MICHELE AVINO Intel Analisys on Global Terrorism Aprile...

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MICHELE AVINO Intel Analisys on Global Terrorism [ Aprile 2009 ] Il Terrorismo internazionale di “matrice islamica fondamentalista ” Analisi Investigativa e Modalità di contenimento

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MICHELE AVINO

Intel Analisys on Global Terrorism [ Aprile 2009]

Il Terrorismo internazionale di “matrice islamica fondamentalista ” Analisi Investigativa e Modalità di contenimento

MICHELE AVINO – Intel Analisys on Global Terrorism [[[[Aprile 2009]]]]

Michele AVINO Autoriproduzione

[email protected] http://digilander.libero.it/micheleavino/

Sommario

Introduzione

C A P I T O L O 1

Cenni storici sul

fondamentalismo islamico

C A P I T O L O 2

La matrice “suicida” nel

fondamentalismo islamico

C A P I T O L O 3

Terrorismo di matrice

islamica: analisi italiana

C A P I T O L O 4

L’attività investigativa e di

sicurezza nel contrasto al

terrorismo

MICHELE AVINO – Intel Analisys on Global Terrorism [[[[Aprile 2009]]]]

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Introduzione

l contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamica si muove attraverso complesse problematiche investigative. La perdita di precisi punti di riferimento etnici, nazionali o organizzativi ha comportato un diverso modello di struttura dei gruppi terroristici: questi si presentano oggi estremamente

compositi. Persino i conflitti nazionali contro i rispettivi regimi passano in secondo piano ed il collante che oggi unisce i combattenti di diversa provenienza diventa esclusivamente ideologico/operativo, cioè il jihadismo militante: La comune militanza nei campi di addestramento bosniaci prima, afgani ed iracheni dopo, ha contribuito a rinsaldare i legami tra mujaheddin. Nelle inchieste più recenti, infatti, emerge la coesistenza nella medesima struttura di soggetti tunisini, marocchini, algerini, egiziani, somali, curdi etc., le cui attività sono direttamente o indirettamente riconducibili al modello “elastico”, suggerito da Bin Laden e da Al-Qa’ida.

Nonostante i molteplici tentativi susseguitisi nel tempo in seno alla comunità internazionale, non esiste ancora una definizione organica, universalmente recepita, del fenomeno. Già nel 1977 lo storico Walter Laqueur profeticamente sosteneva che una definizione organica del terrorismo “… non esiste né si formulerà in un futuro prevedibile”. Nel panorama globale delle diverse definizioni che sono state fornite del terrorismo si rilevano due definizioni di cui si avvale il Governo degli Stati Uniti fornite dal Federal Bureau of Investigation e dal Dipartimento di Stato che attengono rispettivamente al terrorismo interno e l’altra alla delimitazione del terrorismo cosiddetto globale. Secondo il FBI, per terrorismo interno s’intende l’impiego illecito o la minaccia illecita della forza o della violenza, ad opera di un gruppo o di un individuo stanziato e operante interamente negli Stati Uniti o nei suoi possedimenti territoriali, e privo di legami stranieri, contro persone o beni al fine di intimidire o costringere un governo, la popolazione civile o le loro componenti nel perseguimento di predeterminati obiettivi politici o sociali1 Il Dipartimento di Stato, assieme alla Central Intelligence Agency (CIA), definisce tre termini collegati fra loro, ossia terrorismo, terrorismo internazionale e gruppo terroristico, inquadrandoli nel modo seguente2:

� Il termine “terrorismo” significa violenza premeditata e politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi subnazionali [non statali] o agenti clandestini.

� Il termine “terrorismo internazionale” significa terrorismo in cui sono coinvolti cittadini o territorio di più di uno stato.

� Il termine “gruppo terroristico” significa qualsiasi gruppo che pratica, o che dispone di sottogruppi consistenti, che praticano il terrorismo internazionale.

1 U.S. Department of Justice, Federal Bureau of Investigation, 1999, Terrorism in the United States, 30 Years of Terrorism, A Special Retrospective Edition, Washington, D.C.. 2 U.S. Department of State, Office of the Coordinator for Counterterrorism, 2007, Country

Reports on Terrorism 2006, Washington D.C., aprile, p. 318.

I

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Per quanto attiene all’Unione Europea (UE) non esiste una definizione del terrorismo, ma la definizione di nozione di reati terroristici, utilizzando appunto il plurale, e ne elenca numerose fattispecie. In particolare per la UE sono reati terroristici: gli atti intenzionali [...] che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno a un Paese o a un’organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di intimidire gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale3 Il terrorismo è comunque inquadrabile sulla base di osservazioni e considerazioni che conducono ad una descrizione funzionale. Ai fini del presente lavoro, preferiamo avvalerci della definizione che vede il terrorismo contemporaneo quale forma di conflittualità non convenzionale caratterizzata dalla violenza criminale, dal movente politico, da quello politico-religioso o da quello politico-sociale e non ultimo, dall’impiego di strutture e dinamiche clandestine. La definizione di “terrorismo cosiddetto islamico” viene qui adottata in ossequio alle affermazioni di autorevoli esponenti delle magistrature e delle forze di polizia di vari paesi islamici i quali, nel corso di vari incontri (Conferenze organizzate dalla New York University a Madrid il 24/25.2.06, a Firenze il 25/27.5.06 ed a New York, il 23/24.6.06) motivati da ragioni scientifiche e da esigenze di cooperazione internazionale, hanno osservato che solo l’espressione di “so called islamic terrorism” può ritenersi idonea ad evitare ogni impropria, se non offensiva, generalizzazione.

Il terrorismo non nasce dal vuoto, ma sfrutta una serie di situazioni ambientali di natura storica, politica, sociale, economica o religiosa, che di volta in volta affliggono individualmente o in concerto fra loro diverse realtà geopolitiche. Ogni aggregazione terroristica, si dota normalmente di una struttura impostata su canoni di clandestinità e deve adottare metodiche compatibili con la conflittualità asimmetrica, ossia lo sfruttamento da parte di un avversario più debole delle debolezze di un avversario più forte. Oltre alla clandestinità, rientrano nelle strutture e dinamiche del terrorismo la tipica struttura a cellula; la compartimentazione; l’iniziativa accompagnata dal proditorio e dalla sorpresa; l’attenta e minuziosa gestione di tutte le funzioni – riguardanti il personale, le informazioni, le operazioni e la logistica – atte alla sopravvivenza e allo sviluppo di aggregazioni relativamente deboli protese verso la conflittualità non convenzionale di lunga durata. La violazione delle relative norme e procedure comporta sicuro insuccesso.

3 Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13 giugno 2002 sulla Lotta contro il Terrorismo (2002/475/GAI), Articolo 1 – Reati terroristici e principi giuridici fondamentali.

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Il Dipartimento di Stato degli USA nel Country Reports on Terrorism pubblicato il 30 aprile 2007 ha indicato ben 46 aggregazioni con fini politico-religiosi, di cui 43 sono di stampo radicale islamico.

• “Hamas” ovvero “Movimento di Resistenza Islamica” (Territori Palestinesi);

• “Jihad [Guerra Santa] Islamica Palestinese”; • “Hizballah” ovvero “Partito di Dio” (Libano); • “Asbat al-Ansar” ovvero “Lega dei Seguaci” (Libano); • “Ansar al-Sunna” ovvero “Lega della Sunna” (Iraq); • “al-Qaida” [La Base] in Iraq; • “Armata Islamica dell’Aden” (Yemen); • “Gama’a al-Islamiyya” ovvero “Gruppo Islamico” (Egitto); • “al-Jihad” ovvero “Guerra Santa” (Egitto); • “al-Tawhid w’al Jihad” ovvero “Monoteismo e Guerra Santa” (Egitto-

Sinai); • “Gruppo Islamico Armato” (Algeria); • “Gruppo Combattente Islamico Marocchino”; • “Gruppo Combattente Tunisino”; • “al-Qaida” nel Maghreb Islamico”; • “Gruppo Combattente Islamico Libico”; • “al-Ittihad al-Islami” ovvero “Unità Islamica” (Somalia); • “Popolo Contro Banditismo e Droghe” (Sud Africa); • “Grandi Incursori Islamici del Fronte Orientale” (Turchia); • “Hizballah Turco”; • “Battaglione Ricognizione/Sabotaggio dei Martiri Ceceni Riyadus-

Salikhin” (Russia); • “Brigata Internazionale Islamica per il Mantenimento della Pace”

(Russia); • “Reggimento Islamico per le Missioni Speciali” (Russia); • “Unione della Jihad [Guerra Santa] Islamica” (Uzbekistan); • “Movimento Islamico dell’Uzbekistan”; • “Movimento Islamico del Turkistan Orientale” (Afghanistan e Cina); • “Hizb-I Islami Gulbuddin” (Afghanistan e Pakistan); • “Tehrik Mifaz-E-Shariah Mohammadi” (Afghanistan e Pakistan); • “Harakat ul-Mujahedin” ovvero “Movimento Combattenti Islamici”

(Pakistan-Kashmir); • “Jaish-e-Mohammed” ovvero “Armata di Maometto” (Pakistan-

Kashmir); • “Lashkar e-Tayyiba” ovvero “Armata del Virtuoso” (Pakistan-

Kashmir); • “Harakat ul-Jihad-I-Islami” ovvero “Movimento Guerra Santa Islam”

(Pakistan-Kashmir); • “Jamiat ul-Mujahedin” (Pakistan-Kashmir); • “Hizbul-Mujahedin” (Pakistan-Kashmir);

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• “Lashkar i Jhangvi” (Pakistan); • “Sipah-I Sahaba/ Pakistan”; • “al-Badhr Mujahedin” (Kashmir); • “Harakat ul-Jihad-I-Islami/Bangladesh”; • “Jamaatul-Mujahedin Bangladesh”; • “Gruppo Abu Sayyaf” (Filippine); • “Movimento Rajah Solaiman” (Filippine); • “Jemaah Islamiya" ovvero “Comunità Islamica” (Indonesia); • “Kumpulan Mujahedin Malaysia”; • “al-Qaida” ovvero “La Base” (Afghanistan e Pakistan).

Le organizzazioni terroristiche presentano caratteristiche ben diverse dai gruppi criminali tradizionali, in particolare quelli di tipo mafioso. Caratteristiche che costituiscono la loro vera forza, perché le rendono più “sfuggenti” alla conoscenza e quindi meno permeabili dalle indagini. Mentre le associazioni mafiose sono caratterizzate da forte strutturazione e radicamento territoriale, le “cellule” islamiste non sono strutturate rigidamente in un’unica organizzazione gerarchica, ma confederate tra loro, peraltro del tutto informalmente; ruotano intorno a “strutture di servizio” (finanziario e logistico); operano con estrema mobilità nell’ambito di una “rete” transnazionale del terrore, nel cui ambito vengono progressivamente superate anche le identità etnico-nazionali. E’ doveroso formulare una constatazione ossia, fino all’11 marzo del 2004, gli esperti internazionali, nonostante le minacce e gli anatemi provenienti da numerosi esponenti di rilievo delle principali organizzazioni terroristiche di cd. matrice islamica, consideravano l’Europa una sorta di retroterra logistico, utilizzato, cioè, per attività di proselitismo ad ampio raggio (specie tra le masse di immigrati clandestini), per organizzare l’invio nelle zone di guerra di militanti muniti di documenti falsi di identità e per raccogliere mezzi e denaro (anche attraverso attività illecite) da spedire ai combattenti per sostenerne e finanziarne le attività. Le stragi di Madrid dell’11 marzo 2004 e quella di Londra del luglio del 2005 hanno spinto gli addetti ai lavori a dotarsi di nuovi strumenti di contrasto del fenomeno terroristico internazionale. Il livello di pericolosità del progetto jihadista per gli italiani e gli europei non è comunque connesso solo al numero delle vittime ed alla quantità di distruzioni che gli atti terroristici possono determinare ma dipende, infatti, anche dal grado di penetrazione del jihadismo in Europa che tende a strutturare pezzi di territorio – soprattutto le periferie urbane dove più massiccia è la presenza dell’immigrazione musulmana – in appendici del dar al-islam4 in versione fondamentalista. Il fenomeno del terrorismo di matrice islamica quale fenomenologia specifica del terrorismo religioso, è ormai una realtà in continua trasformazione.

4 “Dar-al-Islam”: Regno dell’Islam.

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L’azione informativa e di contrasto continua a disegnare l’Europa quale piattaforma d’interesse prioritario per il jihad internazionale, sia per le attività logistiche sia come eventuale ambito d’azione armata. L’elemento di maggiore preoccupazione è la nascita di gruppi che nascono in maniera autonoma, di cosiddette cellule spontanee che restano comunque fedeli ad un unico Capo ma operano in via del tutto indipendente, senza legami ma capaci di agire al momento opportuno. Siamo quindi di fronte ad una nuova fase del terrorismo ad una nuova jihad condotta da soggetti che non frequentano necessariamente luoghi di culto islamici, che si auto addestrano e che possono essere innescati con messaggi in codice trasmessi via internet, radio o TV dai Capi religiosi. Si tratta di figure che vivono apparentemente una vita regolare cercando di integrarsi nel contesto sociale di residenza ma contemporaneamente coltivano in via del tutto illegale il culto e la passione per la guerra santa decidendo poi in maniera spontanea la sua voglia di martirio e azione attraverso un continuo allenamento psicologico. Nello scenario delineato assume sempre più importanza una nuova tendenza ovvero la conversione alla causa jihadista di cittadini europei per questo ribattezzati “emiri dagli occhi blu”. Si tratta di cittadini comunitari che sposando la causa partono per campi di addestramento ai confini tra Pakistan ed Afghanistan dove si addestrano insieme ai mujaheddin uzbeki dell’Unione della jihad islamica, imparano a preparare ordigni con materiale civile, studiano tecniche di contro-intelligence, elaborano nuove tattiche e sono poi pronti per entrare in azione in Europa. Non hanno bisogno di ingresso illegale in Europa, non necessitano di documenti falsi ma facendo rientro a casa possono operare da perfetti insospettabili. Lo scenario analizzato, ai fini dell’analisi della minaccia, deve inoltre tenere conto che da un lato esiste una cosiddetta “prima generazione” di figli di immigrati che annovera nelle sue fila giovani e brillanti laureati felicemente integrati che partecipano attivamente alle dinamiche sociali costituendo un elemento caratterizzante dello sviluppo europeo. All’altro estremo esistono giovani anch’essi appartenenti alla “prima generazione” di immigrati che enfatizzano la rottura con l’Europa in chiave fondamentalista islamica e rifiutano qualsiasi forma di integrazione ritenendola lesiva della propria identità. Sono proprio questi ultimi a costituire il potenziale pericolo per l’Europa, si tratta di giovani pronti al ricorso alla violenza pur di manifestare l’odio religioso ed il risentimento sociale verso l’occidente nell’attesa di poter lanciare la cosiddetta islamizzazione dell’Europa secondo i proclami di Bin Laden.

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1. Cenni storici sul fondamentalismo islamico

l fenomeno comunemente noto come fondamentalismo islamico dev’essere letto come una forma storicamente determinata della “rinascita islamica”.

Con quest’ultimo termine, infatti, si traduce in italiano il significato letterale della parola nahda. Per intenderci, senza forzare più di tanto il parallelismo, si può affermare che, dopo un lungo periodo di decadenza culturale, politica e religiosa , segnata per molti Paesi islamici dalla dominazione coloniale europea, si assiste al sorgere di movimenti collettivi che si incaricano di dare voce ad una fondamentale esigenza di identità: essere musulmani in un mondo che cambia senza rinunciare ai tratti originari della propria cultura di appartenenza.

E in particolare, larghissima diffusione ha avuto la definizione di “fondamentalismo islamico”, per identificare dei movimenti di attivismo sociale e politico fondati sull’islam; un islam a un tempo ideologia politica e religione. In essi è fondamentale – quando non addirittura ossessiva – l’idea di tornare alle fonti dell’islam più puro, come il Corano (il Libro sacro che contiene le rivelazioni fatte da Dio tramite Maometto, e che è quindi direttamente parola di Dio), la shari‘a, la comunità primigenia dell’islam, del periodo del Profeta e dei primi califfi (i cosiddetti al-Rashidun, i “Ben guidati”).

Negli ultimi anni si è andato diffondendo nel nostro paese la definizione di “islamismo” e di “islamisti” – movimenti islamismi, ideologia islamista, etc. – per definire queste realtà. E’ un termine ripreso dal francese les islamistes (a sua volta derivato dall’arabo al-islamiyyun), ma che ha trovato delle resistenze per i suoi possibili fraintendimenti, dato che in Italia, l’islamista è anche lo studioso di cose islamiche, l’esperto di islam.

In linea generale, la storiografia che si occupa di Islam e di fondamentalismo islamico è concorde nel porre le radici del fenomeno in esame intorno agli ultimi decenni del secolo XIX. Pur se manifestazioni di estremismo religioso non erano mancate anche in epoche precedenti, solo alla fine dell’800 l’organizzazione di un movimento di riflessione e mobilitazione politico-religiosa e culturale assume una sistematicità realmente incisiva.

La rinascita islamica si pone come un fenomeno moderno, per usare le nostre categorie storiografiche; in realtà, vista dal mondo musulmano essa è espressione di rottura e riscatto nei confronti del colonialismo europeo. Questo fondamentalismo è un insieme di movimenti sociali, politici e religiosi che interpretano tre fondamentali bisogni emergenti nel mondo musulmano moderno e contemporaneo:

I

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- il bisogno di tornare alle origini, alle forme pure ed ai fondamenti originari dell’islam;

- il bisogno di riaffermare un’identità perduta o minacciata, sforzandosi di adattare l’islam alla modernità senza lasciarsi distruggere definitivamente da essa;

- il bisogno radicale di ricostituire in terra uno Stato etico-religioso fondato sulla legge di Dio.

Tutte le aggregazioni terroristiche di stampo radicale islamico, oltre ad essere protese verso la creazione di uno stato teocratico nel proprio paese, o in tutti quelli della propria area geopolitica o su scala mondiale, sono accomunate da una o più delle seguenti caratteristiche: una duplice struttura, la prima alla luce del sole (per l’azione politica, il magistero religioso, il proselitismo, la raccolta di fondi e l’assistenza sociale) e, l’altra clandestina (per le iniziative terroristiche); l’odio nei confronti d’Israele; la presenza di organi periferici all’estero; l’azione terroristica estesa al di là dei propri confini; la guerra santa senza quartiere contro l’infedele a livello globale.

Nella letteratura scientifica si è spesso ricorso anche a perifrasi come “movimenti dell’attivismo islamico”, o a definizioni come “l’islam politico”, o “islam militante”. Con queste parole si voleva evidenziare il fatto che i movimenti islamici che si andavano descrivendo non perseguissero tanto, o solo, un’imposizione artificiale sopra tutta la società islamica di pratiche religiose e consuetudini di un passato immaginato; essi tentavano piuttosto di ri-organizzare l'intero ordine socio-politico secondo la loro lettura del religioso.

Un’utopia affascinante, che promette di restaurare la società giusta dei primordi dell’islam, di trovare soluzioni ai fallimenti economici dei nuovi regimi usciti dalla fase di decolonizzazione, di eliminare gli squilibri sociali e la dilagante corruzione, di proteggere le famiglie dalle impetuose trasformazioni sociali imposte dalla modernizzazione, di dare voce al dissenso e di combattere l’autoritarismo e la soppressione delle libertà civili. Un pensiero facilmente traducibile in slogan efficaci e che semplificano dualisticamente la complessa realtà contemporanea. Il tutto restaurando in pieno i valori profondi della civiltà islamica, espressi nel Corano. Il ritorno inderogabile alla Legge, la shari‘a, e la sua piena applicazione nella società sono obiettivi conclamati. Non è l’islam che deve adattarsi alla modernità. E’ la modernità che deve essere islamizzata.

Alle origini di questo radicalismo vi è l’associazione dei Fratelli Musulmani (Ikhwan al-Muslimun) fondata nel 1928-1929 dall’egiziano Hasan al Banna. L’associazione nasce come società filantropico-religiosa, strutturandosi come movimento di crescente mobilitazione e sensibilizzazione politico-religiosa: il movimento fondamentalista islamico. Con la nascita di detto movimento, i fondamentalisti si sentirono liberi di riproporre la tradizionale dottrina delle fonti religiose per il governo dei rapporti con l’esterno. Emerse così il carattere conflittuale, oppositivo e pugnace del fondamentalismo a noi noto: l’esterno è

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infedele, e come tale va convertito e, se refrattario alla conversione, combattuto, annientato e coercito alla conversione.

