probabile
conseguenza del riconoscimento”, perché ormai Roosevelt sembrava convinto
che “non è possibile ottenere alcun risultato positivo verso la pace e la ripresa
economica delle nazioni, se uno stato che comprende una parte così cospicua
della popolazione della terra, rimanesse estraneo alle trattative internazionali
promosse dagli Stati Uniti”94.
93 Ivi, f. 119, f. 120, f.123, f.54.94 Ivi, SS, AES (IV periodo), Russia, pos. 656, fasc. 37, ff. 24-26, Marella a Pacelli, rapp. n. 4716-i, Wasahington 24 maggio 1933.
Importante per lo sviluppo della vicenda risulta essere il rapporto (del 1°
agosto 1933) del Delegato Apostolico Cicognani in cui riportava il contenuto di
un colloquio tra padre Burke e il sottosegretario di Stato statunitense William
Phillips, in cui si diceva che “la tendenza era a smussare e sciogliere le difficoltà
che si fanno al riconoscimento della Russia, dal punto di vista religioso,
economico e sociale”; inoltre Phillips disse che “non sarebbero ragioni di
commercio che spingono l’America verso la Russia, giacché nessuno oggi, che
ben conosca le condizioni di quel Paese, sarebbe disposto a fargli credito”, da
cui la supposizione che il riavvicinamento diplomatico dipendesse dalla tutela
di interessi geopolitici in Estremo Oriente. Le parole di Phillips facevano
presagire che le trattative con l’Urss fossero molto vicine: però Roosevelt
voleva comunque che i cattolici americani ed il Vaticano venissero coinvolti nel
riavvicinamento fra i due Stati, e che avessero comunque rassicurazioni sulla
questione della libertà di culto in Russia. Lo stesso presidente Usa sottolineò il
fatto di essere contrario all’ateismo russo e, allo stesso tempo auspicava la
libertà religiosa e di culto esterno, esortando padre Walsh a preparare un
memorandum in cui venissero spiegate le posizioni della Santa Sede. Il 31
ottobre 1933 Padre Walsh presentò a Roosevelt il suo memorandum intitolato
Religio in Soviet Russia. In esso si insisteva su due punti in particolare: la libertà
di coscienza per tutti i cittadini russi e non residenti in Urss e libertà di
esercizio pubblico e privato del culto religioso95.
Tuttavia, nonostante in un incontro del 1° novembre Roosevelt disse che si
sarebbe attenuto ai punti del promemoria, il 16 novembre il Presidente e
Litvinov, sottoscrissero un accordo in cui si limitava il rispetto della libertà
religiosa da parte delle autorità sovietiche ai soli cittadini statunitensi residenti
in Urss.
Generalmente l’opinione pubblica americana e la stessa stampa cattolica si
mostrarono soddisfatte per gli accordi sottoscritti da Roosevelt; di carattere
opposto era il pensiero di Eugenio Pacelli: “il riconoscimento da parte degli
Stati Uniti d’America dei Sovieti importa disgraziatamente un notevolissimo
aumento del loro prestigio e una valorizzazione della loro attività, della quale
fa parte anche la propaganda di ateismo nel mondo”96.
Nei giorni successivi il Vaticano rivalutò il contenuto degli accordi raggiunti tra
Usa e Urss, considerando anche che mai nessun Presidente Usa aveva tenuto
in così grande considerazione il parere della Santa Sede su questioni di politica
estera. Vi fu dunque l’articolo apparso su l’Osservatore Romano nel gennaio
1934 in cui si diceva che : “il Presidente Roosevelt in più di una occasione ha
95 Ivi, titolo V, pos. 157, f.286, Pacelli a Cicognani (cifrato n. 380), Città del Vaticano 23 ottobre 1993.96 Ivi, f. 11, Pacelli a Cicognani, rapp. n. 3321/33, Città del Vaticano 16 dicembre 1933.
preso l’opportunità per affermare che la religione e i principi religiosi sono la
base del benessere di una nazione”97.
Il riavvicinamento tra le due parti procedeva dunque spedito, ed un ruolo di
primo piano lo ebbero due religiosi americani: il cardinale di Chicago George
Mundelein, ed il vescovo ausiliare di Boston Francis Spellman. Entrambi furono
i principali interlocutori tra la Casa Bianca e la Segreteria di Stato vaticana nella
seconda metà degli anni Trenta.
Ma il ruolo più importante nella strada verso il ripristino delle relazioni
diplomatiche fra i due Stati fu rivestito da Eugenio Pacelli. Diplomatico di lungo
corso, appena nominato Segretario di Stato egli si presentò “come l’erede dei
venerati maestri Rampolla e Merry del Val, e, quindi, come la sintesi di quei
diversi orientamenti nell’azione di governo della Chiesa di Roma che a lungo
avevano diviso le anime della curia in un dualismo, idealmente concepito nei
termini Pio X/Merry del Val e Benedetto XV/Gasparri, che molti avevano
considerato come inconciliabile”98.
