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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “LA SAPIENZA”di ROMA DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE DOTTORATO IN STORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI XXV CICLO – A.A. 2012-2013 SANTA SEDE E STATI UNITI TRA IL 1936 E IL 1939 CANDIDATO: DOTT. MASSIMO SABA

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “LA SAPIENZA”di ROMA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

DOTTORATO IN STORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

XXV CICLO – A.A. 2012-2013

SANTA SEDE E STATI UNITI TRA IL 1936 E IL 1939

CANDIDATO:

DOTT. MASSIMO SABA

TUTOR:

CHIAR.MO PROF: GIUSPPE IGNESTI

DIRETTORE DEL DOTTORATO:

CHIAR.MO PROF. G. LUIGI ROSSI

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INDICE

Introduzione

I La fase iniziale: i rapporti tra Vaticano e Washington fra il Settecento e la Grande Guerra

1.1 Dalle origini alla rottura ..........................................………………… 11.2 L’interruzione dei rapporti diplomatici ufficiali (1867)

………………………...............................................................……….. 131.3 La ricerca di una difficile intesa: dal 1867 al tentativo di mediazione del 1916-

1918 ……………………………………………....…... 171.4 Strategie vaticane tra la fine della Grande Guerra e Versailles (1918-1920)

……………...………………………………………………………….. 44

II Santa Sede e Stati Uniti: la transizione degli anni Venti (1920-1930)

2.1 La fase successiva alla guerra: il dopo Wilson ……….………..….....512.2 Il nativismo anti-cattolico ed il National Catholic Welfare

Council ....................................................................................………….. 572.3 I repubblicani al potere; prove di intesa fra Harding e Bonzano ..42.4 Il dopo Bonzano, il Ku Klux Klan e il nativismo anti-cattolico .........................

………………………………………………………………………. 882.5 La questione messicana ………………………………………....…………….. 972.6 L’avvento del fascismo e i Patti Lateranensi ....………………………101

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III Gli anni del disgelo (1930-1943)

3.1 Roosevelt e il “New deal” ...………………………………………….….. 1083.2 Nuove line di intesa fra Vaticano e Stati Uniti …………....……. 1133.3 Verso la ripresa dei rapporti diplomatici: dalla questione russa all’incontro

Pacelli-Roosevelt ………………………………....……….. 1203.4 Gli anni della preparazione all’intesa (1937-1938) ……....…. 1353.5 La stretta finale: il 1939, l’anno della svolta ….…………...……. 1433.6 Il rappresentante di Roosevelt, Myron C. Taylor …....……….. 153

IV Il carteggio Taylor

Bibliografia

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Introduzione

Con questo lavoro di ricerca si intende ricostruire ed analizzare uno degli

aspetti più interessanti della storia dei rapporti fra Santa Sede e Stati Uniti del

XX secolo, cioè il ripristino delle formali relazioni diplomatiche fra i due stati.

L’interesse per questa tematica è nato a seguito della lettura del volume di

Ennio Di Nolfo “Vaticano e Stati Uniti 1939-1952” opera fondamentale per

l’argomento, nella quale si fa particolare riferimento al carteggio di Myron

Taylor, l’inviato personale del presidente Roosevelt presso Pio XII.

Nel 1939, con l’inizio e successivamente l’inasprimento del secondo conflitto

mondiale, il presidente statunitense Roosevelt stava entrando nell’ordine di

idee di un intervento americano diretto nel conflitto, evento che avrebbe

richiesto l’adozione di scelte coraggiose. Una di queste fu la decisione di

ripristinare i rapporti diplomatici con la Santa Sede; il Presidente rese nota la

sua volontà nel messaggio natalizio a Pio XII, il 23 dicembre 1939.

Parallelamente all’invio di Myron C. Taylor in Vaticano come suo

rappresentante personale, si alzò un coro di decise proteste sia da parte delle

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autorità fasciste, sia da parte dell’opinione pubblica che del protestantesimo

americano. Per Mussolini, e per la Germania nazista, il riavvicinamento fra Usa

e Santa Sede rappresentava il pericolo di consolidamento delle potenze

avverse all’Asse, mentre per la gran massa dell’opinione pubblica americana

esso rappresentava una violazione del principio di separazione tra Stato e

Chiesa.

Effettivamente, a partire dalla chiusura della legazione Usa presso la Santa

Sede nel 1867, i rapporti con il pontefice erano stati complicati, a causa anche

delle continue manifestazioni di anti-cattolicesimo che si erano susseguite a

tutti i livelli della società statunitense. Ufficialmente la missione americana era

stata soppressa dal Senato per una questione di fondi, i veri motivi erano da

cercarsi altrove, innanzitutto nella visione del Vaticano come simbolo

dell’oscurantismo e dell’ancien régime, e della inconciliabilità del carattere

chiuso della Chiesa con il modello statunitense.

La questione dei rapporti fra i due Stati tornò prepotentemente d’attualità

durante la Prima guerra mondiale, soprattutto a causa dell’atteggiamento di

chiusura verso il Vaticano del presidente americano, Woodrow Wilson. Egli era

un fervente anti-cattolico, e la sua avversione, seppure in linea con i dettami

della cultura wasp, lo portò al rifiuto di qualunque iniziativa di pace promossa

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da Benedetto XV, e alla decisa affermazione della diversità tra il progetto

americano di rifondazione del sistema internazionale e quello del pontefice.

Inoltre due ordini di problemi allontanavano la prospettiva di riavvicinamento

con la Santa Sede: in primo luogo la poderosa ondata di nazionalismo che

pervadeva la società statunitense negli anni successivi alla Grande Guerra, che

si concretizzava nel nativismo anti-cattolico; in secondo luogo i difficili rapporti

tra la Chiesa centrale di Roma e la Chiesa cattolica nordamericana, che veniva

accusata di eterodossia.

Nel dopo Wilson quindi tutte le amministrazioni repubblicane, ad eccezione

dei piccoli segnali distensivi lanciati dalla presidenza Harding, non dedicarono

tempo ed energie al dialogo con la Santa Sede.

La svolta nei rapporti fra Usa e Vaticano si ebbe con la presidenza Roosevelt da

una parte e la figura di Eugenio Pacelli dall’altra.

Nella seconda metà degli anni Trenta ci fu una reale convergenza tra la

dottrina sociale della Chiesa e i principi del New Deal rooseveltiano. Non

minore fu l’importanza dell’impegno di alcuni uomini come i cardinali

statunitensi Mundelein e Spellman, e gli uomini dello staff presidenziale, che

resero possibile la riabilitazione del cattolicesimo nel tessuto socio-politico

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nazionale e la ripresa dei rapporti diplomatici. Dalla visita dell’allora cardinale

Pacelli negli Usa nel 1936, all’invio a Roma di Myron Taylor nel 1940,

l’avvicinamento fra i due Stati fu lungo ma proficuo.

Per quanto riguarda la storiografia riguardante la ricostruzione dei rapporti

politico-diplomatici tra Stati Uniti e Santa Sede, l’apporto delle fonti varia a

seconda del periodo.

Sulla fase che va dall’inizio dei rapporti fra i due Stati alla fase

immediatamente successiva alla Grande Guerra, vanno sottolineati i lavori di

Francis Leo Stock, riguardanti la raccolta di documenti delle rappresentanze

consolari fino al 1867, oltre che quelli di Luigi Bruti Liberati e di Dragoljub R.

Zivojinovic.

Per quanto riguarda il ventennio tra le due guerre vanno citati i volumi di

George Q. Flynn e di Gerald P. Fogarty. Il secondo in particolar modo analizza

con precisione i motivi ed i protagonisti del riavvicinamento della seconda

metà degli anni Trenta, mettendo in luce l’importanza della figura di Francis

Spellman.

All’interno della pubblicistica italiana lo studio più autorevole è quello del Prof.

Ennio Di Nolfo, “Vaticano e Stati Uniti 1939-1952”, ma di non minore

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importanza risulta il recente volume di Luca Castagna, “Un ponte oltre

l’oceano”, esaustivo in particolar modo nella ricostruzione delle vicende

interne alla società e alla gerarchia ecclesiastica americana negli anni Venti e

Trenta.

Altrettanto importante è risultata la consultazione di altri volumi: “Usa e

Santa Sede. La lunga strada” di Jim Nicholson, ex ambasciatore statunitense

presso la Santa Sede, illuminante per quanto concerne la prospettiva

americana della vicenda, ed il lavoro di Massimo Franco “Imperi paralleli”.

Entrambi i volumi offrono una visuale di ampio raggio dei rapporti fra Usa e

Vaticano, ricostruendoli a partire dalla nascita dello stato americano fino ai

nostri giorni.

Per quanto concerne le fonti di carattere archivistico sono stati utilizzati per

questa ricerca alcuni documenti dell’Archivio Segreto Vaticano, e

segnatamente i fondi “Rappresentanze Pontificie, Delegazione Apostolica degli

Stati Uniti d’America”, “Segreteria di Stato”, e “Sacra Congregazione dei

Vescovi e Regolari”, ed i fondi “Gabinetto” e “Affari Politici, 1919-1930/1931-

1945” dell’Archivio Storico-diplomatico del ministero degli Affari Esteri.

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Capitolo 1

La fase iniziale: i rapporti tra Vaticano e Washington fra il

Settecento e la Grande Guerra

1.1 Dalle origini alla rottura (1797-1867)

La seconda metà degli anni Trenta del ventesimo secolo rappresenta il periodo

storico in cui si concretizzò il riavvicinamento fra Santa Sede e Stati Uniti, sia

per quanto riguarda le relazioni politico-diplomatiche, sia da un punto di vista

socio-economico. Lunga fu però la gestazione di questa vicenda, che merita

dunque una ricostruzione storica che pone le sue basi nel XVIII secolo.

Ancor prima della nascita degli Stati Uniti esisteva sul territorio nordamericano

una cultura anti-papista profondamente radicata; a tal proposito il 4 agosto

1779 così scriveva John Adams al Congresso: “Congress will probably never

send a minister to his Holiness, who can do them no service, upon condition of

receiving a Catholic legate or nuncio in return; or, in other words, an

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ecclesiastical tyrant, which, it is to be hoped, the United States will be too wise

ever to admit in their territories”1. Le parole di Adams riflettevano il

sentimento comune, nel neonato stato americano, di avversione alla Santa

Sede in quanto facente parte del “vecchio mondo Europa” nel suo insieme,

della quale avversione la Dichiarazione di indipendenza costituiva il manifesto,

la presa di distanza dalle diseguaglianze presenti in tutta Europa. Inoltre il

discorso di Adams al Congresso prefigurava quello che sarebbe stato il

prosieguo delle relazioni tra Stati Uniti e Vaticano, cioè un rapporto segnato,

per circa due secoli, da ostilità e incomprensioni.

Verso la fine del Diciottesimo secolo l’atteggiamento americano iniziò a

cambiare, innanzi tutto sotto la spinta di motivi di carattere commerciale: i

primi governi americani acconsentirono alle richieste di contatti più formali da

parte del Vaticano (fin dal 1783 la Santa Sede aveva manifestato il suo

interesse ad intrattenere rapporti diplomatici con la nuova Confederazione

americana) “in cambio” dell’apertura dei porti di Ancona e Civitavecchia alle

navi statunitensi, snodi essenziali per le merci americane dirette in Europa

orientale e nel Mediterraneo.

1 P. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill-London, North Carolina University Press, 2004, p.104, citato in Luca Castagna, Un ponte oltre l’oceano, Bologna, Il Mulino, 2011, p.47.

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Fu proprio il presidente John Adams, in passato fervente oppositore delle

relazioni tra i due stati, ad inviare in Vaticano nel 1797 il primo console

americano, Giovanni Sartori, il quale fu uno degli undici consoli a

rappresentare gli interessi dell’America fino al 1867. Anche non essendo

ambasciatori il governo pontificio garantiva loro privilegi e favori inusuali, tra

cui quello di essere ricevuti a tutte le cerimonie ufficiali allo stesso modo con

cui erano ammessi i diplomatici delle altre nazioni. L’ufficio consolare, oltre a

proteggere gli interessi commerciali ed a occuparsi delle necessità degli

americani all’estero, offriva l’occasione di controllare, da una posizione

privilegiata, l’agitazione rivoluzionaria che si diffondeva in Europa nel XIX

secolo, come ad esempio testimonia un cablogramma inviato a Washington

nel 1831 dal successore di Sartori, Felix Cicognani, in cui si riferisce della

presenza di truppe austriache nello Stato Pontificio e del progetto di Gregorio

XVI di fuggire in Spagna.

Roma era un centro di raccolta di informazioni e la legazione nel Vaticano

costituiva un importante “punto di ascolto” non solo sulla Santa Sede ma su

tutta Europa2.

2 F. Cicognani lettera a M. Van Buren, Roma 21 febbraio 1831, in F.L. Stock, Consular Relations Beetween the United States and the Papal States: Instructions and Despatches, vol. II, ed. L.F.Stock, Catholic University Press, Washington, 1933, p.33, citato in Jim Nicholson, Usa e Santa Sede. La lunga strada, Roma, Trenta Giorni Edizioni, 2004, p.15.

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L’ascesa di Pio IX al soglio pontificio favorì un salto di qualità nelle relazioni

diplomatiche fra Vaticano e Usa; l’impronta liberale che Mastai Ferretti diede

al suo pontificato venne accolta con entusiasmo negli Stati Uniti; così Di Nolfo:

“L’eco delle riforme di Pio IX raggiunse gli Stati Uniti e la tinta liberale di queste

riforme fece si che, accanto ai cattolici, anche altri esponenti del mondo

politico americano si trovassero affiancati nel sostenere l’opportunità di

istituire regolari relazioni diplomatiche tra i due Stati”3.

Nel giugno del 1847 Pio IX manifestò al console Brown il desiderio di stabilire

relazioni diplomatiche fra i due governi; nel dicembre dello stesso anno il

presidente Polk si espresse favorevolmente in proposito, elevando la qualifica

del funzionario da console a “chargé d’affaires”: un passo in avanti che scatenò

un aspro dibattito nel Congresso. Infatti nella seduta del 21 marzo 1848 il

Senato discusse la proposta di inserire nel bilancio federale uno stanziamento

di fondi per il chargé d’affaires presso il Papa; due furono gli argomenti a

favore dell’elevazione di livello della missione. Il senatore Lewis Cass,

favorevolmente impressionato dal sostegno che il pontefice stava mostrando

per i moti popolari europei, si espresse in favore dell’invio di un vero e proprio

ambasciatore , in base al fatto che la Santa Sede esercitava un potere

temporale morale. Nicholson ci riporta una parte del discorso di Cass: “Gli

3 Ennio Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 (dalle carte di Myron C. Taylor), Milano, Franco Angeli, 1978, p. 19.

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occhi della cristianità sono sul suo sovrano. Egli ha dato il primo colpo al

dispotismo e il primo slancio verso la libertà. Molto ci si aspetta da lui…La

diplomazia d’Europa troverà pieno impiego alla sua Corte, e i suoi inviati più

esperti saranno lì in Vaticano. Anche il nostro governo dovrebbe esservi

rappresentato”4.

La seconda argomentazione in favore delle relazioni formali era sostenuta dal

senatore dello stato di New York John Dix, il quale sottolineava i benefici

commerciali di un rapporto più completo con il Vaticano. A dispetto di molti

altri senatori che valutavano lo Stato pontificio privo di interesse dal punto di

vista commerciale, Dix argomentava che: “A dispetto della depressa condizione

della dell’industria dello Stato Pontificio, non c’è Paese capace di una più ricca

e varia produzione; e se le misure della riforma in atto saranno portate avanti,

e la condizione sociale, così come quella politica, della popolazione sarà

migliorata dall’abrogazione delle cattive leggi, io non conosco nessuno Stato

della stessa grandezza che possa sperare in una maggiore prosperità”5.

Le obiezioni di carattere religioso ebbero un ruolo marginale nel dibattito del

1848. Una delle poche voci contrarie all’invio del chargé d’affaires, il senatore

Andrew Butler, sosteneva che la missione avrebbe avvantaggiato la religione

4 Dibattito sulla Missione presso lo Stato Pontificio, 21 marzo 1848, in Congressional Globe, Blair and Rives, Washington DC, 1848, p.405, citato in Jim Nicholson, op. cit., p.17.5 Ivi, p.18.

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cattolica negli Usa. Ma Cass fu svelto nel fare l’importante distinzione che gli

Stati Uniti avrebbero inviato il loro rappresentante al Papa nella sua qualità di

sovrano e che questo non aveva nulla a che fare con il suo ruolo di capo della

Chiesa cattolica romana.

Alla fine il disegno di legge fu approvato e Jacob L. Martin fu nominato da Polk

come primo chargé d’affaires presso il Vaticano, però persistevano

preoccupazioni sui conflitti di carattere religioso, tanto che il segretario di

Stato Buchanan istruì Martin di: “evitare attentamente di interferire anche

minimamente nelle questioni ecclesiastiche, anche se queste avessero

riguardato gli Stati Uniti o qualsiasi altra parte del mondo”6.

Le vicende politiche italiane ed europee ben presto incrinarono la fama di

riformatore di cui Pio IX beneficiava, infatti dal punto di vista protestante

l’opposizione del Papa alla Repubblica romana costitutiva la conferma di come

l’iniziale slancio liberale del pontefice fosse stato transitorio. Nel frattempo,

nel periodo in cui i rivoluzionari costrinsero il Papa a rifugiarsi a Gaeta, vi fu un

episodio esemplificativo di quale fosse l’atteggiamento degli Usa verso il

Vaticano e Pio IX in particolare. Proprio a Gaeta, nel 1849, ebbe luogo la prima

visita di un papa sul suolo statunitense, visita che si trasformò in un disastro

6 Ivi, p. 19.

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diplomatico. Il pontefice si trovava a colloquio con Ferdinando II di Borbone,

quando l’incaricato Usa a Napoli, John Rowan si vide, in qualche modo

“costretto” ad invitare le due personalità all’inaugurazione della fregata USS

Constitution, ormeggiata nel porto della cittadina. Il Papa e il Re furono accolti

a bordo dal capitano John Gwinn, il quale però, sottolinea Nicholson: “aveva

ricevuto un ordine scritto di non accogliere i due uomini a bordo perché

entrambi stavano difendendo i loro troni contro i rivoluzionari, e gli Stati Uniti

volevano mantenere una stretta neutralità…la USS Constitution non era

semplicemente un simbolo degli Stati Uniti d’America, ma secondo la legge

della marina militare, era suolo statunitense extraterritoriale”7. Sull’episodio

Massimo Franco: “il pontefice fece il mestiere di papa, incurante delle

implicazioni che qualunque suo gesto avrebbe avuto sull’opinione pubblica al di

là dell’Atlantico. Così…impartì benedizioni, andò a trovare i marinai, e regalò

corone di rosari ai cattolici dell’equipaggio, come se si fosse trovato davanti ai

pellegrini ricevuti in udienza”8. Ed ancora: “il pregiudizio imperante sull’altra

sponda dell’Atlantico era speculare alla profonda ignoranza vaticana sulla

complessità della società statunitense. L’ipersensibilità a ogni ingerenza, vera o

presunta, alla separazione netta fra Stato e religione, fra politica e fede, alla

7 Ivi, p. 20.8 Massimo Franco, Imperi Paralleli. Vaticano e Stati Uniti: due secoli di alleanza e conflitto 1788-2005, Milano, Mondadori, 2005, p. 35.

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Santa Sede appariva eccessiva: non la comprendeva fino in fondo, e forse

sperava di aggirarla comportandosi con i cattolici del Nuovo Mondo come

faceva con quelli europei. Ma la differenza era fondamentale, e ogni passo

falso provocava reazioni incalcolabili, delle quali non si avvertiva la profondità

e alle quali si contrapponeva un misto di stupore e di senso di offesa, di lesa

sacra maestà”9.

Nel 1854 il Congresso elevò il rappresentante a Roma al rango di Minister, ma

nonostante questo la missione americana sembrava una sede sempre meno

ambita; questo per tutta una serie di ragioni, sia interne che esterne. Tra le

prime, il ferreo controllo dell’amministrazione statunitense, preoccupata dalle

possibili ripercussioni interne di qualunque apertura eccessiva verso il papa, e

soprattutto i salari ritenuti troppo bassi, perché il governo non poteva elargire

alte retribuzioni per una missione ritenuta illegittima dalla maggior parte

dell’opinione pubblica. Tra le ragioni esterne, il rigido e asfissiante protocollo

vaticano. Così tutti i ministri residenti a Roma dal 1854 al 1863 si dimisero

poco dopo la nomina; si tratta nello specifico di Cass, John Stockton,

Alexander W. Randall, e Richard M. Blatchford. Rufus King invece fu minister

per il periodo dal 1863 al 1867, e sarebbe stato l’ultimo rappresentante

americano presso la Santa Sede per un lungo periodo. L’arco temporale della

9 Ivi, p. 34.

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missione di King fu un periodo complicato sia per gli USA, impegnati nella

guerra civile, sia per lo Stato Pontificio, impegnato a fronteggiare le crescenti

opposizioni al potere temporale del papa.

In questo periodo un incidente mise a dura prova le relazioni diplomatiche fra

Stati Uniti e Vaticano: nel 1863 Pio IX inviò una lettera agli arcivescovi di New

York e di New Orleans, uno geograficamente nordista e l’altro sudista,

rivolgendo loro un appello per la pace. Il presidente confederale Jefferson

Davis rispose alla lettera del papa, il quale a sua volta rispose, rivolgendosi

direttamente: "all’illustre e onorabile Jefferson Davis, presidente degli Stati

confederati d’America”10. L’atteggiamento del papa fu recepito dai nordisti

come una inopinata scelta di campo, nonostante il segretario di Stato vaticano,

Antonelli, negasse qualsiasi finalità politica; infatti secondo Franco: “ il guaio,

per la Santa Sede, era che quella lettera sembrava schierare Pio IX dalla parte

più retriva della società americana; e soprattutto, di quella perdente. Il

risultato fu di mantenere unito il clero americano; ma al prezzo di connotarsi

come chiesa conservatrice, lasciando ai protestanti la bandiera del progresso…

si sarebbe rivelata di lì a quattro anni uno dei motivi inconfessati della rottura

di fatto delle relazioni diplomatiche tra Washington e la Roma papalina”11.