Il fondamentalismo islamico della seconda metà del ‘900 fu storicamente coinvolto con l’ascesa al potere di molti leader (fra cui il generale Gamal Abdul Nasser, in Egitto); tale coinvolgimento non portò frutti, anzi le leadership emerse grazie all’appoggio fondamentalista, stabilizzato il proprio potere, generalmente non esitarono a perseguitare gli alleati scomodi nel loro rivendicare l’attuazione di politiche allineate ai dettami della dottrina religiosa. Queste persecuzioni e la frustrazione costante delle proprie iniziative furono la causa della deriva dottrinaria e pratica cui andarono incontro le organizzazioni fondamentaliste attive dagli anni ’70 fino ad oggi, tutte sostanzialmente filiazioni dei Fratelli Musulmani e tutte artefici di una radicalizzazione estrema delle ideologie politico-religiose nate in seno alla confraternita egiziana. Anche per questo molti analisti sono indotti a confondere il fenomeno specifico del fondamentalismo islamico con un più generico fenomeno terroristico.

L’ideologo di punta del radicalismo islamico è Sayyid Qutb5 già militante dei Fratelli Musulmani, la cui opera costituisce, insieme a quella del pakistano Mawdudi il riferimento teorico di tutti i gruppi fondamentalisti contemporanei. Nella Fratellanza Musulmana Sayyd Qutb è il primo a concettualizzare l’islam politico e durante il suo soggiorno negli Stati Uniti sviluppa una specie di autocoscienza dell’islam e scrive una serie di articoli dal titolo l’America che ho visto che sollevano numerose proteste da parte dei sostenitori degli Stati Uniti.

Sayyd Qutb risulta molto importante nell’islam politico e rivoluzionario perché egli concettualizza l’idea di lotta politica e di movimento (harakat) sulla base di una rilettura del Corano e di un trasferimento concettuale nei confronti del pensiero politico moderno. Nel formulare una definizione del governo islamico, egli afferma in La battaglia dell’islam contro il capitalismo: “Qualsiasi regime in cui si applichi la legge islamica è un regime islamico, quale che sia la sua forma e la sua denominazione e qualsiasi regime nel quale non si applichi questa legge non è riconosciuto dall’islam, anche se è diretto da un collegio religioso musulmano o se porta un titolo musulmano”.

Ma il rovesciamento più spettacolare è il ruolo che Qutb attribuisce allo jihad. Infatti secondo l’ideologo è nello jihad che sono contenute le premesse dell’ideologia della lotta. Come egli stesso afferma: “L’islam è costretto alla lotta dall’obiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli avversari sono anch’essi degli individui, raggruppati in classi, in Stati, in coalizioni. Lo jihad è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza, è un jihad mondiale, permanente. Così essere musulmano significa essere guerriero, una comunità di guerrieri sinceri pronti ad essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e quando lo vuole perché solo lui è il Capo della battaglia”.

5 Said Qutb scrittore e ideologo dei Fratelli Musulmani, condannato e giustiziato per complicità nell’attentato a Sadat

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IL RADICALISMO ISLAMICO: TENDENZA INNATA O EPIFENOMENO? Estratto da un articolo di Paolo Branca pubblicato su «Annali di Scienze religiose», 4/1999. [….] Se alcuni caratteri presenti nella formulazione tradizionale dell'islam, insieme a talune funzioni mancanti o quanto meno bloccate, sembrano favorire l'emergere del radicalismo musulmano, non possiamo esimerci dal notare che le forme e le dimensioni da quest'ultimo recentemente assunte devono essere ricondotte anche e forse soprattutto a fattori legati a situazioni storico-politiche: "Islamic fundamentalism is both fully politics and fully religion". La grande mobilitazione che ha caratterizzato la recente storia del mondo arabo-musulmano ha portato fatalmente al privilegiare un pensiero finalizzato al raggiungimento di obiettivi pratici che esso contribuiva a sostenere e legittimare, mettendo tra parentesi la funzione critica che pure dovrebbe contraddistinguere l'azione degli intellettuali. Pur nelle mutate condizioni storiche e culturali l'idéologie de combat persiste, con la funzione di «ridurre la complessità delle realtà storiche, sociologiche e psicologiche a un insieme di affermazioni più o meno coerenti, destinate a valorizzare e legittimare gli obiettivi dell'azione collettiva. Non si tratta tanto di raggiungere l'obiettività - come si sforza di fare il pensiero scientifico - quanto di trasformare condizioni di vita ritenute insopportabili in altre che vengono idealizzate per renderle più desiderabili». «La situazione culturale, politica ed economica attuale del mondo arabo fa sì che sia impossibile, soprattutto se si è arabi e dal mondo arabo, parlare della religione come di un fenomeno sociale totalmente spiegabile [...]Il risultato è che ogni discorso sulla società, sulla religione, sul diritto suppone preventivamente una sorta di autocensura da parte di chi parla o scrive. Quest’ultima consiste nel riconoscere l’incontestabilità di alcune verità e principii per la ragione - anch’essa incontestabile - che essi non possono essere messi in discussione. Il massimo di libertà che ci si può permettere di fronte a tutto ciò è quindi far finta di niente, cercare di cavarsela con giochi di parole o correre il rischio della scomunica (Ali Abdurrazik, Tahar Haddad...) o della messa a morte (Mahmoud Mohamed Taha, giustiziato da Numeiry nel 1985). E’ dunque un dibattito quasi impossibile, poiché gli mancano due condizioni indispensabili all’obiettività: l’accordo sugli strumenti d’analisi e l’autonomia di giudizio. In generale, l'analisi del fenomeno religioso coinvolge colui che la conduce in prima persona e ciò non è dovuto esclusivamente a una debolezza intrinseca alla sua personalità o alla sua formazione, ma all’ambiente in cui opera. Infatti ciò che egli scriverà, a dispetto della neutralità che si sforzerà di mantenere, sarà percepito come una scelta di campo religioso, ideologico, etnico o politico. Per quanto egli tenterà di dissociarsi, la società continuerà a valutarlo secondo i propri criteri e gli negherà ogni neutralità. [...] Egli lo sa e sa che, impegnandosi nella ricerca, è condannato a perdere la propria innocenza, in quanto sa che alla fine potrà essere condannato.

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E’ quindi del tutto naturale che - non essendo ogni intellettuale necessariamente un eroe - in tali condizioni non tutto venga detto e che il discorso dell’intellettuale a proposito della religione, del diritto, della politica sia diplomatico, fatto di silenzi, prudenza e furbizie, sia in definitiva un discorso corrotto». E' indubbio che su questa situazione hanno influito anche elementi esterni: l'incapacità di contribuire alla soluzione dei conflitti, allo sviluppo economico e al superamento di condizioni sfavorevoli all'armonica coesistenza fra differenti civiltà non soltanto non contribuisce a rimuovere, ma col tempo rafforza una logica del rifiuto e della contrapposizione che ha come conseguenza sul piano interno il ripiegamento su di sé nella ricerca di un modello proprio e autosufficiente che, per quanto mitico, svolge una funzione di rifugio e di rassicurazione che contribuisce alla sua diffusione al suo successo. […] Credo che questi tratti possano essere riscontrati nella visione tradizionale di molte religioni e che l'islam sembrerebbe addirittura più predisposto a svilupparle in forza sia di alcune sue originarie disposizioni, sia della fase involutiva che sta attraversando, sia infine dei fattori esterni che ne condizionano lo sviluppo. Il radicalismo religioso si configura così nell'islam come una sorta di fenomeno ritornante, esito di alcuni nodi irrisolti di base uniti alla funzione che la religione è chiamata ad assolvere periodicamente da quanti la utilizzano per legittimare la propria azione, poco importa se finalizzata al mantenimento o al rovesciamento dello status quo. Quanto questo stato di cose sia pernicioso per la stessa sorte dell'islam è chiaramente percepito da alcuni: «La religione, ben lungi dall'essere l'origine di questa difficile situazione, ne è la prima vittima». Nel tentativo di rispondere alla difficile domanda che ci siamo posti e alla quale non pretendiamo di aver fornito una risposta completa né definitiva, ho dato voce quasi esclusivamente ad autori musulmani. Voglio concludere sottolineando questo punto poiché mi sembra la più chiara dimostrazione che, in definitiva, qualsiasi determinismo sarebbe indebito e ingiustificato: l'islam non è un blocco monolitico e i musulmani non sono meri esponenti di un sistema statico e inalterabile. Oltre le grida di chi fa la voce più grossa il dibattito è vivo e merita rispetto e considerazione più di quanto comunemente avviene. Mi sembra dunque giusto e opportuno terminare con le considerazioni di uno di quanti vi partecipano, se non altro per contribuire a fare uscire dall'ombra una delle tante figure che meriterebbero ben maggiore visibilità: «Al di là della crisi politica e sociale, il mondo musulmano affronta tuttavia, oggi, la sua più grande crisi religiosa. Così come la mancanza di un pensiero politico critico va di pari passo con lo strapotere dello Stato, la mancanza di un'autorità legittima religiosa seguita dai fedeli fa perdere il controllo sulle forze spirituali della religione.

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Volendo tracciare le origini del jihadismo possiamo ricordare che, il 6 ottobre 1981, la “Jihad islamica”, dopo aver attentato alla vita di Galmal Abd el-Nasser, uccide il presidente egiziano Anwar el Sadat (1918-1981). Negli Anni ’70, sulla base del pensiero di Said Qutb, erano, infatti, nate, due organizzazioni armate, figlie dell’ala più radicale dei Fratelli Musulmani: Al-Jihad e la Jama’at al-Islamyyah; organizzazioni che nel febbraio 1998 hanno sottoscritto unitamente ad Al Qaeda, al “Movimento Jihad”, e alla “Jamat-ul-Ulema”, la fatwa anti-occidentale di Osama Bin Laden. Per Abd Salam al-Faraj, fondatore di Al-Jihad, autore di uno scritto intitolato “Al-Faridah al-Ga’ibah” (Il dovere nascosto), pubblicato sul quotidiano egiziano “Al Ahrar” il 14 dicembre 1981, il jihad, al pari dei “cinque pilastri della fede”, è un obbligo che ulama e faqih hanno storicamente occultato per loro interesse. Faraj afferma che, tanto il Corano quanto gli Hadith, quando parlando del jihad alludono alla guerra, al combattimento, allo spargimento di sangue. Il concetto di jihad deve, pertanto, essere interpretato in modo letterale e non allegoricamente come hanno fatto i mistici e parte della dottrina. Il jihad, deve essere condotto contro tutti coloro che deviano dagli obblighi morali e sociali imposti dalla shari’ah, siano questi infedeli o apostati. Secondo Faraj, i mezzi pacifici e legali, sono inadeguati alla guerra contro gli “empi”. Nel suo scritto Faraj sottolinea il come impegnarsi in queste azioni costituisca per tutti i veri musulmani un obbligo ricompensato da Dio con il paradiso. Abd Salam al-Faraj, ha incassato la propria ricompensa, nel 1982, anno in cui è stata eseguita la condanna a morte inflittagli per il ruolo avuto nell’assassinio del presidente Sadat. Vale la pena evidenziare che la giustificazione teorica dell’assassinio di Anwar al Sadat è senza dubbio l’esempio più eclatante di eversione politica in ambito islamico. Nel manifesto politico dal titolo “L’obbligo assente”, pubblicato nel 1980, Abd al-Salam Farag teorizza la delegittimazione degli stati islamici e l’obbligo di destituire i loro dirigenti. Nel caso specifico, Sadat fu giudicato colpevole di aver firmato gli accordi di Camp David con Israele e di non applicare la shari’a in Egitto. L’attentato organizzato contro il presidente egiziano Anwar Sadat, segna ufficialmente l’inizio del moderno jihadismo, introducendo in modo stabile la dimensione rivoluzionaria nella lotta dei movimenti islamici radicali contro i “poteri corrotti”. Negli anni a seguire l’offensiva jihadista è proseguita indirizzando la propria azione terroristica prevalentemente nei confronti di bersagli occidentali, finendo con il confondersi con Al Qaeda (“la Base”…della jihad) ossia il network terroristico di Osama Bin Laden. Nel 1983, in Libano, compare per la prima volta il terrorismo suicida., con il quale “Hezbollah” colpisce, in aprile, l’ambasciata degli Stati Uniti a Beirut e, in ottobre, i contingenti americano e francese della forza multinazionale di pace. uccidendo 241 marines e 58 soldati francesi. In Algeria, il terrorismo islamico di stampo salafita inizia la propria attività nel 1991, dopo l’annullamento, da parte del governo delle elezioni vinte dal Fronte Islamico di Salvezza (FIS). In un primo tempo la violenza è rivolta esclusivamente nei confronti degli stranieri, della leadership politica e degli

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intellettuali moderati. Il 29 giugno 1992 l’Armata Islamica di Salvezza (AIS) uccide il presente Boudiaf, e, il 28 dicembre 1993, il poeta Youssef Sebti, che diviene il diciottesimo intellettuale assassinato in dieci mesi. Nella campagna terroristica dell’AIS viene ucciso anche il leader moderato del FIS Abdalbaki Saharaoui. In seguito, i “Gruppi Islamici Armati” (GIA), che controllano una parte del territorio mettono in atto una vera e propria “strategia del terrore” che troverà il culmine nel massacro compiuto nella Regione di Elisane, il 29 dicembre 1997,allorquando senza motivo vengono trucidate 412 persone, fra le quali numerose donne e bambini. In Palestina, l’assassinio del premier Ytzhak Rabin (4 novembre 1995) pone fine al processo di pace iniziato due anni prima ad Oslo. L’inizio della seconda intifadah (28 settembre 2000) segna l’aumento delle azioni suicida da parte di “Hamas” e della “Jihad islamica palestinese”, azioni in seguito, condotte in modo sinergico con il “Tanzim” e le “Brigate Al-Aqsa”, fazioni armate di al-Fatah, scese in campo allo scopo di non perdere, a vantaggio delle organizzazioni religiose, il consenso acquisito in passato tra la popolazione palestinese. Assume così un ruolo strategico lo “shahid”, il testimone di fede, disposto al martirio in cambio della ricompensa eterna. In Cecenia, la disgregazione dell’impero sovietico determina una miscela di patriottismo, terrorismo e crimine organizzato, nella quale è possibile rinvenire una serie di azioni terroristiche in funzione anti-russa. Nel giugno 1995, un commando penetra nell’ospedale di Budjonnovsk e prende in ostaggio un migliaio persone. Nel gennaio 1996 i ceceni assaltano la città di Kisljar che abbandonano portando con sé un centinaio di ostaggi. Nell’aprile 2001 terroristi filo-ceceni prendendo in ostaggio 150 persone nello Swiss Hotel di Istambul. L’8 agosto 2000, una bomba esplode nella metropolitana di Mosca. Il 24 ottobre 2002 un commando guidato da Movsar Baraeyv, nipote di Arbi Baraeyv, leader ceceno ucciso dai russi nel giugno 2001, irrompe nel teatro situato nell’ex stabilimento Moskovskij Podshipnik, prendendo in ostaggio 700 persone che saranno liberate in seguito ad un’azione dei reparti speciali che costerà la vita all’intero commando e a 117 ostaggi. Infine, a Beslan, in Ossezia, il 1 settembre 2004 un commando terroristico appartenente al “Battaglione dei martiri” di Shamil Basaev irrompe in un asilo prendendo in ostaggio circa 1.500 persone fra adulti e bambini. L’epilogo della vicenda condurrà al tragico bilancio di 394 morti fra i quali 156 bambini. Nel 1991, dopo la II Guerra del Golfo, la permanenza di forze armate statunitensi in Arabia Saudita, da inizio al conflitto tra l’internazionale jihadista di Osama Bin Laden ed il “Grande Satana” americano. Riconducibile al pensiero giuridico-religioso hanbalita6 e al wahabbismo7 lo jihadismo, si propone di ripristinare, nel Dar al-Islam, e cioè nel mondo islamizzato, il legame fra

6 Scuola giuridico- religiosa fondata dal giurista-teologo Ibn Hanbal, caratterizzata da una rigorosa interpretazione del Corano e della shari’a e dall’affermazione della sovranità di Dio anche sul piano temporale. 7 Movimento religioso fondato nel 1754, nel Neged, da Mohammed Bin Abdul Wahhab, di scuola hanbalita, sostenitore dell’interpretazione radicale del Corano. Il Wahabbismo è oggi la religione di stato saudita.

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religione, società e stato (din-dunya-dawla) che aveva caratterizzato il modello politico originario, il califfato, dove il califfo (khalifa - letteralmente “luogotenente”, “vicario” …del Profeta) era al contempo guida politica e spirituale di una comunità di fedeli (umma) governata secondo la legge religiosa (shari’a). Lo strumento è la guerra santa (jihad) contro l’Occidente, ed in particolare contro gli Stati Uniti, Israele e i governi dei Paesi musulmani considerati apostati in quanto filo occidentali.

Il 23 febbraio 1993, esplode una bomba al Word Trade Center di Manhattan uccidendo 5 persone e ferendone quasi un migliaio; l’ottobre dello stesso anno a Mogadiscio vengono trucidati 18 marines. Nel 1996 un proclama di Bin Laden noto come “Dichiarazione di guerra contro gli americani” ufficializza il conflitto con gli Stati Uniti. Il 25 giugno, a Daharan, in Arabia Saudita, un attentato esplosivo uccide 19 soldati americani. Il 23 febbraio 1998 a nasce a Kandahar il “Fronte islamico internazionale per la Jihad contro gli ebrei e i crociati”, ideologicamente fondato sulla fatwa di Bin Laden “contro gli ebrei e i crociati”, al quale aderiscono gruppi egiziani a matrice salafista quali “Al-Jihad” di Ayman al-Zawahiri, la “Jama’at al Isalmyya” e l’“Avanguardia della conquista” di Yasser al Sirri, nonché il pachistano “Harakat al-Ansar” ed il giordano “Esercito di Muhammad”. II l7 ottobre dello stesso anno l’“Esercito per la liberazione dei luoghi santi”, altra organizzazione affiliata ad “Al-Qaeda”, compie attentati esplosivi contro le ambasciate americane di Nairobi e Dar es-Salam, nei quali perdono la vita 210 persone. L’11 settembre 2001 Al-Qaeda compie lo storico attentato contro il World Trade Center e Pentagono. Seguiranno gli attentati a Madrid l’11 marzo 2004 e a Londra il 07 luglio 2005.

Questi ultimi episodi in particolare hanno confermato la fondatezza della minaccia del radicalismo religioso nella forma in cui lo abbiamo descritto in precedenza e l’espandersi della sua azione.

In buona sostanza è dall’inizio degli anni ’90 che si è assistito a una trasformazione del pensiero islamico radicale che per alcuni anni non è stato percepito nella sua interezza in Occidente: vi è stata una radicalizzazione dei movimenti islamisti, e una loro crescente frammentazione. L’aumento delle violenze e la crescente radicalità delle posizioni ha finito per favorire il frazionamento di questi movimenti, e ne ha ridotto il sostegno popolare, in particolare presso il ceto medio tradizionale.

Afghanistan, Kashmir, Cecenia sono divenuti dei centri di training per cellule terroristiche, per singoli combattenti in nome dell’islam; si sono formati gruppi para-militari dotati di un’alta mobilità nelle diverse “aree calde” internazionali (dal Medio Oriente, al Maghreb, dal Sudan alla Bosnia, al Sud-est asiatico), grazie a un network di movimenti e organizzazioni clandestine sempre più ramificato (al-Qa’ida ne è l’esempio più famoso). Il fenomeno del reducismo di combattenti mujaheddin, i quali ritornavano nei propri paesi dopo aver combattuto i «nemici dell’islam» in Afghanistan, Sudan, Kashmir, Cecenia, ex Jugoslavia, Algeria, etc. ha favorito l’emergere di gruppi islamisti e jihadisti spesso non legati ai tradizionali movimenti islamico radicali più strutturali, o comunque non controllabili.

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La spirale di violenze, la fuga verso posizioni sempre più massimaliste, il clamore delle azioni di alcuni gruppi militanti (come gli attentati del settembre 2001 a Washington e New York) ha enfatizzato oltre misura la loro azione e il loro peso effettivo all’interno del Dar al-islam. In realtà proprio queste tendenze sembrano aver ridotto la capacità di diffusione dell’islamismo radicale, e ne hanno favorito una divaricazione fra movimenti islamisti politici e gruppi jihadisti.