La sua personalità, di indole misurata, si sposava alla perfezione con il
carattere volitivo di Pio XI, e tra i due si instaurò un rapporto speciale, condito
da una sorta di complementarità che consentiva “alle intemperanze dell’uno di
97 I valori religiosi del Cristianesimo esaltati dal Presidente Roosevelt, in “L’Osservatore Romano”, 4 gennaio 1934, in ivi, DASU, titolo V, pos. 153, f.76.98 G. Coco, op. cit., p. 93.
essere spente e risolte più diplomaticamente, e alle indecisioni dell’altro una
maggiore risolutezza”99.
Prima del famoso viaggio di Pacelli negli Stati Uniti del 1936, bisogna
sottolineare altri eventi che portarono al progressivo avvicinamento fra Usa e
Santa Sede.
Il primo di questi avvenimenti fu l’incontro fra Cicognani e Roosevelt avvenuto
il 12 giugno 1933 alla Casa Bianca. Leggiamo nei documenti vaticani che il
Presidente parlò in termini entusiastici del Pontefice, “lodando la larghezza
delle Sue vedute, la perfetta comprensione dei bisogni dei popoli e
l’opportunità e la bellezza delle Sue encicliche” che avrebbero avuto “grande
influenza sul pensiero sociale ed economico degli Stati Uniti”100. Roosevelt
accolse Cicognani con grande riguardo: “Io la voglio ricevere come un
Ambasciatore; spero che verrà presto il giorno in cui potrò salutarla come un
Ambasciatore”.
La carta stampata non poteva ignorare le parole del Presidente, e fu
soprattutto lo storico Francis Stock a catturare l’interesse generale con un
lavoro che ricostruiva la storia dei rapporti fra Vaticano e Usa dai moti del
1848 alla fine delle relazioni diplomatiche del 1867.
99 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, p. XII.100 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos. 230, fasc. 53, f. 84 r.
L’attacco italiano all’Etiopia fu l’occasione decisiva per Vaticano e Usa per
“sincronizzare” le rispettive posizioni in politica estera e per addivenire
finalmente ad una accordo tra i due Stati.
Da parte statunitense il conflitto in questione segnò la prima rottura tra Italia e
Usa nel ventennio tra le due guerre mondiali. Fino a quel momento Roosevelt
e l’America tutta vedevano in Mussolini un possibile “pacificatore”, tanto che il
Presidente aveva apprezzato, e non poco, l’impegno del duce nel progetto di
Patto a Quattro. Ma dopo il conflitto etiope e l’avvicinamento tra Roma e
Berlino dalle parti di Washington erano ormai persuasi del fatto che il fascismo
e il nazionalsocialismo avessero come obiettivo comune lo sconvolgimento del
fragile equilibrio europeo.
Allo stesso tempo il Vaticano ripensò profondamente la propria posizione
verso la figura di Mussolini e l’azione tedesca; Castagna: “i tradizionali canali
della diplomazia vaticana si erano rivelati assolutamente inefficaci sino a quel
momento tanto nell’assicurare il rispetto da parte di Hitler del concordato del
settembre 1933, quanto nel promuovere un’azione pacificatrice nel corso della
guerra italo-etiopica”101.
In questo contesto Pacelli si recò personalmente negli Stati Uniti. Il grande
“organizzatore” del viaggio non poteva che essere Spellman, dati i suoi ottimi e 101 Y. Chiron, Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, pp. 392-398, citato in Castagna, op. cit., p. 293.
radicati rapporti sia con Roosevelt che con Pacelli. L’8 ottobre 1936 l’allora
Segretario di Stato, accompagnato dal nuovo ambasciatore italiano in Usa,
Fulvio Suvich, sbarcò al porto di Quarentine, a New York, a bordo del
transatlantico “Conte di Savoia”.
Pacelli tenne subito un discorso, in cui subito sottolineò il fatto che si trattava
di un viaggio privato, e per non alimentare le critiche che avrebbe potuto
suscitare una sua visita durante la campagna elettorale egli terminò il suo
intervento dicendo che: “outside and above all conflict of parties whose
interests are purely earthly, the voice of the Father of Christendom is raised,
amid the struggles of the present hour to warm humanity that is following and
thet i twill follow the wrong road if it refuse to recognize and to observe the
noble and pure doctrine of the Gospel”102.
La stampa americana concesse un grande risalto alla visita di Pacelli, e
l’”Evening Star” arrivò a definire la visita del Segretario di Stato: “preparatory
to the recognition of the papal state by the United States government and
establishment of a diplomatic mission”103.