10 Nicholson, op. cit., p. 22.11 Franco, op. cit., p. 37.

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1.2 L’interruzione dei rapporti diplomatici ufficiali (1867)

Dalla fine del 1866 circolavano ormai insistentemente alcune voci, all’interno

dell’amministrazione americana, riguardanti l’imminente cessazione dei

rapporti diplomatici con la Santa Sede, considerata ormai un partner scomodo,

sia a livello di politica interna che estera.

Il pretesto per porre in essere la chiusura della delegazione a Roma fu una

diceria riguardante la libertà religiosa dei protestanti all’interno della Città del

Vaticano; infatti fin dalla prima missione americana presso il Vaticano, le

autorità pontificie avevano autorizzato la celebrazione delle funzioni religiose

protestanti, in un primo momento a casa del rappresentante americano,

successivamente, data la numerosa affluenza, in un appartamento rispondente

all’autorità degli Usa. Il New York Times riportava invece la notizia che il Papa

avesse impedito la prosecuzione delle cerimonie: fatto che lo stesso minister

americano, Rufus King, negava con decisione in una nota urgente indirizzata al

Dipartimento di Stato.

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Nonostante gli sforzi di King, il 28 febbraio 1867, il Congresso approvò la legge

che proibiva di stanziare i fondi per qualunque missione diplomatica degli Stati

Uniti presso la Santa Sede12. In questo modo non si interrompevano

formalmente le relazioni diplomatiche, ma si impediva la possibilità che queste

proseguissero. Tutto ciò in larga parte era dovuto al venir meno delle ragioni

che avevano contribuito alla istituzione della missione, e al prevalere delle

ragioni che la avversavano. Al proposito Di Nolfo: “Nel 1867, all’indomani della

guerra di Secessione americana, l’importanza dei commerci con il Lazio, cioè la

sola parte degli Stati pontifici ancora nelle mani del Papa, era certamente assai

ridotta. Del pari il ruolo della Santa Sede come posto d’osservazione della

politica europea era decaduto, come pure la misura di simpatia di cui il Papato

e personalmente Pio IX potevano godere presso i liberali americani era

certamente assai ridotta”13.

Per quelli che, all’interno del Senato, erano stati fin dal primo momento

contrari, le relazioni diplomatiche con il Vaticano rappresentavano un

privilegio non dovuto concesso ai cattolici. Dopo il 20 settembre 1870 invece,

privato il pontefice di ogni potere temporale, il problema delle relazioni con la

Santa Sede acquisiva aspetti inediti e non sfuggiva a valutazioni riguardanti il

12 Nicholson, op. cit., p. 24.13 Di Nolfo, op. cit., p. 20-21.

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carattere religioso dell’autorità pontificia. Franco sottolinea che: “in sostanza,

mano a mano che il ruolo del papato veniva circoscritto a livello territoriale e

messo in discussione politicamente, i senatori statunitensi, con notevole

anticipo rispetto alla caduta dello stesso Stato Pontificio, prendevano coscienza

della natura puramente religiosa o prevalentemente religiosa della missione

pontificia nel mondo”14.

Comunque sia la decisione del Congresso del 1867 risultò essere la prova più

eclatante del pregiudizio antipapista presente nella società e nella

amministrazione americana. Di qui in poi, si sarebbero avuti soltanto rapporti

frammentari e irregolari fra i due Stati, almeno fino al 1940, anno in cui si

riavviarono le relazioni diplomatiche formali.

14 Franco, op. cit., p. 59.

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1.3 La ricerca di una difficile intesa: dal 1867 al tentativo di mediazione

del 1916-1918

Dal 1867 in avanti tra i due Stati ci furono solamente contatti informali, come

testimonia la quasi completa assenza di documenti negli archivi dei documenti

diplomatici americani.

Il ripristino dei fondi per la missione Usa presso il Vaticano non fu neanche

lontanamente preso in considerazione dai vari governi che si susseguirono,

però va notato che mentre sotto le amministrazioni repubblicane la questione

dei rapporti con la Santa Sede fu praticamente ignorata, con la vittoria dei

democratici alle elezioni del 1912 divenne presidente degli Stati Uniti

Woodrow Wilson, un anticattolico convinto.

Wilson aveva manifestato la sua avversione nei riguardi degli immigrati

cattolici in tempi non sospetti, già dal 1902, quando ricopriva la carica di

rettore della università di Princeton, quando scriveva : “now there came

multitudes of men of the lowest class fom the south of Italy and men of the

meaner sort out from Hungary and Poland, men out of the ranks where there

was neither skill nor energy nor any initiative of quick intelligence,…as if the

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countries of the south of Europe were disburdening themselves of the more

sordid and hapless elements”15. Da presidente Usa, Wilson continuò a non

ascoltare le istanze dei cattolici, come in occasione della rivoluzione messicana

del 1915 quando appoggiò il governo Carranza, che perseguitava la chiesa

cattolica. Durante la Grande Guerra poi l’inconciliabilità tra le posizioni di

Benedetto XV e Wilson diventò assoluta, perché la posizione da cui partiva

Wilson era di completa opposizione alla diplomazia del Vaticano, che

considerava solamente una ingerenza fuori luogo di un leader spirituale negli

affari politico-internazionali: da qui l’opposizione alla partecipazione della

Santa Sede ad eventuali conferenze di pace e a qualunque arbitrato tra paesi

belligeranti. Per tutta risposta il Vaticano criticava l’amicizia verso gli Inglesi

sempre mostrata da Wilson e l’appoggio in forma di armi alle potenze

dell’Intesa.

Sottolineamo comunque il fatto che l’anticattolicesimo di Wilson va

indubbiamente inquadrato in un contesto, quello americano, frammentato e

di difficile composizione. Tra il 1875 ed il 1890 la popolazione cattolica degli

Stati Uniti decuplicò a causa delle migrazioni provenienti dall’Europa; il veloce

incremento del numero dei fedeli pose dunque la Chiesa cattolica di fronte

all’esistenza di una sempre più radicata comunità cattolica all’interno di una

15 W.Wilson, A History of the American People, vol. 5, Charleston, Bibliolife, 2009, p.212, cit. in Castagna, op. cit., p. 61.

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società multietnica, multinazionale e pluralistica, che in quanto tale non

riconosceva al cattolicesimo il monopolio della verità religiosa, ma anzi, ne

osteggiava il carattere oscurantista. I sacerdoti più giovani, per integrarsi

finirono per rifiutare il centralismo di Roma, individuando i punti deboli della

Chiesa cattolica proprio nella mancanza di rinnovamento e nel formalismo più

rigido. Roma vedeva con sospetto le differenze e le istanze del clero

americano, avendo paura che esso nascondesse addirittura nel suo interno

velleità di snaturare il cattolicesimo. Dal Concilio Plenario dei vescovi di

Baltimora del 1884 il Vaticano ebbe due importanti risposte riguardanti la

composizione della Chiesa americana. Prima di tutto che l’ingerenza vaticana

negli affari dell’episcopato americano non poteva andare d’accordo con la sua

vocazione autonomistica e di collegialità; in secondo luogo che la Chiesa

americana non poteva avere una linea politico-culturale unitaria, con una

gerarchia composta da tedeschi, francesi e irlandesi ed una popolazione

formata da una moltitudine di nazionalità. La Chiesa statunitense era divisa tra

le piccole diocesi dell’Ovest e le grandi diocesi metropolitane della costa

orientale, era divisa poi politicamente tra conservatori e progressisti, ed era

infine divisa da motivazioni di ordine linguistico (con lo scontro tra i vescovi di

lingua inglese da un lato e quelli di lingua tedesca e francese dall’altro).

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Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale la Santa Sede prese una

posizione favorevole alla causa dello schieramento degli Imperi Centrali ed in

particolar modo dell’impero austroungarico; questo perché una possibile

vittoria austro-tedesca avrebbe potuto restituire al pontefice il potere

temporale perso a causa dell’unificazione d’Italia, oltre che proteggere la

numerosa popolazione cattolica austriaca. Tuttavia dopo l’ingresso in guerra

dell’Italia dalla parte dello schieramento dell’Intesa (quindi al fianco di Gran

Bretagna e Francia) e la sottoscrizione italiana del Trattato di Londra (nel quale

si stabiliva l’esclusione del Vaticano dai futuri negoziati di pace), il Vaticano,

vedendo sfumare la possibilità di successo per gli Imperi Centrali, cercò

attraverso la sua diplomazia di instaurare un rapporto più stretto con gli Stati

Uniti, tale da indurre gli Usa stessi a supportare Benedetto XV nel permettergli

di ricoprire un ruolo di primo piano nella composizione del conflitto.

Così, il 4 agosto 1915 il cardinale Gasparri, segretario di stato vaticano, lanciò

una comunicazione diretta a tutte le nunziature apostoliche, e diretta anche a

Giovanni Bonzano, che non era un diplomatico ma il delegato apostolico negli

Stati Uniti. La circolare metteva in luce, dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, le

difficoltà vaticane di comunicazione sia con gli Stati non alleati dell’Italia, sia

con quelli neutrali, dunque una sorta di boicottaggio delle comunicazioni da

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parte delle autorità italiane. Castagna riporta le parole del cardinale Gasparri:

“era chiaro, adunque, che la situazione creata alla Santa Sede dai fatti del 1870

fosse divenuta essenzialmente precaria ed incerta poiché (dipendente) da

mutevoli circostanze di uomini e di avvenimenti…ma se il Santo Padre per

ragioni che è facile comprendere, non chiama eserciti stranieri a ristabilirlo sul

suo trono temporale, ciò non significa che i governi degli Stati cattolici, o che

contino dei cattolici fra i loro sudditi, non abbiano il diritto di preoccuparsi della

situazione anormale della Santa Sede; essi ne hanno anzi il dovere”16. Bonzano

avrebbe dovuto discutere di questi problemi con i diplomatici italiani residenti

a Washington, con il Dipartimento di Stato e con i diplomatici americani

presenti a Roma, oltre che con il Ministero degli Esteri, ma non avendo il

Vaticano canali diplomatici ufficiali con gli Usa, gli unici validi interlocutori di

cui la Santa Sede disponeva erano Bonzano stesso e l’unico cardinale

americano del momento, James Gibbons.

Per quanto riguarda Gibbons, dopo la sua nomina ad arcivescovo di Baltimora

nel 1872, aveva stretto rapporti cordiali con molti presidenti americani, ma

non con Wilson. J. T. Ellis racconta che: “la sua vanità lo portò ad enfatizzare

gli sporadici incontri avuti alla Casa Bianca col Presidente, di cui era solito

16 ASV, DASU, titolo V (affari esteri), pos. 68, f. 3r, Gasparri a Bonzano, Vaticano 4 agosto 1915, citato in Luca Castagna, op. cit., p. 64.

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raccontare con inopportuna dovizia di particolari i contenuti ai giornalisti, con il

solo risultato di attirarsi l’antipatia di Wilson e del suo entourage già

tendenzialmente ostili alla Chiesa cattolica”17. Bonzano non aveva avuto

maggior successo; il delegato apostolico era rimasto ai margini delle scarse

relazioni che un ristretto gruppo di sacerdoti aveva con la politica statunitense.

All’atto pratico l’opera dei due ecclesiastici non ebbe gli effetti sperati, e non

riuscirono ad aiutare più di tanto la Santa Sede nel suo intendimento di

migliorare i rapporti con i governi facenti parte dell’Intesa e con gli Stati Uniti.

Nel gennaio del 1916 il Vaticano venne a conoscenza del contenuto

dell’articolo 15 del Trattato di Londra, in cui si escludeva di fatto la Santa Sede

dalla eventuale conferenza di pace che sarebbe seguita alla fine delle ostilità;

la Segreteria di Stato definiva ingiusta questa possibile esclusione “sia perché

la Santa Sede rappresenta la più alta autorità morale del mondo, sia perché

essa non può dirsi propriamente neutrale, ma imparziale nel presente conflitto,

giacché molti di coloro che trovansi in guerra sono suoi figli e sudditi, e quindi

non può equipararsi alle altre potenze strettamente neutrali”18.

La Delegazione Apostolica di Washington ricevette nuove istruzioni e Bonzano

avrebbe dovuto lavorare per ottenere l’interessamento del governo americano

17 J. T. Ellis, The Life of James Cardinal Gibbons, vol. 2, Milwaukee, Bruce Publishing Company, 1952, pp. 231-232.18 ASV, DASU, titolo V, pos. 68, f. 5, Gasparri a Bonzano, Vaticano, 17 gennaio 1916.

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alla risoluzione della questione romana tramite una campagna di

sensibilizzazione da parte degli organi di informazione. Prontamente la stampa

cattolica americana sostenne le ragioni del pontefice, ponendo con forza

l’accento sul diritto del Santo Padre di avere voce nelle vicende internazionali,

oltre che auspicando una soluzione positiva e risolutoria riguardo il perduto

status del Vaticano.

Bonzano si adoperò per trovare la collaborazione degli editori cattolici e

ricevette pronta risposta soprattutto da Nicholas Gonner, direttore di “Catholic

Tribune” e di Richard Tierney, editore di “America”, la rivista dei Gesuiti.

Questa azione di propaganda risultò molto efficace solo in ambito cattolico

però non ebbe effetti positivi nello stemperare, per esempio, le istanze anti-

papiste dei protestanti, o nell’incentivare l’amministrazione ad impegnarsi

nella risoluzione della questione romana. L’azione di Giovanni Bonzano era

frenata oltretutto da un paio di problematiche: in primis lo status di

rappresentante pontificio presso la gerarchia ecclesiastica statunitense, e non

di diplomatico (non possibile in quegli anni vista la mancanza di relazioni

diplomatiche) lo costringeva ad agire con assoluta prudenza soprattutto con

l’opinione pubblica, non potendo riportare ufficialmente le posizioni della

Santa Sede; in secondo luogo l’enorme estensione del territorio degli Stati

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Uniti, collegata alla giovane età dell’istituzione apostolica, rendevano difficile

per Bonzano poter contare su contatti affidabili in tutto il paese: “i rapporti tra

la Delegazione, il clero e la società civile erano decisamente meglio articolati

sulla costa atlantica; il fatto che Bonzano fosse dovuto ricorrere al vescovo di

Salt Lake City per questioni legate ad un giornale edito a Los Angeles,

d’altronde, è una dimostrazione di come, nonostante la fiducia della segreteria

di Stato, la Delegazione Apostolica non potesse esercitare efficacemente

quell’indispensabile ruolo di mediazione tra la gerarchia ecclesiastica e il ceto

dirigente federale”19.

Tra il 1916 ed il 1917 sembrò esserci la possibilità di un’intesa tra Vaticano e

Usa. Wilson nel dicembre del 1916 propose una conferenza di pace , in nome

delle potenze neutrali. Bonzano fu inviato da Gasparri a partecipare

all’incontro, riscontrando il gradimento del segretario di stato Lansing e della

Casa Bianca.

Allo stesso tempo il Vaticano cercava di carpire da Guglielmo II dei segnali di

apertura al negoziato; qualche giorno prima gli Imperi Centrali avevano

prospettato un’apertura per un negoziato di pace che però non era stato

accolto positivamente dalla diplomazia vaticana, la quale invece si mostrava

19 Castagna, op. cit., p. 83.

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molto più interessata alla proposta di Wilson. Ma in che cosa consisteva la

proposta di pace del presidente americano?

Wilson la illustrò all’inizio del 1917: egli prospettava la necessità di una pace

senza vittoria, auspicando l’accettazione dalle parti in causa del ripristino dello

status quo precedente alla guerra, la creazione di un organismo internazionale,

ed il disarmo congiunto delle forze in guerra.

Invece che ottenere gli effetti sperati, la guerra entrava nella sua fase più acuta

e Wilson si rendeva conto della ormai assoluta necessità dell’ingresso degli Usa

nel conflitto, perché solamente un intervento americano risolutivo gli avrebbe

consentito di svolgere un ruolo di primo piano a guerra finita; ecco che “ il suo

stesso progetto di pace senza vittoria diventava raggiungibile solo attraverso la

vittoria di una delle due parti in causa”20.

Il 16 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra dichiarando guerra alla

Germania, evento che ebbe delle grosse ripercussioni anche sulla prosecuzione

delle strategie vaticane, considerato il fatto che la Santa Sede si era schierata

in un primo momento con gli Imperi Centrali, e la discesa in guerra americana

a fianco dell’Intesa dimostrava chiaramente quanto fosse stata inadeguata la

mediazione operata da Bonzano e Gibbons: “la crociata per la democrazia che

20 M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Laterza, Roma-Bari, 2008, p.204, citato in Castagna, op. cit., p. 87.

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gli Usa si apprestavano ad iniziare non prevedeva alcun tipo di coinvolgimento

del pontefice, che, anzi, costituiva un ostacolo al perseguimento degli obiettivi

wilsoniani”21.

Oltretutto all’interno del mondo cattolico vi erano state reazioni molto diverse

all’entrata in guerra statunitense. L’episcopato americano sosteneva senza

riserve la decisione di Wilson, mentre la Santa Sede sembrava ormai

rassegnata a non collaborare con gli Usa per il futuro negoziato di pace;

testimonianza di questa rassegnazione il silenzio assoluto e la mancanza di

comunicazioni tra segreteria di Stato, Gibbons e la Delegazione Apostolica

nella primavera-estate del 1917, segnale questo di un cambiamento di

strategia del Vaticano per quanto concerne la mediazione per la pace. In effetti

con la dichiarazione di guerra americana alla Germania veniva meno la

possibilità di ottenere la salvaguardia della integrità territoriale austro-tedesca,

condizione principale per una eventuale soluzione della questione romana,

così la Santa Sede per riabilitarsi agli occhi dell’Intesa inviò nel maggio 1917

Eugenio Pacelli come Nunzio in Baviera. Il Vaticano, che in quel momento

credeva che dipendesse dalla Germania la possibilità o meno di arrivare ad un

negoziato di pace, chiese ai tedeschi la restituzione della regione dell’Alsazia-

Lorena, l’indipendenza del Belgio, e l’assenso alla riduzione degli armamenti.

21 Ivi, p. 88.

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Ma anche questa iniziativa vaticana non ebbe l’effetto sperato, complice pure

il cambiamento di governo che portò alla nomina ai vertici dell’esercito di

Hindenburg e Ludendorff, con i quali fu sancita la supremazia dei militari sul

parlamento e sull’Imperatore.

La Santa Sede non aspettò la risposta definitiva tedesca riguardo le richieste

effettuate da Pacelli, e decise di rendere noto il suo piano subito, dal 1

agosto; in questo modo Benedetto XV non poteva essere accusato di un suo

accordo preliminare con la Germania, sfruttando il fatto che il 2 agosto le

potenze dell’Intesa si sarebbero riunite a Londra, avendo l’occasione così di

discutere il documento pontificio.

Il 1 agosto 1917 Benedetto XV promulgò la “Lettera ai capi dei popoli

belligeranti”. Essa costituiva “un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle

Nazioni”, con essa il pontefice intendeva sottolineare il primato della forza

morale del diritto sulla forza materiale delle armi, e auspicava: “un giusto

accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti…e,

in sostituzione delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione

pacificatrice…si tolga ogni ostacolo alle vie della comunicazione dei popoli con

la vera libertà e comunanza dei mari”. Sulle questioni territoriali: “ma questi

accordi pacifici…non sono possibili senza la reciproca restituzioni dei territori

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attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia

del Belgio…sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione

delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come

quelle ad esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e la

Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura

con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito

conciliante, tenendo conto…delle aspirazioni dei popoli”.

Purtroppo non vi furono risposte positive da parte dei governi dei paesi in

guerra.

In particolar modo gli Stati Uniti non accolsero positivamente il documento

pontificio; infatti dai documenti diplomatici americani veniamo a conoscenza

del fatto che il Segretario di Stato Lansing in una lettera a Wilson del 13 agosto

del 1917 credesse che la Nota di Benedetto XV: “emanates from Austra-

Hungary and is probably ssanctioned by the German Government”22. Con

l’ambasciatore italiano Lansing non seppe nascondere la sua irritazione, né:

“trattenersi dal confidare che la proposta del Vaticano non poteva cadere in

questo momento meno opportuna”23.

22 FRUS, LP, vol. 2, The Secretary of State (Lansing) to President Wilson, Washington 13 agosto 1917, p. 43.23 ASMAE, APOG, b. 177, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington 14 agosto 1917, CITATO IN Castagna, op. cit., p. 92.

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Il 27 agosto Wilson prese posizione anche a nome dei governi alleati, inviando

una lettera all’ambasciatore americano in Gran Bretagna, Nelson Page; con

questo documento il presidente degli Stati Uniti voleva inviare una risposta

ufficiale alla Santa Sede, infatti il presidente chiedeva all’ambasciatore di

inoltrare il messaggio al Ministro degli Esteri Balfour, il quale avrebbe avuto il

compito di far arrivare la risposta al Santo Padre.

Secondo Wilson la Nota di Benedetto XV mirava ad una riaffermazione dello

status quo ante bellum, tralasciando però il fatto che: “the intolerable wrongs

done in this war by the furious and brutal power of the Imperial German

Government ought to be repaired, but not at the expense of the sovereignty of

any people”24; e ancora, lo scopo della partecipazione degli Usa al conflitto era:

“to deliver the free peoples of the world from the menace and the actual power

of a vast military establishment controlled by an irresponsible government

which, having secretly planning to dominate the world, proceeded to carry the

plan out without regard either to the sacred obligations of treaty or the long-

established practices and long-cherished principles of international action and

honor”25. Il regime tedesco per Wilson non rappresentava un interlocutore

attendibile per instaurare una futura trattativa di pace: “we can not take the

24 FRUS, 1917, Supplement 2, Vol. 1, The Secretary of State (Lansing) to the Ambassador in Great Britain (Page), Washington 27 agosto 1917, p. 179.25 Ivi, p. 178.