E’ utile ricordare ai fini della nostra riflessione che, la lotta in Afghanistan contro il regime comunista di Kabul e le truppe d’occupazione sovietiche da parte dei muhajeddin è stata un turning point fondamentale, assieme alla vittoria della rivoluzione popolare in Iran, che permise a Khomeyni di instaurare una repubblica islamica radicale. Da qui infatti nasce la ripresa dell’idea califfale, con il progetto politico di un nuovo califfato islamico che superi ogni divisione etnica, regionale e culturale in favore di una nuova presa di coscienza della umma islamica. Se il Nemico è globale e pervasivo, anche il jihad deve essere globale e pervasivo, colpendo i nemici della vera fede ovunque sia possibile e in tutte le forme che siano possibili.

Il complesso significato del termine jihad Jihad è un termine di lingua araba entrato ormai nel linguaggio comune, spesso tradotto imprecisamente come “guerra santa” – una guerra che i musulmani dovrebbero combattere contro “gli infedeli”. Da un punto di vista filologico, la parola jihad deriva dalla radice jhd, che indica lo “sforzo”, “l’applicarsi verso qualcosa”. La dottrina giuridica musulmana classica ha poi codificato quattro modalità in cui è possibile attuare il jihad: con l’animo, con la parola, con la mano e con la spada. In ogni caso il jihad con la spada è un obbligo che di solito attiene alla comunità dei musulmani (umma), non al singolo individuo (non vincola cioè tutti i singoli i credenti, ma solo un numero “sufficiente” all’interno della comunità, a meno che sia in pericolo l’esistenza della comunità). E non può essere utilizzato per indicare il concetto di guerra (di conquista, di bottino, etc.) in generale. E’ un conflitto armato teso alla difesa o all’espansione dell’islam – da qui la ripresa del concetto di “guerra santa” - che può essere combattuto solo in certi casi, rigidamente definiti dai giuristi classici musulmani, e solo contro certe categorie sociali. Per la dottrina classica, il jihad deve essere combattuto:

1) contro i pagani, i politeisti e gli idolatri (kafirun), ma solo dopo aver formulato chiari inviti alla loro conversione, e dopo aver accertato il loro rifiuto. Non può esser combattuto contro ebrei, cristiani e zoroastriani – a meno che essi minaccino l’umma islamica - dato perché essi godono di uno statuto particolare e non sono considerati kafirun (infedeli); 2) contro gli apostati (irtidad), una colpa molto grave nell’islam, che la shari‘a sanziona con la pena di morte;

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I proclami di Osama bin Laden, soprattutto dopo il 1998 e la creazione di un «Fronte islamico per il jihad» sono un esempio tipico di questo slittamento teoretico: sfruttando l’arma del martirio, ossia di attentatori suicidi, la battaglia per l’autentica fede deve essere combattuta ovunque e adottando qualsivoglia stratagemma. Essa deve portare a un’unione dei gruppi jihadisti locali per una mondializzazione della lotta.

3) contro i ribelli politici, se la loro ribellione al legittimo imam minaccia l’unità e la sicurezza della comunità musulmana 4) per la difesa delle frontiere del Dar al-islam, ossia tutti i territori in cui prevalga l’islam, e viga la shari‘a (questa forma di difesa viene chiamata ribat). In ogni caso – secondo la dottrina - esso deve risparmiare donne, bambini, vecchi e infermi, e può essere proclamato solo da ‘ulema’ abilitati, capaci di valutarne i rischi e i vantaggi. Un punto su cui oggi esiste un dibattito molto vivo nel mondo musulmano dato che esso contrasta con la dottrina jihadista contemporanea della lotta globale contro ogni occidentale e con ogni espediente, sfruttando la forza del martirio per la vera fede. Nell’epoca contemporanea il jihad è divenuto via via una potente arma ideologica per la lotta politica interna ai vari stati del mondo musulmano, per screditare e delegittimare l’avversario, e per giustificare azioni violente anche all’interno del mondo musulmano. Il jihad, infatti, va combattuto anche contro gli apostati, fra cui vi sono tutti quei musulmani che rifiutano la vera interpretazione dell’islam e che servono l’Occidente. Uno degli esempi più noti e quello dell’uccisione del presidente egiziano Anwar Sadat da parte di gruppi islamico-radicali: per loro, Sadat era divenuto un apostata, e la sua uccisione un dovere della comunità islamica. Il termine è stato rilanciato dalla guerriglia tribale e islamica contro il regime comunista di Kabul dopo il colpo distato comunista del 1978 e il successivo intervento sovietico: i guerriglieri si definirono mujaheddin, ossia combattenti il jihad, difensori del Dar al-islam. Il termine si rivelò un potente ed efficacissimo veicolo di propaganda in tutto il mondo islamico, attirando un variegato insieme di combattenti non afgani che si mobilitarono per difendere la fede. La diffusione del concetto di jihad e la sua rilettura con un canone teoretico innovativo, del resto, era già avvenuta con i grandi ideologi del radicalismo islamico, ossia Mawdudi e Qutb. Per quest’ultimo, chiunque avesse compreso la vera natura dell’islam si sarebbe reso conto della «assoluta necessità che il movimento islamico non si limiti alla predicazione e al proselitismo, ma comprenda anche la lotta armata». Il jihad, inoltre, non è da considerasi come un’azione difensiva, bensì uno strumento di liberazione dell’uomo che non esista a ricorre a tutti gli strumenti necessari per ottenere la vittoria contro il Nemico e per il trionfo dell’islam. Una lettura radicale che si è rivelata uno straordinario volano propagandistico, ma che sembra allontanarsi dalle interpretazioni della giurisprudenza classica.

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In verità l’obiettivo principe del leader saudita non era tanto creare un vero e proprio esercito alle sue dirette dipendenze – fattore che, tra l’altro, avrebbe rischiato di alienargli le simpatie dei nuovi leader del Paese – ma rafforzare i legami intessuti con le organizzazioni islamiche radicali con le quali era entrato in contatto, così da creare un network potenzialmente in grado di agire a livello globale.

In realtà, sull’unione e sul presunto coordinamento fra gruppi jihadisti non vi è un vero accordo da parte degli esperti. Per molti, al contrario, è proprio la semplicità, la trasmettibilità e la fruibilità degli slogan jihadisti contemporanei a favorire la proliferazione di gruppi jihadisti scollegati o non dipendenti gerarchicamente, con una sorta di franchising del terrore e del tema jihadista.

Al-Qaeda diviene così non solo una struttura terroristica, bensì un ombrello strategico, dottrinale e ideologico per una varietà di movimenti, di gruppi e per quella gioventù islamica auto-radicalizzata che funge da serbatoio e da veicolo proliferante del jihadismo globale. Questa gioventù – per lo più ben alfabetizzata e urbanizzata – non è più intercettata solo dai movimenti islamisti più “istituzionali” e politici: spesso si tratta di piccoli gruppi che si richiamano alla ideologia jihadista appresa da internet, ma che non hanno vere guide dottrinali; per l’esegesi delle fonti sciaraitiche – il Corano e la Sunna fra tutte – essi spesso semplicemente bypassato gli ‘ulema’ e gli esperti della legge religiosa ufficiali, preferendo un approccio più individuale, una manifestazione della propria fede, basata sul mito del martirio e sulla professione religiosa come atto di volontà (riprendendo l’esempio di Sayyid Qutb).

Questa separazione fra islamisti politici e ‘ulema’ accreditati e giovani jihadisti salafisti – che a mio giudizio riproduce a ben vedere la spaccatura del primo riformismo islamico fra ‘ulema’ tradizionalisti e nuovi pensatori religiosi che volevano il rinnovamento dell’islam, tipico del mondo musulmano a cavallo dei secoli XIX e XX – rappresenta una vera e propria fitna, ossia una divisone, una frattura gravida di pericolose conseguenze per le società del mondo islamico,come sostiene Kepel8. Secondo lo studioso francese: «Gli ulema dell’islam contemporaneo hanno perduto il controllo della dichiarazione di jihad, non hanno più i mezzi per ammonire i fedeli contro l’avvento della fitna: sono stati superati dai militanti attivi che possono fare a meno della cautela, e soprattutto ignorano deliberatamente la lunga storia delle società musulmane, ma padroneggiano le tecnologie postmoderne, navigano su internet e pilotano aerei, nutriti da una visione dell’universo fortemente limitata». Questa spaccatura accentua la ricerca del martirio – e li rende letteralmente «avidi della propria morte» - certi che il loro sacrificio avrà una valenza salvifica e catartica, con una visione millenarista che era fino a pochi anni fa patrimonio più dell’islam sciita che di quello sunnita.

Il radicalismo islamico preoccupa non solo a causa del proprio carattere illiberale e dispotico, ma altresì in quanto: manifestamente violento, anti-modernistico; fautore di mire espansioniste, geograficamente anche al di là della ricostituzione dello storico Califfato, basate sulla convinzione che le terre

8 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’islam, Roma-Bari, 2004, p.275.

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non islamiche debbono essere sottomesse; perturbatore delle stabilità regionali. Questi aspetti sono di conseguenza percepiti come lesivi della sicurezza collettiva. Le stesse dichiarazioni provenienti da fonti radicali islamiche risultano palesemente inquietanti. Seguono alcuni esempi:

o la costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran recita: Tutti i musulmani formano un’unica nazione. Il governo della Repubblica Islamica dell’Iran ha il dovere di formulare la sua politica generale ai fini della fusione e unione di tutti i popoli musulmani e deve costantemente impegnarsi per raggiungere l’unità politica, economica e culturale del mondo islamico;

o la Carta Fondamentale di “Hamas” − il “Movimento di Resistenza Islamica”, organizzazione palestinese chiaramente d’ispirazione politico-religiosa, recita: “La Palestina è terra di proprietà islamica consacrata alle generazioni musulmane fino al giorno del giudizio [ …] Israele esisterà e continuerà ad esistere finché l’Islam non lo cancellerà proprio come ha cancellato altri prima di esso”

o Hussein Massaiwi, esponente dell’organizzazione radicale islamica libanese “Hizballah” ha dichiarato: “Noi non combattiamo affinché ci offriate qualcosa. Noi combattiamo per eliminarvi”;

o Osama bin Laden, figura portante di “al-Qaida” ha ingiunto ai suoi correligionari − abusivamente sotto forma di fatwa o editto giuridico-religioso del 23 febbraio 1998 − di “uccidere gli americani e i loro alleati, sia civili sia militari, […] ovunque possibile”;

o gli intendimenti e le metodiche del radicalismo islamico sono definiti in modo ben chiaro in un documento dal titolo Studi Militari sulla Jihad contro i Tiranni, rinvenuto in Inghilterra già nel maggio 2000, il quale in parte recita: “La missione principale […] è il rovesciamento dei regimi senza Dio e la loro sostituzione con un regime islamico.

o nella sua opera, “Chiamata ad Una Resistenza Islamica Globale”, l’ideologo jihadista Mustafa Setmarian Nasar, più noto come Abu Masub al-Suri, sottolinea l’importanza di condurre la “guerra santa” a livello globale, quindi contemporaneamente sia in terre islamiche sia in quelle “occidentali”.

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2. La matrice “suicida” nel fondamentalismo islamico

facilmente riscontrabile una incipiente ed inquietante tendenza ad imitare ed esaltare il fanatismo dei radicali islamici da parte di

elementi estremisti d'impostazione laica, anche se culturalmente appartenenti alla stessa fede, come si evince nel caso degli attentati suicidi di recente ripetutamente posti in essere in Israele e nei territori occupati, da elementi palestinesi che fanno capo alla Brigata dei Martiri di al-Aqsa. Questa tendenza ha un’unica regia, che del resto si intravede nella consuetudine, ancorché mossa da sentimenti puramente umanitari, di offrire risarcimenti ai familiari di coloro che muoiono per la fede, eufemismo per descrivere attivisti violenti e, in particolare, attentatori suicidi che di regola colpiscono vittime inermi. Vediamo come e dove nasce questa nuova forma di terrorismo. Nella storia del terrorismo islamico gli anni ottanta possono considerarsi tra i più sanguinosi. Ne sono prova evidente gli attentati che distrussero gli alloggi del contingente americano e francese a Beirut nel 1983. Le azioni furono rivendicate da estremisti islamici che utilizzarono, per la prima volta, la tattica delle autobomba senza considerare alcuna possibilità di fuga. Un modo nuovo di uccidere era andato ad arricchire il repertorio di morte del moderno terrorismo: un’azione suicida il cui successo dipendeva dall’eliminazione dell’esecutore. Sulle prime, la novità aveva disorientato gli esperti dei servizi di sicurezza. Duecento anni di storia avevano lasciato intendere che i terroristi, sebbene disposti a rischiare la vita, desideravano sopravvivere all’attentato. Questa forma inedita di terrorismo, invece, sfuggiva a tale logica: diversa, quasi sovrumana, veramente letale e difficilissima da fermare. Nei sei mesi successivi agli attentati, Francia e Stati Uniti ritirarono i militari dal Libano, riconoscendo implicitamente che la nuova forma di terrorismo vanificava ogni contromisura. La gran diffusione del terrorismo suicida, nel corso degli ultimi venti anni, conferma la sua raccapricciante efficacia. Esso ha rappresentato il nucleo di numerose campagne di attentati, incluse l’operazione degli Hezbollah contro l’invasione israeliana del Libano a metà degli anni 80, gli attentati suicidi di Hamas agli autobus di linea, nel periodo 1994-96, volti a fermare il processo di pace tra Israele e Palestina, la lotta del Pkk curdo contro la Turchia negli anni dal 1995 aI 1999, gli attentati di al-Qaida contro gli Stati Uniti d’America dal 1999 al 2002. A quasi vent’anni dal suo debutto nella storia moderna, il terrorismo suicida conserva l’immagine di strumento estremo del terrore. Non è possibile tracciare un unico identikit psicologico o sociale di questi terroristi. Le situazioni intensamente conflittuali finiscono per produrre numerose tipologie di individui potenzialmente determinati a sacrificarsi per la loro causa. Non esiste organizzazione in grado di creare la personale disposizione al sacrificio.

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L’obiettivo dei reclutatori, dunque, non è produrre, ma identificare e rafforzare tale predisposizione. Nell’indottrinare gli aspiranti terroristi, i reclutatori sfruttano spesso le credenze religiose, servendosi della fede che i loro subordinati nutrono in una ricompensa ultraterrena. Esistono anche altre cause che rafforzano la tendenza al martirio, compresi il patriottismo, l’odio per il nemico e un sentimento profondo del sacrificio. Un terrorista suicida è spesso l’ultimo anello di una lunga catena organizzativa che coinvolge molti attori: dozzine di complici che non hanno alcun’intenzione dì suicidarsi, ma senza i quali non potrebbe realizzarsi alcun’azione suicida. Un esame dettagliato delle principali organizzazioni che hanno fatto ricorso a questo tipo di atti terroristici, dal 1983, rivela come la distinzione più rilevante al loro interno riguardi il livello di istituzionalizzazione. Le azioni suicide di Hamas e della Jihad islamica palestinese in Israele, nel corso degli anni novanta, furono precedute da un’ondata di attentati all’arma bianca alla fine del decennio precedente. Gli attentatori, in questi casi, non avevano mai organizzato una via di fuga e furono spesso uccisi sul posto. Si trattava di azioni che non coinvolgevano alcun’organizzazione conosciuta ed erano per lo più spontanee. Tuttavia, esse rivelavano un atteggiamento diffuso tra i giovani palestinesi della Jihad contro Israele che contribuì a creare le premesse per l’istituzionalizzazione del terrorismo suicida, avvenuta nel decennio successivo. Ad un livello differente si pongono quei gruppi che adottano formalmente il terrorismo suicida come strategia temporanea. I leaders di questi movimenti ottengono (o garantiscono) legittimazione ideologica o religiosa per questa pratica, reclutano e addestrano volontari e li spingono ad agire avendo in mente un obiettivo specifico. I gruppi che ricorrono a tale tipo di terrorismo sono in genere spinti dalla fiducia nell’efficacia di questa nuova tattica, dall’approvazione dell’establishment religioso e ideologico, dall’appoggio entusiasta della comunità di appartenenza. Sono tuttavia ben consapevoli della natura mutevole di queste condizioni e dei costi potenzialmente associati all’attività del terrorismo suicida (come, per esempio, ritorsioni militari). Di conseguenza, i dirigenti non hanno difficoltà a sospendere o revocare del tutto questa pratica. Un esempio calzante è la decisione degli Hezbollah di dare corso al terrorismo suicida nel 1983. Sappiamo, oggi, che numerosi dirigenti dell’organizzazione erano in dubbio: per esempio, lo sceicco Fadlallah insisteva nel ricordare che l’Islam non approva il suicidio. Tuttavia, il terrorismo suicida si rivelò un’arma talmente efficace per scacciare gli stranieri dal Libano che non c’era motivo di smetterla. Ne risultò, da ciò, una disputa teologica che risolvendo il problema, definì gli attentatori suicidi soldati speciali, i quali mettevano a rischio la propria vita combattendo una guerra sulla via di Dio. In seguito alla ritirata israeliana dal Libano nel 1985, i leaders religiosi Hezbollah hanno ordinato la fine del ricorso sistematico al terrorismo suicida. Non è possibile, stabilire con precisione, il momento in cui i dirigenti di Hamas decisero di trasformare i loro attentati suicidi contro Israele in una precisa strategia di lotta contro il processo di pace. La loro campagna, iniziata in modo non sistematico nel 1992 e diretta contro gli obiettivi militari e gli insediamenti

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civili nei territori occupati, non produsse risultati evidenti. Il massacro di Hebron nel 1994, allorquando il medico israeliano Baruch Goldstein assassinò ventinove palestinesi nella Moschea al-Ibrahim di Hebron, cambiò tutto. Decisi a vendicare l’uccisione dei compatrioti, gli organizzatori di Hamas ricorsero agli attentati suicidi contro gli autobus nelle città israeliane. Nel giro di poche settimane, la nuova ondata di terrorismo aveva eroso la fiducia del popolo israeliano nel processo di pace. Nel 1995, all’improvviso questi attentati cessarono del tutto. La forza comunemente attribuita ai terroristi suicidi risiede nel fatto che essi vengono ritenuti fanatici solitari e irrazionali che non possono essere dissuasi. La loro debolezza reale è costituita dal fatto che essi sono il prodotto di una decisione calcolata e razionale presa dai loro capi, i quali si aspettano un vantaggio tangibile per l’organizzazione dall’adozione di tale pratica9.

Può risultare a questo punto interessante analizzare la peculiarità dei maggiori gruppi del terrorismo suicida. Gli attacchi terroristici di matrice suicida, come abbiano avuto occasione di rilevare, hanno avuto inizio in Libano nel 1983. Un piccolo gruppo, fino ad allora sconosciuto, dal nome Hezbollah ha diretto un certo numero di attacchi suicidi contro obiettivi occidentali. Il primo attacco è stato diretto all’ambasciata americana di Beirut (aprile deI 1983), seguito da altri alle forze militari statunitensi ed alla forza multinazionale francese (ottobre del 1983). Queste operazioni hanno avuto un’incidenza impressionante sull’opinione pubblica internazionale. Dopo il ritiro delle forze armate occidentali dal Libano, gli Hezbollah hanno orientato le relative attività terroristiche suicide contro le forze militari israeliane e contro le popolazioni cristiano-maronite libanesi. Successivamente, hanno fatto diminuire significativamente l’uso di questo modus operandi. Nonostante tutto ciò, restano gli inventori di questa nuova ed impressionante tattica militare. Gli obiettivi delle missioni suicide degli Hezbollah sono cambiati e si sono sviluppati nel tempo. Inizialmente, essi erano interessati allo sviluppo della loro

9 Un ulteriore elemento è dato dall’importante ruolo delle donne nell’attività terroristica di alcuni dei gruppi che usano le tattiche suicide. Questa caratteristica, però, è limitata prevalentemente alle organizzazioni con un orientamento nazionalista. I gruppi terroristici retti dal fondamentalismo islamico non lasciano facilmente partecipare le donne alle loro attività e tanto meno al terrorismo suicida. I gruppi di matrice nazionalista, quali il PKK curdo o i terroristi Ceceni, invece, permettono alle donne di partecipare al loro modus operandi estremo. Le guide di questi gruppi sfruttano spesso il desiderio profondo dei membri femminili di dimostrare l’uguaglianza con i maschi. Il numero di donne che hanno realizzato e partecipato ad attacchi terroristici suicidi è sufficientemente alto. Nel PKK, per citare un dato, esse hanno effettuato 11 attacchi suicida su 15. I motivi per cui usano le donne in questo genere di attività, sono molteplici e principalmente di natura strategica. Ad esempio, tutti questi gruppi, hanno usato ingannevolmente l’apparenza di un donna incinta per eludere le disposizioni di sicurezza. Tutti, infine, hanno giocato sul desiderio delle donne di dimostrare le loro abilità e devozione all’organizzazione ed alla loro guida suprema.