Negli ambienti della diplomazia italiana stessa si parlava con interesse della
vicenda, ventilando la possibilità che la reale finalità della visita fosse quella di
verificare la fattibilità della ripresa dei rapporti diplomatici fra Usa e Vaticano. 102 ASV, DASU, titolo V, POS. 194, FF. 19-20, Statement di Pacelli, New York 8 ottobre 1936.103 Ivi, f. 8, cit. e ivi, pos. 178, f. 39, Una smentita vaticana circa gli Stati Uniti, in “La Corrispondenza”, 20 ottobre 1936.
Pacelli effettuò un giro completo degli Stati Uniti, e dopo la vittoria di
Roosevelt alle elezioni del 3 novembre, sarebbe stato più facile incontrare il
Presidente.
L’incontro avvenne il 5 novembre, non a Washington ma ad Hyde Park, nella
residenza privata di Roosevelt, e durò circa due ore. Il “New York Times” lo
definì come una specie di visita di Stato in cui si era parlato di vari argomenti,
invece secondo l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Bonifacio Pignatti,
“la questione delle relazioni diplomatiche è stata certamente trattata fra il
Presidente Roosevelt e il Cardinale Pacelli” e si trattava di studiare “da una
parte e dall’altra, ma specialmente in America, in che forma potrebbe essere
accreditato presso il Papa un rappresentante nord-americano per la trattazione
di speciali questioni”104.
Dunque l’incontro Pacelli-Roosevelt era il primo passo verso il riavvicinamento
fra Vaticano e Usa, ma per la concretizzazione ci sarebbe voluto ancora
qualche anno.
104 ASMAE, AP2, SU, b. 28, fasc. 37, Pignatti a MAE, Città del Vaticano 23 novembre 1936.
3.4 Gli anni della preparazione all’intesa (1937-1938)
Alla fine degli anni Trenta prese corpo, con più forza rispetto a prima, una
certa preoccupazione sia in Usa sia all’interno del Vaticano circa l’alleanza
italo-tedesca.
Suvich, ambasciatore italiano in Usa, riportava agli Esteri, nel marzo del 1937:
“l’atteggiamento di ostilità nei nostri riguardi della stampa e di gran parte
dell’opinione pubblica americana è andato negli ultimi tempi inasprendosi”,
aggiungendo inoltre che la tensione tra Italia e Stati Uniti dipendeva non solo
da questioni ideologiche, ma soprattutto dai “nostri atteggiamenti precisi nel
campo politico e più particolarmente dalla nostra azione etiopica”. Inoltre
l’alleanza con la Germania e l’intervento italiano in Spagna rappresentavano “il
punto centrale degli attuali attacchi contro di noi”105.
Roosevelt iniziò a pensare al fatto che la possibile vittoria di Franco in Spagna
avrebbe ancor di più rafforzato l’asse italo-tedesco, che avrebbe poi messo in
discussione oltre che gli equilibri europei, anche la sicurezza degli Stati Uniti,
se l’autoritarismo nazi–fascista si fosse insinuato nel continente americano.
105 Ivi, b. 35, fasc. 40, Suvich a MAE, telespresso n. 2068/524, Washington 31 marzo 1937.
Nel febbraio 1937 il Presidente parlò della questione con l’ambasciatore a
Roma, Phillips, dicendo: “I don’t care so much about the Italians. They are a lot
of opera singers, but the Germans are different, they may be dangerous”106.
Dunque Roosevelt si rendeva perfettamente conto che il famoso anti-
interventismo americano nella seconda guerra mondiale stava per essere
messo in discussione.
A partire dalla seconda metà degli anni Trenta anche il Vaticano mostrava
segnali palesi di insofferenza verso il nazionalsocialismo. E la vicenda della
Guerra civile spagnola costituiva una grande preoccupazione per il pontefice: il
14 settembre 1936 Pio XI condannò sia gli scempi anti-clericali compiuti dal
governo legittimo, sia le violenze da parte del governo di Burgos. Il successivo
riconoscimento del governo nazionalista e l’invio di Cicognani come Nunzio
Apostolico (aprile-maggio 1939), non volevano significare un incoraggiamento
all’allineamento tra Franco e le forze dell’Asse, anzi l’intenzione del Vaticano
era di utilizzare la rappresentanza ufficiale per scongiurare un tale evento. In
precedenza il papa aveva condannato il nazismo con l’enciclica Mit brennender
Sorge, la quale, anche se incentrata sugli aspetti religiosi e morali, secondo
Emma Fattorini comportò un profondo cambiamento: “il fatto che nella
106 Citato in M. P. Friedman, Nazis and Good Neigbors. The United States Campaign against the Germans of Latin America in World War II, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 2003, p. 9.