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word of the present rulers of Germany as a guarantee (…) we must await some

new evidence of the purposes of the great peoples of the Central Empires”26. Il

Presidente credeva che il messaggio del papa fosse più una richiesta di

armistizio che, come riporta Castagna: “un mezzo per smuovere le coscienze

europee ed indurle a combattere il dispotismo. Riaffermando l’inconciliabilità

tra i presupposti stessi dell’iniziativa papale e le ragioni della guerra condotta

dai governi alleati, quindi, le parole del Presidente statunitense posero una

seria ipoteca sull’esclusione della Santa Sede dai negoziati di pace”27.

La risposta di Wilson riscosse grande ed immediato successo presso i Paesi in

guerra contro gli Imperi Centrali, e tutti concordarono nel ritenere la proposta

del pontefice molto favorevole alla Germania.

Leggiamo sempre dai documenti diplomatici statunitensi la posizione di Gran

Bretagna e Francia rispetto alle dichiarazioni del presidente americano.

Da Londra l’ambasciatore Page rendeva noto al governo, il 30 agosto del 1917,

che: “the reception of the President’s answer to the Pope by the government,

the press, and (…) by the whole British public, is more enthusiastic than the

reception of any previous declaration”28.

26 Ivi, p. 179.27 Castagna, op. cit., p. 94.28 FRUS, 1917, Supplement 2, Vol. 1, The Ambassador in Great Britain (Page) to the Secretary of State, Londra 30 agosto 1917, p. 181.

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Da Parigi Sharp rendeva noto che la posizione statunitense era in linea con la

posizione dei Paesi alleati: “there is common accord that the views therein

expressed are thoroughly representative of those held by the Allied powers,

and they are especially welcomed at this time as forecasting the nature of

conditions upon which a satisfactory and permanent peace can come”29.

Va sottolineato il fatto che la Santa Sede oltre alla contrarietà delle potenze

dell’Intesa dovette registrare anche il mancato supporto di Paesi sui quali la

diplomazia vaticana credeva di poter contare, come la Spagna, la quale

riconobbe: “il cuore paterno della Santa Sede” aggiungendo che “avrebbe

voluto trovare una formula che in uno spirito di giustizia portasse al mondo il

beneficio della pace”30.

Negativo in generale anche il giudizio sulla Nota della stampa statunitense; in

special modo il “New York Times” il quale in buona sostanza accusa Benedetto

XV di aver lasciato irrisolti i veri problemi del conflitto, equiparando le

responsabilità morali di tutti i paesi belligeranti. In contrapposizione alla

maggior parte della stampa degli Stati Uniti e quindi a difesa delle affermazioni

del Papa, si mosse soprattutto la stampa cattolica americana, che iniziò una

vera e propria opera di demolizione delle critiche provenienti dai quotidiani

29 Ivi, The Ambassador in France (Sharp) to the Secretary of State, Parigi 31 agosto 1917, p.182.30 ASMAE, APOG, b. 177, Comunicazione dell’Ambasciatore in Spagna, trascritta da Sonnino il 13 settembre 1917, citato in Castagna, op. cit., p. 95.

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americani; in particolar modo si distinsero la rivista dei gesuiti, “America” e

“The Catholic World”.

Pur avendo insistentemente difeso la Nota, la stampa cattolica, fino al

dicembre 1917 ,non aveva sottolineato i possibili punti di contatto tra la Nota

stessa e la posizione di Wilson: invece fu con l’articolo del conte Giuseppe

Dalla Torre che fu considerata una possibile comunanza di vedute tra il testo

del Papa e le azioni del Presidente31. L’articolo descriveva la visione politica di

Benedetto XV soprattutto sulla riorganizzazione interna delle nazioni, e

Castagna sottolinea il fatto che: “dopo circa un mese di silenzio, esso, inoltre,

lasciava intendere che la Santa Sede avesse accolto con meraviglia la risposta

negativa degli Stati Uniti a nome degli alleati, dal momento che la Nota, in

sostanza, riaffermava gli stessi principi esposti da Wilson durante l’inverno

1916-1917”32.

Ma in modo ancor più veemente la stampa cattolica si mosse dopo la

enunciazione da parte del Presidente Wilson, dei suoi quattordici punti, cioè

dopo l’8 gennaio 1918.

I giornali cattolici volevano si accentuare le similitudini tra la Nota ed i

Quattordici punti, ma volevano ancor di più alimentare la polemica contro

31 Ivi, p. 98.32 Ivi, p. 99.

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l’articolo 15 del Trattato di Londra, che di fatto escludeva la Santa Sede

dall’eventuale conferenza di pace. La mobilitazione della stampa cattolica

iniziò da Pittsburgh con il direttore di “The Messenger” John Wynne, ma si

estese ben presto alla costa atlantica e a tutto il Paese.

L’emendamento dell’articolo 15 era sempre più l’obbiettivo principale della

diplomazia vaticana; e proprio a questo proposito arrivavano segnali

incoraggianti soprattutto da Londra. Gasparri auspicava una azione di Gibbons

atta da un lato a mettere pressione sul presidente Usa e dall’altro lato a far

pesare l’influenza dei cattolici nei Paesi alleati; però durante la sua prima

missione a Roma Sigorney Fay, il delegato della Croce Rossa americana in

Italia, convinse il segretario di Stato vaticano della difficoltà di un’azione

diretta con Wilson consigliando invece di contattare l’ambasciata inglese a

Washington, in quanto egli intratteneva ottimi rapporti sia con il ministro degli

Esteri lord Balfour che con l’ambasciatore presso la Santa Sede de Salis, e

sapeva per certo che la campagna dei giornali cattolici statunitensi avevano

impressionato il governo britannico, che sembrava considerare l’opportunità

di abolire l’articolo 15. Il cardinale Gibbons seguì le direttive di Fay, così la

rivista “America” pubblicò un articolo in cui si spingevano i cattolici a

supportare Benedetto XV nel momento del bisogno. Il 24 febbraio Gibbons

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incontrò l’ambasciatore inglese Reading, e partendo dalla considerazione che

solamente nell’esercito statunitense i soldati cattolici erano il 35 per cento del

totale, l’ipotesi, vagheggiata dal cardinale, della creazione di un fronte

internazionale deciso nel sostenere la richiesta di partecipazione del Vaticano

alla conferenza di pace, intimorì lord Reading tanto da spingerlo ad inviare al

ministro Balfour un telegramma con le osservazioni di Gibbons e la richiesta

urgente di ascoltare il parere degli Alleati a modificare il patto segreto del

191533. In realtà il governo americano rimase ancorato alle sue posizioni.

L’atteggiamento dell’Italia riguardo l’eventuale modifica dell’articolo 15 era di

totale chiusura. Il ministro degli Esteri Sonnino, dal marzo 1918, era a

conoscenza di una lettera in cui Gasparri attribuiva all’ambasciata italiana negli

Usa la diffusione di alcune notizie per cui sarebbe stata “riprovata la complicità

vaticana nella campagna austro-tedesca, e che l’Austria ha promesso al

Vaticano il ristabilimento del potere temporale”34. Nel luglio 1918 poi gli

ambasciatori italiani a Washington, Londra e Parigi vennero a conoscenza,

tramite il ministero, della proposta di modifica dell’articolo 15 discussa da lord

Balfour e dal cardinale belga Mercier su suggerimento di Gasparri35; tale

proposta equiparando la condizione di tutti i Paesi non belligeranti, minacciava

33 Ivi, p. 103.34 ASMAE, APOG, b.177, Monti a Sonnino, Roma 14 marzo 1918.35 Ivi, Sonnino alle Ambasciate di Parigi, Londra e Washington (telegramma n. 1111), Roma 3 luglio 1918.

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di togliere al governo italiano il potere di veto sull’ammissione della Santa

Sede alla conferenza di pace. Osservava Sonnino: “Per mio conto noi non

possiamo in alcun modo consentire che si ponga in discussione qualsiasi

revisione, modificazione o sostituzione delle disposizioni sancite”36, chiedendo

alle ambasciate di : “agire sollecitamente per sventare tentativo della Santa

Sede tenendomi esattamente informato del seguito della questione”37.

Il timore principale di Sonnino era un cedimento del presidente Wilson in

seguito all’iniziativa inglese, e infatti il 2 agosto egli scriveva all’ambasciatore a

Washington, Macchi di Cellere: “Vengo informato in via confidenzialissima che

il Vaticano lavora costà per ottenere che il Presidente Wilson prenda iniziativa

presso Regio Governo per raccomandare modificazione dell’Art. 15 della

Convenzione di Londra, nel senso che tutte le potenze alleate convengano tra

loro che nessuno Stato neutrale possa essere ammesso alla Conferenza della

pace senza il loro consenso”38.

Secondo Macchi di Cellere però l’Italia doveva stare tranquilla, perché il

governo americano: “rifugge e rifuggirà fino all’ultimo da qualunque

dichiarazione e manifestazione non dirò impegnativa ma soltanto

compromettente (essendo) in piena dissonanza colle tendenze e aspirazioni

36 Ibidem.37 Ibidem.38 Ivi, Sonnino a Macchi di Cellere, (riservato), Roma 2 agosto 1918.

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vaticanesche”39. Alle impressioni dell’ambasciatore italiano seguivano poi delle

confidenze, raccolte dallo stesso Macchi di Cellere, di Lansing: “Siamo una

repubblica, né al pari della Francia, della Svizzera e altre repubbliche sentiamo

il bisogno di stringere rapporti colla Santa Sede, le cui finalità – aveva confidato

il segretario di Stato – sono in aperto contrasto con gli ideali democratici

dell’America”40; quindi le parole di Lansing erano estremamente chiare

riguardo gli intendimenti degli Usa. A tal proposito il governo americano aveva

reso noto in più occasioni la sua decisa e ferma volontà di non voler in alcun

modo scendere a compromessi né sulla questione della dissoluzione

dell’impero Austro-ungarico né sul coinvolgimento della Santa Sede nella

Conferenza di pace. Non contenta dei risultati ottenuti, la segreteria di Stato

vaticana, tramite la Delegazione apostolica a Washington, fece pervenire al

presidente Wilson il testo di un appello di pace firmato da Benedetto XV; la

risposta del presidente destò preoccupazione in Vaticano: si trattava di una

lettera fredda e formale “quasi un atto di cortesia, inoffensivo nella misura in

cui evitava accuratamente di affrontare gli argomenti su cui invece il pontefice

sperava che il Presidente si pronunciasse”41.

39 Ivi, Macchi di Cellere a Sonnino, Washington 24 agosto 1918.40 Ibidem.41 Citato in Castagna, op. cit., p. 107.

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1.4 Strategie vaticane tra la fine della Grande Guerra e Versailles (1918-

1920)

Le potenze dell’Intesa, vincitrici del conflitto, dovettero costruire a Versailles

un nuovo ordine mondiale. La Conferenza durò sei mesi, dal gennaio al giugno

del 1919.

Wilson anticipò il suo arrivo in Europa per concertare con gli alleati la strategia

comune da portare avanti durante le consultazioni. A questo scopo visitò la

Francia, la Gran Bretagna e l’Italia. Proprio il viaggio in Italia, programmato per

la prima parte del gennaio 1919, rappresentò per il Vaticano una ulteriore

occasione per provare a convincere Wilson a rimettere mano all’articolo 15 del

Patto di Londra e a trovare una soluzione della questione romana.

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Dagli Usa il vescovo Hayes, futuro arcivescovo di New York, stava mettendo

insieme un gruppo di personalità americane che potessero, con la loro

influenza, facilitare un incontro tra il Presidente e Benedetto XV. Nel frattempo

il cardinale di Boston, William Henry O’Connell, esprimeva la propria

contrarietà all’esclusione del Vaticano dalla Conferenza, e criticava l’eccessiva

deferenza del cardinale Gibbons riguardo all’appello del cardinale formulato il

27 novembre, nel quale Gibbons chiedeva a Wilson di incontrare il pontefice

durante la sua permanenza a Roma; a tale richiesta il Presidente non rispose

chiaramente, ma ringraziò per il suggerimento. Si trattava chiaramente

dell’ennesima bocciatura per Gibbons, che dimostrava come, negli anni, non

avesse esercitato la minima influenza e capacità di convincimento nei

confronti del presidente Usa.

Alla fine, anche se più per etichetta che per sincero convincimento, Wilson

incontrò Benedetto XV, il 9 gennaio 1919. Probabilmente fu il suo consigliere

personale, Joseph Tumulty, a fargli cambiare idea42. Castagna: “Quando (…) si

era delineata la possibilità di una visita al papa, il Presidente aveva

impulsivamente rifiutato. Tra le forze che egli intendeva mobilitare a sostegno

del suo progetto di pace non figurava la chiesa cattolica, oppure, se mai ci

fosse stata, avrebbe senz’altro avuto un ruolo marginale. Le sue difficoltà a

42 FRUS, 1919, The Paris Peace Conference. Vol. 1, Tumulty a Wilson, Washington 18 dicembre 1918, p. 150.

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relazionarsi col Vaticano, d’altronde, non erano mai state solamente

confessionali. Infatti, se, da presbiteriano, aveva sempre seguito con diffidenza

l’espansione dell’elemento cattolico, come leader politico non intendeva, nota

Danilo Veneruso, subire la concorrenza di una democrazia alimentata dal

cristianesimo quale era stata delineata nella proposta di pace di Benedetto”43.

Dell’incontro non vi è quasi traccia nei documenti ufficiali americani né negli

archivi vaticani, a testimonianza del fatto che, nonostante le aspettative della

Santa Sede, fu un colloquio privo di spunti significativi, e nel quale non

vennero trattate questioni riguardanti la successiva conferenza di Parigi.

L’argomento dell’indipendenza dallo Stato italiano divenne il nuovo tema che il

Vaticano cercò di introdurre alla conferenza di Parigi dopo il fallimento

riguardo alla partecipazione ai negoziati; il compito di portare a Parigi il tema

della sovranità territoriale del Papa fu affidato all’arcivescovo di Bruxelles,

Mercier. Ma il cardinale, nonostante il prestigio personale di cui godeva presso

i vincitori, non riuscì a smuovere le acque in quel senso, anzi non ebbe

successo nemmeno la sua iniziativa volta a concludere le trattative di Versailles

con un rito religioso nella cattedrale di Notre Dame.

43 Citato in Castagna, op. cit., p. 110.

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Segnali migliori , dalla primavera del 1919, arrivarono alla Santa Sede dalla

delegazione italiana a Versailles: in seguito alla questione della Dalmazia e di

Istria, Vittorio Emanuele Orlando ed il ministro Sonnino lasciarono la

conferenza chiedendo aiuto alla Santa Sede per quanto riguardava la città di

Fiume, offrendo in cambio l’impegno italiano nella risoluzione della questione

romana.

Era la prima volta che il governo liberale, di solito sordo rispetto alle richieste

pontificie, mostrava la buona volontà di collaborare con il Vaticano. Nel

giugno 1919 ci fu l’incontro tra Orlando e l’incaricato apostolico Bonaventura

Cerretti; tuttavia le trattative fra Vaticano e Italia cessarono prematuramente a

causa della imminente caduta del governo Orlando.

Nel febbraio del 1920 Gasparri esortava Bonzano ad agire verso Wilson per

fargli assumere: “un atteggiamento più favorevole verso l’Italia mettendo in

evidenza che altrimenti la pace interna Italia sarebbe gravemente

compromessa con gravi ripercussioni in tutta Europa”44; Bonzano interpellò

quindi dei personaggi che potevano risultare importanti per ottenere tale

scopo: in particolare l’arcivescovo di Philadelphia Dennis Dougherty disse a

Bonzano di essersi mosso con il Ministro della Giustizia Palmer, e Patrick Hayes

44 ASV, DASU, titolo V, pos. 101, f.3 Gasparri a Bonzano, Vaticano 23 febbraio 1920.

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di New York voleva esporre il problema al nuovo segretario di Stato Bainbridge

Colby, in occasione della cerimonia per il suo insediamento. Entrambi

dovevano ammettere che quello non era il momento migliore per esporre la

questione al Presidente.

Wilson, per arrivare alla conclusione degli incontri di Versailles con dei risultati

concreti, dovette mediare tra le varie richieste dei Paesi partecipanti. Il

Trattato del 28 giugno 1919 non fu accettato serenamente negli Stati Uniti; le

obiezioni erano molteplici, però si sottolineava soprattutto la limitazione della

sovranità nazionale degli Usa derivante dalla partecipazione alla Società delle

Nazioni. L’operato di Wilson a Parigi veniva criticato in particolar modo dalla

corrente internazionalistica dei repubblicani, e da una parte degli intellettuali

di simpatie democratiche; situazione non facile in vista delle presidenziali del

1920. Successivamente, nel novembre del 1919, e poi definitivamente nel

marzo del 1920, il Senato americano non ratificò né il trattato di pace né

l’adesione alla Società delle Nazioni, ma ancor prima di questi eventi il

presidente americano era stato colpito da un infarto che compromise di molto

la sua operatività; in un momento così delicato, sia a livello politico che

personale, Wilson non considerò nemmeno lontanamente la possibilità di

soddisfare le rivendicazioni territoriali del Vaticano, ma egli non sarebbe stato

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ancora a lungo l’interlocutore della Santa Sede. Alle elezioni presidenziali del

1920 trionfarono i repubblicani, e Warren Harding divenne il nuovo

presidente.

Capitolo 2

Santa Sede e Stati Uniti: la transizione degli anni Venti

(1920-1930)

2.1 La fase successiva alla guerra: il dopo Wilson

Negli Usa, nella fase immediatamente successiva alla guerra, si diffuse un

radicato senso di insoddisfazione e delusione. Le basi sulle quali il presidente

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Wilson aveva cercato di fondare, o meglio di rifondare, il sistema

internazionale, si erano rivelate troppo deboli o non adeguate.

Dunque nel dopoguerra, scemato l’entusiasmo della fase iniziale in cui gli Usa,

spinti dal proprio presidente, sembravano poter interpretare il ruolo di Paese

leader di un nuovo, democratico, ordine internazionale, si cominciò a

ragionare sulle contraddizioni dell’impianto universalistico wilsoniano: il

Wilsonismo, e la guerra, furono percepiti come eventi negativi. Nel dibattito

interno americano dell’epoca prendeva corpo l’ipotesi che il vero errore fosse

stato il fatto di avere anteposto agli interessi nazionali presunti obblighi

internazionali, non capendo che la leadership economico-finanziaria,

indiscutibilmente a stelle e strisce, non era automaticamente trasferibile sul

piano politico e diplomatico, anche con uno strumento efficace in prospettiva

come la Società delle Nazioni.

Ecco così che la necessità primaria delle amministrazioni repubblicane che si

succedettero dopo la guerra fu quella di prendere le distanze dal wilsonismo.

Questa esigenza si manifestò attraverso un atteggiamento molto più mite in

politica estera, più conservatore ma non per questo isolazionista, che, secondo

il Castagna: “da un lato, era alimentato dal desiderio di oblio della guerra, ma,

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dall’altro, faceva propria la convinzione che fosse necessaria l’attivazione di

meccanismi che ne impedissero il ripetersi”45.

Durante gli anni venti le amministrazioni americane ebbero come scopo

principale quello di affrancarsi il più possibile dagli schemi del wilsonismo,

comportando nei rapporti con la Santa Sede il ritorno alla situazione pre-

bellica, una situazione fatta di indifferenza a livello diplomatico e di avversione

ideologica dal punto vista confessionale.

L’anti-papismo di Wilson risultava da una parte comune alle istanze

ideologiche della cultura wasp, dall’altra palesava una forte idea di

inconciliabilità di fondo tra il proprio ideale di ricostruzione del sistema

internazionale e quello di Benedetto XV.

La prima guerra mondiale aveva consacrato gli Stati Uniti come prima potenza

mondiale; il centro del potere non risiedeva più nella vecchia Europa, anche

perché gli Usa si apprestavano a rivestire il ruolo di Paese creditore con il quale

tutti i Paesi europei, e non solo, avevano ingenti debiti. L’auto-esclusione

americana dalla Società delle Nazioni raddoppiò le incertezze caratterizzanti la

politica internazionale degli anni Venti, ma fu compensata dall’attivismo sul

fronte economico-commerciale, dove gli Usa assunsero una posizione di

45 Luca Castagna, op. cit., p. 117.

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avanguardia nelle iniziative più importanti. Si creò un legame molto stretto tra

stabilità internazionale, primato statunitense e recupero dei crediti di guerra,

dal quale legame derivava l’impegno americano atto a creare i presupposti

per una ripresa delle sofferenti economie europee da cui dipendevano sia la

stabilità politica europea, sia il ridimensionamento delle spinte rivoluzionarie.

Nell’agenda delle priorità statunitensi del dopoguerra non secondario risultava

essere l’impegno per risanare gli squilibri determinatisi a Versailles, oltre che le

questioni riguardanti il disarmo e le riparazioni. Queste le direttive di politica

estera americana che si trovarono a dovere affrontare le tre amministrazioni

repubblicane che governarono dal 1921 al 1933.

L’opinione pubblica americana accolse con grande entusiasmo l’avvento dei

repubblicani, e Warren Harding vinse forse proprio perché non poteva essere

identificato con nessuno dei progetti per ristrutturare gli Stati Uniti. Ne delinea

un profilo puntuale Luca Castagna: “Contrariamente agli altri potenziali

candidati del Grand Old Party (…) egli non aveva mai provato a rivivere il

Trattato di Versailles e la Società delle Nazioni. Le sue idee su gran parte delle

controverse questioni di quel periodo, solitamente espresse con un’oratoria

zeppa di luoghi comuni, erano indefinite, per cui, durante la campagna

elettorale, si limitò a fare una dozzina di dichiarazioni, senza mai chiarire quale

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fosse la propria posizione. Eppure, nelle presidenziali del 1920 ciò bastò per

ottenere il successo”46. Lunga è la lista delle motivazioni che spinsero gli

elettori statunitensi a cambiare voto e ad accordare la propria preferenza ai

repubblicani. Gli americani erano stanchi degli enormi sacrifici causati dalla

guerra, della sterile discussione interna sulle modalità della pace e dei capricci

degli alleati europei; ma soprattutto, dopo il 1919, erano impauriti dalla

massiccia ondata di scontri razziali e dalla drammatica recessione economica.