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immagine di potenza. Poiché, fino ad allora, erano un piccolo gruppo poco noto nel Libano, e tanto meno nel resto del mondo, si sono serviti di questo nuovo strumento di morte per ottenere notorietà a livello internazionale. Gli Hezbollah, inoltre, hanno rappresentato i relativi “sponsor” iraniani dando un impulso importante alla diffusione della rivoluzione islamica. La prontezza di questi terroristi impavidi e disposti a sacrificarsi per la difesa dall’oppressore occidentale sono stati uno strumento propagandistico importante sia per l’Iran sia per loro stessi. Gli attacchi suicidi sono riusciti a scacciare le forze di pace straniere dal Libano, inducendo l’esercito israeliano a ritirarsi in una striscia stretta nel sud. Sono serviti, inoltre, all’organizzazione come arma di rappresaglia e deterrenza contro Israele10. Anche Hamas e la Jihad sono stati ispirati ed aiutati dagli Hezbollah. La direzione di questi gruppi ha avuto rapporti con l’Iran e gli Hezbollah dall’inizio degli anni ‘80. Il rapporto fra Hamas ed Hezbollah si è rafforzato quando Israele ha deportato pri gionieri palestinesi in Libano (nel 1992).

Hamas e la Jihad hanno iniziato i loro attacchi suicidi verso obiettivi militari nei cd. territori occupati ma, ben presto, la loro attenzione si è spostata alle città ed ai civili. I due gruppi fondamentalisti palestinesi sono riusciti ad infliggere un altissimo numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ottenendo un effetto negativo profo ndo sull’opinione pubblica israeliana e sull’efficacia dei sistemi di sicurezza personale. Quest’effetto è stato intensificato dal fatto che la campagna di terrore ha accompagnato un processo di pace, che è stato voluto per portare tranquillità ai rapporti fra gli israeliani e palestinesi. Un altro fattore destabilizzante era la frequenza degli attacchi: a volte erano un caso settimanale, in altre si è arrivati a due al giorno. Tutto ciò, ha senza dubbio avuto un’influenza strategica sul processo di pace Israelo-Palestinese. All’inizio del 2000, Hamas ha tentato di effettuare altri attacchi suicidi in città israeliane. Nell’ultimo biennio, gli attacchi dei cd. kamikaze si sono intensificati e nei primi otto mesi del 2002 le vittime del terrorismo suicida sono moltissime e in gran parte civili inermi. Il conflitto è tra i più lunghi e sanguinosi della storia terroristica. Un’altra organizzazione che ha fatto parlare molto di sè, soprattutto per i suoi stretti legami con al-Qaida è Ansar-al-Islam, che si è resa protagonista di numerosi attentati perpetrati con la tecnica della bomba umana. Diversi campi di addestramento di questo gruppo terroristico, situati soprattutto nel Curdistan, sono stati localizzati e neutralizzati dalle forze militari statunitensi.

10 Dopo che gli israeliani hanno ucciso il segretario generale degli Hezbollah Mussavi, nel febbraio del 1992, l’organizzazione ha effettuato un attacco suicida contro l’ambasciata israeliana a Buenos Aires (marzo del 1992) uccidendo 29 persone e ferendone circa 250. Il Libano ha vissuto oltre 50 attacchi suicidi fra il 1983 ed il 1999. Quasi tutti hanno raggiunto il loro scopo: la destabilizzazione dell’area. In Israele, il terrorismo suicida ha avuto inizio nel 1993. Hamas e la Jihad islamico-palestinese (PLI) hanno effettuato circa 50 attacchi suicidi causando circa 170 vittime e ferendone almeno 200 (dati risalenti al gennaio 2001).

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Anche i gruppi terroristici egiziani hanno contribuito allo sviluppo della matrice suicida. Ciascuno dei due gruppi principali, al-Islamiya di Gama e la Jihad islamica egiziana, hanno effettuato attacchi terroristici suicidi11. A differenza di altri gruppi islamici, questi in esame, hanno sempre evitato di usare tali tattiche sul territorio egiziano. Ciò, può essere attribuito alla loro riluttanza ad incrinare il consenso di cui godono in Egitto. Un altro gruppo che ha usato il terrorismo suicida è il Partito Operaio del Curdistan (PKK). Il PKK è ricorso al terrorismo suicida in un momento di crisi a causa della dura lotta che la Turchia aveva intrapreso per combattere questi gruppi rivoluzionari12. Al-Qaida, organizzata dal saudita Osama Bin Laden è l’ultimo gruppo a ricorrere agli attacchi suicidi ed ha, come detto, collegamenti operativi vicini a molti gruppi islamici. Que sto gruppo è responsabile di due attentati contro le ambasciate americane a Nairobi ed in Dar-es-Salaam nell’agosto del 1998 provocando trecento vittime e cinquecento feriti, la maggior parte civili. La rete terrorista responsabile degli attentati verificatisi a New York, Madrid, Londra, Sharm El Sheik, presente in quasi tutti e cinque i continenti, è “figlia”

11 Al-Islamiya, ha agito anche in Croazia nel 1995, colpendo una stazione di polizia locale in Rijake e causando 10 vittime. Quest’operazione fu un atto di rappresaglia per la scomparsa di una delle guide del gruppo in Croazia. Il gruppo della Jihad egiziana, invece, ha usato uomini-bomba per distruggere l’ambasciata egiziana in Pakistan causando 15 vittime e decine di feriti (novembre del 1995). Quest’attacco rappresentò la risposta armata alla cooperazione Pakistano-Egiziana per estradare i terroristi in Egitto. 12 Il PKK ha effettuato un totale di 21 attacchi suicidi. La campagna di matrice suicida è cominciata nel 1996 ed è cessata nel 1999 per volontà della guida del movimento Abdullah Ocalan, attualmente in vinculis. Questa campagna di terrore ha causato 19 vittime e 138 feriti. Ciò determinò un effetto contrario sulla morale dei relativi membri. Di conseguenza le attività terroristiche del gruppo sono scemate costantemente nel periodo 1994-1996. L’organizzazione doveva assolutamente cercare mezzi efficaci per invertire questa tendenza e per rinvigorire gli animi dei relativi combattenti. Le missioni suicide, quindi, sono state uno strumento di consolidamento del gruppo. Sono servite a dimostrare la possibilità del PKK di funzionare e danneggiare i loro nemici. Gli attacchi hanno dimostrato la predisposizione a sacrificare tutto, compreso la vita, per gli obiettivi nazionali del popolo curdo. Per un certo tempo, tali attacchi sono stati usati anche per scopi di rappresaglia.

“Morire per vincere” - è il titolo di un libro di Robert Pape, pubblicato negli Stati Uniti da Random House (giugno 2005). L'argomento del libro, è "la logica strategica, sociale e individuale del terrorismo suicida". Robert Pape, docente di scienze politiche all'Università di Chicago ed editorialista per il New York Times, è uno dei massimi esperti nel campo e il suo libro è probabilmente l'analisi più ampia e dettagliata che si possa all'oggi reperire su questa inedita e agghiacciante modalità di "guerra partigiana". È importante sottolineare che il libro è stato preceduto da un lungo articolo ("The strategic logic of suicide terrorism") apparso nel 2003 sull'American Political Science Review, articolo della cui importanza, in Italia, si è accorto soltanto un giornalista: Emanuele Giordana.

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dei conflitti (passati e presenti) in Palestina, Cecenia, Afghanistan, Bosnia, Algeria, Kashmir, Iraq. Il terrorismo “islamico” si serve di una tecnica sconosciuta ai passati movimenti di guerriglia: l’attentato suicida. Benchè l’Islam condanni il suicidio in quanto solo Dio può dare e togliere la vita, alcuni esperti di teologia islamica hanno emesso fatawa (sentenze) favorevoli a questi combattenti definiti “martiri”. La religione è il miglior pretesto per fare proselitismo e demagogia: dalle Crociate del Medioevo alla guerra nei Balcani, la fede religiosa è sempre stata la motivazione preferita per legittimare un conflitto di fronte alla comunità. Per i terroristi suicidi il corpo diventa quindi arma e ciò, sotto il profilo strategico e tattico offre il vantaggio di una grande asimmetria di costi fra attacco e difesa. Sotto tale ottica basta pensare che l’attentato alle torri gemelle si stima abbia avuto un costo inferiore ad 1 milione di dollari ma ha provocato danni diretti per oltre 50 miliardi di dollari a cui si devono aggiungere non solo i danni collaterali ma soprattutto l’instaurarsi della cosiddetta “economia della paura” a livello globalizzato. Sotto il profilo strategico e tattico e fermo restando l’aspetto costi a favore dell’attacco, il terrorismo suicida presenta numerosi vantaggi:

- se il terrorista fallisce l’attentato, sicuramente si fa esplodere lo stesso provocando comunque dei danni eliminando inoltre la possibilità di essere arrestato e sottoposto ad interrogatorio;

- il terrorismo suicida ha un’elevata percentuale di successo ed è tatticamente flessibile potendo cambiare obiettivo anche all’ultimo momento;

- il terrorismo suicida si avvale dell’effetto sorpresa e della clandestinità considerato che il numero delle infrastrutture critiche e degli obiettivi sensibili da proteggere è elevato.

Il livello socio-culturale ed economico dei terroristi suicidi è di gran lunga superiore a quello della popolazione comune, per esempio, nell’Intifada ben il 50% è diplomato molti degli affiliati ad Al Qaeda sono laureati. I suicidi si considerano una vera e propria avanguardia per il riscatto dell’Islam, volta a rovesciare regimi islamici corrotti, inefficienti e servi dell’Occidente per subentrare alle attuali élites che non li lasciano emergere. Uno studio prodotto dalle autorità israeliane ha evidenziato che non esiste una psicopatologia del terrorista suicida ma le convinzioni ideologiche degli attentatori e la loro formazione da parte di chi dirige l’organizzazione terroristica vengono consolidati con mezzi simili a quelli utilizzati in Europa nel corso della II G.M. per convincere soldati della gioventù hitleriana ad uccidere e farsi uccidere. Un altro aspetto di interesse è l’uso sempre più spinto delle donne negli attentati suicida. I ruoli oggi assunti dalle donne, fino a poco tempo fa appartenevano esclusivamente all’universo maschile: andare in guerra, torturare, uccidere, suicidarsi. Nel caso delle donne “martiri” l’utilizzare la donna suicida sembra sottolineare, rovesciandola, l’eguaglianza fra uomo e donna, come se

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quell’uguaglianza non potesse realizzarsi se non nell’assassinio e nella morte, come se l’unica possibilità data alla donna di essere uguale all’uomo fosse collegata al sangue, sangue della vita e sangue della morte. Il coinvolgimento delle donne, da sempre relegate dalla tradizione musulmana alla sfera domestica in qualità di angeli del focolare, ha suscitato un enorme stupore mediatico e tuttavia un senso di sconforto e non accettazione da parte di molte organizzazioni terroristiche che, invece, andando a volte controcorrente, hanno cercato all’interno del Corano delle fatwa contrarie alla presenza femminile sul “campo di battaglia”. Ad esempio, due movimenti, Hamas e il Jihad islamico, hanno all’inizio reputato assolutamente impropria la presenza di donne all’interno di dimostrazioni violente, sottolineando come esse debbano rimanere legate al loro ruolo tradizionale di mogli, madri e donne di casa. Al contrario, il leader palestinese Yasser Arafat, nel discorso del 27 gennaio del 2002, ha invocato la presenza di donne a sostegno della causa palestinese. Come ricorda Barbara Victor “Women and man are equal” He proclaimed with his hands raised above his head and his fingers forked in a sign of victory “You are my army of roses that will crush Israeli tank”13. Quello di cui Arafat aveva bisogno all’inizio della seconda Intifada era spaventare gli oppositori islamici e terrorizzare i nemici israeliani, e tutto ciò poteva accadere con qualcosa di estremamente nuovo ed imprevedibile. Con la seconda Intifada, l’identikit degli aspiranti martiri è radicalmente cambiato. L’età si è estesa dalla fascia tra i 17 e i 22 anni ai trentenni e a qualche quarantenne. Il livello di istruzione è salito da quello elementare a una maggioranza di laureati e di diplomati. Lo stato civile non registra più solo single ma anche diversi coniugati tra i quali qualcuno con prole. Il tenore economico non è più limitato ai nullatenenti ma abbraccia i benestanti. Tuttavia due sono le maggiori novità che hanno trasformato radicalmente il fenomeno del terrorismo suicida: il coinvolgimento dei palestinesi laici e soprattutto la partecipazione delle donne. Il primo attentato suicida è avvenuto nel dicembre del 2001 quando, nel cuore di Gerusalemme, due kamikaze si sono fatti esplodere uccidendo 11 israeliani. Uno dei due, Osama Baher, agente della polizia dell’Autorità nazionale palestinese, è stato il primo “martire laico” affidato alle Brigate dei martiri di Al Aqsa, il braccio terroristico di Al Fatah, la maggiore organizzazione palestinese presieduta dallo stesso Arafat. Il segnale era chiaro. In un contesto in cui oltre i due terzi dei morti israeliani sono vittime degli attentati suicidi, lasciare il campo libero alle organizzazioni islamiche avrebbe significato perdere la guida della nuova Intifada. Arafat fece cosi propria la stessa arma impiegata dagli islamici per sabotare la pace con Israele che lui sosteneva di volere ancora, al fine di assicurare la continuità del suo potere sempre più scalfito dalle dissidenze interne e dal logoramento delle forze palestinesi operato dall’esercito israeliano. Il battesimo di sangue della prima donna “kamikaze” palestinese in Israele è avvenuto il 27 Gennaio 2002 con l’estremo sacrificio di Wafa Idris,

13 Barbara Victor, Army of roses, Rodale Press, Emmau, Pennsylvania, USA, 2003, pag.19

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ventottenne laureata, che si occupava di handicappati, entra in un negozio di Gerusalemme, chiede il prezzo di un paio di scarpe e un momento dopo aziona una carica esplosiva tra la folla causando la morte di un anziano. Questo primo attacco suicida al femminile, e quarantasettesimo attacco kamikaze, ha allarmato notevolmente i media, i quali hanno parlato d’un inquietante salto di qualità nella strategia della violenza di matrice islamica, poiché queste azioni suicide vengono a costituire una svolta rilevante nel delicato “equilibrio del terrore” che vige tra le organizzazioni fondamentaliste palestinesi e lo stato d’ Israele. Nel 2003 è l’uzbeka Dilnova Holmuradova ad agire a Tashkent, viene da una buona famiglia, parla cinque lingue ma diventa una “sorella benedetta” massacrando 47 persone su ordine di un gruppo islamista. Secondo la studiosa Farhana Ali (RAND Corporation) sono le quattro “R” a trasformare una madre di famiglia in assassina: La vendetta (Revenge) per la perdita di un familiare; Dimostrare (Reassurance) che la donna è in grado di imitare l’uomo; Reclutare (Recruit) altre simpatizzanti e dare l’esempio; Ottenere il rispetto e la considerazione sociale (Respect) della comunità. Qualche anno fa (2004), Al Qaeda attivò anche un sito Internet: dedicato esclusivamente alle donne. Il movimento di Bin Laden elogiava innanzitutto la loro partecipazione alla jihad - la guerra santa - e le spronava affinché si addestrassero militarmente e si allenassero per potenziare la loro resistenza fisica, invitandole ad assumere un regime alimentare "equilibrato", seguendo diete apposite. Il sito si chiamava Al Qhansaaben Omar. E' il nome di una poetessa convertita all'Islam, considerata la gran madre degli "shahidim", i martiri, perché rifiutò di portare il lutto dopo la morte dei quattro figli, uccisi durante una battaglia contro gli infedeli. Inoltre, nello stesso periodo, sul giornale arabo "Asharq al-Awsat" che si stampava a Londra, uscì un'intervista. A parlare, una attivista di Al Qaeda che annunciava la creazione di un'unità femminile "capace di far scordare agli Stati Uniti persino il loro nome". Una spacconata? O qualcosa, invece, di più serio? Comunque l'Fbi iniziò a dedicare particolare attenzione al terrorismo islamico femminile.

L'attenzione al mondo femminile da parte di Al Qaedsa non è affatto casuale: le donne terroriste sembrano essere in costante aumento, e lo sono soprattutto le kamikaze, che siano palestinesi o cecene. Gli zelanti censori dell'ortodossìa islamica sono nei loro confronti assai più tolleranti che con il resto delle donne musulmane. La minore discriminazione è direttamente collegata al fatto che le kamikaze rappresentano, ormai, un vero e proprio incubo per i servizi di sicurezza, che sono stati costretti a cambiare radicalmente approccio e tattica sia nella prevenzione che nel contrasto.

Il fanatismo e il culto della morte conduce in qualche maniera alla liberazione della donna musulmana? Chi addestra le kamikaze ha tutto l'interesse ad avvalorare questa tesi, sfruttando le frustrazioni e la vulnerabilità della

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condizione femminile. Ma in ogni situazione conflittuale violenta, il posto della donna è costantemente centrale, "la donna, la madre, la sorella e la figlia costituiscono una delle molli psicologiche maggiori della guerra prolungata", è l'analisi di François Géré, docente universitario autore dell'interessante "Le volontarie della morte". Sui 41 membri del commando suicida che aveva preso in ostaggio oltre 800 persone al teatro Dubrovka di Mosca, 19 erano donne, le kamikaze chiamate "vedove nere" perchè i loro abiti sono quelli del lutto, il lutto per aver perso mariti, figli, padri, fratelli nella guerra contro i russi, così come sono parecchie le donne che hanno fatto l'irruzione alla scuola di Beslan (qui le cifre esatte non sono ancora chiare), azione rivendicata da Shamil Bassaiev, capo delle Brigate islamiche dei martiri. Quello delle donne martiri cecene è un caso molto particolare ben descritto nel libro della giornalista russa Julija Juziki dal titolo “Le mille fidanzate di Allah” (2004). La Juzik ha percorso per un anno la Cecenia per capire da dove venivano le giovani che si erano fatte saltare in questo o quell’attentato per ricostruire i passaggi che le hanno portate a diventare martiri. Secondo la giornalista, la religione c’entra molto poco con la scelta di tante giovani cecene di farsi shahidi (donne maritiri) come le chiamano i russi dalla parola araba shahid. Le loro storie personali dicono ben altro, la spinta a cercare la morte è una tragedia personale o una vita infelice. In Cecenia, secondo l’indagine della Juzik, gli uomini non si fanno saltare in aria perché danno un valore troppo alto alle proprie vite, muoiono solo le donne e spesso neppure di propria volontà. Più dell’islam, nei destini di quelle ragazze conta una struttura sociale tradizionale in cui le donne sono sottomesse, la cui vita è stata distrutta e che non vanno a morire soltanto per dimostrare la loro devozione ad Allah. Per quanto concerne le possibilità di contrasto al terrorismo suicida ed in particolare all’attacco suicida, occorre immediatamente evidenziare che queste sono minime poiché il terrorista non cerca una via di scampo e sceglie lui stesso tempo e modalità di attacco pianificando nel tempo la propria e l’altrui morte. Quanto sopra esposto induce senza dubbio a ritenere che più che sui singoli individui, la lotta al terrorismo suicida dovrebbe essere indirizzata all’indebolimento della leadership dell’organizzazione terroristica per diminuire la possibilità che essa utilizzi per i propri fini l’altrui suicidio.