condanna del bolscevismo e del nazismo, sempre associati (…), per la prima
volta la priorità assoluta e urgente non sia più tanto far fronte comune contro
il bolscevismo”107. In seguito il cardinale Mundelein tenne un discorso che
provocò le proteste vibranti dell’ambasciata tedesca. In questo discorso il
porporato americano si chiedeva come fosse possibile che i tedeschi si fossero
lasciati sottomettere da un inetto imbianchino austriaco, e da un paio di suoi
aiutanti108. Queste parole, durissime, non incontrarono la censura della Santa
Sede, e l’ambasciatore presso la Santa Sede, Von Bergen, fu richiamato a
Berlino. Pacelli, se non nella forma, condivideva il contenuto delle parole di
Mundelein, ed egli stesso dichiarò, nell’agosto del 1937: “La grave situazione
impone ai Rappresentanti Pontifici speciali doveri di vigilanza e di azione ed è
necessario che i medesimi mantengano un dignitoso riserbo verso gli Agenti
Diplomatici del III Reich per far così comprendere che non possono non
deplorare ciò che si viene sistematicamente perpetrando a danno della Chiesa
Cattolica e dei fedeli in Germania”109.
Comunque sia, dopo l’incontro di Hyde Park, le voci di un ripristino delle
relazioni diplomatiche si moltiplicarono sulla stampa statunitense; un incontro
107 E. Fattorini, op. cit., p. 131.108 Mundelein Rips into Hitler for Church’s Attack, in “The Chicago Daily Tribune”, 19 maggio 1937, p. 7, citato in Castagna, op. cit., p. 310.109 ASV, DASU, titolo V, pos. 166b, ff. 44rv, Pacelli a Cicognani (riservata), rapp. n. 3117/37, Città del Vaticano 6 agosto 1937.
importante in tal senso fu quello tra Roosevelt e Mundelein, del 5 ottobre. Il
Presidente ed il cardinale si incontrarono a Chicago, nella residenza del
porporato, e discussero riguardo il possibile coinvolgimento del vaticano in un
movimento internazionale a sostegno della pace in Europa. Dopo il colloquio
con Roosevelt, Mundelein informò Cicognani che il Presidente aveva in mente
di nominare un inviato speciale presso la Santa Sede.
Tuttavia le trattative sulle modalità dell’avvio delle relazioni formali furono
particolarmente accese, e caratterizzate dalla ricerca di un non facile
compromesso. Soprattutto all’inizio del 1938, frenetici furono i contatti fra le
due parti: l’8 gennaio Spellman scriveva a Pacelli: “non mi permetto di essere
troppo ottimista ma ritengo che nonostante le gravi difficoltà di molti generi, la
possibilità di un esito favorevole non è esclusa”; e pochi giorni dopo riportava
che il presidente statunitense credeva che non ci sarebbe stata “un’occasione
più opportuna (…) per prendere questo passo”. Inoltre il Presidente aveva
chiesto “se la nomina di un ministro invece di un ambasciatore sarebbe gradita
alla Santa Sede”110, Pacelli rispose che sarebbe stato “più dignitoso per gli Stati
Uniti avere qui un vero e proprio ambasciatore”, ma che il Vaticano non
avrebbe fatto “difficoltà ove si preferisse dare al Rappresentante suddetto la
110 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos.237, fasc. 65, ff. 76-77, Spellman a Pacelli, Città del Vaticano 26 gennaio 1938.
sola qualifica di Ministro”111. In questa ultima lettera Pacelli sembrava
abbondonare l’idea di una reciprocità nelle rappresentanze diplomatiche, che
in precedenza era sembrato un elemento indispensabile alla ripresa dei
rapporti fra i due Stati: ora aveva la meglio la volontà, più pragmatica, di
cogliere al volo i segnali di apertura della Casa Bianca, che a sua volta aveva
rinunciato all’idea di accreditare un ambasciatore, per ripiegare su un
rappresentante speciale, in modo da evitare i problemi che il Congresso
avrebbe sicuramente fatto.
La vicenda del “riavvicinamento” si ripropose prepotentemente in seguito
all’Anschluss. Il Vaticano intendeva far prendere corpo con una certa urgenza
al progetto di ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Usa. In questo
contesto si inserisce il Memorandum di Eugenio Pacelli, in cui il Segretario di
Stato vaticano, rivolgendosi a Joseph Kennedy, diceva: “I think it will be very
fine if you will convey to your friend at home these personal private views of
mine”, e che questa era l’occasione giusta “for trying to carry on the plan we
had thought of wile in America and that i know is amongst your aims”; era
arrivato il tempo in cui la comunità internazionale doveva riflettere “over the
111 Ivi, ff. 85, Pacelli a Spellman, Città del Vaticano 26 febbraio 1938.
ever increasing necessity in the present troubles of keeping in touch with the
Supreme Moral Powers of the world”112.