Sentimenti comuni sia tra i professionisti, che temevano ora la violenza dei

radicali e dei lavoratori in sciopero, sia tra i diversi gruppi etnici, soprattutto

irlandesi, italiani e tedeschi, che ritenevano gli accordi di Versailles

esageratamente filo-inglesi.

Harding, in un discorso tenuto a Boston nel 1920, sembrò poter assecondare

tutte le speranze e i bisogni degli americani, promettendo agli Usa quello di cui

il paese aveva più bisogno in un contesto simile: il ritorno alla normalità.

2.2 Il nativismo anti-cattolico ed il National Catholic Welfare Council

46 Citato in Castagna, op. cit., p. 124.

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Gli Stati Uniti, negli anni 20, erano una nazione che attraversava una fase di

transizione, in cui nacque e si sviluppò velocemente una poderosa ondata

nazionalistica. Mario Del Pero definì questo ritorno al nazionalismo “quella

bestia di patriottismo”, e possiamo raggruppare in esso il fondamentalismo

religioso, il proibizionismo, il libertarismo; tutte manifestazioni del nativismo,

alla base delle quali vi era una profonda esigenza di stabilità ed ordine.

Gli americani intimoriti dalla possibilità della degenerazione della questione

razziale e dal declino della nazione pensarono che dando la propria preferenza

elettorale ai repubblicani sarebbero riusciti a porre le condizioni per una

restaurazione dell’equilibrio sociale antecedente alla prima guerra mondiale.

Ciò, per quanto concerne i rapporti etnici, doveva palesarsi in una

predominanza dei protestanti bianchi sulle altre “razze”: si trattava della

mobilitazione compatta della grande massa dell’America wasp che difendeva

la propria identità dai possibili attacchi da parte di minoranze etnico-razziali.

Fu un vero e proprio conflitto culturale tra i nativi bianchi e protestanti e le

altre razze “emergenti”, in particolare tedeschi ed irlandesi.

Durante la metà del 1920, in seguito all’aumento degli sbarchi di nuovi

immigrati ad Ellis Island, e soprattutto dopo l’adozione da parte del Congresso

del National Origins Act del 1924, il movimento nativista prese nuova linfa. Vi è

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da sottolineare il fatto che il nativismo non esaurì la propria carica ideologica e

culturale nell’anglo-sassonismo e nelle altre espressioni di intolleranza,

conformismo etico e conservatorismo politico, bensì esso esplicitò il suo

devastante potenziale estremistico attraverso l’anticattolicesimo.

Il movimento propriamente chiamato “nativismo” non aveva come scopo

principale quello di esaltare il protestantesimo, né aveva l’obiettivo di colpire i

cattolici o gli ebrei per la loro religione, ma intendeva privilegiare chi era nato

e vissuto sempre negli Stati Uniti. I nativisti si scagliavano contro le persone

non assimilabili ai valori del nuovo continente, proprio per questo motivo il

Vaticano era odiato, perché con la sua gerarchia non permetteva

l’assimilazione, o per dirla come Massimo Franco: “era un ostacolo a quella

mescolanza virtuosa e indispensabile perché tutti si riconoscessero nella nuova

nazione-continente”47.

L’avversione al cattolicesimo aveva radici profonde nella storia e nella cultura

degli Stati Uniti: fin dal 1800 la fede cattolica era il bersaglio preferito

dell’opinione pubblica protestante, e la pubblicista aveva nella critica

all’operato dei papi il proprio passatempo favorito. Negli anni Trenta

dell’Ottocento il reverendo Brownlee, direttore di una delle riviste

47 Massimo Franco. Op. cit. p. 51

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anticattoliche più famose del tempo (l’American Protestant Vindicator),

sostenne la tesi di una cospirazione papale internazionale avallata dai

monarchi cattolici d’Europa per distruggere la libertà degli americani

attraverso l’infiltrazione degli immigrati nel tessuto sociale del Paese. Inoltre

era radicata la convinzione che, negli Usa, i cattolici privilegiassero sempre

l’obbedienza ai dettami del pontefice anche quando questi fossero non

compatibili con gli interessi degli Stati Uniti. L’anti cattolicesimo era fin dalle

origini condiviso tra democratici e repubblicani, e prese nuova linfa in seguito

all’incremento demografico nazionale di fine Ottocento, che fu determinato

dall’ingresso negli Usa di grandi flussi di immigrati europei, perlopiù cattolici.

L’American Protective Association (Apa), sottolineava spesso e volentieri la

contrapposizione fra americanismo e cattolicesimo, e nonostante i cattolici

parteciparono alla Grande Guerra con il notevolissimo numero di circa quattro

milioni e mezzo di unità, questo non bastò a fare affievolire i toni delle voci

contrarie dei protestanti.

Nel dopoguerra il movimento nativista mantenne una marcata matrice anti-

cattolica, che proliferò velocemente soprattutto nelle province del Sud degli

Stati Uniti. Il terreno fertile per questa dilagante ondata nativista fu il clima di

generale insicurezza creatosi in seguito alle nuove ondate immigratorie che

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stavano stravolgendo gli equilibri demografici ed economici. Quindi i piccoli

centri e le aree rurali guardavano con grande preoccupazione alla mescolanza

di razze e di religioni presente nelle grandi città, alimentando il nuovo

fondamentalismo protestante: numerosi furono i circoli intellettuali che si

fecero promotori del recupero dei valori tradizionali dell’America del secolo

passato, in contrapposizione al declino morale verso il quale la società

americana sembrava destinata. Comunque il nativismo anti-cattolico non ebbe

a livello nazionale lo stesso livello di intolleranza raggiunto negli Stati del Sud.

E’ interessante analizzare quale fosse, nel momento di maggior proliferazione

dei movimenti nazionalisti anti-cattolici , l’atteggiamento della politica

statunitense nei confronti dei cattolici stessi, quali fossero i contraccolpi nei

rapporti con la Santa Sede, e quale la reazione dei cattolici statunitensi. Le

amministrazioni repubblicane che si successero negli anni Venti non misero in

atto iniziative di forte opposizione ai nativisti. Lo stesso Harding non si

dimostrò troppo interessato alla vicenda. Per quanto riguarda invece la

possibilità di una ripresa delle relazioni diplomatiche con il Vaticano, il

disinteresse del nuovo presidente era dovuto più a motivazioni di

opportunismo politico che a ragioni di carattere ideologico (Harding non era di

certo un fervente antipapista come Wilson); però sotto la presidenza Harding

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qualcosa iniziò a cambiare: non ci furono contatti diretti espliciti tra i due Stati,

ma, nel momento di maggiore forza del movimento nativista, il cattolicesimo

statunitense iniziò al suo interno una fase di cambiamento e di

ristrutturazione, spinta anche dal Vaticano .

Nel periodo di passaggio tra Benedetto XV e Pio XI la chiesa cattolica

statunitense attraversò un periodo di passaggio, anche abbastanza

tormentato, che portò alla costituzione di strutture organizzate atte a

cambiare il corso dei rapporti con la chiesa centrale di Roma.

Va sottolineato il fatto che la Chiesa cattolica americana, al momento

dell’ingresso degli Usa nella prima guerra mondiale, non avesse alcun tipo di

struttura organizzata a livello nazionale; dopo il concilio plenario di Baltimora

del 1884 le riunioni annuali dei vescovi avevano costituito l’unico momento di

organizzazione. Però la guerra rese necessario il potenziamento e

l’ampliamento degli strumenti di contatto tra la gerarchia ecclesiastica del

Vaticano e le organizzazioni cattoliche impegnate negli usa e in guerra.

Nell’agosto 1917 si tenne a Washington un incontro tra tutte le diocesi

americane e le società cattoliche. Il meeting fu organizzato da John Burke,

l’editore di “The Catholic World”. Alla fine dei lavori, con l’assenso dei cardinali

Gibbons e O’Connell, fu costituito il National Catholic War Council: esso

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nasceva per studiare, unificare e coordinare tutte le iniziative cattoliche

riguardanti la guerra48. Il successo del War Council fu grandissimo; esso

contribuì alla realizzazione delle iniziative più disparate: dalla raccolta fondi al

finanziamento delle iniziative dei Cavalieri di Colombo, dal sostegno

psicologico ai soldati americani in guerra all’istituzione della scuola cattolica

per i Servizi Sociali. Al proposito Castagna: “Sia il clero, sia il laicato cattolico

uscirono dall’esperienza bellica persuasi del fatto che l’unità di intenti fosse la

propria forza e che, viceversa, il protestantesimo con le sue molteplici varianti

non potesse garantire alla nazione un’appropriata guida morale e spirituale”49.

Tale quindi il successo di questa nuova organizzazione nazionale, che Burke,

nell’ottica di una più efficace promozione degli interessi cattolici a guerra

finita, pensò di rendere permanente l’organizzazione il cui compito si sarebbe

esaurito una volta cessate le ostilità. Però la volontà di Burke si scontrò ben

presto con l’ostilità dei vescovi, che temevano che la nuova struttura potesse

scalfire la propria autorità a livello locale, e che essa stessa potesse diventare

nel tempo uno strumento di cui si sarebbe servita la Santa Sede per controllare

maggiormente l’episcopato americano, che da sempre aveva preoccupato il

governo centrale del Vaticano, a causa della sua vocazione autonomistica.

48 Castagna, op. cit., p. 140.49 Ivi, p.141.

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L’occasione per discutere della questione fu rappresentata dalla celebrazione

del giubileo d’oro del cardinale James Gibbons, cerimonia svoltasi il 20

febbraio 1919 a Washington.

Benedetto XV inviò come suo rappresentante l’arcivescovo Bonaventura

Cerretti, diplomatico di provata esperienza. Già dalla scelta del suo

rappresentante si evince l’importanza che il pontefice aveva accordato

all’evento. Il papa era ben conscio dell’importanza della potenza finanziaria

degli Stati Uniti in quel particolare contesto storico-sociale: solamente gli Usa

avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico necessario per aiutare e

risollevare i Paesi e le popolazioni messe in ginocchio dal conflitto. Oltre che

dal punto di vista umanitario, tra l’altro aspetto oggetto della massima

considerazione nella ultima parte del papato di Benedetto XV, l’aiuto

economico americano avrebbe consentito di allentare le grandi tensioni sociali

che affliggevano gli Stati europei, contribuendo a tenerli lontani da possibili

tentazioni rivoluzionarie. Dunque la cerimonia in onore di Gibbons divenne

l’occasione giusta per parlare soprattutto del ruolo che la chiesa americana

avrebbe dovuto svolgere a sostegno delle strategie di pace della diplomazia

vaticana. Gibbons, l’operato del quale non aveva mai convinto negli anni né

Gasparri né Bonzano, diede immediatamente seguito alle richieste di Cerretti:

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egli nominò un comitato composto da tre arcivescovi e quattro vescovi, i quali

sottoposero al giudizio degli altri prelati una bozza di progetto che proponeva

di affiancare agli incontri annuali di tutta la gerarchia un organo permanente

scelto dai vescovi per coordinare le attività cattoliche nel periodo intercorrente

tra i diversi incontri generali.

Il 1 maggio 1919, dopo l’approvazione di Benedetto XV, Gibbons inviò una

lettera ai vescovi, spiegando che con questa nuova organizzazione la Chiesa

statunitense faceva un deciso passo avanti nel raggiungimento di quella

coesione necessaria per avvicinarsi ai luoghi del potere politico. Nel settembre

successivo, in seno all’assemblea dei vescovi di Washington, si discusse la

proposta di Muldoon che prevedeva la creazione di un comitato esecutivo

composto da sette prelati che avrebbero controllato cinque dipartimenti

permanenti (istruzione, azione sociale, laicato, stampa, missioni interne ed

estere). Alla fine dei lavori l’assemblea sancì la nascita del National Catholic

Welfare Council. Questa istituzione rifletteva, a livello locale, i conflitti esistenti

nel Vaticano fra i cardinali contrari a Benedetto XV, come Merry del Val,

Pompilj, De Lai, e il segretario di Stato, Gasparri, l’uomo più vicino al papa.

Dopo la morte del cardinale James Gibbons (avvenuta nel marzo 1921), la

sopravvivenza del Welfare Council dipendeva da chi sarebbe stato “eletto” a

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succedergli. Il più accreditato a raccogliere il testimone di Gibbons sembrava

essere l’arcivescovo di Boston, William Henry O’Connell. Egli era un

fedelissimo di Pio X, del quale apprezzava l’anti-modernismo e la rigida

impostazione dottrinale; O’Connell stesso era stato inoltre uno dei più feroci

oppositori all’istituzione del Welfare Council stesso, ed era pronto, se se ne

fosse presentata l’occasione, a mettere in atto lo smantellamento

dell’organizzazione stessa.

Ad ingarbugliare gli eventi arrivò la morte di Benedetto XV, avvenuta il 22

gennaio 1922. Dopo un conclave lunghissimo e tormentato, vi fu la fumata

bianca, con la quale Achille Ratti divenne il nuovo pontefice: egli scelse di

chiamarsi Pio XI. Il primo passo del papa fu la nomina del segretario di stato,

ruolo in cui fu confermato Pietro Gasparri. Proprio in questa scelta, a suo

modo coraggiosa in quanto rara, Pio XI mise subito in mostra una

caratteristica che segnò tutto il suo pontificato: la sua ferma determinazione.

Ratti papa e Gasparri segretario di stato rappresentarono un duro colpo per la

frangia dei “tradizionalisti”, cioè Merry del Val, O’Connel e Dougherty. In

particolare i due cardinali americani arrivarono in ritardo in Vaticano, non

potendo partecipare così al conclave; era la seconda volta consecutiva che ciò

accadeva (la prima fu nel 1914). O’Connell incontrò Gasparri appena arrivato a

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Roma, lamentandosi di non aver ricevuto attraverso la delegazione apostolica

né notizie riguardanti l’aggravarsi delle condizioni di salute del papa, né

assicurazioni sullo slittamento del conclave stesso. Le parole di O’Connell

volevano insinuare l’esistenza di un disegno per non far votare i cardinali

statunitensi, ma risultavano inutili e incomprensibili in quanto smentite dai

fatti, cioè in primis dalla grande eco che aveva avuto la malattia di Benedetto

XV sulla stampa americana, in secondo luogo dallo scambio di lettere

intercorso tra la segreteria di Stato e Bonzano. La polemica di O’Connell

ottene un risultato: con il motu proprio Cum proxime Pio XI prolungò di due o

tre giorni, fino ad un massimo di diciotto l’ingresso dei cardinali in conclave50.

Ma il risultato più importante per O’Connell e gli altri porporati americani fu

ottenuto grazie al decreto firmato dal cardinale De Lai, che disponeva circa la

dissoluzione immediata del National Catholic Welfare Council (25 febbraio

1922). Si trattava di una vicenda turbolenta: i tradizionalisti ottennero la

soppressione in un momento di transizione, con la complicità di De Lai, non

conoscendo lo stesso Pio XI a fondo la situazione, credendo anzi si trattasse di

una decisione già stabilita da Benedetto XV. La reazione del Welfare Council

non tardò ad arrivare; fu inviato immediatamente un cablogramma diretto al

papa. E soprattutto fu inviata una delegazione a Roma, guidata dal vescovo di

50 Ivi, p. 153.

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Cleveland Joseph Schrembs. Il vescovo portò con se una petizione, firmata

dalla gerarchia ecclesiastica statunitense al completo. Nella petizione si diceva:

“Upon the the whole Hierarchy of our country it (il decreto) seems to put the

stigma of a suspected loyalty and incompetence; and it suppresses our most

cherished organization upon which we had founded the greatest hopes for the

defense and prosperity of religion in our country”51.

Una volta a Roma Schrembs ebbe l’occasione di confrontarsi con il firmatario

del decreto della Congregazione Concistoriale, De Lai, il quale non negò il

timore che il Welfare Council avrebbe potuto creare problemi alla Santa Sede

per quanto riguarda il controllo dell’episcopato Usa.

Comunque sia, Gasparri riuscì a spiegare la situazione a papa Ratti, e a farlo

tornare sulla sua decisione: il 22 giugno la Congregazione Concistoriale revocò

il precedente decreto e autorizzò i vescovi americani a riunirsi di nuovo in

settembre. Il 4 luglio poi la Congregazione indirizzò al Council alcune direttive,

la più importante delle quali era quella che prevedeva che la parola Council

(connotata specificamente nel diritto canonico) fosse sostituita con un termine

diverso e più generico, sottolineando il carattere meramente consultivo

51 ACUA, ANCWC, OGS, box 60, fold. 29, Administrative Committee, Petition to His Holiness, Pope Pius XI, 25 aprile 1922, citato in Castagna, op, cit., p. 156.

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dell’organizzazione. Il nome venne cambiato in National Catholic Welfare

Conference.

La Welfare Conference diventò uno strumento di pressione sul governo, e

durante gli anni Venti e Trenta interpretò un importante ruolo di mediazione

fra la Santa Sede e la politica statunitense. Essa, con la sua struttura di tipo

orizzontale, rappresentava da una parte il ritorno alla tradizionale collegialità

della chiesa cattolica negli Usa, dall’altra invece l’accantonamento del rigido

modello gerarchico piramidale, rivelatosi non efficace per attenuare i toni della

polemica anti-papista e per riattivare il dialogo con gli Usa.

La decisione di papa Ratti del 22 giugno 1922 fu importante in quanto anticipò

di quattro anni il pronunciamento della Santa Sede riguardante le adunanze

generali dei vescovi, e soprattutto perché il pontefice dispose circa la

partecipazione obbligatoria dei nunzi e dei delegati apostolici.

Difatti la collaborazione tra la Delegazione apostolica e la gerarchia

ecclesiastica americana divenne imprescindibile per la Santa Sede, ed era vista

da essa come un efficace metodo per combattere l’ostilità verso il

cattolicesimo da un lato, e dall’altro come mezzo per ripristinare i contatti con

il governo americano.

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2.3 I repubblicani al potere; prove di intesa fra Harding e Bonzano

Negli anni successivi alla fine del conflitto il panorama politico statunitense

vide una decisa prevalenza del partito repubblicano.

Il dato caratterizzante la prima metà degli anni Venti fu il calo della

percentuale dei votanti, soprattutto in occasioni delle elezioni presidenziali del

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1920 e del 1924, e successivamente delle congressuali; a disertare le urne

furono in particolar modo i più poveri e i meno istruiti. Per gli esponenti più

conservatori del partito repubblicano, quelli maggiormente attenti a

conquistare i favori dell’alta finanza e degli industriali, la disaffezione

dell’opinione pubblica verso la politica, non era un motivo di preoccupazione,

al contrario, l’assenza dei ceti popolari dall’elettorato era un fatto positivo.

I repubblicani usarono quote di ingresso per limitare l’accesso al potere a

etnie, culture e religioni ritenute indesiderate, in modo che così non potessero

in alcun modo nuocere alla sbandierata purezza wasp della nazione.

Nonostante la matrice nativista dei governi che si susseguirono durante gli

anni Venti, il primo impatto del Delegato Apostolico Giovanni Bonzano con i

repubblicani non fu negativo. Al contrario il Grand Old Party sembrò fin

dall’inizio intenzionato a instaurare con il Vaticano un rapporto pacifico e

basato sulla collaborazione. Ciò rappresentava, almeno formalmente, un

deciso passo in avanti rispetto alla linea intransigente tenuta con decisione da

Wilson.

Ancor prima dell’insediamento di Harding alla Casa Bianca, avvenuto nel marzo

1921, erano circolate voci riguardanti una possibile ripresa delle relazioni fra

Stati Uniti e Vaticano, le quali, visti i precedenti non proprio facili,

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rappresentavano se non altro un fattore di novità52. Pare che ad interessarsi

alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Usa e Santa Sede fu il Foreign Office

britannico, tramite il colloquio tra il conte De Salis, diplomatico inglese a

Washington, e Bonzano, nel gennaio 1921. In quella occasione il delegato

pontificio espose le sue opinioni al riguardo: in primis Bonzano teneva in gran

conto la possibile energica reazione dei nativisti più intransigenti e anti-papisti;

in secondo luogo egli aggiunse che: “tali relazioni, se mai venissero ristabilite,

sarebbero come quelle tra il Brasile e la Santa Sede; a meno che gli Stati Uniti,

in vista degli interessi delle popolazioni quasi esclusivamente cattoliche di

Portorico e delle Isole Filippine, non preferissero di conchiudere un concordato

al loro riguardo”53.

La questione era molto delicata e, lo stesso Bonzano, preferiva muoversi con la

massima discrezione e calma possibile. D’altra parte, sempre più numerose si

facevano le notizie di un riavvicinamento tra le due parti, che ormai si rendeva

necessario un incontro diretto con il presidente americano.

Ecco che dunque, al contrario di quanto avveniva in precedenza sotto la

presidenza Wilson, con i repubblicani al governo il dialogo con la Santa Sede

divenne effettivo e collaborativo, anche se i tempi non si dimostravano ancora

52 Castagna, op. cit. p. 167.53 ASV, DASU, titolo II, pos. 206, f. 41.

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pienamente maturi per un ripristino dei rapporti in tempi brevi. Si trattava

delle fasi iniziali di un riavvicinamento graduale che avrebbe avuto il suo

culmine durante gli anni Trenta.