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3. Terrorismo di matrice islamica: analisi italiana

a anni, ormai, l’islam si è trasferito a Ovest. Un “trasferimento” non avvenuto sull’onda di conquiste militari o proselitismo religioso, come

per quasi tutte le terre entrate a far parte della dar al-islam ma come conseguenza della migrazione verso l’Europa di milioni di musulmani, attratti dalle migliori possibilità di vita e dalla prospettiva di un lavoro stabile. Milioni di musulmani, provenienti dalle più diverse regioni dei mondi islamici e portatori di ortoprassi religiose, sociali e culturali estremamente variegate, si sono ritrovati in società percepite come ostili o che tendevano a relegarli ai loro margini. Quanto qui interessa far emergere è il fenomeno cosiddetto della re-islamizzazione conservatrice e di un neo-fondamentalismo islamico che inventa una tradizione e un’identità panislamica sia per accreditare i rappresentanti auto-proclamatisi come rappresentanti ufficiali e riconosciuti dell’islam, sia come effetto della perdita di identità culturale e di straniamento. In altre parole, la re-islamizzzione degli immigrati musulmani, anche di seconda o terza generazione, permette in primo luogo di riaffermare la propria identità. Va anche sottolineato come il jihadismo globale sia stato estremamente abile a penetrare negli “interstizi” culturali e disagi socio-identitari, facendo proseliti anche fra i musulmani della terza o quarta generazione, creando cellule salafite e jihadiste estremamente difficili da localizzare e neutralizzare. Gli esperti di sicurezza dibattono da tempo se i gruppi salafiti e jihadisti attivi in Europa siano controllati e diretti da al-Qa’ida o siano una sorta di gruppi in “franchising”, ispirati dal messaggio del jihad globale ma sostanzialmente autonomi.

In sostanza, sembrerebbe esservi almeno tre tipi distinti di jihadisti “europei”:

1) il primo è quello rappresentato dagli immigrati di prima generazione che non riescono a inserirsi nel modello di vita occidentale (e non si tratta necessariamente di elementi socialmente marginalizzati);

2) il secondo è quello degli immigrati di seconda e terza generazione che sono ormai deculturalizzati rispetto alla cultura d’origine dei loro padri, ma che interiorizzano una visione apologetica e dogmatica dell’islam neofondamentalista (vedi pagine precedenti). In questa loro riconversione giocano un ruolo importantissimo tanto le moschee e gli imam radicali presenti in Europa, quanto l’auto-radicalizzazione dei giovani attraverso internet e ideologi improvvisati, esterni alle scuole religiose riconosciute del mondo islamico;

3) il terzo è quello degli europei convertiti, un fenomeno difficilmente quantificabile nella sua reale dimensione, dato che molti si convertono all’islam solo per poter sposare donne musulmane. In ogni caso, gli europei convertiti e avvicinati all’ideologia del jihad globale sembrano rappresentare un obiettivo particolarmente

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importante per al-Qa’ida e per i vari gruppi jihadisti, dato che essi rappresentano elementi ancor più difficili da controllare per le forze di sicurezza europee.

Per quanto concerne la situazione italiana, va subito precisato che sono stati numerosi gli aderenti ad organizzazioni terroristiche di cd. matrice islamica condannati in questi ultimi anni in Italia in via definitiva; ma le condanne definitive riguardano prevalentemente i reati di associazione per delinquere (art. 416 cp) finalizzate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o al traffico di documenti di identità falsi etc. nonché, eventualmente, ad altri specifici reati-fine. Ciò dipende dal fatto che il reato di associazione per delinquere con finalità di terrorismo anche internazionale è stato inserito nel sistema penale solo con il nuovo articolo 270 bis del Codice Penale. In precedenza, infatti, il reato di associazione terroristica riguardava solo i gruppi che si proponevano finalità di sovversione o terrorismo in danno del solo ordinamento italiano. Dunque, nelle sentenze di condanna definitive prima citate viene esplicitamente riconosciuto che le condotte dei condannati rientravano nel programma criminale di associazione terroristiche di cd. Matrice islamica, ma tali condotte sono state sanzionate con pene meno gravi (quelle previste per il reato di associazione criminale semplice) di quelle previste a partire dall’entrata in vigore dell’art. 270 bis cp. Ciò si deve specificare doverosamente visto che, di seguito, le persone alle quali si farà riferimento saranno spesso qualificate “terroristi” o “appartenenti ad associazioni terroristiche”, pur in presenza di condanne che non le qualificano espressamente come tali per le ragioni suddette. Alla luce delle indagini svolte e dei procedimenti già celebrati, è possibile affermare che i cd. terroristi islamici operanti in Italia, provengono soprattutto dall’area nord africana, anche se si registrano presenze di militanti provenienti pure dal Kurdistan, dall’Iraq e dal Pakistan. Nei primi anni del manifestarsi in Italia del fenomeno terroristico in esame, i gruppi di militanti hanno conservato la loro specifica identità nazionale. All'inizio degli anni Novanta si stabilirono in Italia soprattutto gruppi di terroristi algerini. Essi hanno utilizzato il nostro Paese come base logistica e per fare proselitismo. Ma si trattava di gruppi isolati che hanno sfruttato i flussi migratori dei loro connazionali in Europa. Essi si sono innestati nelle comunità etniche per mimetizzarsi meglio e si sono spesso radicati attorno a luoghi di culto, moschee e centri islamici. Una presenza rilevante riguarda nel nostro Paese gli algerini del Gia (Gruppo islamico armato) e di Takfit w-al-Higra (Anatema ed Esilio), poi di egiziani (al-Jihad e al-Gamà al-Islamia) e di marocchini. Ma negli ultimi 5-6 anni in Italia, numerosi ed importanti si sono rivelati anche gli integralisti tunisini, oppositori del regime di Ben Ali, ben radicati a Milano aderenti al Gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento.

Le indagini hanno consentito di accertare anche le attività di copertura, spesso costituite da attività imprenditoriali autonome, società di servizi di pulizia o di fornitura di servizi commerciali in genere, aziende di import-export, cali center. Si annoverano tuttavia tra gli estremisti anche studenti, tecnici specializzati, artigiani, operai, disoccupati, che vivono in modo assolutamente regolare, attenti a non

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destare sospetti, soprattutto nell'hinterland delle grandi città, dove è più facile mimetizzarsi. Le moschee continuano a rappresentare lo snodo delle varie cellule fondamentaliste, non necessariamente in quanto centro di estremismo ma comunque di agevole contatto. Il ruolo delle cellule islamiche in Italia, finora, è stato principalmente di supporto logistico, anche di altri gruppi operanti all'estero, soprattutto con finanziamenti e la fabbricazione di documenti falsi. Le indagini hanno dimostrato infatti che il procacciamento di documenti falsi di buona fattura rappresenta una delle attività fondamentali per lo svolgimento dell'attività terroristica. La disponibilità di documenti affidabili per livello tecnico di falsificazione consente ai responsabili dei gruppi terroristici o ai potenziali esecutori di attentati, di spostarsi con pochi rischi. Salvo rare eccezioni, non sono state trovate armi nella disponibilità di terroristi o sospetti all'atto del loro arresto o delle perquisizioni subite, anche se spesso le attività tecniche hanno evidenziato anche questi traffici. Le cellule si autofinanziano svolgendo attività delinquenziali comuni, furti, traffico di stupefacenti, tradizionalmente condannate dalla legge islamica, ma giustificate dalla finalità perseguita (takfir).

Verso la fine degli anni `90, i risultati ottenuti con l'azione repressiva dei Paesi della fascia nord africana e maghrebina e le divisioni in seno alle principali organizzazioni terroristiche determinavano l'affievolimento della forza dei gruppi terroristici algerini, con l'eccezione del G.S.P.C. Le indagini sul "Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento" (nato da una scissione del GIA) avevano interessato soprattutto la Campania dove erano presenti algerini aderenti a tale sodalizio, dediti a traffici internazionali di documenti falsi, con collegamenti con le aree di Milano, Vicenza e Santa Maria Capua Vetere e con soggetti operanti in altri Paesi europei.

In questo quadro, l'Italia, anche per la sua collocazione, si conferma importante snodo internazionale, ove reti estremistiche islamiche installano le proprie strutture di sostegno, finalizzate alla ricerca di falsi documenti o altro materiale logistico, al reperimento di fondi, all'aiuto nei confronti di coloro che devono sottrarsi alle ricerche di altre autorità. In Italia si sta anche assistendo a forme nuove di dislocazione territoriale dei jihadisti che molto spesso si spostano dalle grandi città verso località periferiche ove i controlli vengono ritenuti minori. Le moschee mantengono un ruolo importante per il fondamentalismo islamico, poiché frequentemente vengono utilizzate per la diffusione di messaggi propagandistici di contenuto radicale e di tono antioccidentale rivolti alla comunità dei fedeli. In questi casi, il confine tra libertà di culto ed attività illegali può facilmente essere superato, con una costante azione di proselitismo e con vere e proprie attività di finanziamento, attraverso la zakat.

Per quanto concerne eventuali connessioni con i sodalizi criminali territoriali, il più concreto elemento che dimostra l’esistenza di collegamenti tra le associazioni terroristiche internazionali e la criminalità comune italiana consiste nella ampia ed accertata disponibilità, da parte delle prime, di documenti di identità di ogni tipo, spesso ricettati e molte volte falsificati, nonché nella possibilità di procurarsi, come si è prima detto, sostanze stupefacenti e banconote false. Sembra ragionevole supporre, infatti, che il relativo approvvigionamento sia realizzato presso delinquenti comuni, dediti a questi traffici lucrosi.

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E’ un fatto comunque che, salvo rarissimi casi, i procedimenti per fatti di terrorismo cd. islamico non hanno visto imputati cittadini italiani per questo tipo di reati, mentre è vero anche che spesso vengono arrestati cittadini marocchini, tunisini etc., trovati in possesso di documenti falsi o ricettati, senza che emergano elementi di sospetto circa loro collegamenti con gruppi terroristici14. Di seguito verranno sinteticamente illustrati i principali gruppi e le principali indagini svoltesi in Italia negli ultimi anni nel settore del terrorismo cd. islamico, cercando di raggrupparle a seconda delle specifiche organizzazioni terroristiche cui si riferiscono. Anche da questa schematica elencazione, sarà agevole rilevare come la realtà attuale denoti la sostanziale impossibilità di considerare gli indagati affiliati con precisione all’una o all’altra sigla, essendo ormai diventato sempre più complesso l’intreccio dei loro rapporti criminali.

14 Tra i casi più recenti va segnalato quello del cittadino marocchino EL KHAISSI M’Hamed, nato a Ouled Arif il 28.1.1973, che il 18.5.05 è stato fermato in Milano e trovato in possesso di documenti e materiale vario per realizzare falsi documenti di identità, permessi di soggiorno etc., di cui si sono forniti anche vari personaggi imputati di appartenenza ad associazione con finalità di terrorismo internazionale.

Il “GRUPPO ISLAMICO ARMATO” (“GIA”) Il “GIA” è stato formato in Algeria da reduci della guerra afgana ed è stato al centro di numerose ed importanti indagini condotte in Francia, Belgio, Gran Bretagna. Il “GIA” è stato formato in Algeria da reduci della guerra afgana. I primi contatti tra organizzazioni terroristiche stanziate in Algeria ed “AL-QA’IDA” avevano avuto inizio a Khartoum, nel 1992, e si erano conclusi con la promessa di “AL-QA’IDA” di fornire loro supporto logistico e finanziario, il che avvenne in favore del “GIA” almeno fino al 1995. Proprio in quel periodo, il gruppo aveva deciso di colpire la Francia, con l’appoggio di un simpatizzanti algerini in Belgio, individuati dalla polizia belga, l’1. 4.1995. Ciò aveva determinato la riorganizzazione della rete di sostegno in Francia. A Londra operava RACHID RAMDA, anch’egli veterano afghano, che, sempre a Londra, aveva collaborato alla rivista “Al Ansar” destinata alla propaganda di tutte le cause del jihad nel mondo ed in particolare al sostegno del “GIA”. Si ritiene generalmente che, a partire dal novembre 1995, JAMEL ZITOUNI, si fosse assicurato un’autorità assoluta all’interno dell’organizzazione che, si ricorderà, è responsabile dei massacri di popolazioni civili in Algeria. Dopo l’omicidio dello Zitouni, suo successore divenne Antar ZOUABRI, ma il movimento appare ormai indebolito da numerose dissidenze. Anche in quest’ultimo periodo, la formazione prosegue la sua ribellione armata per “la creazione di uno stato islamico in Algeria”, a seguito della definitiva rinuncia della cosiddetta “politica di riconciliazione”, avviata sin dal 1999 dal Presidente ABDELAZIZ BOUTEFLIKA. Si susseguono in Algeria attentati ed azioni di guerriglia urbana, anche a seguito all’arresto del leader dell’organizzazione, l’emiro RACHID ABOU TOURAH.

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Per lungo tempo, ed a partire almeno dal ’95, la componente algerina della galassia terroristica islamica è stata la più presente in Italia e quella che maggiormente ha attirato l’attenzione degli inquirenti. La presenza ed operatività in Italia di gruppi terroristici algerini è ampiamente documentata: nel corso del ‘96, l’inchiesta milanese denominata “Al Shabka” ha avuto ad oggetto ancora l’estremismo algerino, indagato proprio sul versante del sanguinario G.I.A. (Gruppo Islamico Armato). Il contesto entro il quale la cellula milanese si inquadrava appariva caratterizzato, infatti, dal più ampio progetto di ricostruzione in territorio nazionale di un reticolo di strutture di supporto all’azione dell’organizzazione, gravemente colpita da importanti operazioni di polizia realizzate in altri Paesi europei. A Bologna un’inchiesta sugli appartenenti del G.I.A. algerino ha avuto ad oggetto un elevato numero di persone (circa 40) per fatti riconducibili al medesimo periodo in cui si collocano quelli oggetto delle inchieste di Milano (anni 1996 e 1997). L’indagine bolognese, infatti, ha consentito di accertare numerosi contatti tra i gruppi operanti in tali aree geografiche. Il dibattimento si è concluso nel gennaio 2003 ed ha visto le condanne per il reato associativo (art. 416 c.p.) di circa una decina di imputati; reati fine della associazione vennero individuati (analogamente alle altre inchieste sul territorio nazionale) nella falsificazione di documenti, reati vari contro il patrimonio, spaccio di banconote false. Il gruppo bolognese degli affiliati al G.I.A. si è rivelato, anche ex post, di notevole spessore e interesse investigativo: per cinque degli imputati di quel processo è stata successivamente accertata la loro detenzione presso la base di X-Ray di Guantanamo Bay (Cuba), pare perché catturati sui campi di battaglia in Afghanistan. Attualmente la loro posizione è al vaglio delle autorità militari U.S.A. ed il processo per loro è sospeso. Un imputato, condannato a Bologna anche per il possesso di armi venne successivamente arrestato in Germania per fatti di terrorismo.

E’ attribuito al “GIA” l’assassinio del principe saudita TALLAL IBN ABDELAZIZ ARRASHID, avvenuto nella notte tra il 27 ed il 28/11/03 ad opera di miliziani armati che, in località Messaad nella regione di Djelfa, duecentosettantacinque chilometri a sud di Algeri, uccidevano anche sette membri della sua scorta e ferivano un numero imprecisato di dignitari sauditi. Questo episodio colloca il “GIA” fra i movimenti islamici armati che, di fatto, si prefiggono di agire aggressione contro l'Arabia Saudita, a sua volta presa di mira con la realizzazione di clamorosi attentati terroristici. In ambito europeo, la magistratura francese ha confermato, in appello, la condanna all’ergastolo dell’integralista algerino BOUALEM BENSAID, militante del “GIA” imputato di aver collocato gli ordigni esplosi in data 25/07/95 nella stazione della metropolitana francese “Saint Michel”, nel Quartiere Latino, in data 06/10/95 presso la stazione metropolitana “Maison Blanche”, e quella del “Museè d’Orsay” in data 17/10/95, attentati che causavano complessivamente la morte di otto persone ed il ferimento di duecentotrenta.

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La struttura italiana del “GIT”, ad esempio, facente capo nella zona di Milano al tunisino ESSID SAMI BEN KHEMAIS, veterano afgano, è risultata pacificamente operante in stretto collegamento con il GSPC. Sulla scorta delle risultanze e delle esperienze investigative acquisite all’esito delle indagini sviluppate nella zona di Milano negli anni ‘95/2000, nasceva l’operazione “Al Muhajirun” – strutturata in tre fasi fra loro collegate, conclusesi rispettivamente nell’aprile, nell’ottobre e nel novembre 2001 – condotta nei confronti di aderenti ad una cellula terroristica algerino-tunisina del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento attiva in Lombardia, gravitante intorno all’Istituto Culturale Islamico di Milano. E’ decisamente prevalente, in questa indagine, la componente tunisina che – è stato dimostrato – aveva stretto significativi rapporti di fratellanza militante con quella algerina nei campi di addestramento afgani. Uno dei provvedimenti di custodia cautelare in carcere veniva emesso nel 2001 a carico del cittadino belga di origine tunisina Maaroufi Tarek, di anni 36, residente in Belgio, che era risultato un importante ideologo islamista, anello di congiunzione tra varie cellule del Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento operanti in Inghilterra, Belgio, Spagna, Francia, Germania ed Italia. E’ interessante notare come il Maaroufi, non estradato a causa del suo status di cittadino belga, è stato arrestato, nel dicembre successivo, dalle autorità di Bruxelles, nel contesto delle indagini relative all’omicidio del leader storico delle forze afghane di opposizione al regime talebano Ahmad Shan Massud, avvenuto il 9 settembre 2001, due giorni prima i fatti di N.Y.C. e Washington. Le indagini, comunque, hanno consentito di accertare che il gruppo, organico al Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento, era capeggiato dal citato Essid Sami Ben Khemais e che esso fungeva da supporto logistico per reclutare militanti islamisti da indottrinare ed inviare successivamente in aree di guerra e

“GRUPPO SALAFITA PER LA PREDICAZIONE ED IL COMBATTIMENTO” (“GSPC”) L’evoluzione dei gruppi radicali fondamentalisti in Algeria e più in generale nell’Africa del nord, è caratterizzata da una costante evoluzione nelle alleanze e nelle associazioni dei gruppi e dei loro emiri. Un esempio di questa tendenza è il “GSPC” , operante soprattutto nella parte meridionale dell’Algeria. Nato dal “GIA”, veniva costituito da HASSAN HATTAB a seguito di disaccordi sulla strategia del “GIA”. Le divergenze si manifestarono sin dal 1996 e la fondazione del “GSPC” venne annunciata nel settembre 1998 su due giornali pubblicati a Londra, “AL SHARQ AL AWSAT” ed “AL HAYAT”. Elementi di altri gruppi salafiti in Algeria si sono riuniti o alleati con il “GSPC”, che intendeva presentarsi come erede del “GIA” “storico” ed incarnare la legittimità della jihad in Algeria. Appare utile rammentare che molti avvenimenti e documenti recenti hanno già dimostrato la volontà di alcuni alti responsabili del “GSPC” di sostenere la causa jihadista internazionale difesa da “AL-QA’IDA”: ciò, ovviamente, rischia di accrescere la minaccia terroristica, non soltanto in Algeria, ma anche in Europa. Peraltro, a partire dalla metà del 2000, il “GSPC”, grazie ai suoi simpatizzanti in Europa, aveva ricevuto il sostegno del movimento moujahidin in Europa, legato alla regione afghano-pakistana ed alla jihad cecena.

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segnatamente in Cecenia. L’impianto accusatorio è stato suffragato da sentenze di condanna ormai definitive: gli imputati sono stati ritenuti responsabili dei reati di associazione per delinquere, ricettazione, formazione di atti falsi e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nella seconda fase della indagine (conclusasi il 10 ottobre 2001), sono maggiormente emerse le connotazione transazionali del movimento salafita e ad anche il traffico di armi veniva in evidenza come uno dei fini della associazione per delinquere indagata. Anche per gli arrestati dell’ottobre del 2001 sono intervenute sentenze definitive di condanna per associazione per delinquere semplice e connessi reati fine. Le indagini hanno interessato anche l’Istituto Culturale Islamico di viale Jenner n. 50 a Milano ove, oltre ad ingente documentazione è stato rinvenuto un passaporto falso di Es Sayed Abdelkader Mahmoud. Nella sentenza di condanna del 2.2.04. il Tribunale di Milano ha posto in evidenza la circostanza che il gruppo dei condannati gravitava attorno alle due principali moschee milanesi.