Non ci furono risposte ufficiali da parte statunitense, però Roosevelt, colpito
dalla indifferenza mostrata da Pio XI verso Hitler nel maggio del 1938,
intendeva ormai procedere verso l’intesa con la Santa Sede. Stando alle parole
dell’arcivescovo di Cincinnati, Thomas McNicholas, il Presidente era convinto
che il Vaticano fosse il referente giusto “to work out a Peace Program for the
world”113.
Castagna: “Dettata dal crescente bisogno di garantirsi un ulteriore punto di
osservazione sui sinistri sviluppi delle vicende europee, la volontà di Roosevelt
di istituire una missione presso la Santa Sede era oramai manifesta ed
incontrava, come detto, i favori degli stessi vertici vaticani. Benchè ritenuto
improcrastinabile – dati anche gli esiti della Conferenza di Monaco – tale passo
avrebbe tuttavia richiesto ancora diversi mesi”114.
3.5 La stretta finale: il 1939, l’anno della svolta
112 NARA, DS, RG 59, 863.00/1744, Memorandum from Cardinal Pacelli.113 ASV, DASU, titolo V, pos. 178, ff. 140-143, McNicholas a Cicogani (personal), Norwood 30 agosto 1938.114 Citato in Castagna, op. cit., p. 320.
Il 1939 iniziò con un evento che era ormai nell’aria da tempo; la morte di Pio
XI. Nonostante la sua malattia si prolungasse da mesi, papa Ratti ebbe la forza
di condannare gli accordi sottoscritti durante la conferenza di Monaco, infatti
egli affermò “di non approvare che a Monaco si siano decise le sorti della
Cecoslovacchia, senza che i rappresentanti di questa abbiano preso parte al
convegno, come i quattro capi”115che avallarono tutte le richieste del Fuhrer.
Pochi giorni prima di morire, Pio XI scrisse un discorso che avrebbe dovuto
pronunciare in occasione delle celebrazioni della Conciliazione. In esso il papa
metteva in guardia la Chiesa dal “pericolo totalitario”, e dipingeva il fascismo
come “una grande e pericolosa centrale che ascolta e spia”116. Questo discorso
non venne mai pronunciato, ma fu trovato nella camera da letto del pontefice,
il 10 febbraio 1939.
Pacelli fu eletto papa il successivo 2 marzo, con il nome di Pio XII.
Fu una elezione scontata, scaturita da un conclave durato meno di una
giornata, in cui la sua candidatura non venne mai messa in discussione. Non fu
115 A. Martini, Pio XI e gli accordi di Monaco, in “La Civiltà Cattolica”, 20 settembre 1975, p. 470, citato in Castagna, op. cit. p. 321.116 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini, cit., pp 212-213.
dunque una elezione a sorpresa, anzi le cancellerie europee apprezzavano
Pacelli alla Cattedra di Pietro.
Ne tratteggia un profilo Luca Castagna: “La sua naturale inclinazione al
compromesso (…) e, in generale, all’uso degli strumenti propri della diplomazia,
unitamente alla costante – e forse smodata – preoccupazione per le
ripercussioni di uno scontro frontale coi regimi totalitari, lo indussero a
cancellare ogni traccia della rigidità e dell’irruenza anzitutto espressiva del suo
predecessore. Di qui la scelta, decisamente più in sintonia con la linea che fu di
Benedetto XV al momento dello scoppio della Grande Guerra, di non cogliere le
potenzialità di quel momento di rottura col nazi-fascismo, e di preferire,
viceversa, il tentativo di ricucire gli strappi sia con Mussolini, sia coi vertici
tedeschi”117.
Il presidente Roosevelt, che aveva avuto modo di conoscere ed apprezzare
l’operato di Pacelli come Segretario di Stato durante il pontificato di Pio XI,
accolse la sua elezione con entusiasmo.
Il New York Times pubblicò il messaggio che il presidente inviò al nuovo papa:
“It is with true happiness that i learned of your election as Supreme Pontiff.
Recalling with pleasure our meeting on the occasion of your recent visit to the
117 Citato in Castagna, op. cit., p. 323.
United States, I wish to take this occasion to send you a personal message of
felicitation and good wishes”118.