Il primo dei numerosi incontri fra Bonzano e Harding si tenne il 29 aprile 1921;

il dialogo con il Presidente fu preceduto da un abboccamento con il senatore

McCormick, dal quale il delegato capì che i tempi per la ripresa delle relazioni

non erano ancora maturi. La visita alla Casa Bianca confermò quanto riferitogli

dal senatore; il Presidente esordì dicendo che: “in un Paese così vasto non

mancano i Protestanti i quali fanno più rumore degli altri e si allarmano per

tutto ciò che non corrisponde alle loro vedute”54, e ancora che alla lettere

richiedenti informazioni sulla vicenda egli rispondeva che un provvedimento in

materia ”dipendeva dal Congresso e per quanto gli costava, il Congresso non

aveva trattato, né sembrava disposto a trattare simili affari”55. Ma soprattutto

Harding fece notare che: “questo Paese ha relazioni diplomatiche soltanto con

le Potenze che hanno dominio temporale e sudditi e non coi Capi spirituali di

religioni” e quindi “non vedeva ragione, perché tra tante denominazioni

religiose, si dovesse avere relazioni con una di esse a preferenza delle altre”56.

54 Ivi, f. 59, Bonzano a Gasparri, Washington 3 maggio 1921.55 Ivi, f. 61.56 Ibidem.

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La Casa Bianca diramò il comunicato ufficiale il 3 maggio;

contemporaneamente l’Osservatore Romano pubblicò un articolo dal titolo

Harding non crede necessaria la ripresa delle relazioni diplomatiche col

Vaticano.

Anche se l’incontro sostanzialmente si era chiuso con un nulla di fatto, il

Vaticano e Bonzano non potevano ignorare il cambiamento nei rapporti con

l’amministrazione americana, improntati ora alla massima cordialità. Castagna:

“Per il Delegato si trattava di un’importante conquista: frequentando

assiduamente i luoghi del potere politico federale, infatti, egli poteva assolvere

con maggiore efficacia a quella funzione di raccordo tra Washington e

Vaticano, che, per quanto non gli spettasse formalmente, era stata

sostanzialmente ignorata durante la presidenza Wilson”57.

In questa fase il Vaticano non rinunciava a promuovere, come capofila, la

strategia di stabilizzazione continentale portata avanti dalla politica e dalla

finanza americane: gli Usa non rinunciarono al ruolo di prima potenza

mondiale che la guerra aveva certificato. Essi dovevano da una parte mitigare

l’intransigente punitivismo francese e inglese verso la Germania, agendo su

disarmo e riparazioni, dall’altra non dovevano abbandonare la linea di non

57 Castagna, op. cit. p. 170.

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intervento nelle vicende europee, essenziale per non scontentare l’opinione

pubblica americana. Il segretario al Tesoro, Andrew Mellon, sposava in questo

contesto storico-politico una linea di conciliazione verso i Paesi sconfitti; egli

rispondeva così a chi gli avesse domandato circa la riscossione completa dei

debiti di guerra: “se insistiamo su condizioni di pagamento troppo onerose non

riceveremo nulla. Dobbiamo quindi metterci d’accordo su condizioni che diano

al debitore delle ragionevoli probabilità, di vivere e prosperare”58.

In accordo con le direttive americane riguardanti il disarmo e il sistema di

sicurezza collettiva si colloca la partecipazione statunitense, tra il novembre

1921 ed il febbraio 1922, alla conferenza di Washington sugli armamenti

navali. Insieme a Francia, Gran Bretagna, Giappone e Italia, gli Usa decisero

riguardo la sospensione temporanea della costruzione delle imbarcazioni da

guerra di grandi dimensioni e fissarono un limite massimo di tonnellaggio. Gli

accordi di Washington rappresentarono per gli Stati Uniti un grande successo,

in quanto confermavano la possibilità dell’esistenza di un rapporto di

cooperazione fra le grandi potenze.

Al di fuori della conferenza di Washington, Harding si trovò a discutere della

riduzione degli armamenti anche con il delegato apostolico: il 4 gennaio egli

58 G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 40.

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ricevette Bonzano per il consueto incontro di inizio anno. Il Presidente mostrò

approvazione per la proposta di Bonzano per il quale il modo di sistemare la

situazione tedesca era quello di risolvere il prima possibile il problema delle

riparazioni, e si rese disponibile a collaborare59. Insomma le parole di Harding,

confermando da una parte la sua buona disposizione verso i cattolici e

dall’altra il cordiale rapporto instauratosi con Bonzano, testimoniavano come

in questa fase i rapporti tra Santa Sede e Usa fossero fortemente caratterizzati

dall’atteggiamento della nuova amministrazione, in un momento in cui,

entrambi gli Stati, si trovavano uniti soprattutto nella lotta alla penetrazione

del comunismo in Italia e nell’Europa occidentale.

Questa nuova comunanza di intenti ebbe la possibilità di manifestarsi durante

la Conferenza di Genova (aprile 1922). Per amor del vero la partecipazione dei

due Stati fu scarsa o nulla, in quanto gli Stati Uniti non parteciparono e la Santa

Sede lasciò la conferenza anzitempo. Sostanzialmente la “pietra dello

scandalo” era costituito dalle richieste russe (discusse anche a Bruxelles) in

relazione alla carestia che stava attraversando il Paese, ma a più ampio raggio,

la posizione di entrambi era determinata dalle relazioni che Vaticano e Usa

intendevano intrattenere con l’Unione Sovietica.

59ASV, DASU, titolo V, poS. 63 B/3, f. 249, Bonzano a Gasparri, 12 gennaio 1922.

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Il rifiuto degli Stati Uniti a partecipare alla Conferenza di Genova aveva una

duplice matrice: sul piano internazionale serviva agli Usa a ribadire la

mancanza di volontà di negoziazione con i sovietici, oltre che sottolineare la

propria autonomia decisionale nei confronti degli alleati europei; sul piano

interno invece significava rassicurare l’opinione pubblica, impaurita da una

possibile infiltrazione comunista in America, sul fatto che il governo avrebbe

mantenuto la linea di non intromissione nelle vicende politiche europee,

laddove avessero significato un accordo con Mosca. D'altronde come

sottolinea Castagna: “la possibilità di un maggiore coinvolgimento statunitense

nel tentativo di risollevare le sori dell’economia russa era subordinata alla

caduta del regime comunista (…) una pregiudiziale, questa, che non

rappresentava di certo una novità nell’atteggiamento degli Stati Uniti verso

Mosca. Infatti la stessa American Relief Administration (Ara), (…) era stata

utilizzata dalla Casa Bianca, oltre che per tutelare i cittadini statunitensi

residenti in territorio russo, come strumento per delegittimare il governo di

Lenin”60.

La Santa Sede partecipò alla fase finale della conferenza con Giuseppe

Pizzardo, sostituto alla Segreteria di Stato, al quale Pio XI aveva fatto

recapitare una lettera e un memorandum da consegnare ai delegati; nella

60 Castagna, op. cit. p. 177.

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lettera il Pontefice chiedeva un intervento affinché la Russia restituisse i beni

confiscati al Vaticano durante la campagna anti-ecclesiastica portata avanti da

Lenin. Il documento non sortì l’effetto sperato, i delegati presenti non si

accordarono sulle richieste del Papa. Il riferimento del pontefice alla libertà di

espressione del credo religioso era da estendersi a tutti i cittadini russi 61. Pio XI

perseguiva l’unità della Chiesa universale, e proprio per questo gli osservatori

più attenti videro nell’appello del papa la volontà di riavvicinare il

cattolicesimo alle altre confessioni cristiane, in particolare a quella ortodossa.

Questa volontà del pontefice risaliva agli anni in cui aveva compreso appieno

la difficile realtà religiosa e sociale dell’Europa dell’Est, negli anni in cui aveva

ricoperti dei ruoli diplomatici in Polonia ed in Alta Slesia. Così quando divenne

papa, Ratti fu pronto ad intessere rapporti con il governo russo; nel 1921 il

rappresentante sovietico in Italia, Vorovskij, e monsignor Pizzardo avevano

parlato di una possibile intesa tra Vaticano e Mosca. Intesa che fu raggiunta il

12 marzo 1922. Mosca concesse l’installazione di una missione pontificia di

soccorso, con scopi solamente umanitari, senza ottenere in cambio quello che

più serviva in quel momento, cioè il riconoscimento de jure dalla Santa Sede,

essenziale per uscire dall’isolamento diplomatico in qui versava. Secondo Pio

XI l’accordo con i sovietici fu un successo; infatti senza praticamente

61 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos. 232, fasc. 56, f. 21, cit.

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concedere nulla sul piano diplomatico il Vaticano tutelava senza intralcio i

cattolici russi e avrebbe potuto portare a casa un buon numero di conversioni

di ortodossi.

Ben presto però la Santa Sede si trovò a fronteggiare le requisizioni dei beni di

valore dalle Chiese e le conseguenti esecuzioni di esponenti del clero

ortodosso; la conferenza di Genova si trasformò così in una occasione per

denunciare la ripresa delle persecuzioni religiose ad opera dei sovietici. Pio XI

ebbe una ulteriore riprova della indifferenza delle potenze europee verso i

suoi appelli; infatti monsignor Pizzardo lasciò il consesso nell’indifferenza dei

partecipanti. Castagna: “Nonostante l’escalation di violenza ai danni del clero

cattolico e il crescente malcontento di alcuni cardinali della Curia romana per

la linea morbida tenuta fino a quel punto dal pontefice e dal segretario di

Stato, il Vaticano decise di non interrompere la Missione di soccorso istituita

nel marzo 1922, per non perdere completamente il contatto con i cattolici russi.

Tutti, ad ogni modo, furono d’accordo sul rifiuto di riconoscere formalmente il

nuovo stato sovietico”62.

Nonostante tutto la Missione Pontificia continuò a lavorare, in collaborazione

con l’American Relief Administration (ARA) la quale coordinava tutte le

62 Castagna, op. cit., p. 181.

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operazioni di soccorso alla Russia. La National Catholic Welfare Conference

sosteneva l’ARA e suggerì al Pontefice di affidare la direzione della Missione

Pontificia al padre gesuita Edmund Walsh.

L’opinione pubblica americana non vedeva in senso positivo la collaborazione

con la missione in Russia. Tuttavia nell’agosto del 1923 l’ARA cessò il proprio

lavoro in Russia; poco dopo Pio XI richiamò a Roma Walsh, e, nel settembre del

1924 fu chiuso l’ultimo centro operativo della Missione pontificia.

In quegli anni sia la Santa Sede che gli Usa avevano cercato un riavvicinamento

con Mosca, mettendo da parte le discrepanze politiche e ideologiche; però il

tentativo di coesistenza non andò in porto, il compito risultava troppo difficile

per entrambi gli Stati. Ecco che così l’anticomunismo divenne un ulteriore

motivo di intesa fra Vaticano e Stati Uniti. Castagna: “Di comunismo in

generale, e, più specificamente, di libertà religiosa si sarebbe dibattuto molto

negli Usa sia nella seconda metà degli anni Venti, sia, soprattutto, durante la

decade successiva e, come si dirà, non sempre il punto di vista vaticano

avrebbe coinciso con quello degli Usa. Spronata da Roma, la Chiesa cattolica

statunitense ebbe, comunque, il “merito” di contribuire a sensibilizzare

l’opinione pubblica su una questione destinata a divenire prioritaria negli anni

precedenti il Secondo conflitto mondiale, dando così la sensazione che la

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strategia di riorganizzazione culminata nell’istituzione della NCWC potesse,

attraverso un maggiore dinamismo, far si che anche la “voce” dei cattolici

venisse presa maggiormente in considerazione”63.

Si trattava di segnali incoraggianti per i rapporti fra i due Stati: almeno per

quanto riguarda i rapporti tra gerarchia ecclesiastica locale e governo federale

i tempi di incomunicabilità di Wilson sembravano passati. Ma la ripresa

effettiva dei rapporti “normali” tra Vaticano e Usa era ancora lontana a venire.

2.4 Il dopo Bonzano, il Ku Klux Klan e il nativismo anti-cattolico

Pio XI richiamò a Roma Giovanni Bonzano, nominandolo cardinale nel

dicembre del 1922. Come suo successore alla Delegazione Apostolica di

Washington fu chiamato Pietro Fumasoni Biondi. Forte di una già consolidata

esperienza diplomatica, infatti era stato Nunzio prima nelle Indie Orientali e

poi in Giappone, Fumasoni Biondi era consapevole delle difficoltà insite nel

63 Castagna, op. cit., p. xxx

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ruolo affidatogli: l’inizio della sua permanenza negli Stati Uniti infatti

coincideva con la fase più radicale dell’invettiva anticattolica dei gruppi

nativisti presenti negli Usa.

Bisogna sottolineare il fatto che, durante la metà degli anni Venti, vi fu una

convergenza di elementi negativi che portarono ai più alti livelli le difficoltà per

il cattolicesimo americano da una parte, e per i rapporti fra Washington ed il

Vaticano dall’altra. Questi elementi negativi possono essere riassunti in due

filoni pricipali: il Ku Klux Klan e l’appoggio che l’organizzazione ottenne dal

nuovo presidente americano Coolidge.

In confronto agli obiettivi che il Klan perseguiva nel corso dell’Ottocento, vale a

dire soprattutto la disgregazione del potere politico dei neri del sud, i bersagli

del nuovo Klan erano gli ebrei, i cattolici, gli adulteri, e più in generale chi non

rientrava nei suoi canoni di purezza razziale e morale. Fino al 1923-1924 il

potere politico del Klan fu limitato, esprimendosi al massimo solo a livello

locale; fu soltanto con la nomina a Imperial Wizard ( la massima carica

esecutiva del KKK) di Hiram Evans, nel novembre 1922, che l’organizzazione

acquisì una dimensione più ad ampio raggio. Castagna: “Evans era diventato il

principale oppositore del fondatore del Klan, William J. Simmons (…) Nel luglio

1923, durante il meeting generale di Asheville, il nuovo Wizard sottolineò

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l’importanza di migliorare il coordinamento tra le sezioni ormai sparse in ogni

angolo del Paese; chiese ai vari responsabili locali di pubblicizzare

maggiormente le attività dell’organizzazione attraverso newsletter e bollettini

mensili; ed esortò tutti gli iscritti ad una più attiva partecipazione alla vita

pubblica nei rispettivi Stati. Alla violenza, che aveva contraddistinto l’azione del

Klan fino a quel punto, Evans, inoltre, sostituì metodologie meno eclatanti, ma

più efficaci, come l’esercizio di pressioni sui politici e sulle forze dell’ordine”64.

La candidatura di Calvin Coolidge alle presidenziali del 1924 era la candidatura

ideale per il KKK. Egli era diventato presidente in seguito alla morte improvvisa

di Harding, risollevando le sorti del partito repubblicano. Per la maggior parte

degli americani la sua rettitudine garantiva la sopravvivenza delle antiche virtù

puritane attaccate dal multiculturalismo di quegli anni.

Coolidge, pur essendo dal punto di vista personale molto diverso dal

predecessore, dal punto di vista politico lavorò sulla falsariga di Harding; la

tutela degli interessi della finanza e dell’industria rimase prioritaria, come

altrettanto prioritario fu un atteggiamento impregnato di conservatorismo

anti-alienista, che gli valse il sostegno del Klan ed il voto di molti elettori

democratici delusi nelle elezioni del 1924.

64 Castagna, op. cit. p. 188.

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Il cattolicesimo statunitense, per ovvie ragioni, vedeva con grande

preoccupazione questa special relationship fra Coolidge ed il Ku Klux Klan;

d’altronde, in misura ancora maggiore che nel recente passato, l’azione del

Klan assumeva sempre più marcatamente un comportamento anti-papista,

soprattutto dopo l’ascesa a Imperial Wizard di Hiram Evans.

Famoso rimase il discorso di Dallas del 24 ottobre 1924, in cui Evans spiegava

anche le ragioni che inducevano il KKK ad avversare il cattolicesimo negli Usa:

“No nation can endure that permits a higher temporal allegiance than to its

own government (…) the hierarchies of Roman and Greek Catholicism violate

that principle”65. Inoltre Evans auspicava che il governo americano accelerasse

il blocco dell’immigrazione e controllasse la condotta dei cattolici già

naturalizzati: si trattava di un atteggiamento molto duro nei confronti del

cattolicesimo, attaccato sia nella dimensione spirituale che governativa.

John Burke, il segretario generale della NCWC, fece sentire la sua voce in

risposta alle affermazioni di Evans. Egli disse che le parole dell’Imperial Wizard

non dovessero essere prese in considerazione in quanto smentite soprattutto

dall’impegno e dalla partecipazione dei cattolici alla Grande Guerra; era

soltanto il popolo americano a poter decidere se stare dalla parte del proprio

65 ACUA, ANCWC, OGS, box 78, fold. 24. Organizations: Ku Klux Klan (1923-1939), “The Washington Post”, 25 ottobre 1923, citato in Castagna, op. cit. p. 190.

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Paese o dalla parte del Klan. Il messaggio di Burke voleva lasciare intendere

che la Chiesa americana non avrebbe prestato il fianco alle illazioni e alle

provocazioni, ma avrebbe garantito la propria lealtà al governo repubblicano,

così come avrebbero fatto i fedeli.

Resta da chiarire quale fosse la posizione di Fumasoni Biondi e della Santa

Sede in relazione al Ku Klux Klan. Purtroppo l’impossibilità della consultazione

delle fonti vaticane riguardanti il periodo del pontificato di Pio XI restringe di

molto la disponibilità di notizie di prima mano. Comunque dagli archivi della

National Catholic Welfare Conference trapela il fatto che la linea di neutralità

sposata dalla gerarchia ecclesiastica in risposta agli attacchi di Evans non

cambiò neanche durante la campagna elettorale del 1924, durante la quale il

segretario generale della Ncwc, Burke, chiarì la posizione dell’episcopato. Egli

spiegò che la Conference non avrebbe chiesto ai partiti nessun tipo di

condanna del Klan, né avrebbe sostenuto pubblicamente alcuna iniziativa atta

a combattere il KKK stesso; si sarebbe trattato di un errore fatale che Burke

non intendeva assolutamente commettere. Era evidente la volontà di non

mischiarsi alla competizione politica, e soprattutto la voglia di far giudicare

direttamente ai cittadini il KKK, comportamento questo della Conference che

avrebbe fatto guadagnare in credibilità alla Chiesa cattolica.

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Comunque sia, le parole di Burke esponevano il programma dell’episcopato

nel primo dopoguerra: nel periodo in questione la Chiesa americana volle

fortemente consolidare la sua struttura istituzionale, e ottenne risultati molto

importanti in particolar modo nel campo dell’istruzione. Castagna sottolinea il

fatto che: “tali sviluppi, tuttavia, finirono per ridursi ad una sorta di esaltazione

autoreferenziale da parte della gerarchia, che isolò ulteriormente, piuttosto

che integrarlo, l’elemento cattolico dal resto della società. Tutti rivolti con zelo

all’esercizio del proprio ufficio educativo e pastorale, i vertici ecclesiastici,

infatti, tacquero sui molti problemi di natura economica e sociale, che allora

affliggevano non solo i cattolici, bensì la quasi totalità del popolo americano”66.

La Ncwc stessa mantenne lo stesso atteggiamento; al suo interno l’unica voce

discordante fu quella di John Ryan, il quale cercò di portare l’attenzione su

questioni come la giustizia sociale e soprattutto la tutela dei diritti dei

lavoratori. I suoi sforzi non riuscirono ad ottenere gli effetti sperati, ma egli

ebbe il merito di sollevare un’altra questione: quella della mancanza di leader

cattolici a livello nazionale, che fosse in grado di interpretare le istanze

provenienti dal mondo cattolico, portandole così alla ribalta in un progetto di

più ampio respiro. La questione fu una costante nella storia degli Usa fin dalla

loro nascita; la domanda ricorrente riguarda il motivo per cui i cattolici

66 Castagna, op. cit., p. 193.

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statunitensi, seppure molto numerosi, non riuscissero ad avere un ruolo di

primo piano nella vita politica americana. Secondo il parere di Fumasoni Biondi

la Chiesa aveva delle responsabilità nette: “Anzitutto l’Episcopato non se ne è

curato; e poi credo che (…) questa deficienza debba attribuirsi alla mancanza di

Università Cattoliche dove si possono formare i Catholic Leaders”67. Castagna:

“L’incapacità di formare una classe dirigente in grado di favorire un seppur

minimo superamento dei pregiudizi nei confronti del cattolicesimo costituiva,

secondo il Delegato Apostolico, un lusso troppo grande in quel particolare

momento storico”68. Per Fumasoni Biondi non ci si poteva aspettare da

Coolidge la stessa buona disposizione mostrata da Harding, e quindi egli

giudicava molto difficile, se non impossibile, che dei cattolici avessero spazio

nella sua amministrazione; forse la gerarchia ecclesiastica avrebbe dovuto

esercitare delle pressioni presso il governo americano per cercare di cambiare

la situazione.

67 ASV, DASU, titolo I , pos. 122, f. 50, U.S. Constitution Papal Says Mgr. Bondi, citato in Castagna, op. cit., p. 196.68 Ivi, p. 197.

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2.5 La questione messicana

La vicenda relativa alla situazione esistente in Messico dal 1915 in poi costituì,

durante gli anni Venti, una delle poche occasioni di reale incontro costruttivo

fra Stati Uniti e Vaticano.

Nel 1915 il presidente Wilson riconobbe la legittimità del governo Carranza,

nonostante l’espropriazione dei beni dei cittadini Usa in seguito alla

rivoluzione del 1911; il culmine della iniquità contro gli americani, e

dell’anticlericalismo fu rappresentato dalla Costituzione di Queretaro, del

1917. La prima autorevole voce contraria alla violenza del governo messicano

fu quella dell’arcivescovo di San Francisco, Edward Hanna. La situazione, dopo

le presidenze De la Huerta e Obregon, peggiorò nuovamente nel 1924 con

l’elezione di Plutarco Elias Calles: egli, tra le prime manovre adottate, rese

effettivo l’articolo 27 della Costituzione di Queretaro, che prevedeva la

nazionalizzazione delle terre, comprese quelle possedute dalla Chiesa. Inoltre

dal momento del suo insediamento aumentarono gli arresti di ecclesiastici, e

fu espulso dal Paese il Delegato Apostolico, Filippi, stessa sorte toccò al

successore, Caruana.