Il MOVIMENTO ISLAMICO RADICALE MAROCCHINO Il movimento islamico radicale marocchino è sorto a seguito della radicalizzazione di movimenti marginali, determinati a creare anche in Marocco, attraverso violenza ed azioni clandestine, un regime rigidamente ispirato alle regole islamiche. Al momento della nascita del Movimento della Gioventù Islamica Marocchina, anche molti giovani marocchini si recarono, quali volontari, in Afghanistan. In tal modo nacque un nuovo movimento radicale, legato alle organizzazioni salafiste. Se questo movimento marocchino, essenzialmente formato da marocchini in esilio, è apparso più come un fenomeno di appoggio al “GIA”, sino al 1996, le indagini realizzate nei confronti dell'”HASM” e del “GIC” hanno permesso di stabilire che rappresenta ora un rischio reale, anche se, in Marocco, la sovversione armata sembra efficacemente contrastata.. Il movimento della GIOVENTÙ ISLAMICA MAROCCHINA (MJIM) nasce ufficialmente il 29.10.72, a Casablanca, replicando il modello dei "FRATELLI MUSULMANI" egiziani, una cui deriva radicale fu responsabile, nel 1981, in Egitto, dell’omicidio del presidente ANOUAR EL SADAT. Il “MJIM” aveva anche svolto azione di reclutamento tra i giovani dell'immigrazione marocchina in Europa, (ad eccezione della Francia e della Gran Bretagna, la comunità marocchina è generalmente la più numerosa tra gli immigrati maghrebini nei paesi europei). Due dei leaders operanti in Francia, ZINNEDINE MOHAMED e ZIAD ABDELLAH orientavano allora l'azione del “MJIM” verso il sostegno alla Jihad internazionale. Il 24/8/1994, alle 10.30, tre individui armati penetrarono nella hall dell'albergo Atlas Asni di Marrakech, uccidendo due turisti spagnoli e ferendone tre. L'intervento della polizia marocchina permetteva l'arresto successivo di otto individui. Quattro commandos terroristi, ciascuno composto da tre uomini, vennero identificati dai marocchini: gli arrestati denunciarono l'esistenza in Francia di vari gruppi di militanti diretti proprio da ZINNEDINE MOHAMED e ZIAD ABDELLAH che dovevano assicurare il trasporto di armi ed il compimento di atti terroristici in Marocco. Secondo diverse fonti ZINEDDINE, dopo la sua fuga dalla Francia, aveva potuto trovare successivamente rifugio in Siria , in Pakistan, in Turchia e poi in Bosnia.

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Esistono altri gruppi terroristici marocchini: il Movimento Combattente Islamico Marocchino (Al Harakat Al Islamiya Al Maghribia Al Moukatila - HASM) di cui la rivista L'Eco del Marocco (ultimo numero apparso nel novembre 1998), diffusa nel giugno e luglio ’97 anche dinanzi alla moschea di Cremona, è stato l’organo di propaganda ufficiale (auspicando la Jihad per rovesciare le istituzioni marocchine ed i suoi alleati cristiani ed ebrei), il Gruppo Islamico Combattente Marocchino il cui atto di fondazione, datato 16/6/1997, è stato sequestrato a Cremona il 10.2.98 (con una presentazione più accurata di quella rinvenuta in duplice esemplare un mese più tardi a Bruxelles). Nell’occasione sono stati anche scoperti documenti di identità falsificati, manoscritti sull'uso e la fabbricazione di armi, manuali di addestramento militare e di lotta clandestina oltre che videocassette di propaganda. Il documento del “GIC” contiene, sotto forma di prediche, un appello alla Jihad in Marocco. L'obiettivo principale annunciato di questo movimento è la guerra santa per rovesciare il regime “sceriffale”, ma esorta il popolo marocchino a combattere anche gli alleati di questo regime (gli ebrei ed i cristiani). Il testo, di perfetto rigore salafista, rivendica l'alleanza del “GICM” con altri gruppi combattenti salafisti. Diverse analisi consentono di ritenere che questi testi riflettono un’ideologia di gruppo ricalcata su quella del “GIA”. Nel luglio del 1998 è stato anche diffuso un comunicato proveniente da un'altra organizzazione marocchina fino ad allora sconosciuta, il Gruppo Islamico della Jihad Marocchina (GIJ). Quello si proponeva di ricostituire il "grande Marocco", vale a dire uno stato islamico ove si parlano lingue araba e berbera, delimitato ad ovest dall'Atlantico, a est dalla Tunisia e dalla Libia, a sud dai fiumi del Senegal, del Niger e dal Mali ed a nord dal Mediterraneo. Il “GIJ” ha ugualmente l'obiettivo di rovesciare il regime di HASSAN HATTAB, di lottare contro gli ebrei residenti in Marocco e le personalità straniere (politici, giornalisti, artisti) ostili all'Islam. Il “GIJ” sarebbe diretto dall'emiro ABOU ABDELLAH CHARIF. Dopo gli attentati di Casablanca del 16.5.2003 (che hanno determinato 45 vittime), comunque, l’attenzione degli inquirenti marocchini – e di tutto il mondo- si è concentrata sulla cellula integralista islamica Salafiya Jihadiya che ne è ritenuta la responsabile. La Procura Generale del Re presso la Corte d’Appello di Rabat, competente su tutto il territorio nazionale in materia di terrorismo, è convinta, sulla base delle dichiarazioni di vari adepti già condannati, che si tratti di un’organizzazione anch’essa costituitasi dopo il conflitto sovietico-afghano, che vanti articolazioni anche in Algeria e Tunisia. La stessa organizzazione risulta coinvolta nelle stragi di Madrid dell’11.3.2004. Nel mese di dicembre 2008 Rachid Ilahami, 31 anni, di mestiere saldatore, e Abdelkader Ghafir, 42enne operaio edile, marocchini, animatori del centro culturale "Pace Onlus" di Macherio, sono stati arrestati dalla Digos con l’accusa di aver dato vita a una cellula fondamentalista islamica pronta a colpire nei teatri di guerra ma anche nel nostro Paese. A parole, avrebbero voluto farsi saltare in aria contro un supermercato, la caserma dei carabinieri di Giussano e l’ufficio immigrazione della Questura di Milano.

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“ANSAR AL ISLAM” Il profilo di questo movimento islamico ed i primi indizi di legami con il terrorismo si ricavano dalle dichiarazioni rese alle autorità norvegesi dallo stesso fondatore, NAJMUDDIN FARAJ AHMAD, più noto come MULLAH KREKAR, nato a Sulaymania (Iraq) il 07/07/56, il quale, attualmente in regime di asilo politico in quel Paese, è stato sottoposto ad indagine successivamente all’inserimento dell’organizzazione “ANSAR AL ISLAM” tra i gruppi terroristici aventi legami con “AL-QA’IDA”, il 24/02/03, in base alla risoluzione ONU 1267/99. Il gruppo era stato fondato il 10/12/01 e traeva origine dalla fusione tra lo “I.M.K.” (“MOVIMENTO ISLAMICO DEL KURDISTAN IRACHENO”) e “JUND AL ISLAM” ed era composto da circa seicento membri di cui trecento militari; la maggior parte dei componenti era di origine curda, tranne undici membri arabi residenti nel Kurdistan e sposati a donne di quella etnia. “ANSAR” controllava una piccola enclave montuosa nel nord dell’Iraq sul confine iraniano ed aveva l’obiettivo politico di combattere il regime secolare di SADDAM HUSSEIN e le spinte occidentalistiche del “PUK” (“UNIONE PATRIOTTICA DEL KURDISTAN”) per creare, nel territorio controllato dal gruppo, uno stato islamico nel quale dare applicazione alla sharia (legge islamica). I soldati ricevevano indottrinamento sull’uso delle armi leggere, mentre solo alcuni seguivano un corso sull’uso di materiali esplosivi; gli stage erano gestiti da ex militari di etnia curda privi tuttavia di precedenti in Afghanistan o Cecenia. Esisteva un sistema di prelievo di tributi di circa dieci-dodici dollari USA per ogni veicolo impiegato nel commercio transfrontaliero verso l’Iran, contro garanzie di sicurezza; inoltre, esisteva una raccolta organizzata presso le varie moschee (zakat) realizzata dai sostenitori del gruppo presenti in Europa, USA ed Australia, i quali inviavano successivamente le somme di denaro attraverso il sistema della hawala banking20. Altre fonti indicano che il citato gruppo ha avuto origine sin dal settembre 2001, ma che già nell’agosto precedente alcuni dirigenti di gruppi islamisti del Kurdistan avevano effettuato visite ai dirigenti di “AL-QA’IDA” in Afghanistan, con la finalità di creare una base alternativa per l’organizzazione nel nord dell’Iraq; l’intenzione era quella di aderire alla lotta condotta dal network di BIN LADEN al fine di espellere gli ebrei ed i cristiani dal Kurdistan ed unirsi al jihad sottoponendo il territorio alle regole della legge islamica (sharia). L’organizzazione radicale curda opera nella zona montuosa posta tra l’Iran e l’Iraq conosciuta come “Little Tora Bora”; qui i membri del gruppo, di origine curda, irachena, libanese, giordana, marocchina, siriana, palestinese ed afghana condurrebbero addestramento alla guerriglia; circa trenta membri di “AL-QA’IDA” si sarebbero uniti ad “ANSAR” già dal 2001 e da allora la consistenza del gruppo sarebbe aumentata raggiungendo circa centoventi unità. Il sodalizio, che dispone di armi pesanti, mortai ed armi antiaereo, persegue la visione di un jihad globale, nel senso precedentemente descritto, di cui il più autorevole sostenitore è il luogotenente di BIN LADEN, AL ZAWAHIRI. Nell’anno 2001, i gruppi curdi “HAMAS” e “TAHWID” si uniscono nel gruppo “JUND AL ISLAM” che successivamente assumeva la denominazione di “ANSAR AL ISLAM”. L’obiettivo dichiarato dall’organizzazione era la distruzione della società civile e l’instaurazione nel Kurdistan iracheno di un regime salafita simile a quello talebano in Afghanistan, secondo il retaggio ideologico-religioso dei “FRATELLI MUSULMANI”. A tal fine, nell’organizzazione e nel territorio controllato dalla stessa viene bandita la musica, l’alcool, le fotografie, le donne sono interdette dall’istruzione e vengono obbligate a coprirsi il capo secondo i canoni tradizionali, gli uomini hanno anch’essi i segni esteriori distintivi dell’ortodossia islamista.

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La Procura della Repubblica di Milano, tra l’altro, ha ottenuto assistenza giudiziaria dalla A.G. norvegese provvedendo anche all’esame, in formale attività rogatoriale, del MULLAH KREKAR. Costui, nell’ammettere di essere stato fondatore e capo di Ansar Al Islam, ha specificato di avere abbandonato l’organizzazione dopo la sua svolta terroristica, essendosi in precedenza limitato a svolgervi attività legale, religiosa o politica. Ma sono state acquisite anche dichiarazioni rese nell’ottobre del 2003 da militanti di Ansar Al Islam, attualmente detenuti in Kurdistan, arrestati con esplosivo indosso con cui intendevano farsi esplodere in attentati suicidi, i quali hanno precisato di essere stati incaricati di quei programmati atti terroristici proprio dal Mullah Krekar.

La funzione di “ANSAR AL ISLAM” quale struttura destinata a recepire, contenere e dare nuovo slancio all’azione dei gruppi terroristici transfughi dall’Afghanistan, risulta peraltro da più indicazioni convergenti. Dopo l’intervento americano dell’ottobre del 2001 (Enduring freedom), e la campagna militare in Afghanistan contro il regime talebano, si determinavano la dissoluzione della struttura di “ALQA’IDA” e la conseguente diaspora dei dirigenti e dei membri verso località nuove, ritenute protette ed idonee agli scopi dell’organizzazione: Una delle zone in cui appartenenti ad “ALQA’IDA” avrebbero trovato rifugio e sostegno è stata proprio la località del nord dell’Iraq, al confine con l’Iran, regione territoriale controllata da “ANSAR AL ISLAM”. Risulta, infatti, che già nell’agosto del 2001 i dirigenti di alcune fazioni islamiche curde radicali si erano recati in Afghanistan presso la dirigenza della rete terroristica diretta da OSAMA bin LADEN al fine di creare una base alternativa per l’organizzazione nel nord dell’Iraq; infatti, in una sorta di documento programmatico erano state tracciate le linee guida di questa alleanza al fine di espellere gli ebrei ed i cristiani dal Kurdistan, condividere l’applicazione del jihad ed imporre in quelle località le regole della sharia. In sostanza, il fine ultimo di “ANSAR” – la creazione di un regime, simile a quello talebano, nel nord dell’Iraq – va ad inserirsi in questa fase nel progetto federativo internazionale di matrice terroristica, che fa riferimento alla fatwa emessa nel febbraio 1998, proposta dallo sceicco OSAMA bin LADEN e rappresentata dal “FRONTE MONDIALE ISLAMICO PER IL JIHAD CONTRO GLI EBREI E I CROCIATI”. La nuova struttura, pertanto, prendeva possesso delle regioni montuose del Kurdistan iracheno lungo la linea di confine con l’Iran, raggiungendo la dimensione massima di circa settecento combattenti affiancati da circa centocinquanta talebani di “AL-QA’IDA”; dalla data di insediamento nelle citate zone, l’organizzazione estremistica curda si è scontrata con la “UNIONE PATRIOTTICA DEL KURDISTAN” (“PUK”), movimento filo occidentale che, a sua volta, si opponeva ai tentativi di insediamento e di radicalizzazione sociale perseguiti dai seguaci di “ANSAR”. Tra i più noti leader terroristici che avrebbero trovato riparo presso le basi di “ANSAR” vi era il anche il giordano-palestinese FAZEL INZAL AL KHALAYLEH, più noto come ABOU MUSSAB AL ZARKAWI, ucciso dalle forze statunitensi nel 2006. Ormai, “ANSAR AL ISLAM” dispone di rappresentanti clandestini e coordina le sue attività di raccolta dei volontari con le organizzazioni terroristiche “OSBAT EL ANSAR” (Libano), “JAMAAT EL HAQ” (Libano), “AFHAD EL RASSOUL” (Arabia Saudita), “IBAD-C” (Turchia), “EL ISLAH OUA TAHADI” (Giordania), “BAITH EL IMAM” (Giordania), il “GSPC” , il “GIA” ed il “DHDS” (Algeria) ed altri piccoli gruppi.

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Detto questo sul leader e fondatore di Ansar Al Islam, al quale vennero peraltro sequestrati numeri telefonici di indagati in procedimenti pendenti presso la Procura di Milano, va specificato, quanto alle indagini sulle sue ramificazioni in Italia, che nel marzo e nel novembre del 2003 sono stati colpiti da provvedimenti restrittivi emessi dal G.I.P. di Milano, nonché, nel febbraio del 2004, da quelli emessi dal G.U.P. di Brescia, vari personaggi ritenuti aderenti a tale organizzazione, i quali sono stati già giudicati dalle Corti d’Assise di Milano e Cremona, nonché dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia ed in buona parte condannati per appartenenza ad associazione con finalità di terrorismo internazionale, ricettazione di documenti di identità ed agevolazione all’immigrazione clandestina sul nostro territorio.

L’attività investigativa ha documentato l’esistenza di una rete di reclutamento per l’invio di volontari/mujaheddin nei campi di addestramento situati a Kurmal, distretto di Sulemaniya, enclave curda nel Nord Iraq sotto il controllo di Ansar Al Islam, attraverso un percorso che partendo dall’Italia, prevedeva soste in Turchia e Siria, paesi in cui sono (o erano) presenti strutture di sostegno all’organizzazione. La cellula, con ramificazioni in altre città del Nord Italia, era altresì dedita al sostentamento logistico della “filiera”, attraverso il reperimento di falsi documenti d’identità e l’invio di somme di denaro ai fratelli combattenti. Altri imputati di origine nord africana (prevalentemente tunisina), accusati di violazione dell’art. 270 bis C.P. ed, in fatto, di avere avuto stretti rapporti operativi con Ansar Al Islam, verranno altresì giudicati a breve dalla Corte d’Assise di Milano, nell’ambito di procedimento scaturito dalla collaborazione processuale di due di essi.

In conclusione si fa cenno all’organizzazione HIZB UT TAHIR AL ISLAMI è oggetto di indagini più recenti ed è prevalentemente costituita da militanti marocchini e tunisini. Essa appare strutturata in Compagnie, impegnate costantemente nel reclutamento di adepti da inviare in aree “calde” quali l’Iraq ed l’Afghanistan, per addestramento militare e per commettervi azioni terroristiche. Le Compagnie risultano diffuse non solo in varie zone d’Italia ma anche in altri Stati dell’Europa occidentale, nonché in Algeria, Siria ed altre aree del Medio Oriente. Membri di tale organizzazione manterrebbero legami, anche indiretti, con la prima citata ANSAR AL ISLAM. Come in ogni altra inchiesta condotta in Italia, ancora risulta prevalente l’attività di falsificazione di documenti di identità e di agevolazione della immigrazione ed emigrazione clandestine.

Nel mese di dicembre 2008, due marocchini, Rachid Ilahami, 31 anni, di mestiere saldatore, e Abdelkader Ghafir, 42enne operaio edile, animatori del centro culturale "Pace Onlus" di Macherio, sono stati arrestati dalla Digos di Milano con l’accusa di aver dato vita a una cellula fondamentalista islamica pronta a colpire nei teatri di guerra ma anche nel nostro Paese. «Non c’è bisogno di raggiungere l’Afghanistan per sentirsi di Al Qaeda, possiamo

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combattere i miscredenti anche qui», ragionavano i due marocchini al telefono e, intanto, si "allenavano" per la missione a due passi dalla Villa Belvedere di Silvio Berlusconi, a Macherio, seimila abitanti in Brianza. Ogni sera, terminati i sermoni dai toni pacati, quando gli incontri pubblici nel vecchio magazzino di via Toti si concludevano, Ghafir e Rachid tiravano notte a studiare proclami diffusi dai leader di Al Qaeda e a scaricare da internet filmati sulle tecniche di lotta corpo a corpo e sulla fabbricazione di bombe. A parole, avrebbero voluto farsi saltare in aria contro un supermercato, la caserma dei carabinieri di Giussano e l’ufficio immigrazione della Questura di Milano. Dalle intercettazioni si evince che gli indagati, complessivamente una decina e che nei loro dialoghi rivendicavano la propria appartenenza ad Al Qaeda, avrebbero avuto inizialmente intenzione di utilizzare un camion di esplosivo. Resisi conto delle difficoltà, avrebbero ripiegato su alcune bombole ad ossigeno il cui uso era stato tratto da Internet.. Forse si trattava di cani sciolti ma infervorati da un radicalismo islamico che avevano imparato a coltivare e diffondere e che stava per concretizzarsi con l’ideazione dei primi attentati. Nel mese di marzo 2009 due presunti terroristi, un marocchino ed un tunisino, sono stati espulsi dall'Italia e rimpatriati nei paesi d'origine per motivi di sicurezza in quanto indagati per associazione con finalità di terrorismo internazionale. Gli investigatori hanno accertato che il marocchino viveva a Gaiarine da tempo, ma non si era integrato e più volte aveva manifestato sentimenti di ostilità verso l'Italia. Una delle sue attività principali, sottolineano le fonti, era quella di svolgere attività costante di proselitismo della jihad, ripetendo spesso che "il credente é legittimato a concludere con il martirio il proprio percorso di vita spirituale". Il tunisino invece, è considerato il leader della comunità musulmana di ispirazione salafita del nord est, l'uomo però non svolgeva attività di predicazione ne' si era esposto con interventi pubblici: apparentemente, quindi, agiva come uno dei tanti lavoratori immigrati che sono impiegati nelle attività produttive del Friuli. Ma, secondo gli investigatori, manteneva invece stretti contatti con esponenti di gruppi integralisti islamici attivi in Tunisia e finanziati da Al Qaida, arrestati nel paese nordafricano in seguito ad alcuni scontri armati con le forze di polizia. In particolare, in una conversazione intercettata, avrebbe parlato di un attentato nel nostro paese enfatizzando gli effetti che potrebbero derivare dall'esplosione di una bomba. In Italia, il panorama integralista emerso, sembrerebbe essere distinto dalla presenza di ristretti circuiti di matrice estremista spesso raccolti intorno a personaggi carismatici con pregressa esperienza e trascorsi di militanza in organizzazioni terroristiche capaci di radicalizzare giovani conquistati alla causa. Tale fenomeno è parso, a similitudine di quanto già osservato in Francia, in crescita negli ambienti carcerari dove è stata riscontrata una pericolosa ed insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da soggetti