Un paio di mesi dopo l’elezione, Pio XII, attraverso la segreteria di Stato, volle
sondare gli umori di Francia, Gran Bretagna, Polonia e Germania, circa la
fattibilità di una conferenza a cinque per cercare di risolvere pacificamente i
problemi esistenti in seno all’Europa. Il progetto intendeva coinvolgere anche
gli Stati Uniti d’America, ma non ebbe buon fine, in quanto i Paesi interpellati
ignorarono completamente il proposito del papa.
L’unico, importante risultato ottenuto fu quello di riportare all’attenzione degli
Usa la questione delle relazioni con il Vaticano, ed infatti il Dipartimento di
Stato iniziò a caldeggiare l’apertura diplomatica. In questa direzione andava la
lettera inviata dal deputato newyorkese Emanuel Celler al Dipartimento di
Stato il 24 luglio 1939. Celler stigmatizzava l’interruzione dei rapporti con la
Santa Sede del 1867, e auspicava una nuova fase all’insegna della distensione.
Ormai il dado era tratto. Il 2 agosto Sumner Welles scrisse a Roosevelt: “i think
it is unquestionable that the Vatican has many sources of information,
particularly with regard to what is actually going on in Germany, Italy, Spain,
which we do not posses, and it seems (…) that the question of whether it would
118 “The New York Times”, 3 marzo 1939, citato in R.I. Gannon, The Cardinal Spellman Story, Garden City, Doubleday & co., 1962.
be desiderable for our Government to obtain access to this information was of
considerable importance”119; poco dopo anche Cordell Hull sottolineò
l’importanza dei rapporti con il Vaticano, suggerendo al Presidente di inviare a
Roma un suo rappresentante personale, carica che non sarebbe dovuta essere
sottoposta all’autorizzazione del Senato. Roosevelt si trovava a dover trovare
una sorta di giustificazione, di motivo preponderante atto a far digerire,
soprattutto all’opinione pubblica americana, il riavvicinamento al Vaticano.
Giustificazione che sarebbe servita ad evitare il risvegliarsi del pregiudizio anti-
cattolico, evento quanto mai pericoloso alla vigilia di un anno in cui erano
previste le elezioni.
Il Presidente ebbe un’idea brillante: quella di collegare l’invio del proprio
rappresentante personale presso la Santa Sede alla questione dei rifugiati di
guerra, e che proprio il carattere umanitario della questione, necessitava di un
contatto diretto con il Vaticano.
Negli ultimi mesi del 1939 il progetto entrò nella fase di realizzazione, e
Roosevelt lo rese noto a Spellman, che dopo la morte di Mundelein era
diventato, insieme a Cicognani, il trait d’union tra Washington e il Vaticano.
119 FDRPL, PSF 51, Welles a Roosevelt, Washington 2 agosto 1939.
Spellman fu accolto alla Casa Bianca (24 ottobre 1939), e subito dopo informò
il segretario di Stato, Luigi Maglione, che il Presidente aveva deciso di istituire
una missione speciale, e che per renderla nota al Pontefice desiderava
attendere il periodo natalizio, al fine di evitare intromissioni del Congresso, che
non si riuniva in quel periodo.
Risulta utile, a questo punto, analizzare per sommi capi quali fossero le ragioni
che rendevano utile per il Vaticano, accogliere la richiesta di Roosevelt. Vi
erano ragioni di principio, per cui la Santa Sede ospitava il numero più alto
possibile di rappresentanze diplomatiche di Stati indipendenti, e vi erano
ragioni di ordine religioso, collegate alla diffusione e alla protezione della
religione cattolica, affidata alla sola Delegazione Apostolica. Ancora più
importanti le ragioni di natura politico-diplomatica: il Vaticano, dopo lo
scoppio della guerra, e ancor più dopo la probabile entrata in guerra dell’Italia,
rischiava di piombare in un serio isolamento, “esposto alle pesanti pressioni
delle potenze dell’Asse e reso tanto più grave dal predominio degli elementi
italiani in Vaticano”120. Di Nolfo: “(le) relazioni con gli Stati Uniti rincuoravano il
Papa e le autorità vaticane, poiché esse erano relazioni con un paese neutrale e
120 E. Di Nolfo, Dear Pope, Vaticano e Stati Uniti, In-edit-a, Roma, 2003.
destinato a restar tale per ancora due anni, e soprattutto poiché esse davano al
Papa una maggiore speranza per l’avvenire e un maggiore coraggio”121.
Restava ora da scegliere la persona a cui affidare il delicato incarico. Roosevelt
aveva diversi nomi in mente: il ministro della Guerra, Harry Woodring, l’ex
ambasciatore in Italia, Breckinridge Long, e Myron C. Taylor.