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Non avendo canali diretti di comunicazione con gli Usa, la Santa Sede fece leva

sulla mediazione della Chiesa statunitense per cercare di normalizzare la

scabrosa situazione venutasi a creare al di sotto dei confini americani. Prima

Bonzano, dal 1921, e successivamente Fumasoni Biondi, cercarono di ottenere

garanzie circa la libertà religiosa. In particolare Fumasoni Biondi mobilitò i più

influenti rappresentanti dell’ episcopato e tenne costantemente aggiornato il

Vaticano riguardo l’opera di pressione continua sul governo statunitense della

NCWC. La Conference aveva sviluppato un programma incentrato su alcuni

punti, i più importanti dei queli erano: l’invio di una lettera di protesta al

Presidente Coolidge, e la pubblicazione di un rapporto per spiegare ai cattolici

statunitensi quale fosse la situazione della Chiesa in Messico. Ma nonostante

tutto il governo Usa ancora non sembrava intenzionato alla revisione della

scelta di riconoscere il governo di Obregon.

In questo contesto decise di intervenire fattivamente il segretario generale

della NCWC, padre Burke. Egli prima incontrò Coolidge, e poi raggiunse in

Messico l’ambasciatore statunitense Morrow (gennaio 1928) per partecipare

ai negoziati con Calles69. Dopo l’assassinio del successore di Calles, Obregon,

Burke continuò il proprio lavoro, coadiuvato anche da due arcivescovi

messicani, Diaz e Ruiz. Il nuovo presidente messicano, Portes Gil, operò delle

69 Castagna, op. cit., p. 200.

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importanti aperture che resero possibile il raggiungimento di un accordo tra il

Messico e la Chiesa cattolica: il governo messicano avrebbe rispettato la libertà

religiosa dei cattolici, e avrebbe accolto di nuovo un Delegato Apostolico.

La soluzione della vicenda messicana attenuò le difficoltà del cattolicesimo

americano e fece notevolmente migliorare i rapporti fra Vaticano e Usa; prese

il via un processo di convergenza fra le posizioni degli Stati Uniti e quelle

vaticane.

Castagna: “La NCWC diede la sensazione di poter assolvere, almeno su

questioni non strettamente inerenti alla politica interna, a quel compito di

mediazione col governo su cui il Vaticano aveva riposto grandi aspettative sin

dalla sua istituzione; parimenti, l’utilizzo “intelligente” delle abilità negoziali di

padre Burke e la puntualità con cui aveva tenuto informata la Santa Sede

durante quel delicato momento, confermavano il fatto che Pietro Fumasoni

Biondi poteva essere ritenuto un valido successore di Bonzano, nonostante

l’atteggiamento non certo accondiscendente dell’amministrazione Coolidge”70.

70 Castagna, op. cit., p. 201.

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2.6 L’avvento del fascismo e i Patti Lateranensi

L’avvento del fascismo negli Usa fu salutato come un evento in grado di

svolgere una funzione stabilizzatrice, e stabilizzandosi il potere di Mussolini i

consensi all’interno dei confini degli Stati Uniti aumentarono in maniera

esponenziale. Il ministro del Commercio, Hoover, era convinto che il governo

fascista avrebbe offerto importanti possibilità per il capitale statunitense di

investire in Italia. Anche Mellon, il segretario del Tesoro, faceva affidamento

sul fatto che l’Italia fascista si sarebbe distinta grazie a Mussolini.

Era un crescendo, da parte americana, di dichiarazioni di fiducia nel nuovo

governo italiano; si consolidò così un rapporto di tipo economico-finanziario

che ebbe il suo culmine nei primi dieci anni dopo il conflitto, e che avrebbe

portato benefici da una parte e dall’altra71.

Il Vaticano stesso, nel 1922, elogiava il duce per bocca dell’allora arcivescovo

di Milano Achille Ratti: “Un uomo formidabile. Convertito di recente, poiché

viene dalle fila dell’estrema sinistra, che ha lo zelo dei novizi che lo fa agire con

risolutezza”72. Eppure Mussolini agli esordi si era distinto per i suoi sentimenti

71 G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 45-98.72 “L’Illustration”, 9 gennaio 1937 citato in Y. Chiron, Pio XI, Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, P. 131.

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anti-clericali e per la forza con cui attaccava la Chiesa e la sua gerarchia. Ma la

sua “progressiva evoluzione a destra non poteva non avere riflessi anche sul

piano dei postulati fascisti di politica ecclesiastica”73. Infatti nel suo primo

discorso alla Camera, il 21 giugno 1921, Mussolini proclamò che: “la tradizione

latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo (…) l’unica

idea universale che oggi esista a Roma è quella che s’irradia dal Vaticano”74.

Secondo Emma Fattorini l’affinità del Vaticano con il fascismo: “nasceva in

primo luogo dal credere di riconoscere, nelle concezioni di Mussolini, una

comune aspirazione verso quei valori cari dell’intransigentismo ottocentesco

che il papa si illudeva venissero ripristinati attraverso l’autorità, la famiglia,

l’ordine, la moderazione”75. Ma questa affinità era basata soprattutto sulla

convinzione di poter risolvere definitivamente, grazie al fascismo, la questione

della sovranità temporale dei papi. Pio XI guardava con sufficienza ai partiti

politici, anche a quelli cattolici, riteneva deboli i sistemi democratici ,

preferendo il rapporto diretto con gli Stati. Nel 1923 il pontefice arrivò a

sacrificare l’esistenza stessa del Partito popolare, al quale rimproverava

l’indifferenza verso la questione romana; ormai il Papa aveva riposto nel

fascismo tutte le speranze di conciliazione con l’Italia.

73 “Il Popolo d’Italia”, 18 novembre 1919, citato in F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla Grande Guerra alla conciliazione, Bari, Laterza, 1966, p. 80.74 Ivi, p. 8175 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, p. 29.

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In seguito, spinta anche dalla stampa cattolica statunitense, allineata ormai

totalmente dalla parte di Mussolini, anche la gerarchia ecclesiastica americana

finì con l’adesione incondizionata alle posizioni del regime fascista. Si creò

dunque una comunanza di vedute tra l’episcopato ed i diplomatici italiani che

trovò nelle manifestazioni pubbliche il mezzo per rendere più forte il legame

tra le due parti76. Emblematica in tal senso la caloros accoglienza riservata al

console italiano a Chicago, Leopoldo Zunini, al Congresso Eucaristico

Internazionale del 1926, “ unico fra i Consoli esteri presenti alla funzione, ben

venuto, nella cattedrale, dandomisi posto immediatamente dopo i cardinali

Mundelein e Bonzano insieme al sindaco di Chicago Dever”77. Questi gesti

ostentati però non furono accolti con entusiasmo dalla totalità dell’opinione

pubblica americana: anzi furono accettati mal volentieri dalla grande massa

dell’opinione pubblica protestante, e più in generale, non appena si diffusero

le voci di possibili negoziati segreti tra governo fascista e Vaticano per la

risoluzione della questione romana, l’atteggiamento del popolo americano

divenne mano a mano più ostile nei confronti di Mussolini. Le trattative ebbero

inizio nel 1926, e conobbero momenti di alterna fortuna.

76 P. D’Agostino, Rome in America. Transnational Catholic Ideology from the Risorgimento to Fascism, Chapel Hill-London, North Carolina University Press, 2004, p. 174-183.77 ASMAE, AP1, SU, b. 1602, Zunini a Mussolini (telegramma), Chicago 19 giugno 1926.

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Il duce conobbe le reazioni dell’opinione pubblica statunitense all’ipotesi di

riconciliazione con il Vaticano. Giacomo De Martino scrisse a Mussolini, in

data 28 febbraio 1928, che: “ogni volta che le notizie mettono in rilievo i

migliorati rapporti fra il Governo italiano e la Santa Sede, si verifica

naturalmente una ripercussione favorevole negli ambienti cattolici e una

sfavorevole negli ambienti protestanti, i quali riprendono l’argomento che il

Fascismo rappresenta un rafforzamento del cattolicesimo e che quindi lo

sviluppo del Fascismo negli Stati Uniti può minacciare le chiese protestanti.

Effetto contrario producono viceversa le notizie di controversie fra il R. Governo

ed il Vaticano”78. Inoltre il duce ricevette frequentemente lettere da cittadini

americani nelle quali essi auspicavano che Stato e Chiesa rimanessero separati.

Nonostante tutto i Patti Lateranensi furono firmati l’11 febbraio 1929: gli

accordi restituivano al Papa la sovranità dello Stato della Città del Vaticano, e

garantivano la personalità internazionale della Santa Sede.

Per il mondo cattolico statunitense si trattò di un risultato della massima

importanza, che fu celebrato entusiasticamente dai giornali e dai periodici

cattolici. Chiaramente di carattere opposto fu la reazione del mondo

protestante, e più in generale, del mondo liberale. Il settimanale metodista

“The Christian Advocate” arrivava a dire che i Patti spianavano la strada

78 ASMAE, AP1, SU, b. 1607, De Martino a Mussolini, Washington 28 febbraio 1928.

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all’illegittima aspirazione del pontefice ad entrare a far parte della Società

delle Nazioni79.

Castagna: “La Casa Bianca, da parte sua, si dimostrò più che altro preoccupata

per le ricadute della convenzione finanziaria stipulata tra Roma e Santa Sede

sulla fragile economia italiana verso la quale, come detto, gli investitori Usa si

erano notevolmente esposti in quegli anni, soprattutto alla luce dei contrasti

che si originarono tra le due parti già all’indomani dell’accordo”80.

Il periodo successivo alla stipulazione dei Patti fu caratterizzato da un profondo

rinnovamento della Curia, accompagnato da un parallelo mutamento

dell’atteggiamento del Vaticano nelle questioni internazionali. Concretamente

papa Ratti, dopo le dimissioni di Gasparri da segretario di Stato nel 1929, cercò

una personalità in grado di “porre definitivamente l’accento sulle ragioni

pastorali che ispiravano l’azione diplomatica della Santa Sede, le cui finalità

non potevano apparire come subordinate agli interessi di nessuno Stato, in

primo luogo l’Italia”, timore che “era particolarmente cresciuto tra i cattolici

europei e d’oltreoceano dopo la stipula dei Patti lateranensi”81.

79 Citato in Castagna, op. cit., p. 219.80 Ivi, p. 219.81 S. Pagano, M. Chappin, G. Coco, I fogli di udienza del cardinale Eugenio Pacelli Segretario di Stato, Città del Vaticano, Collectanea Archivi Vaticani, 2010, p. 87.

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Capitolo 3

Gli anni del disgelo (1930-1940)

3.1 Roosevelt e il “New Deal”

Nel luglio del 1932 il partito democratico scelse Franklin Delano Roosevelt

come candidato alla presidenza degli Stati Uniti. L’intenzione del candidato

democratico di rompere col recente passato fu chiara fin dal discorso con cui

egli accettava la nomination a presidente: in quella occasione Roosevelt si

impegnò ad avviare un nuovo corso per il popolo americano, attraverso la

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sperimentazione di soluzioni alternative per far fronte positivamente alle

attese e ai bisogni degli Usa. Gli americani, nel 1932, avevano assoluto bisogno

di vedere una luce alla fine del tunnel, dopo tre anni dall’inizio della

pesantissima crisi economica del 1929. In precedenza Roosevelt aveva

maturato una importante esperienza come governatore dello Stato di New

York, dove era succeduto al cattolico Al Smith, a differenza del quale, non era

un ragazzo dei bassifondi, tutt’altro. Infatti faceva parte di una ricca famiglia

dell’aristocrazia terriera, ed aveva studiato nelle scuole più esclusive degli Usa.

Al proposito Giancarlo Giordano: “Roosevelt aveva fatto parte della società

cosmopolita del nordest (…) tutta la sua vita non era stata altro che una

preparazione ai più alti incarichi”82. Il candidato democratico aveva dalla sua

parte l’opinione pubblica, che vedeva in lui, nel suo ottimismo e nella sua forza

di volontà (fu colpito nel 1921 da una forma grave di poliomelite che lo

costrinse su una sedia a rotelle) la speranza di uscire dalla miseria della crisi

economica. Castagna: “Egli, infatti non era certo un fine pensatore, né

tantomeno un ideologo o un dottrinario, ma sapeva come scaldare i cuori di

quei milioni di forgotten Americans, che ricevettero un messaggio di sollievo

nei molti viaggi che egli fece prima delle elezioni nelle aree più colpite dalla

violenta recessione economica. Anche i suoi discorsi più ortodossi, miranti a

82 Giancarlo Giordano, La politica estera degli Stati Uniti, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 13.

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rassicurare l’ala destra del partito e la spaventata middle class democratica,

contenevano moniti di carattere prettamente liberal, in cui veniva ribadita la

priorità verso i bisogni dei meno abbienti, anche a discapito delle esigenze di

bilancio”83.

Il New Deal non consisteva in un programma definito; attraverso di esso

Roosevelt intendeva alleviare le sofferenze del Paese con soluzioni nuove.

Come disse egli stesso nel discorso al Commonwealth Club nel settembre

1932, si trattava di un programma che aveva una robusta dose di ambiguità,

ma che spinse milioni di americani a votare per lui.

La vittoria di Roosevelt e l’inizio dell’era del New Deal comportò un

riallineamento nella politica americana. Negli anni Trenta venne a rompersi il

tradizionale legame tra il partito repubblicano, il mondo rurale e i

professionisti della classe media, la sopravvivenza della quale veniva garantita

dai programmi agricoli, dai sussidi e dai posti di lavoro introdotti dalle leggi

adottate durante il periodo della presidenza Roosevelt. Come conseguenza ci

fu dunque un cambiamento epocale: venne infranto il monopolio sulla

gestione della politica detenuto storicamente dalle élite bianche, anglosassoni

e protestanti. Il consenso risultava equamente distribuito fra tutte le classi

83 Citato in Castagna, op. cit., p. 227.

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sociali, e non rappresentava solamente un voto di protesta contro Hoover e i

repubblicani, perché gli statunitensi apprezzavano quanto Roosevelt

rappresentava, la tenacia con cui aveva costruito la sua carriera politica a

dispetto della sua menomazione fisica, e soprattutto il messaggio di speranza

in un futuro migliore e lontano dalla crisi economica che aveva saputo lanciare.

Sottolinea Castagna che: “operò, infatti, in modo eclettico e con una

formidabile vastità di orizzonti, servendosi di pratiche discorsive altamente

metaforiche per mobilitare la nazione nella lotta alla crisi; pragmaticamente,

seppe miscelare meccanismi tradizionali di trasmissione clientelare all’interno

del partito con strategie di distribuzione delle risorse quanto mai efficaci,

attraverso la creazione di molteplici agenzie federali, nominalmente

indipendenti, ma in realtà controllate dal Presidente per gestire gli

innumerevoli programmi pubblici messi in opera. Divenne, in sintesi, il perno di

quella che potrebbe definirsi come una nuova “galassia” o, anche, un nuovo

“ordine democratico”, composto da due nuclei, uno più ristretto – di cui

facevano parte membri del gabinetto, consiglieri personali del Presidente,

leader del Partito, parlamentari democratici, giudici e accademici filo-

newdealisti – e, l’altro, invece, più ampio – comprendente attivisti e

professionisti legati alle agenzie create dal New Deal, alle strutture partitiche

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locali, al mondo accademico, economico e, più in generale, dell’assistenza

sociale”84.

3.2 Nuove linee di intesa fra Vaticano e Stati Uniti

Alla metà degli anni Trenta, motivi di mutuo interesse tra la Chiesa cattolica e

l’amministrazione Roosevelt portarono alla nascita di una collaborazione tra il

governo americano e la gerarchia ecclesiastica. Venivano a combaciare,

completandosi a vicenda, i presupposti della dottrina newdealista, i principi

della dottrina sociale della Chiesa e le necessità di milioni di cattolici

statunitensi. Il legame sempre più stretto nato tra amministrazione

democratica e cattolicesimo può ricondursi dunque a due fattori principali: da

una parte la lungimiranza politica del presidente Usa, dall’altra la convergenza

tra i capisaldi del New Deal e i dettami della dottrina sociale della Chiesa

cattolica.

84 Citato in Castagna, op. cit. p. 229.

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In questo contesto “la crociata del presidente Roosevelt contro la

disoccupazione, le ingiuste pratiche di lavoro, la discriminazione e la povertà

erano problemi che anche la gerarchia cattolica americana stava tentando di

affrontare con uguale vigore”85.

I cattolici, la cui gran massa era concentrata nelle fasce medio basse della

società Usa, furono pesantemente colpiti dalla crisi della fine degli anni Venti.

Nonostante l’inadeguatezza dei leader politici cattolici a livello locale e della

gerarchia ecclesiastica, occupata ad ampliare le proprie strutture istituzionali, il

cattolicesimo statunitense reagì alla crisi economica con inaspettata potenza, e

lo fece ancora prima che l’enciclica di denuncia del sistema capitalistico, la

Quadragesimo Anno, incontrasse l’interesse dell’opinione pubblica americana.

Nel maggio 1931 padre Blakely, editorialista di “America”, accusò il sistema

industriale statunitense di violare i principi di giustizia sociale su cui Leone XIII

aveva basato la Rerum Novarum nel 1891. In seguito illustri membri della

gerarchia ecclesiastica si mobilitarono in tal senso: l’arcivescovo di Cincinnati,

McNicholas, poneva l’attenzione sul grande divario che esisteva tra “the

comparatively small group possessing fabolous wealth and exercising the

enourmous influence that wealth confers” e chi invece non aveva “the very

85 Citato in Nicholson, op. cit., p. 28.

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food and shelter necessary to keep body and soul togheter”86. Con il peggiorare

della crisi economica vi furono da parte cattolica proposte sempre più

concrete, come il joint statement del novembre del 1931, in cui l’episcopato si

espresse a favore dell’introduzione di un salario minimo di sussistenza per i

lavoratori e per una equa distribuzione dei profitti, con inoltre la convocazione

di una conferenza congiunta tra rappresentanti sindacali, industriali e governo

federale per discutere delle misure da adottare contro la crisi.

In altri casi, fu trovata nella diffusione delle encicliche di Leone XII e Pio XI la

possibilità più efficace per combattere la Grande depressione; durante l’estate

del 1932 il Catholic Central Verein of America approvò una risoluzione che

proponeva di basare i programmi governativi di ricostruzione sui punti

contenuti nella Quadragesimo Anno87.

Dunque agli inizi degli anni Trenta ci fu un fiorire di incontri e forum in cui le

varie correnti del cattolicesimo americano espressero il proprio malcontento

per il fallimento del sistema capitalistico e per il non-interventismo

dell’amministrazione Hoover, auspicando l’adozione di un programma di

ricostruzione che si rifacesse ai precetti della dottrina sociale della Chiesa

86 J.T. Mc Nicholas, Justice and Present Crisis, in “The Catholic Mind”, XXIX, 22 ottobre 1931, pp. 473-481, citato in Castagna, op. cit., p. 245.87 G. Q. Flynn, American Catholics & the Roosevelt Presidency, 1932-1936, Lexington, Kentucky University Press, 1968, p. 31.

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cattolica e che avesse un maggiore impegno governativo in ambito economico-

sociale.

Comunque sia furono la nuova inclinazione riformista del mondo cattolico e la

collaborazione sia della gerarchia ecclesiastica che dell’opinione pubblica

cattolica, a rinforzare il rapporto tra l’amministrazione democratica e il mondo

cattolico statunitense negli anni in cui il New Deal divenne realtà88. In effetti la

stampa cattolica presentò i provvedimenti di Roosevelt come la versione

americana delle encicliche sociali dei papi, tanto che il reverendo O’Brien

definì il presidente Usa come l’”apostolo” del nuovo corso statunitense. Le

attestazioni di stima, anche esagerate, nei confronti di Roosevelt, vennero sia

da parte di organi di informazione, come il “The Catholic Herald” ed il “The

Catholic Telegraph”, sia da parte di organizzazioni cattoliche, come

l’International Catholic Truth Society, la National Catholic Alumni Federation e

la Catholic League for Social Justice.

Roosevelt fu molto abile, negli anni, a incentivare questo grande supporto da

parte cattolica, e riuscì ad invertire la tendenza che vedeva i cattolici

estromessi dalle più importanti cariche politiche. Infatti numerosi personaggi

di fede cattolica entrarono nella nuova squadra di governo, assumendo

88 G. Q. Flynn, op. cit., pp. 36-37.

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posizioni di primissimo piano: fu ad esempio il caso di Thomas Walsh che

divenne ministro della Giustizia. Oltre ai laici, anche numerosi esponenti del

clero cattolico ottennero incarichi importanti all’interno dei programmi del

New Deal. Tra questi padre John A. Ryan fu uno dei più attivi, già direttore

dello United States Employment Service, Roosevelt lo nominò tra i tre membri

del Labor Policies Board. Ryan descrisse questa rivoluzione in atto, che stava

portando tantissimi cattolici laici e preti nell’amministrazione Usa, dichiarando

nel settembre del 1934 che: “there are more Catholics in public positions, high

and low, in the Federal Government today than ever before in the history of the

country”89.

Le nomine effettuate da Roosevelt rinforzarono l’immagine del presidente

negli ambienti cattolici, ma ancora più significativo risultò l’atteggiamento

della gerarchia ecclesiastica, che istaurò con Roosevelt un rapporto di massima

collaborazione: addirittura il cardinale O’Connell di Boston lo definì come un

uomo mandato dalla provvidenza per il bene degli Usa.

Il principale sostenitore del presidente statunitense nei primi anni di mandato

fu senza dubbio il cardinale di Chicago, George Mundelein, e il rapporto tra i

due è uno degli esempi più significativi del nuovo clima instauratosi tra i vertici

89 ACUA, ANCWC, box 23, fold. 21, Ryan a (James) Moran, Washington 28 settembre 1934, citato in Castagna, op. cit. p. 253.