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condannati per appartenenza ad organizzazioni terroristiche in favore di detenuti connazionali e non quale attività di proselitismo. I riscontri investigativi hanno evidenziato che la Lombardia si conferma essere una delle principali piazze per la proliferazione del fondamentalismo di matrice islamica con continuo ricambio generazionale che vede l’ingresso in scena di nuove leve oggetto di attenzione da parte delle forze di polizia. E’ utile, a questo punto, prendere in esame alcune specifiche questioni relative ai possibili canali di finanziamento del cd. terrorismo islamico ed ai suoi eventuali contatti con la criminalità organizzata comune ed i gruppi terroristici interni: il tutto alla luce delle risultanze delle indagini effettuate in Italia. Non saranno qui trattati i problemi giuridici connessi all’applicazione della L.. n. 438/2001 sul finanziamento delle associazioni terroristiche od eversive, nè si parlerà, in dettaglio, dei provvedimenti di congelamento dei beni, delle società o dei soggetti inseriti nelle liste formate presso l’ONU (Comitato sanzioni del Consiglio di sicurezza - che ha il compito di dare attuazione alle Risoluzioni 1267, 1333 e 1390) o degli altri strumenti similari predisposti a livello internazionale o nazionale. Si è già visto come il finanziamento dei “combattenti” costituisca non solo una delle principali attività che impegna gli appartenenti ai gruppi inquisiti, ma anche una precisa ed ineludibile regola di comportamento. Tanto premesso, va detto che nell’esperienza applicativa: - non sono emerse prove di finanziamenti provenienti da supposti vertici collocati all’estero per lo svolgimento dell'attività quotidiana degli appartenenti a cellule terroristiche operanti in Italia; - non sono stati ancora individuati veri e propri casi di finanziamento, intesi anche in senso tecnico e continuativo, con ricorso, ad es., a strumenti bancari particolarmente sofisticati; - è stata raggiunta la prova giuridica piena della trasmissione di denaro (o addirittura della consegna) da determinati soggetti ritenuti appartenenti ad un’associazione terroristica a loro sodali coinvolti nelle stesse attività, spesso quando costoro si trovavano fuori dall’Italia, talvolta addirittura in campi di addestramento. Al riguardo, nel corso delle indagini, sono stati accertati trasferimenti di piccole somme di denaro (mai superiori a dieci milioni di vecchie lire) attraverso canali alternativi rispetto a quelli bancari, come ad es. quelli della Western Union; - è anche emersa la costituzione di piccole società intestate a personaggi sospettati di attività terroristiche, sicchè appare verosimile il loro utilizzo a scopi di illegale finanziamento delle stesse; - è stata raggiunta la prova, grazie anche alle dichiarazioni di alcuni collaboratori processuali, che l’attività dei gruppi terroristici in Italia è stata finanziata anche attraverso compravendita di banconote false e traffici di stupefacenti : ma in entrambi i casi non è possibile affermare che si sia trattato di attività concernenti quantità ingenti di banconote e stupefacenti. La realtà descritta per la situazione italiana, così come quella emergente dalla maggior parte delle indagini europee, sembra provare che finanziamenti

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provengono prevalentemente dal basso, cioè da attività criminali comuni di non elevato livello (traffico di stupefacenti, di documenti e banconote falsi) o dalle offerte di fedeli inconsapevoli, il che ovviamente pone agli investigatori problemi diversi.

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4. L’attività investigativa e di sicurezza nel contrasto al terrorismo

ornire una risposta definitiva ed esauriente per l’individuazione di metodologie di contrasto al terrorismo valide ed efficaci a debellare il

fenomeno sarebbe illusorio in virtù del fatto che ancora oggi il terrorismo è fenomeno complesso, il termine terrorismo non trova ancora una definizione generalmente accettata e non ultimo le misure di prevenzione e repressione sono talvolta controverse. Ci si propone pertanto di formulare osservazioni e riflessioni su quelli che possono essere dei criteri di riferimento sui quali poggiare la complessa opera di contrasto al terrorismo in considerazione di quelli che sono gli strumenti disponibili.

Il particolare atteggiarsi della minaccia derivante dal terrorismo di matrice islamica ha indotto i maggiori paesi d’Europa a creare dei tavoli o delle strutture destinate alla valutazione di tale insidia, alla condivisione delle informazioni tra Organismi di intelligence e di Law enforcement, alla predisposizione congiunta delle misure di contrasto. Il terrorismo ha una forte capacità di moltiplicare l’effetto delle sue azioni e di fare proseliti, padroneggiando, ormai, i più moderni mezzi di comunicazione. È multiforme, potendo impiegare tutti gli strumenti – convenzionali e non convenzionali – facilmente reperibili nelle moderne società tecnologiche. Come ha avuto modo di evidenziare il Prof. Vittorfranco Pisano15 Il terrorismo può essere praticato a livello di mera tattica, in via occasionale e quindi non sistematica, da agitatori sovversivi di varia matrice o può manifestarsi come un vero e proprio stadio nello spettro della conflittualità non convenzionale. Quando si manifesta come stadio, il terrorismo costituisce il passaggio dall’agitazione sovversiva per lo più di strumenti non violenti o comunque non clandestini, ad una fase più avanzata della conflittualità non convenzionale. Sia gli agitatori sovversivi sia i terroristi di stampo politico o politico-religioso mirano generalmente a raggiungere lo stadio finale, ovvero la rivoluzione. Va altresì distinto il terrorismo interno da quello internazionale (talvolta denominato transnazionale), il quale coinvolge i cittadini o il territorio di due o 15 Il Professor Vittorfranco Pisano, colonnello t.SG (Ris.) della Polizia Militare dell’Esercito degli Stati Uniti d’America, è specializzato in istituzioni politiche comparate e sicurezza internazionale. Laureato in Scienze Politiche e in Giurisprudenza, è attualmente docente del corso sul Terrorismo e Conflittualità Non Convenzionale nel Master in Intelligence & Security presso la sede romana (Link Campus) dell’Università di Malta. Ha precedentemente insegnato presso la Georgetown University, il Defense Intelligence College, lo U.S. Army War College, la Troy State University European Division, l’Università degli Studi di Urbino e la John Cabot University. E’ stato consulente della Sottocommissione per la Sicurezza e il Terrorismo del Senato degli Stati Uniti ed è tuttora revisore dei corsi gestiti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nell’ambito del Programma di Assistenza Anti-Terrorismo.

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più Stati. Entrambe le forme costituiscono una minaccia all’ordine pubblico e, in determinati casi, anche alla sicurezza nazionale e alla stabilità geopolitica regionale. La minaccia del terrorismo interno, ancorché embrionale, era riscontrabile già dagli anni Sessanta, mentre quella transnazionale era già sorta tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. A titolo di esempio basta ricordare, da un lato, aggregazioni endogene − longeve e di varia natura − quali il Front National de Libération de la Corse (Francia), la Rote Armee Fraktion (Germania), le Brigate Rosse (Italia), il Provisional Irish Republican Army (Regno Unito) ed Euzkadi ta Askatasuna (Spagna) e, dall’altro lato, aggregazioni palestinesi laiche, ma con sfumature politiche o ideologiche diverse, quali Fatah, Settembre Nero, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte Popolare della Palestina–Comando Generale. A partire dalla metà degli anni Novanta, la potenziale minaccia più visibile e maggiormente inquietante è costituita dal terrorismo di stampo prevalentemente esogeno e nel contempo politico-religioso, piuttosto che precipuamente politico. Tra gli strumenti ordinari disponibili16 per combattere il terrorismo si è preferito focalizzare l’attenzione sull’intelligence e sull’attività preventiva e repressiva di polizia. Non vi è dubbio sul fatto che il contrasto al terrorismo necessita di una solida base informativa leggibile e facilmente interpretabile quale immediato supporto per il potere decisionale unitamente ad una attenta analisi della minaccia Nel mutato contesto storico caratterizzato da una conflittualità non convenzionale è ravvisabile la necessità di un adeguamento dell’intelligence per far fronte a nuove e sfuggenti sfide caratterizzate dalla presenza sullo scenario di attori e metodologie non tradizionali. Negli ultimi vent’anni, l’evoluzione straordinaria dei sistemi di informazione e comunicazione e delle tecnologie ad essi collegate ha influenzato il processo decisionale di policy-maker. La gestione delle informazioni deve comportare un continuo flusso di dati, una standardizzazione dei linguaggi e della procedure, potenti funzioni di ricerca e strumenti sofisticati di indicizzazione-visualizzazione che consentano i più svariati collegamenti relazionali, temporali, georeferenziali, cui deve essere aggiunto un apporto notevole in termini di risorse umane adeguate.

In ordine alla collection, occorre sottolineare che tale raccolta informativa, in un continuo cammino evolutivo, può avvalersi di diverse fonti che secondo l’ormai acquisita terminologia anglosassone, corrispondono a quelle umane (“HUMINT”-Human intelligence ), elettromagnetiche (“SIGINT”- Signal 16 (1) l’intelligence, (2) la sensibilizzazione della popolazione, (3) la responsabilizzazione

dei mezzi di comunicazione di massa, (4) la formazione professionale, (5) le operazioni

preventive e repressive di polizia, (6) la diplomazia, (7) gli accordi internazionali, (8) la

collaborazione bilaterale e multilaterale, (9) le sanzioni, (10) gli incentivi economici, (11)

le operazioni psicologiche e (12) l’aggiornamento istituzionale e giuridico.

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intelligence, “ELINT”- Electronic Intelligence, “IMINT”- Imagery Intelligence) ed aperte, costituite da documenti, studi, stampa, Internet. In particolare per ciò che concerne la parte relativa alla raccolta di comunicazioni e segnali cosiddetta SIGINT17 (Signal Intelligence) occorre evidenziare preliminarmente che, la clandestinità terroristica incide fortemente sull’attività di intercettazione preso atto che le varie aggregazioni non operano da basi fisse e spesso si avvalgono di comunicazioni tramite interposta persona o con messaggi depositati, recentemente sempre più con l’ausilio della rete. Il 90% delle informazioni sono ricavate dalle fonti aperte, l’OSINT, la quale senz’altro costituisce un importanza e tra l’altro negli ultimi tempi è cresciuta considerevolmente a discapito della Human Intelligence; due sono le principali caratteristiche che evidenziano tale crescita e sono dovute alla enorme quantità di informazioni ricavanti e dal basso costo che tale fase di acquisizione comporta. La risorsa umana è stata messa da parte per far spazio alle nuove tecnologie investigative e di intelligence: più IMINT e TECHNINT le quali insieme all’OSINT hanno costituito il quadro di ricerca principale delle informazioni. La diffusione capillare ed enorme di informazioni che attualmente esistono e sono rintracciabili attraverso i vari canali mediatici precludono una istantaneità di analisi, poiché intrinseche l’una all’altra e spesso cornice di quadri destabilizzanti o celanti la natura propria della notizia o dell’informazione. Le fonti umane cosiddette HUMINT (Human Intelligence) a parere di chi scrive, rimangono il veicolo principale per l’acquisizione diretta di informazioni e per seguire tracce di interesse sebbene ciò comporti di conseguenza l’uso di infiltrati e di informatori, questi ultimi non sempre affidabili. Il compito dell’HUMINT è proprio quello di acquisire informazioni provenienti da fonti umane per identificare intenzioni, composizione, forza, tattiche, equipaggiamenti, personale e capacità dell’avversario. In tale contesto assume particolare importanza l’individuazione di ogni fattore storico, politico, sociale religioso o di altra natura passibile di sfruttamento da parte dei terroristi. Contemporaneamente diventa determinante identificare la presenza di una o più aggregazioni radicali, potenzialmente portatrici di disegni terroristici analizzando gli eventuali scritti ideologici per meglio comprendere finalità ed obiettivi. Un aspetto che deve essere oggetto di continuo monitoraggio e valutazione è il modus operandi delle varie aggregazioni. Infatti il livello di qualità e capacità varia da aggregazione ad aggregazione in termini di addestramento, scelta degli obiettivi e modalità operative. Il modus operandi, è indicativo delle potenzialità presenti e future di ciascuna aggregazione. Il fatto che due o più aggregazioni scaturiscano dalla stessa sottocultura non significa che condividano in tutto e per tutto le modalità

17 La Signal Intelligence è una categoria di acquisizione di informazioni provenienti dallo spettro elettromagnetico (onde elettromagnetiche caratterizzate da una lunghezza d’onda e frequenza )

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operative. Il modus operandi è, peraltro, soggetto a mutamenti nel corso del tempo. La struttura di un’aggregazione terroristica fornisce indicazioni circa il suo potenziale a breve e a lungo termine. La struttura e le dimensioni di ciascuna aggregazione condizionano non soltanto la sicurezza, la disciplina, l’addestramento, le leve di comando, il controllo, le comunicazioni, la pianificazione, le operazioni e la logistica, ma anche il ciclo vitale dell’aggregazione stessa. I militanti delle aggregazioni terroristiche vengono impiegati a tempo pieno, a tempo parziale o in entrambi i modi. Le aggregazioni terroristiche – per motivi di sicurezza monocellulari o pluricellulari e compartimentate – sono strutturate, secondo propri criteri selettivi, in forma rigida o flessibile con una leadership centralizzata o decentralizzata. Alcune di esse possono fungere da ombrello o rete per altre aggregazioni di minore entità che condividono gli stessi fini. In relazione alle strutture e al modus operandi delle aggregazioni terroristiche è parimenti opportuno analizzare quali di esse rappresentano la maggiore minaccia nelle aree d’interesse; quali sono le capacità informative e tecnologiche delle varie aggregazioni; quali tipologie aggressive sono attualmente e potenzialmente le più pericolose; quali mutamenti nelle strategie, strutture organizzative, scelta dei bersagli e dinamiche operative sono più rilevanti; e come si prospettano le potenzialità nel breve, nel medio e nel lungo termine con riferimento alla composizione numerica, all’intensità operativa e al raggio geografico di azione. Nel monitoraggio e nell’analisi delle strutture e del modus operandi è comunque sempre importante curare la memoria storica dato che il terrorismo attrae l’imitazione e manifesta forte continuità nella sostanza, pur variando nel dettaglio. Ci si rende conto che per combattere efficacemente il terrorismo fondamentalista, occorrono sì strumenti normativi incisivi e maggiori poteri per gli organi di Polizia e di Intelligence, ma appare ineludibile l’esigenza di prevenire le minacce attraverso una capillare raccolta di informazioni ed una loro valutazione congiunta tra tutti gli attori coinvolti nella lotta a tale fenomeno. Una soluzione pratica a tale necessità è stata individuata in Italia con la nascita del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, istituito per volere del Ministro dell’Interno quale tavolo permanente tra organismi di Law Enforcement e Servizi di Intelligence, per la condivisione e la contestuale valutazione delle informazioni inerenti la minaccia terroristica interna ed internazionale. La costituzione di quello che d’ora in avanti verrà più semplicemente indicato con l’acronimo C.A.S.A., dopo una prima fase sperimentale protrattasi dal 30 dicembre 2003 al 14 maggio 2004, è stata formalizzata con il D.M. 6 maggio 2004, recante il Piano Nazionale per la gestione di eventi di natura terroristica unitamente alle procedure e le modalità di funzionamento dell’Unità di Crisi, ai sensi della legge n. 133 del 2 luglio 2002.

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L’Organismo de quo espleta in generale i compiti di analisi e di valutazione delle segnalazioni particolarmente rilevanti relative al terrorismo interno ed internazionale, che confluiscono presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, per poi dar corso alle misure preventive attraverso il canale delle autorità provinciali di pubblica sicurezza. Il C.A.S.A. si atteggia a vero organo di elevato spessore sia sotto il profilo decisionale che di coordinamento delle successive iniziative preventive che le Forze di Polizia intendono intraprendere, in modo da evitare duplicazioni o inutili sovrapposizioni che in questo settore assumono non solo una valenza negativa in termini di efficacia ed economicità dell’azione, ma possono cagionare anche eventuali lacune o spazi vuoti destinati a riverberarsi sulla sicurezza nazionale. Il modus operandi della Struttura si estrinseca in una costante consultazione e in un meccanismo di raccordo tra le varie componenti che permette una penetrante analisi delle informazioni che vengono così approfonditamente ponderate al fine di adottare le necessarie misure in senso preventivo e/o repressivo. Sul fronte delle iniziative operative intraprese, il Comitato ha individuato quali interventi di interesse strategico a livello nazionale:

- Il monitoraggio della rete internet con riguardo ai siti jihadisti ed in particolare ai fora di discussione che rappresentano tra le più importanti fonti aperte destinate a fornire una misura del grado di ricettività e di penetrazione del messaggio promanante da Al Qaeda e dalle Organizzazioni che ad essa si ispirano;

- Le attività di prevenzione espletate mediante il controllo dei luoghi di aggregazione abitualmente frequentati da elementi radicali come call center, internet point, money transfer o direttamente condotti su soggetti contigui ad ambienti fondamentalisti ;

- Individuazione ed espulsione con decreto del Ministro dell’Interno di elementi pericolosi ;

- Approfondimenti sui canali di finanziamento demandati alla Guardia di Finanza.

Ancora oggi sono importantissime le intercettazioni telefoniche ed ambientali quali strumenti investigativi a disposizione contro fenomeni criminali di una certa gravità. La sterilità di certe polemiche su presunti abusi in questo campo è dimostrata dal fatto che tali polemiche intervengono solo in determinati casi e per una certa tipologia di imputati. Il tema delle intercettazioni preventive- con riferimento non solo alla disciplina regolatrice ma anche alle finalità cui sono mirate – è di grande attualità, almeno da quando il New York Times ha svelato nel novembre 2005 l’autorizzazione del presidente Bush a monitorare milioni di telefonate di cittadini statunitensi senza autorizzazione del giudice. La Casa Bianca non ha negato tale prassi, l’ha giustificata in nome della lotta al terrorismo e della necessità di prevenirne le manifestazioni. Infine, ha accusato il quotidiano newyorkese di avere recato un grave danno alla sicurezza dello Stato attraverso la pubblicazione dei suoi articoli di denuncia.