Ne tratteggia un rapido profilo Luca Castagna: “Episcopaliano appartenente a
un’influente famiglia dello stato di New York. Taylor aveva operato nei settori
industriale e finanziario statunitensi, lavorando dapprima per la First National
Bank e poi nella United Steel Corporation, della quale fu Presidente dal 1932 al
1938 (…) la sua candidatura sembrava particolarmente appropriata per
enfatizzare la natura “umanitaria” del contatto che Roosevelt intendeva
allacciare con la Santa Sede”. Di Nolfo sottolinea che: “ inoltre l’attività a
favore dei rifugiati aveva non solo quel carattere umanitario che si addiceva
alle inclinazioni personali del finanziere americano, ma anche quell’aspetto
ecumenico e morale che doveva renderlo specialmente sensibile a tale
dimensione della vita internazionale e diplomatica, una dimensione nella quale
la presenza di un’attività diplomatica parallela, come quella svolta dalla Santa
Sede, era un punto di riferimento inevitabile. Taylor in tal modo costituiva
121 Ivi, p. 27.
come un personaggio particolarmente qualificato a mantenere con la Santa
Sede un contatto diplomatico speciale"122.
Il 23 dicembre 1939 Roosevelt ufficializzò la nomina di Myron Taylor quale suo
rappresentante in Vaticano. Lo fece nel suo messaggio natalizio a Pio XII:
“poiché il popolo di questa nazione è giunto a comprendere che il tempo e la
distanza non esistono più nel senso antico, esso comprende che ciò che offende
una parte dell’umanità offende tutto il resto. Esso sa che soltanto mediante
amichevoli associazioni fra coloro che cercano la luce e cercano ovunque la
pace le forze del male potranno essere vinte. In questo momento nessun leader
spirituale né civile può suggerire un piano specifico per por termine alle
distruzioni e ricostruire. Tuttavia certo verrà il momento per farlo. E’ perciò mio
parere che sebbene nel momento attuale non si possa profetizzare nessuna
azione determinata né alcun momento esatto, sia bene incoraggiare una più
stretta associazione tra coloro che in ogni parte del mondo – sia in campo
religioso sia in quello governativo – hanno un proposito comune. Per queste
ragioni che faccio presenti a Vostra Santità sarebbe per me di grande
soddisfazione mandarvi un mio rappresentante personale affinchè i nostri
122 E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 (dalle carte di Myron C. Taylor), Franco Angeli, Milano, 1978, p. 14.
sforzi paralleli per la pace e l’alleviamento delle sofferenze possano essere
debitamente assistiti”123.
3.6 Il rappresentante di Roosevelt, Myron C. Taylor
123 Ivi, pp. 99-100.
Il segretario del Presidente, Stephen T. Early, dichiarò alla stampa, subito
dopo la comunicazione del nome di Taylor, che: “la nomina di Mr. Taylor non
poteva in alcun modo essere considerata come ripresa delle relazioni
diplomatiche tra gli Stati Uniti e il Vaticano”124; d’altra parte, la stessa formula
usata per accreditare Taylor, serviva per evitare di provocare reazioni
incandescenti: infatti Taylor veniva inviato in Vaticano come “rappresentante
personale del presidente degli Stati Uniti presso Sua Santità Pio XII” e il rango
di ambasciatore gli veniva conferito solo a titolo personale. Egli veniva
considerato come un vero e proprio rappresentante diplomatico ufficiale,
anche se non permanente, come gli altri accreditati presso il Vaticano.
Il pensiero di Gaetano Salvemini in proposito: “Non si può non ammirare la
saggezza del presidente Roosevelt giacchè con la nomina di Taylor riuscì a
prendere tanti piccioni con una fava. Egli aveva scelto il momento giusto e la
maniera più opportuna per attuare il suo piano, facendo piacere sia al Papa sia
a Mussolini, e provocando solo una leggera commozione nell’opinione pubblica
americana. Infatti, le deboli proteste espresse da alcuni rappresentanti di
diverse sette protestanti e da qualche singolo individuo, furono
controbilanciate dalle grandi lodi con le quali la nomina di Taylor fu accolta dai
124 The New York Times, 24 dicembre 1939; cfr.: D. B. Morlan, op. cit., p. 22, citato in Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti, op. cit., p. 29.
rappresentanti della Chiesa cattolica e di qualche gruppo di altre sette
protestanti”125.
Nei primi mesi del 1940, ci furono una serie di proteste per la creazione della
rappresentanza americana in Vaticano, nonostante l’accortezza usata da
Roosevelt di inviare nello stesso giorno in cui scrisse al papa, lettere anche
verso le massime autorità religiose statunitensi, come il rabbino Cyrus Adler
(presidente del Seminario teologico ebraico di New York)), e il dott. George
Buttrick (presidente del Consiglio federale delle Chiese di Cristo in America). Le
reazioni più vivaci furono quelle delle varie confessioni protestanti, che
condannavano la riapertura dei contatti diplomatici accusando il Presidente di
violazione del principio, sancito nella Costituzione, di separazione tra Stato e
Chiesa.