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della gerarchia statunitense e la Chiesa cattolica a partire dagli anni Trenta.

Roosevelt e Mundelein si incontrarono la prima volta nel maggio del 1933 , e

fu il primo di una lunga serie di incontri, che si protrassero fino alla morte del

porporato, avvenuta nel 1939, un rapporto “caratterizzato dalla stima

reciproca, sul quel Roosevelt – come ricorda Harold Ickes nel suo diario – fece

sempre grande affidamento, e che Mundelein coltivò sapientemente sia in

privato, sia nelle numerose occasioni nelle quali si schierò pubblicamente a

sostegno della politica presidenziale”90. Dal 1934 Roosevelt ebbe bisogno del

supporto di Mundelein, così come del sostegno degli altri cattolici che lo

sostenevano, a causa della delusione per i risultati del suo nuovo corso; infatti

l’iniziale entusiasmo per il programma di riforme da lui proposto stava

affievolendosi. Nell’insieme però la coalizione cattolica rooseveltiana tenne

bene. Tanto bene da garantire al presidente una rielezione schiacciante alla

presidenziali del 1936.

3.3 Verso la ripresa dei rapporti diplomatici: dalla questione russa

all’incontro Pacelli-Roosevelt

90 H. Ickes, The Secret Diary, cit. vol. 3, p. 53, citato in Castagna, op. cit., p. 256.

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Nella seconda parte degli anni Trenta l’attenzione dell’amministrazione

americana si spostò dalla politica interna alle questioni internazionali,

riguardanti soprattutto problemi di carattere europeo.

Il giudizio del mondo cattolico americano riguardo la politica estera

dell’amministrazione Roosevelt durante i suoi primi quattro anni fu positivo, e

rafforzò la comunanza di vedute con il presidente, anche se tale giudizio

divenne più critico quando egli iniziò a paventare un maggiore impegno nelle

cose europee. Uno degli obiettivi principali della Santa Sede divenne quello di

collaborare con gli Usa per arginare l’escalation nazi-fascista, e la diplomazia

pontificia doveva quindi rinsaldare il proprio legame con Washington quanto

prima.

La questione della possibile penetrazione del comunismo negli Usa

rappresentò una delle principali preoccupazioni della Chiesa cattolica fin dal

1917. Infatti nell’aprile del 1932 il Segretario di Stato Eugenio Pacelli ordinò al

Delegato Apostolico Fumasoni Biondi di comunicare tempestivamente alla

Santa Sede qualunque informazione avesse avuto circa i progressi del

comunismo in terra statunitense. Fumasoni Biondi per svolgere il suo compito

si avvalse della collaborazione preziosa del reverendo McGowan della NCWC.

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Successivamente, nel 1933, il segretario della Congregazione degli Affari

Ecclesiastici Straordinari, Giuseppe Pizzardo, comunicò al chargé d’affaires

Paolo Marella, come fosse di “particolare gravità la situazione degli Stati Uniti

d’America, anche per le situazioni che potranno partire dai focolai di idee

sovversive accesi ed alimentati in codesto paese”91.

Secondo Pizzardo l’unico mezzo per sventare il pericolo comunista era la

diffusione della conoscenza della dottrina sociale della Chiesa.

Stanti così le cose appare scontata la reazione vaticana alle notizie riguardanti

l’intenzione di Roosevelt di intavolare trattative per il riconoscimento del

governo di Mosca; Pacelli pensava che quest’idea fosse dannosa “alla causa

della civiltà, per l’incoraggiamento che da tale riconoscimento deriverebbe al

Bolscevismo e alla stessa compagine sociale e politica di cotesta repubblica”92.

Le voci dello scambio di ambasciatori fra i due Stati divennero sempre più

frequenti, e crearono divisioni anche all’interno dello stesso staff del

presidente; il Segretario di Stato Cordell Hull sollevò una questione

importante, quella delle ripercussioni in termini di consenso che l’apertura

all’Urss avrebbe potuto comportare, soprattutto considerando quanto gli

elettori cattolici fossero contrari a questa ipotesi. D’altronde il riavvicinamento

91 ASV, DASU, titolo II, pos. 412, f. 102, Pizzardo a Marella, rapp. n. 927/33, Città del Vaticano, 4 aprile 1933.92 Ivi, titolo V, pos. 157, f. 2v, Pacelli a Fumasoni Biondi (copia), rapp. n. 3741/32, Città del Vaticano 9 gennaio 1933.

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Usa-Urss era caldeggiato dall’alta finanza e dall’industria, oltre che da

numerosi illustri quotidiani, il New York Times su tutti. Al contrario la stampa

cattolica si mostrava compatta nel non condividere le scelte del governo Usa.

Intanto la Santa Sede aveva chiesto alla Delegazione Apostolica una relazione

dettagliata su quale fosse il pensiero della gerarchia ecclesiastica americana

sulla questione. L’incaricato della relazione fu Paolo Marella, il quale

commentava così: “Sul primo punto – se, cioè, il riconoscimento dell’Urss da

parte degli Stati Uniti avesse potuto provocare effetti deleteri per la vita

sociale, religiosa e morale del Paese – la divergenza traevano origine da

considerazioni di natura pratica. Coloro che le avevano date – proseguì

l’incaricato – «ritengono che i pericoli e i danni già esistenti non verrebbero di

fatto ad essere aumentati da quella specie di riconoscimento che i fautori del

medesimo sembrerebbero proporre»; anzi, «non mancano coloro che il pericolo

verrebbe piuttosto a diminuire, per il fatto che le relazioni diplomatiche con la

Russia potrebbero dare al Governo degli S.U. [sic] maggiore possibilità di

controllare e perciò reprimere la propaganda sovversiva». Quanto al secondo

punto, la risposta dei vescovi, che, cioè, la gerarchia non debba prendere

posizione ufficialmente e pubblicamente contro il riconoscimento, «è giunta

quale era da prevedersi». Un’azione ecclesiastica in tal senso, infatti, «non

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mancherebbe senza dubbio di provocare un vasto e forte risentimento, non

soltanto da parte di coloro che sono in favore del riconoscimento della Russia,

ma anche da parte di quelli, che pur essendo contrari ad esso, sono per

principio avversi a che la Chiesa si mischi, (come essi non finiscono mai di dire)

nelle cose politiche». Circa la terza e ultima questione trattata nella

comunicazione, Marella notò come l’ipotesi di una lettera pastorale

dell’episcopato sul comunismo fosse stata largamente dibattuta, ma ritenne di

dover convenire con «l’opinione di coloro che credono che una tale pastorale,

al presente, non farebbe altro che esagerare l’importanza del Comunismo in

questo Paese, e dare così alla propaganda Sovietica nuova ansa di vita”93.

La gerarchia ecclesiastica sperò a lungo che gli Usa abbandonassero l’idea di

riconoscere l’Urss, però Marella, riportando le parole di Hayes disse che:

“prima o poi la questione verrebbe posta sul tappeto, con la probabile

conseguenza del riconoscimento”, perché ormai Roosevelt sembrava convinto

che “non è possibile ottenere alcun risultato positivo verso la pace e la ripresa

economica delle nazioni, se uno stato che comprende una parte così cospicua

della popolazione della terra, rimanesse estraneo alle trattative internazionali

promosse dagli Stati Uniti”94.

93 Ivi, f. 119, f. 120, f.123, f.54.94 Ivi, SS, AES (IV periodo), Russia, pos. 656, fasc. 37, ff. 24-26, Marella a Pacelli, rapp. n. 4716-i, Wasahington 24 maggio 1933.

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Importante per lo sviluppo della vicenda risulta essere il rapporto (del 1°

agosto 1933) del Delegato Apostolico Cicognani in cui riportava il contenuto di

un colloquio tra padre Burke e il sottosegretario di Stato statunitense William

Phillips, in cui si diceva che “la tendenza era a smussare e sciogliere le difficoltà

che si fanno al riconoscimento della Russia, dal punto di vista religioso,

economico e sociale”; inoltre Phillips disse che “non sarebbero ragioni di

commercio che spingono l’America verso la Russia, giacché nessuno oggi, che

ben conosca le condizioni di quel Paese, sarebbe disposto a fargli credito”, da

cui la supposizione che il riavvicinamento diplomatico dipendesse dalla tutela

di interessi geopolitici in Estremo Oriente. Le parole di Phillips facevano

presagire che le trattative con l’Urss fossero molto vicine: però Roosevelt

voleva comunque che i cattolici americani ed il Vaticano venissero coinvolti nel

riavvicinamento fra i due Stati, e che avessero comunque rassicurazioni sulla

questione della libertà di culto in Russia. Lo stesso presidente Usa sottolineò il

fatto di essere contrario all’ateismo russo e, allo stesso tempo auspicava la

libertà religiosa e di culto esterno, esortando padre Walsh a preparare un

memorandum in cui venissero spiegate le posizioni della Santa Sede. Il 31

ottobre 1933 Padre Walsh presentò a Roosevelt il suo memorandum intitolato

Religio in Soviet Russia. In esso si insisteva su due punti in particolare: la libertà

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di coscienza per tutti i cittadini russi e non residenti in Urss e libertà di

esercizio pubblico e privato del culto religioso95.

Tuttavia, nonostante in un incontro del 1° novembre Roosevelt disse che si

sarebbe attenuto ai punti del promemoria, il 16 novembre il Presidente e

Litvinov, sottoscrissero un accordo in cui si limitava il rispetto della libertà

religiosa da parte delle autorità sovietiche ai soli cittadini statunitensi residenti

in Urss.

Generalmente l’opinione pubblica americana e la stessa stampa cattolica si

mostrarono soddisfatte per gli accordi sottoscritti da Roosevelt; di carattere

opposto era il pensiero di Eugenio Pacelli: “il riconoscimento da parte degli

Stati Uniti d’America dei Sovieti importa disgraziatamente un notevolissimo

aumento del loro prestigio e una valorizzazione della loro attività, della quale

fa parte anche la propaganda di ateismo nel mondo”96.

Nei giorni successivi il Vaticano rivalutò il contenuto degli accordi raggiunti tra

Usa e Urss, considerando anche che mai nessun Presidente Usa aveva tenuto

in così grande considerazione il parere della Santa Sede su questioni di politica

estera. Vi fu dunque l’articolo apparso su l’Osservatore Romano nel gennaio

1934 in cui si diceva che : “il Presidente Roosevelt in più di una occasione ha

95 Ivi, titolo V, pos. 157, f.286, Pacelli a Cicognani (cifrato n. 380), Città del Vaticano 23 ottobre 1993.96 Ivi, f. 11, Pacelli a Cicognani, rapp. n. 3321/33, Città del Vaticano 16 dicembre 1933.

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preso l’opportunità per affermare che la religione e i principi religiosi sono la

base del benessere di una nazione”97.

Il riavvicinamento tra le due parti procedeva dunque spedito, ed un ruolo di

primo piano lo ebbero due religiosi americani: il cardinale di Chicago George

Mundelein, ed il vescovo ausiliare di Boston Francis Spellman. Entrambi furono

i principali interlocutori tra la Casa Bianca e la Segreteria di Stato vaticana nella

seconda metà degli anni Trenta.

Ma il ruolo più importante nella strada verso il ripristino delle relazioni

diplomatiche fra i due Stati fu rivestito da Eugenio Pacelli. Diplomatico di lungo

corso, appena nominato Segretario di Stato egli si presentò “come l’erede dei

venerati maestri Rampolla e Merry del Val, e, quindi, come la sintesi di quei

diversi orientamenti nell’azione di governo della Chiesa di Roma che a lungo

avevano diviso le anime della curia in un dualismo, idealmente concepito nei

termini Pio X/Merry del Val e Benedetto XV/Gasparri, che molti avevano

considerato come inconciliabile”98.

La sua personalità, di indole misurata, si sposava alla perfezione con il

carattere volitivo di Pio XI, e tra i due si instaurò un rapporto speciale, condito

da una sorta di complementarità che consentiva “alle intemperanze dell’uno di

97 I valori religiosi del Cristianesimo esaltati dal Presidente Roosevelt, in “L’Osservatore Romano”, 4 gennaio 1934, in ivi, DASU, titolo V, pos. 153, f.76.98 G. Coco, op. cit., p. 93.

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essere spente e risolte più diplomaticamente, e alle indecisioni dell’altro una

maggiore risolutezza”99.

Prima del famoso viaggio di Pacelli negli Stati Uniti del 1936, bisogna

sottolineare altri eventi che portarono al progressivo avvicinamento fra Usa e

Santa Sede.

Il primo di questi avvenimenti fu l’incontro fra Cicognani e Roosevelt avvenuto

il 12 giugno 1933 alla Casa Bianca. Leggiamo nei documenti vaticani che il

Presidente parlò in termini entusiastici del Pontefice, “lodando la larghezza

delle Sue vedute, la perfetta comprensione dei bisogni dei popoli e

l’opportunità e la bellezza delle Sue encicliche” che avrebbero avuto “grande

influenza sul pensiero sociale ed economico degli Stati Uniti”100. Roosevelt

accolse Cicognani con grande riguardo: “Io la voglio ricevere come un

Ambasciatore; spero che verrà presto il giorno in cui potrò salutarla come un

Ambasciatore”.

La carta stampata non poteva ignorare le parole del Presidente, e fu

soprattutto lo storico Francis Stock a catturare l’interesse generale con un

lavoro che ricostruiva la storia dei rapporti fra Vaticano e Usa dai moti del

1848 alla fine delle relazioni diplomatiche del 1867.

99 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un Papa, Torino, Einaudi, 2007, p. XII.100 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos. 230, fasc. 53, f. 84 r.

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L’attacco italiano all’Etiopia fu l’occasione decisiva per Vaticano e Usa per

“sincronizzare” le rispettive posizioni in politica estera e per addivenire

finalmente ad una accordo tra i due Stati.

Da parte statunitense il conflitto in questione segnò la prima rottura tra Italia e

Usa nel ventennio tra le due guerre mondiali. Fino a quel momento Roosevelt

e l’America tutta vedevano in Mussolini un possibile “pacificatore”, tanto che il

Presidente aveva apprezzato, e non poco, l’impegno del duce nel progetto di

Patto a Quattro. Ma dopo il conflitto etiope e l’avvicinamento tra Roma e

Berlino dalle parti di Washington erano ormai persuasi del fatto che il fascismo

e il nazionalsocialismo avessero come obiettivo comune lo sconvolgimento del

fragile equilibrio europeo.

Allo stesso tempo il Vaticano ripensò profondamente la propria posizione

verso la figura di Mussolini e l’azione tedesca; Castagna: “i tradizionali canali

della diplomazia vaticana si erano rivelati assolutamente inefficaci sino a quel

momento tanto nell’assicurare il rispetto da parte di Hitler del concordato del

settembre 1933, quanto nel promuovere un’azione pacificatrice nel corso della

guerra italo-etiopica”101.

In questo contesto Pacelli si recò personalmente negli Stati Uniti. Il grande

“organizzatore” del viaggio non poteva che essere Spellman, dati i suoi ottimi e 101 Y. Chiron, Pio XI. Il papa dei Patti Lateranensi e dell’opposizione ai totalitarismi, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, pp. 392-398, citato in Castagna, op. cit., p. 293.

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radicati rapporti sia con Roosevelt che con Pacelli. L’8 ottobre 1936 l’allora

Segretario di Stato, accompagnato dal nuovo ambasciatore italiano in Usa,

Fulvio Suvich, sbarcò al porto di Quarentine, a New York, a bordo del

transatlantico “Conte di Savoia”.

Pacelli tenne subito un discorso, in cui subito sottolineò il fatto che si trattava

di un viaggio privato, e per non alimentare le critiche che avrebbe potuto

suscitare una sua visita durante la campagna elettorale egli terminò il suo

intervento dicendo che: “outside and above all conflict of parties whose

interests are purely earthly, the voice of the Father of Christendom is raised,

amid the struggles of the present hour to warm humanity that is following and

thet i twill follow the wrong road if it refuse to recognize and to observe the

noble and pure doctrine of the Gospel”102.

La stampa americana concesse un grande risalto alla visita di Pacelli, e

l’”Evening Star” arrivò a definire la visita del Segretario di Stato: “preparatory

to the recognition of the papal state by the United States government and

establishment of a diplomatic mission”103.

Negli ambienti della diplomazia italiana stessa si parlava con interesse della

vicenda, ventilando la possibilità che la reale finalità della visita fosse quella di

verificare la fattibilità della ripresa dei rapporti diplomatici fra Usa e Vaticano. 102 ASV, DASU, titolo V, POS. 194, FF. 19-20, Statement di Pacelli, New York 8 ottobre 1936.103 Ivi, f. 8, cit. e ivi, pos. 178, f. 39, Una smentita vaticana circa gli Stati Uniti, in “La Corrispondenza”, 20 ottobre 1936.

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Pacelli effettuò un giro completo degli Stati Uniti, e dopo la vittoria di

Roosevelt alle elezioni del 3 novembre, sarebbe stato più facile incontrare il

Presidente.

L’incontro avvenne il 5 novembre, non a Washington ma ad Hyde Park, nella

residenza privata di Roosevelt, e durò circa due ore. Il “New York Times” lo

definì come una specie di visita di Stato in cui si era parlato di vari argomenti,

invece secondo l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Bonifacio Pignatti,

“la questione delle relazioni diplomatiche è stata certamente trattata fra il

Presidente Roosevelt e il Cardinale Pacelli” e si trattava di studiare “da una

parte e dall’altra, ma specialmente in America, in che forma potrebbe essere

accreditato presso il Papa un rappresentante nord-americano per la trattazione

di speciali questioni”104.

Dunque l’incontro Pacelli-Roosevelt era il primo passo verso il riavvicinamento

fra Vaticano e Usa, ma per la concretizzazione ci sarebbe voluto ancora

qualche anno.

104 ASMAE, AP2, SU, b. 28, fasc. 37, Pignatti a MAE, Città del Vaticano 23 novembre 1936.

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3.4 Gli anni della preparazione all’intesa (1937-1938)

Alla fine degli anni Trenta prese corpo, con più forza rispetto a prima, una

certa preoccupazione sia in Usa sia all’interno del Vaticano circa l’alleanza

italo-tedesca.

Suvich, ambasciatore italiano in Usa, riportava agli Esteri, nel marzo del 1937:

“l’atteggiamento di ostilità nei nostri riguardi della stampa e di gran parte

dell’opinione pubblica americana è andato negli ultimi tempi inasprendosi”,

aggiungendo inoltre che la tensione tra Italia e Stati Uniti dipendeva non solo

da questioni ideologiche, ma soprattutto dai “nostri atteggiamenti precisi nel

campo politico e più particolarmente dalla nostra azione etiopica”. Inoltre

l’alleanza con la Germania e l’intervento italiano in Spagna rappresentavano “il

punto centrale degli attuali attacchi contro di noi”105.

Roosevelt iniziò a pensare al fatto che la possibile vittoria di Franco in Spagna

avrebbe ancor di più rafforzato l’asse italo-tedesco, che avrebbe poi messo in

discussione oltre che gli equilibri europei, anche la sicurezza degli Stati Uniti,

se l’autoritarismo nazi–fascista si fosse insinuato nel continente americano.

105 Ivi, b. 35, fasc. 40, Suvich a MAE, telespresso n. 2068/524, Washington 31 marzo 1937.

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Nel febbraio 1937 il Presidente parlò della questione con l’ambasciatore a

Roma, Phillips, dicendo: “I don’t care so much about the Italians. They are a lot

of opera singers, but the Germans are different, they may be dangerous”106.

Dunque Roosevelt si rendeva perfettamente conto che il famoso anti-

interventismo americano nella seconda guerra mondiale stava per essere

messo in discussione.

A partire dalla seconda metà degli anni Trenta anche il Vaticano mostrava

segnali palesi di insofferenza verso il nazionalsocialismo. E la vicenda della

Guerra civile spagnola costituiva una grande preoccupazione per il pontefice: il

14 settembre 1936 Pio XI condannò sia gli scempi anti-clericali compiuti dal

governo legittimo, sia le violenze da parte del governo di Burgos. Il successivo

riconoscimento del governo nazionalista e l’invio di Cicognani come Nunzio

Apostolico (aprile-maggio 1939), non volevano significare un incoraggiamento

all’allineamento tra Franco e le forze dell’Asse, anzi l’intenzione del Vaticano

era di utilizzare la rappresentanza ufficiale per scongiurare un tale evento. In

precedenza il papa aveva condannato il nazismo con l’enciclica Mit brennender

Sorge, la quale, anche se incentrata sugli aspetti religiosi e morali, secondo

Emma Fattorini comportò un profondo cambiamento: “il fatto che nella

106 Citato in M. P. Friedman, Nazis and Good Neigbors. The United States Campaign against the Germans of Latin America in World War II, Cambridge University Press, Cambridge-New York, 2003, p. 9.

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condanna del bolscevismo e del nazismo, sempre associati (…), per la prima

volta la priorità assoluta e urgente non sia più tanto far fronte comune contro

il bolscevismo”107. In seguito il cardinale Mundelein tenne un discorso che

provocò le proteste vibranti dell’ambasciata tedesca. In questo discorso il

porporato americano si chiedeva come fosse possibile che i tedeschi si fossero

lasciati sottomettere da un inetto imbianchino austriaco, e da un paio di suoi

aiutanti108. Queste parole, durissime, non incontrarono la censura della Santa

Sede, e l’ambasciatore presso la Santa Sede, Von Bergen, fu richiamato a

Berlino. Pacelli, se non nella forma, condivideva il contenuto delle parole di

Mundelein, ed egli stesso dichiarò, nell’agosto del 1937: “La grave situazione

impone ai Rappresentanti Pontifici speciali doveri di vigilanza e di azione ed è

necessario che i medesimi mantengano un dignitoso riserbo verso gli Agenti

Diplomatici del III Reich per far così comprendere che non possono non

deplorare ciò che si viene sistematicamente perpetrando a danno della Chiesa

Cattolica e dei fedeli in Germania”109.