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Il tema delle intercettazioni preventive è in ogni caso oggetto di serrato dibattito tra gli addetti ai lavori, anche se – alla luce di quanto sostenuto da numerosi magistrati – non è possibile affermare che in Italia si sia registrato fino a questo momento un abuso o anche solo un uso quantitativamente eccessivo di questo strumento da parte dei Servizi di Informazioni. Si tratta di una constatazione decisamente confortante specie se si pensi ai livelli ed alle dimensioni che il fenomeno ha raggiunto negli Stati Uniti (dove, peraltro, non interviene alcun provvedimento da parte dell’Autorità Giudiziaria). Il relativo dibattito, anzi, ha superato l’ambito strettamente giornalistico e politico per approdare alle aule giudiziarie: infatti, il 17.8.06, dopo che il New York Times, alla fine del 2005 – senza piegarsi alle pressioni della Casa Bianca – aveva rivelato il programma di intercettazioni segrete (TSP – Terrorist surveillance program), è intervenuta negli Stati Uniti una sentenza lapidaria, destinata a passare alla storia “L’America non ha monarchie ereditarie ed il suo governo non ha poteri non previsti dalla Costituzione” ha sancito un giudice federale di Detroit che ha bollato come “anticostituzionali” le intercettazioni telefoniche e di e-mail effettuate dall’amministrazione Bush su cittadini americani, senza autorizzazione del giudice. “Non è mai stato nelle intenzioni dei Padri fondatori dare al Presidente un così illimitato potere di controllo – prosegue il documento – in particolare quando le sue azioni sono palesemente in contraddizione con i fondamenti della Carta dei Diritti”. Con queste parole, il giudice Anna Diggs Taylor ha ordinato al Governo USA di interrompere “immediatamente” le sue intercettazioni, definendole “un gravissimo abuso di potere da parte del presidente George W. Bush”, il quale “nel non rispettare le procedure legislative – si dice nel provvedimento di 44 pagine – ha sicuramente violato il primo ed quarto emendamento della Costituzione”(sulla tutela della privacy, ndr.), nonché “la dottrina della separazione dei poteri e le leggi sulle procedure amministrative”. Come si vede il dibattito sulla linea di demarcazione tra esigenze di sicurezza e difesa sociale da un lato e diritti e garanzie dei cittadini dall’altro è attuale e sempre aperto e proprio negli U.S.A. – ove più drammaticamente è stato condotto l’attacco del terrorismo internazionale – si levano autorevoli voci critiche nei confronti delle scelte politiche di quell’Amministrazione. I dati utili per le indagini sono di varie natura e provenienza: non solo quelli derivanti direttamente dalle intercettazioni telefoniche, ma, sempre più frequentemente, anche quelli desumibili dal web dalle banche dati on line (costituiscono “collezioni” di informazioni specializzate, generalmente accessibili via Internet e tramite abbonamento) e dai tabulati telefonici. I tabulati telefonici sono sostanzialmente documenti cartacei od informatici dai quali è possibile desumere dati relativi a relazioni personali (desumibili dalla individuazione di conversazioni telefoniche tra numero chiamante e numero chiamato, dall’accertamento dei rispettivi intestatari o degli utilizzatori di tali numeri), alla loro intensità (desumibili dalla durata e frequenza delle conversazioni) e, in alcuni casi, per quanto ovviamente concerne la telefonia mobile, al posizionamento di coloro che conversano ed agli orari di tali posizionamenti (desumibili dal luogo ed orario in cui gli apparati “agganciano”

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le celle di telefonia mobile all’atto dell’effettuazione delle conversazioni telefoniche). Come ben si comprende, trattasi di uno strumento investigativo che, contrariamente alle intercettazioni, il presupposto delle quali è sempre l’attualità della conversazione, consente di rivolgere uno sguardo investigativo anche al passato, scontando come unico limite quello della conservazione temporale dei dati presso le compagnie telefoniche. I dati esterni alla comunicazione possono essere non solo raccolti quando ormai la comunicazione è avvenuta da tempo, e quindi sotto forma di documento (come avviene, appunto, con l’acquisizione dei tabulati), ma possono anche essere colti in contemporanea alla comunicazione. Questa operazione, che fornisce alle autorità inquirenti i dati esterni alla comunicazione contemporaneamente alla fonia, viene definita “tracciamento” e altro non è che l’evoluzione di quella che, con le vecchie centrali elettromeccaniche, si chiamava “blocco” della chiamata: attraverso il “blocco” – cioè l’arresto degli organi di commutazione su tutta la rete – si poteva materialmente seguire il tracciato della comunicazione all’interno della rete stessa e così individuare la linea del soggetto chiamante. La tecnica del “blocco della chiamata” è stata utilizzata soprattutto negli anni ’70 nelle indagini concernenti i sequestri di persona a scopo di estorsione; anzi, prima che tale tecnica di investigazione diventasse nota ai criminali, furono numerosi i casi di “telefonisti” di bande di sequestratori arrestati mentre, in lunghe conversazioni telefoniche, contrattavano con le famiglie del sequestrato o con loro emissari il pagamento del riscatto e le sue modalità. Un altro strumento efficace di contrasto al fenomeno del terrorismo è la confisca delle risorse finanziarie e patrimoniali delle associazioni terroristiche. Sul piano nazionale, infatti, l’art. 270 bis cp, ultimo comma, contiene, in materia di confisca di beni che vennero utilizzati per commettere il reato o che ne costituirono il prodotto o il profitto, una previsione analoga all’art. 416 bis cp, penultimo capoverso: la confisca obbligatoria nei confronti del condannato. Essendo tale confisca subordinata alla condanna, è evidente che la citata disposizione si riferisce alla ipotesi in cui si acquisiscano, nell’ambito di una indagine penale, prove sufficienti alla condanna per appartenenza ad associazione agente con finalità di terrorismo o eversione. Ma l’azione di contrasto al finanziamento del terrorismo non si svolge certo solo sul piano giudiziario, ma anche su quello politico-amministrativo, in dipendenza di scelte che sono state e vengono adottate ed aggiornate a livello internazionale, anche sul presupposto – in astratto non contestabile – che pure istituzioni di beneficenza ed organizzazioni non lucrative (le cd. charities) potrebbero essere utilizzate e sfruttate quali strumenti di copertura per il finanziamento di azioni ed organizzazioni terroristiche.

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In un caso e nell’altro, appare evidente l’importanza delle indagini in tema di finanziamento del terrorismo. Al fine di individuare le più idonee modalità di conduzione di questo tipo di indagini, è preliminarmente utile tracciare una breve sintesi di quanto emerso in ordine ai canali di finanziamento del cd. terrorismo islamico (posto che il finanziamento di quello interno non presenta particolari incognite, essendo noto che esso avviene prevalentemente attraverso rapine e, comunque, non certo attraverso canali sofisticati), attraverso le indagini effettuate in questi ultimi anni in Italia. E’ opportuno specificare che, quanto al contrasto del finanziamento del terrorismo cd. islamico, devono ancora essere compiuti molti sforzi per renderlo efficace sia perché le indagini condotte in questo settore, nonostante la creazione delle Financial Intelligence Unit, risultano decisamente poco coordinate tra le autorità dei vari paesi interessati, sia perché la sensazione che si ricava dal quadro normativo vigente è quello di un complesso di norme e strutture pensate per contrastare soprattutto il finanziamento del terrorismo attraverso ipotetici e sofisticati canali finanziari e bancari. La realtà, così come quella emergente dalla maggior parte delle indagini europee, invece, sembra provare che finanziamenti provengono prevalentemente dal basso, cioè da attività criminali comuni di non elevato livello (traffico di stupefacenti, di documenti e banconote falsi) o dalle offerte di fedeli inconsapevoli, il che ovviamente pone agli investigatori problemi diversi. L’attività di prevenzione e contrasto al finanziamento delle organizzazioni terroristiche focalizza l’attenzione essenzialmente sui canali di trasferimento del denaro. Nella lotta al finanziamento del terrorismo ciò che conta è tentare di ricostruire le tracce dei movimenti di capitali per bloccare eventuali finanziamenti di attività terroristiche. Ciò in considerazione del fatto che spesso, molti dei canali di finanziamenti utilizzati dalle cellule terroristiche sono di natura lecita e l’eventuale illecito potrebbe rimanere del tutto inosservato. In tal senso le organizzazioni terroristiche sfruttano a pieno le potenzialità offerte dai mercati finanziari globali per trasferire capitali da una parte all’altra del mondo senza lasciare alcuna traccia dei movimenti effettuati. Preso atto quindi della natura e delle modalità del finanziamento, l’efficacia delle misure di contrasto dipende in gran parte dal livello di collaborazione raggiunto dagli operatori finanziari nell’ambito di un generale sistema di prevenzione soprattutto finalizzato all’identificazione e successiva segnalazione di eventuali operazioni sospette. Per comprendere le modalità ed i mezzi con cui le cellule terroristiche si procurano capitali economici è indispensabile una attenta analisi investigativa seguendo tracce e mettendo in collegamento informazioni apparentemente non collegate tra loro e relative ad operazioni finanziarie di natura complessa. Tale azione può portare anche all’individuazione di gerarchie funzionali nell’ambito dell’organizzazione terroristica. Inoltre, vanno monitorati con attenzione i trasferimenti di denaro tramite canali cosiddetti alternativi a quelli regolari come ad esempio l’Hawala con il quali gli appartenenti a cellule terroristiche riescono a trasferire sempre con maggiore faciltà somme da una parte all’altra del mondo.

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L' Hawala è un sistema antico di secoli usato nel mondo musulmano per trasferire fondi, sopratutto da persona a persona. L'arrivo di immigrati musulmani in Europa ha fatto arrivare anche da noi questo sistema informale di money transfer. Il sistema Hawala assomiglia a quello che ogni persona di buon senso vorrebbe quando deve trasferire del denaro: -diffusione in ogni parte del mondo, anche nel più remoto villaggio -costi molto bassi per le operazioni -capacità di operare in qualsiasi valuta -riservatezza -assenza di burocrazia -operatori affidabili e conosciuti sia per chi paga che per chi incassa. Quanti sono i clienti del sistema Hawala? a quanti ammontano i pagamenti Hawala fatti in un hanno? Difficile da dire. Forse un miliardo di persone spedisce o riceve in media un migliaio di euro all'anno. L'Hawala è basato sulla fiducia. Se un hawaladar (un operatore del sistema Halawa) tradisce la fiducia dei clienti, questi ultimi perdono il loro denaro. Vediamo ora un esempio di come funziona il sistema bancario informale Hawala tra i musulmani. Una tipica transazione hawala per esempio a Dubai, nel Golfo Arabo, potrebbe funzionare così. Iqbal, un pachistano che lavora nella zona franca di Jebel Ali, viene pagato in contanti, in Diram, moneta degli Emirati Arabi Uniti. Iqbal vuole inviare i suoi soldi alla famiglia che sta a Karachi, così si rivolge ad un Halawadar e gli consegna 5.000 Diram. L'Halawadar manda una email o un fax a suo zio in Karachi (che è pure lui un halawadar) assieme ad un codice stabilito per ritirare la somma. La moglie di Iqbal ritira 80.000 rupie dall'hawaladar di Karachi. La transazione è semplice ed efficiente in confronto alla maggior parte delle alternative. Iqbal paga in un determinato giorno e sua moglie riceve i soldi il giorno dopo. Iqbal non ha bisogno di un conto bancario, nessuno gli chiede di riempire moduli complicati né di mostrare un codice fiscale. Iqbal non deve nemmeno avere a che fare con un tasso di cambio artificiale deciso dalla banca, in quanto l'hawaladar opera sul mercato ed ottiene un tasso di cambio stabilito dal mercato. La scelta di canali informali è adottata principalmente da molti musulmani nella ricerca della riservatezza, rapidità e rispetto dei precetti religiosi laddove i sistemi bancari nazionali dei Paesi ospiti non rispondono ai criteri cosiddetti Sharia-compliant. L’adozione del sistema Hawala ha mostrato la vulnerabilità in relazione ad infiltrazioni illecite finalizzate al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo. In alcuni casi si è preferito adottare l’agevole strada della repressione anche se andrebbero ricercate, soluzioni, forse più complesse, ma finalizzate all’integrazione di questa liquidità nel sistema economico e finanziario interno garantendo in tal modo un attento e continuo monitoraggio del movimento dei relativi capitali. L'azione di contrasto alla minaccia del terrorismo si presenta dunque complessa anche nella configurazione giuridica delle risposte operative che gli attori dell'antiterrorismo nazionali ed internazionali possono avere a disposizione. La normativa sulle misure di congelamento, beninteso, non è di per sé esaustiva e va vista in una strategia globale di lotta al terrorismo che va

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condotta principalmente sul piano politico e sociale, ma anche di una cooperazione giudiziaria che consenta l'armonizzazione delle legislazioni nazionali e la trasparenza dei mercati finanziari. In tale ottica, l'intervento sui capitali e sulle risorse destinate al sostegno dei terroristi costituisce un elemento decisivo che può essere condotto con i diversi strumenti posti a disposizione dagli ordinamenti, con riferimento sia a quelli propriamente nazionali consentiti nelle indagini penali o nell'applicazione delle misure di prevenzione, sia a quelli derivati dalle misure disposte dalla comunità internazionale per la tutela della pace e della sicurezza internazionale. Il sistema normativo delle misure di congelamento, comunemente riconducibile alla nozione delle c.d. black list, nei suoi tratti salienti configura dunque risposte operative direttamente efficaci e in stretto coordinamento con l'apparato normativo già apprestato dal nostro ordinamento specie in materia di antiriciclaggio. Il processo evolutivo del jihad è passato e sta passando attraverso alcune fasi significative quali:la radicalizzazione, la frammentazione, la deterritorializzazione, il “franchising”. La conseguenza di questo processo è una nuova forma di jihadismo più flessibile ma meno coordinato; aperto a nuovi mercati di reclutamento ma meno omogenei sul piano culturale; mediaticamente rilevamente ma per questo più dipendente dalle tecnologie e competenze della comunicazione. Infatti, nella comunicazione web si ritrovano tutti i segni della frammentazione come incremento delle fonti legittimate a comunicare; della deterritorializzazione nella sintesi della nuova umma virtuale; della promozione del brand presso nuovi mercati. Il risultato di questa analisi evidenzia quelle rotte virtuali sulle quali si muove il moderno jihadismo. Proseguendo in questa direzione, una dovuta attenzione deve essere dedicata alle cosiddette nuove armi virtuali. In tal senso occorre rilevare che, gli sviluppi della tecnologia informatica e delle comunicazioni hanno rivoluzionato il concetto di sicurezza e modalità di investigazione. Le nuove cellule terroristiche sono sempre più caratterizzate dalla presenza di soggetti ben addestrati sull’uso delle tecnologie avanzate che vengono utilizzate per la pianificazione di attentati, per la propaganda, per l’arruolamento e per attività logistiche. Lo sviluppo tecnologico e l’uso dei principali strumenti da parte dei terroristi ha evidenziato la necessità di un adeguamento da parte dell’intelligence soprattutto in termini di analisi ed investigazione. La figura dell’operatore di intelligence deve essere sempre più calata in un contesto virtuale laddove, l’operatore deve possedere capacità di individuazione di siti internet sospetti, chat e blog di interesse sede di discussione tra appartenenti a cellule terroristiche. Il ruolo dell’operatore di intelligence in un contesto di strategia di contrasto deve essere visto sia in termini di analisi dei contenuti che di infiltrato nelle varie realtà virtuali. Quella che sembra una nuova battaglia dell’intelligence su un terreno virtuale, trova conferma già nel 2001 allorquando, dopo i noti eventi che colpirono gli Stati Uniti, l’allora assistente del Direttore dell’FBI nonché Capo del Centro

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Nazionale di Protezione delle Infrastrutture tale Ronald Dick, dichiarò che gli attentatori dell’11 settembre avevano fatto un proficuo uso di internet nella pianificazione e preparazione dell’attacco. Ecco che in un contesto di elaborazione di nuove strategie di contrasto occorre comprendere al meglio le modalità con cui i terroristi utilizzano internet e nel contempo adeguare e migliorare gli strumenti di monitoraggio ed analisi. Per anni gli esperti hanno focalizzato l’attenzione sulla minaccia costituita dal cosiddetto cyberterrorismo ovvero la possibilità per i terroristi di attaccare le reti infrastrutturali informatiche di un Paese dedicando forse poca attenzione al modo in cui i terroristi usano le reti informatiche. L’intelligence “moderna” deve necessariamente concentrarsi su una battaglia “globale” aperta a molteplici fonti, le recenti analisi informative confermano una evoluzione organizzativa delle cellule terroristiche oggi sempre più strutturate in piccole unità talvolta singole, sparse in giro per il mondo che eliminano la necessità di un comando centrale grazie allo sfruttamento delle reti informatiche che consentono di condividere e coordinare le loro attività a distanza. Nel caso dell’attentato a Madrid, si ricorderà che su un computer ritrovato dopo l’attacco ci fossero numerosi file scaricati da siti islamici che evidenziano una continua ricerca su web di informazioni ed istruzioni in particolare fu ritrovato il noto documento “Jihadi Iraq: Hopes and Ranger” in cui si suggeriva la Spagna tra i vari bersagli degni di essere colpiti. A parere di chi scrive nascono di conseguenza due necessità, da un lato, imparare a monitorare on line i terroristi così come li si pedina nel mondo reale e dall’altro accrescere le capacità di analisi automatica delle comunicazioni scambiate tra gli stessi nelle comunità virtuali. In tale ottica non appare utile provvedere alla disattivazione o all’oscuramento di siti o forum sensibili ma ha più senso lasciarli in vita con una attenta opera di osservazione. Le capacità offerte da internet consentono alle cellule terroristiche di estendere il raggio di azioni oltre i confini geografici del territorio permettendo inoltre di diffondere messaggi ad una platea molto ampia producendo una vera e propria guerra di idee che si svolge all’interno di chat rooms che diventano sempre più luoghi di propaganda e proselitismo sostituendo di fatto moschee e centri di aggregazione religiosa e culturale. Ed è proprio la chat che si afferma quale luogo privilegiato per la condivisione e la diffusione in maniera esponenziale e più velocemente delle idee radicali. In un contesto di veloce faccia a faccia diventa facile quindi creare gruppi che vanno ad infoltire le fila dei movimenti terroristici creando un ambiente virtuale dove i nuovi gruppi possono crescere e cementare le proprie idee e convinzioni. Quanto sopra descritto evidenzia la necessità di interventi mirati da parte dell’intelligence governativa, laddove si ritiene che rimanga prioritario il lavoro umano quale componente di un processo strategico di contrasto.

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Non deve essere trascurata la permeabilità psicologica dei terroristi e pertanto l’infiltrazione di operatori di intelligence in una comunità estremista on line con lo scopo di portare dubbi, sfiducia e confusione, può contribuire alla disarticolazione della rete terroristica con risultati concreti. Diventa fondamentale minare la fiducia che lega le cellule on line incuneandosi tra fazioni, e sfruttando errori e debolezze al fine di determinare il collasso dell’organizzazione. Il terrorismo è anche “fenomeno comunicativo”, la differenza sostanziale che esiste tra un criminale ed un terrorista è che quest’ultimo a differenza del primo cerca il riconoscimento simbolico che l’azione fornisce ricercando la platea offerta dal sistema mediatico sulla quale si propone quale attore protagonista. Un aspetto che va considerato nella strategia di contrasto è il fenomeno che và sotto il nome di “imported suicider bombers” sempre più utilizzato dai network terroristici, caratteristico di molti attentati in Israele. Il potenziale pericolo consiste nella possibilità che si crei una vera e propria scuola globale di suicide bombers costituita da soggetti non necessariamente connessi con l’estremismo islamico ma psicologicamente plasmati alle dinamiche dell’appartenenza ad un gruppo. Ciò che è accaduto a Madrid e Londra deve indurci ad alcune riflessioni. Madrid è stato il luogo del primo attentato eclatante in territorio europeo, Paese di forte simbolismo cristiano che poteva inoltre offrire l’appoggio di fazioni deviate dell’ETA. A Madrid i terroristi erano di importazione. Londra conferma le ipotesi già sviluppate in occasione dell’evento spagnolo ed evidenzia inoltre un nuovo aspetto legato al reclutamento tra le seconde generazioni di immigrati delle nuove leve delle organizzazioni terroristiche. In Inghilterra più che terroristi provenienti dai campo afgani o irakeni si è trattato di immigrati di seconda generazione allevati nelle tolleranti moschee londinesi dove la politicizzazione e la ricerca di una identità musulmana costituiscono l’indirizzo di azione. Come ha avuto modo di osservare Magdi Cristiano Allam, si tratta di giovani “globalizzati”, che non condividono però il sistema dei valori della globalizzazione e soffrono probabilmente di una male esistenziale diffuso tra i giovani musulmani basato su crisi di identità e di ideali. Particolare attenzione va dunque posta alla nuova generazione di attentatori “globalizzati”, alle loro motivazioni ed al loro stato sociale e culturale nonché ai loro moderni ispiratori. La preparazione degli aspiranti attentatori consiste in una parte spirituale ed in una militare. La prima avviene nelle moschee o via web attraverso la visione di filmati dedicati. Gran parte dell’ispirazione è ovviamente ricavata dal Corano laddove la fonte didattica, attraverso una interpretazione artata, è individuata nel versetto che recita: “colui che mette in pratica questa aspirazione riceve in premio settanta mogli vergini, un posto alla destra di Allah e un giorno, la ricongiunzione con i dieci membri della famiglia”. La parte militare si concretizza nel fornire all’allievo istruzioni e tecniche di costruzione di ordigni, detonatori etc..

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Oggi sempre più che mai il Computer diventa moschea, palestra, poligono di tiro dove i moderni attentatori, nascono crescono, si addestrano e come un dormiente attendono la chiamata come una bomba a tempo. Possiamo concludere che, allo stato attuale, la sopravvivenza di alcune organizzazioni terroristiche si basa fondamentalmente sulla capacità di reclutare nuove leve e soprattutto mantenere viva la loro motivazione ideologica. In questo processo diventa centrale il ruolo della comunicazione che consente all’organizzazione il costante coinvolgimento dei simpatizzanti ed il loro continuo indottrinamento. Una siffatta rivoluzione nel mondo del terrore è destinata a perdurare e soprattutto a migliorare in corrispondenza con lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione. Se da un lato è vero che dopo l’11 settembre il terrorismo internazionale ha perso molte delle sue basi operative è altrettanto vero che i santuari del terrore sono stati velocemente sostituite con basi operative “virtuali” che hanno già dimostrato la loro efficacia nel reclutare, mantenere coesione, organizzare ed indirizzare.