Dopo la sua nomina, Taylor rinviò la data della sua partenza di qualche
settimana, per ragioni di salute, e arrivò in Italia, a bordo del transatlantico
Rex, verso la metà del febbraio 1940. Il 27 febbraio fu ricevuto per la prima
volta da Pio XII: in seguito, tornò in Vaticano altre quindici volte, alternando la
presenza a Roma con viaggi in varie città europee. Infatti Taylor non fu
incaricato di risiedere stabilmente in Vaticano, ma di recarsi a Roma quando
125 G. Salvemini, L’Italia vista dall’America, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 262.
ritenesse necessario. Da ciò si evince che l’ambito della sua azione non fosse
limitato solamente alle relazioni fra Santa Sede e Stati Uniti, ma si espandesse
a molteplici aspetti della politica estera americana. Nel corso dei frequenti
viaggi che Taylor effettuava presso le capitali europee, egli aveva l’occasione di
incontrare le massime autorità ecclesiastiche, ma anche le autorità politiche, e
con esse trattava di problemi non necessariamente collegati con la sua
funzione in Vaticano.
Ben presto la questione dei soccorsi ai rifugiati venne dimenticata, e al centro
dell’attività di Taylor fu preponderante il problema della guerra europea, e
soprattutto l’interrogativo se l’ingresso dell’Italia nel conflitto potesse essere
evitato. Proprio l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco della Germania (a
dispetto degli appelli alla pace recapitati a Mussolini da parte di Roosevelt e
Pio XII) sembrò, in qualche modo, ridimensionare l’utilità della missione
statunitense presso la Santa Sede, e, successivamente, a metterne in dubbio la
prosecuzione stessa fu il forzato ritorno di Taylor negli Usa per motivi di salute,
nell’agosto 1940.
Il Dipartimento di Stato statunitense, ed il Presidente, intenzionato a
continuare le relazioni con il Vaticano, e “anzi spinto dal timore che, di fronte
all’evidente incapacità degli inglesi di resistere alle forze dell’Asse, il Vaticano
avesse ceduto alle pressioni italo-tedesche sulla base di valutazioni umanitarie
circa la necessità di tutelare le popolazioni cattoliche d’Europa”126, scelse di
sostituire provvisoriamente il convalescente Taylor con Harold H. Tittmann, già
suo collaboratore a Roma e addetto all’ambasciata americana. Egli ottenne il
titolo di incaricato d’affari, e lavorò presso la Santa Sede fino al luglio 1944; in
quel lasso di tempo collaborò soprattutto per la preparazione delle successive
missioni di Taylor a Roma.
La presenza di un suo rappresentante presso il Vaticano, era ormai
fondamentale per Roosevelt. Perché consentiva al Presidente, quindi agli Usa,
di essere presente nell’emporio dell’intelligence europea. Al proposito
Castagna: “Sebbene circondato, com’esso fu da quando l’Italia aveva optato
per l’ingresso in guerra, dalle potenze nazi-fasciste, il Vaticano conservava
un’importanza straordinaria. In quell’apparente minuscolo enclave (…) era
infatti possibile da una posizione privilegiata gli sviluppi delle vicende europee,
entrare in quello che poi sarebbe stato definito come il “ventre molle” dell’Asse
e, soprattutto, operare a stretto contatto con Eugenio Pacelli, silenzioso papa
oppositore degli abomini di guerra. Roosevelt, che della lotta al nazi-fascismo
126 Castagna, op. cit., p. 334.
fu il campione, riconobbe tutto ciò e all’intransigente anti-papismo dei decenni
passati, preferì un approccio pragmatico per riavvicinarsi al Vaticano”127.
127 Castagna, op. cit., p. 335.
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Periodici
“Annuario di Politica internazionale” – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano
“La Civiltà Cattolica” – Roma
“Nuova Antologia” – Fondazione “Spadolini Nuova Antologia”, Firenze
“Passato e Presente” – Milano
“Rassegna storica del Risorgimento” – Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma
Quotidiani
“Il Corriere d’Italia” – Roma
“Il Giornale d’Italia” – Roma
“Il Popolo d’Italia” – Napoli, fondato nel settembre 1860 da Giuseppe Mazzini
“Il Popolo d’Italia” – Roma, fondato nel novembre 1914 da Benito Mussolini
“Il Progresso Italo-americano” – New York
“L’Avvenire d’Italia” – Bologna
“L’Idea” – Roma
“L’Osservatore Romano” – Città del Vaticano
“La Corrispondenza” – bollettino d’informazione, Città del Vaticano