Comunque sia, dopo l’incontro di Hyde Park, le voci di un ripristino delle

relazioni diplomatiche si moltiplicarono sulla stampa statunitense; un incontro

107 E. Fattorini, op. cit., p. 131.108 Mundelein Rips into Hitler for Church’s Attack, in “The Chicago Daily Tribune”, 19 maggio 1937, p. 7, citato in Castagna, op. cit., p. 310.109 ASV, DASU, titolo V, pos. 166b, ff. 44rv, Pacelli a Cicognani (riservata), rapp. n. 3117/37, Città del Vaticano 6 agosto 1937.

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importante in tal senso fu quello tra Roosevelt e Mundelein, del 5 ottobre. Il

Presidente ed il cardinale si incontrarono a Chicago, nella residenza del

porporato, e discussero riguardo il possibile coinvolgimento del vaticano in un

movimento internazionale a sostegno della pace in Europa. Dopo il colloquio

con Roosevelt, Mundelein informò Cicognani che il Presidente aveva in mente

di nominare un inviato speciale presso la Santa Sede.

Tuttavia le trattative sulle modalità dell’avvio delle relazioni formali furono

particolarmente accese, e caratterizzate dalla ricerca di un non facile

compromesso. Soprattutto all’inizio del 1938, frenetici furono i contatti fra le

due parti: l’8 gennaio Spellman scriveva a Pacelli: “non mi permetto di essere

troppo ottimista ma ritengo che nonostante le gravi difficoltà di molti generi, la

possibilità di un esito favorevole non è esclusa”; e pochi giorni dopo riportava

che il presidente statunitense credeva che non ci sarebbe stata “un’occasione

più opportuna (…) per prendere questo passo”. Inoltre il Presidente aveva

chiesto “se la nomina di un ministro invece di un ambasciatore sarebbe gradita

alla Santa Sede”110, Pacelli rispose che sarebbe stato “più dignitoso per gli Stati

Uniti avere qui un vero e proprio ambasciatore”, ma che il Vaticano non

avrebbe fatto “difficoltà ove si preferisse dare al Rappresentante suddetto la

110 ASV, SS, AES, America (IV periodo), pos.237, fasc. 65, ff. 76-77, Spellman a Pacelli, Città del Vaticano 26 gennaio 1938.

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sola qualifica di Ministro”111. In questa ultima lettera Pacelli sembrava

abbondonare l’idea di una reciprocità nelle rappresentanze diplomatiche, che

in precedenza era sembrato un elemento indispensabile alla ripresa dei

rapporti fra i due Stati: ora aveva la meglio la volontà, più pragmatica, di

cogliere al volo i segnali di apertura della Casa Bianca, che a sua volta aveva

rinunciato all’idea di accreditare un ambasciatore, per ripiegare su un

rappresentante speciale, in modo da evitare i problemi che il Congresso

avrebbe sicuramente fatto.

La vicenda del “riavvicinamento” si ripropose prepotentemente in seguito

all’Anschluss. Il Vaticano intendeva far prendere corpo con una certa urgenza

al progetto di ripresa delle relazioni diplomatiche con gli Usa. In questo

contesto si inserisce il Memorandum di Eugenio Pacelli, in cui il Segretario di

Stato vaticano, rivolgendosi a Joseph Kennedy, diceva: “I think it will be very

fine if you will convey to your friend at home these personal private views of

mine”, e che questa era l’occasione giusta “for trying to carry on the plan we

had thought of wile in America and that i know is amongst your aims”; era

arrivato il tempo in cui la comunità internazionale doveva riflettere “over the

111 Ivi, ff. 85, Pacelli a Spellman, Città del Vaticano 26 febbraio 1938.

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ever increasing necessity in the present troubles of keeping in touch with the

Supreme Moral Powers of the world”112.

Non ci furono risposte ufficiali da parte statunitense, però Roosevelt, colpito

dalla indifferenza mostrata da Pio XI verso Hitler nel maggio del 1938,

intendeva ormai procedere verso l’intesa con la Santa Sede. Stando alle parole

dell’arcivescovo di Cincinnati, Thomas McNicholas, il Presidente era convinto

che il Vaticano fosse il referente giusto “to work out a Peace Program for the

world”113.

Castagna: “Dettata dal crescente bisogno di garantirsi un ulteriore punto di

osservazione sui sinistri sviluppi delle vicende europee, la volontà di Roosevelt

di istituire una missione presso la Santa Sede era oramai manifesta ed

incontrava, come detto, i favori degli stessi vertici vaticani. Benchè ritenuto

improcrastinabile – dati anche gli esiti della Conferenza di Monaco – tale passo

avrebbe tuttavia richiesto ancora diversi mesi”114.

3.5 La stretta finale: il 1939, l’anno della svolta

112 NARA, DS, RG 59, 863.00/1744, Memorandum from Cardinal Pacelli.113 ASV, DASU, titolo V, pos. 178, ff. 140-143, McNicholas a Cicogani (personal), Norwood 30 agosto 1938.114 Citato in Castagna, op. cit., p. 320.

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Il 1939 iniziò con un evento che era ormai nell’aria da tempo; la morte di Pio

XI. Nonostante la sua malattia si prolungasse da mesi, papa Ratti ebbe la forza

di condannare gli accordi sottoscritti durante la conferenza di Monaco, infatti

egli affermò “di non approvare che a Monaco si siano decise le sorti della

Cecoslovacchia, senza che i rappresentanti di questa abbiano preso parte al

convegno, come i quattro capi”115che avallarono tutte le richieste del Fuhrer.

Pochi giorni prima di morire, Pio XI scrisse un discorso che avrebbe dovuto

pronunciare in occasione delle celebrazioni della Conciliazione. In esso il papa

metteva in guardia la Chiesa dal “pericolo totalitario”, e dipingeva il fascismo

come “una grande e pericolosa centrale che ascolta e spia”116. Questo discorso

non venne mai pronunciato, ma fu trovato nella camera da letto del pontefice,

il 10 febbraio 1939.

Pacelli fu eletto papa il successivo 2 marzo, con il nome di Pio XII.

Fu una elezione scontata, scaturita da un conclave durato meno di una

giornata, in cui la sua candidatura non venne mai messa in discussione. Non fu

115 A. Martini, Pio XI e gli accordi di Monaco, in “La Civiltà Cattolica”, 20 settembre 1975, p. 470, citato in Castagna, op. cit. p. 321.116 E. Fattorini, Pio XI, Hitler e Mussolini, cit., pp 212-213.

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dunque una elezione a sorpresa, anzi le cancellerie europee apprezzavano

Pacelli alla Cattedra di Pietro.

Ne tratteggia un profilo Luca Castagna: “La sua naturale inclinazione al

compromesso (…) e, in generale, all’uso degli strumenti propri della diplomazia,

unitamente alla costante – e forse smodata – preoccupazione per le

ripercussioni di uno scontro frontale coi regimi totalitari, lo indussero a

cancellare ogni traccia della rigidità e dell’irruenza anzitutto espressiva del suo

predecessore. Di qui la scelta, decisamente più in sintonia con la linea che fu di

Benedetto XV al momento dello scoppio della Grande Guerra, di non cogliere le

potenzialità di quel momento di rottura col nazi-fascismo, e di preferire,

viceversa, il tentativo di ricucire gli strappi sia con Mussolini, sia coi vertici

tedeschi”117.

Il presidente Roosevelt, che aveva avuto modo di conoscere ed apprezzare

l’operato di Pacelli come Segretario di Stato durante il pontificato di Pio XI,

accolse la sua elezione con entusiasmo.

Il New York Times pubblicò il messaggio che il presidente inviò al nuovo papa:

“It is with true happiness that i learned of your election as Supreme Pontiff.

Recalling with pleasure our meeting on the occasion of your recent visit to the

117 Citato in Castagna, op. cit., p. 323.

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United States, I wish to take this occasion to send you a personal message of

felicitation and good wishes”118.

Un paio di mesi dopo l’elezione, Pio XII, attraverso la segreteria di Stato, volle

sondare gli umori di Francia, Gran Bretagna, Polonia e Germania, circa la

fattibilità di una conferenza a cinque per cercare di risolvere pacificamente i

problemi esistenti in seno all’Europa. Il progetto intendeva coinvolgere anche

gli Stati Uniti d’America, ma non ebbe buon fine, in quanto i Paesi interpellati

ignorarono completamente il proposito del papa.

L’unico, importante risultato ottenuto fu quello di riportare all’attenzione degli

Usa la questione delle relazioni con il Vaticano, ed infatti il Dipartimento di

Stato iniziò a caldeggiare l’apertura diplomatica. In questa direzione andava la

lettera inviata dal deputato newyorkese Emanuel Celler al Dipartimento di

Stato il 24 luglio 1939. Celler stigmatizzava l’interruzione dei rapporti con la

Santa Sede del 1867, e auspicava una nuova fase all’insegna della distensione.

Ormai il dado era tratto. Il 2 agosto Sumner Welles scrisse a Roosevelt: “i think

it is unquestionable that the Vatican has many sources of information,

particularly with regard to what is actually going on in Germany, Italy, Spain,

which we do not posses, and it seems (…) that the question of whether it would

118 “The New York Times”, 3 marzo 1939, citato in R.I. Gannon, The Cardinal Spellman Story, Garden City, Doubleday & co., 1962.

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be desiderable for our Government to obtain access to this information was of

considerable importance”119; poco dopo anche Cordell Hull sottolineò

l’importanza dei rapporti con il Vaticano, suggerendo al Presidente di inviare a

Roma un suo rappresentante personale, carica che non sarebbe dovuta essere

sottoposta all’autorizzazione del Senato. Roosevelt si trovava a dover trovare

una sorta di giustificazione, di motivo preponderante atto a far digerire,

soprattutto all’opinione pubblica americana, il riavvicinamento al Vaticano.

Giustificazione che sarebbe servita ad evitare il risvegliarsi del pregiudizio anti-

cattolico, evento quanto mai pericoloso alla vigilia di un anno in cui erano

previste le elezioni.

Il Presidente ebbe un’idea brillante: quella di collegare l’invio del proprio

rappresentante personale presso la Santa Sede alla questione dei rifugiati di

guerra, e che proprio il carattere umanitario della questione, necessitava di un

contatto diretto con il Vaticano.

Negli ultimi mesi del 1939 il progetto entrò nella fase di realizzazione, e

Roosevelt lo rese noto a Spellman, che dopo la morte di Mundelein era

diventato, insieme a Cicognani, il trait d’union tra Washington e il Vaticano.

119 FDRPL, PSF 51, Welles a Roosevelt, Washington 2 agosto 1939.

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Spellman fu accolto alla Casa Bianca (24 ottobre 1939), e subito dopo informò

il segretario di Stato, Luigi Maglione, che il Presidente aveva deciso di istituire

una missione speciale, e che per renderla nota al Pontefice desiderava

attendere il periodo natalizio, al fine di evitare intromissioni del Congresso, che

non si riuniva in quel periodo.

Risulta utile, a questo punto, analizzare per sommi capi quali fossero le ragioni

che rendevano utile per il Vaticano, accogliere la richiesta di Roosevelt. Vi

erano ragioni di principio, per cui la Santa Sede ospitava il numero più alto

possibile di rappresentanze diplomatiche di Stati indipendenti, e vi erano

ragioni di ordine religioso, collegate alla diffusione e alla protezione della

religione cattolica, affidata alla sola Delegazione Apostolica. Ancora più

importanti le ragioni di natura politico-diplomatica: il Vaticano, dopo lo

scoppio della guerra, e ancor più dopo la probabile entrata in guerra dell’Italia,

rischiava di piombare in un serio isolamento, “esposto alle pesanti pressioni

delle potenze dell’Asse e reso tanto più grave dal predominio degli elementi

italiani in Vaticano”120. Di Nolfo: “(le) relazioni con gli Stati Uniti rincuoravano il

Papa e le autorità vaticane, poiché esse erano relazioni con un paese neutrale e

120 E. Di Nolfo, Dear Pope, Vaticano e Stati Uniti, In-edit-a, Roma, 2003.

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destinato a restar tale per ancora due anni, e soprattutto poiché esse davano al

Papa una maggiore speranza per l’avvenire e un maggiore coraggio”121.

Restava ora da scegliere la persona a cui affidare il delicato incarico. Roosevelt

aveva diversi nomi in mente: il ministro della Guerra, Harry Woodring, l’ex

ambasciatore in Italia, Breckinridge Long, e Myron C. Taylor.

Ne tratteggia un rapido profilo Luca Castagna: “Episcopaliano appartenente a

un’influente famiglia dello stato di New York. Taylor aveva operato nei settori

industriale e finanziario statunitensi, lavorando dapprima per la First National

Bank e poi nella United Steel Corporation, della quale fu Presidente dal 1932 al

1938 (…) la sua candidatura sembrava particolarmente appropriata per

enfatizzare la natura “umanitaria” del contatto che Roosevelt intendeva

allacciare con la Santa Sede”. Di Nolfo sottolinea che: “ inoltre l’attività a

favore dei rifugiati aveva non solo quel carattere umanitario che si addiceva

alle inclinazioni personali del finanziere americano, ma anche quell’aspetto

ecumenico e morale che doveva renderlo specialmente sensibile a tale

dimensione della vita internazionale e diplomatica, una dimensione nella quale

la presenza di un’attività diplomatica parallela, come quella svolta dalla Santa

Sede, era un punto di riferimento inevitabile. Taylor in tal modo costituiva

121 Ivi, p. 27.

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come un personaggio particolarmente qualificato a mantenere con la Santa

Sede un contatto diplomatico speciale"122.

Il 23 dicembre 1939 Roosevelt ufficializzò la nomina di Myron Taylor quale suo

rappresentante in Vaticano. Lo fece nel suo messaggio natalizio a Pio XII:

“poiché il popolo di questa nazione è giunto a comprendere che il tempo e la

distanza non esistono più nel senso antico, esso comprende che ciò che offende

una parte dell’umanità offende tutto il resto. Esso sa che soltanto mediante

amichevoli associazioni fra coloro che cercano la luce e cercano ovunque la

pace le forze del male potranno essere vinte. In questo momento nessun leader

spirituale né civile può suggerire un piano specifico per por termine alle

distruzioni e ricostruire. Tuttavia certo verrà il momento per farlo. E’ perciò mio

parere che sebbene nel momento attuale non si possa profetizzare nessuna

azione determinata né alcun momento esatto, sia bene incoraggiare una più

stretta associazione tra coloro che in ogni parte del mondo – sia in campo

religioso sia in quello governativo – hanno un proposito comune. Per queste

ragioni che faccio presenti a Vostra Santità sarebbe per me di grande

soddisfazione mandarvi un mio rappresentante personale affinchè i nostri

122 E. Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952 (dalle carte di Myron C. Taylor), Franco Angeli, Milano, 1978, p. 14.

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sforzi paralleli per la pace e l’alleviamento delle sofferenze possano essere

debitamente assistiti”123.

3.6 Il rappresentante di Roosevelt, Myron C. Taylor

123 Ivi, pp. 99-100.

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Il segretario del Presidente, Stephen T. Early, dichiarò alla stampa, subito

dopo la comunicazione del nome di Taylor, che: “la nomina di Mr. Taylor non

poteva in alcun modo essere considerata come ripresa delle relazioni

diplomatiche tra gli Stati Uniti e il Vaticano”124; d’altra parte, la stessa formula

usata per accreditare Taylor, serviva per evitare di provocare reazioni

incandescenti: infatti Taylor veniva inviato in Vaticano come “rappresentante

personale del presidente degli Stati Uniti presso Sua Santità Pio XII” e il rango

di ambasciatore gli veniva conferito solo a titolo personale. Egli veniva

considerato come un vero e proprio rappresentante diplomatico ufficiale,

anche se non permanente, come gli altri accreditati presso il Vaticano.

Il pensiero di Gaetano Salvemini in proposito: “Non si può non ammirare la

saggezza del presidente Roosevelt giacchè con la nomina di Taylor riuscì a

prendere tanti piccioni con una fava. Egli aveva scelto il momento giusto e la

maniera più opportuna per attuare il suo piano, facendo piacere sia al Papa sia

a Mussolini, e provocando solo una leggera commozione nell’opinione pubblica

americana. Infatti, le deboli proteste espresse da alcuni rappresentanti di

diverse sette protestanti e da qualche singolo individuo, furono

controbilanciate dalle grandi lodi con le quali la nomina di Taylor fu accolta dai

124 The New York Times, 24 dicembre 1939; cfr.: D. B. Morlan, op. cit., p. 22, citato in Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti, op. cit., p. 29.

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rappresentanti della Chiesa cattolica e di qualche gruppo di altre sette

protestanti”125.

Nei primi mesi del 1940, ci furono una serie di proteste per la creazione della

rappresentanza americana in Vaticano, nonostante l’accortezza usata da

Roosevelt di inviare nello stesso giorno in cui scrisse al papa, lettere anche

verso le massime autorità religiose statunitensi, come il rabbino Cyrus Adler

(presidente del Seminario teologico ebraico di New York)), e il dott. George

Buttrick (presidente del Consiglio federale delle Chiese di Cristo in America). Le

reazioni più vivaci furono quelle delle varie confessioni protestanti, che

condannavano la riapertura dei contatti diplomatici accusando il Presidente di

violazione del principio, sancito nella Costituzione, di separazione tra Stato e

Chiesa.

Dopo la sua nomina, Taylor rinviò la data della sua partenza di qualche

settimana, per ragioni di salute, e arrivò in Italia, a bordo del transatlantico

Rex, verso la metà del febbraio 1940. Il 27 febbraio fu ricevuto per la prima

volta da Pio XII: in seguito, tornò in Vaticano altre quindici volte, alternando la

presenza a Roma con viaggi in varie città europee. Infatti Taylor non fu

incaricato di risiedere stabilmente in Vaticano, ma di recarsi a Roma quando

125 G. Salvemini, L’Italia vista dall’America, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 262.

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ritenesse necessario. Da ciò si evince che l’ambito della sua azione non fosse

limitato solamente alle relazioni fra Santa Sede e Stati Uniti, ma si espandesse

a molteplici aspetti della politica estera americana. Nel corso dei frequenti

viaggi che Taylor effettuava presso le capitali europee, egli aveva l’occasione di

incontrare le massime autorità ecclesiastiche, ma anche le autorità politiche, e

con esse trattava di problemi non necessariamente collegati con la sua

funzione in Vaticano.

Ben presto la questione dei soccorsi ai rifugiati venne dimenticata, e al centro

dell’attività di Taylor fu preponderante il problema della guerra europea, e

soprattutto l’interrogativo se l’ingresso dell’Italia nel conflitto potesse essere

evitato. Proprio l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco della Germania (a

dispetto degli appelli alla pace recapitati a Mussolini da parte di Roosevelt e

Pio XII) sembrò, in qualche modo, ridimensionare l’utilità della missione

statunitense presso la Santa Sede, e, successivamente, a metterne in dubbio la

prosecuzione stessa fu il forzato ritorno di Taylor negli Usa per motivi di salute,

nell’agosto 1940.

Il Dipartimento di Stato statunitense, ed il Presidente, intenzionato a

continuare le relazioni con il Vaticano, e “anzi spinto dal timore che, di fronte

all’evidente incapacità degli inglesi di resistere alle forze dell’Asse, il Vaticano

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avesse ceduto alle pressioni italo-tedesche sulla base di valutazioni umanitarie

circa la necessità di tutelare le popolazioni cattoliche d’Europa”126, scelse di

sostituire provvisoriamente il convalescente Taylor con Harold H. Tittmann, già

suo collaboratore a Roma e addetto all’ambasciata americana. Egli ottenne il

titolo di incaricato d’affari, e lavorò presso la Santa Sede fino al luglio 1944; in

quel lasso di tempo collaborò soprattutto per la preparazione delle successive

missioni di Taylor a Roma.

La presenza di un suo rappresentante presso il Vaticano, era ormai

fondamentale per Roosevelt. Perché consentiva al Presidente, quindi agli Usa,

di essere presente nell’emporio dell’intelligence europea. Al proposito

Castagna: “Sebbene circondato, com’esso fu da quando l’Italia aveva optato

per l’ingresso in guerra, dalle potenze nazi-fasciste, il Vaticano conservava

un’importanza straordinaria. In quell’apparente minuscolo enclave (…) era

infatti possibile da una posizione privilegiata gli sviluppi delle vicende europee,

entrare in quello che poi sarebbe stato definito come il “ventre molle” dell’Asse

e, soprattutto, operare a stretto contatto con Eugenio Pacelli, silenzioso papa

oppositore degli abomini di guerra. Roosevelt, che della lotta al nazi-fascismo

126 Castagna, op. cit., p. 334.

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fu il campione, riconobbe tutto ciò e all’intransigente anti-papismo dei decenni

passati, preferì un approccio pragmatico per riavvicinarsi al Vaticano”127.

127 Castagna, op. cit., p. 335.

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Rappresentanze pontificie:Delegazione Apostolica degli Stati Uniti d’America (indice 1168)

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Periodici

“Annuario di Politica internazionale” – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano

“La Civiltà Cattolica” – Roma

“Nuova Antologia” – Fondazione “Spadolini Nuova Antologia”, Firenze

“Passato e Presente” – Milano

“Rassegna storica del Risorgimento” – Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma

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Quotidiani

“Il Corriere d’Italia” – Roma

“Il Giornale d’Italia” – Roma

“Il Popolo d’Italia” – Napoli, fondato nel settembre 1860 da Giuseppe Mazzini

“Il Popolo d’Italia” – Roma, fondato nel novembre 1914 da Benito Mussolini

“Il Progresso Italo-americano” – New York

“L’Avvenire d’Italia” – Bologna

“L’Idea” – Roma

“L’Osservatore Romano” – Città del Vaticano

“La Corrispondenza” – bollettino d’informazione, Città del Vaticano

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