Le madri ebree non muoino mai
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Narratori Francesi Contemporanei
Le madri ebreenon muoiono mai
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NARRATORI FRANCESI CONTEMPORANEI
Collana diretta da Gianni Gremese
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Natalie David-Weill
Le madri ebreenon muoiono mai
romanzo
Traduzione dal francese diRosalita Leghissa
GREMESE
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Titolo originale:Les mères juives ne meurent jamais© Éditions Robert Laffont, S.A., Paris 2011
Copertina: Giulia Arimattei
Stampa: Tipografica Artigiana s.r.l. – Roma
Copyright edizione italiana:GREMESE2012 © New Books s.r.l. – Romawww.gremese.com
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essereriprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o conqualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.
ISBN 978-88-8440-746-7
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A Charles, Paul e Marie
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Tre madri di famiglia si incontrano per giocare amah-jong e si vantano del modo in cui i loro figli le coc-colano.
La prima dice: «Mio figlio mi adora a tal punto chein occasione del mio ultimo compleanno mi ha regala-to un magnifico cappotto per l’inverno».
La seconda rincara: «Il mio ha fatto di meglio. Ha ri-sparmiato durante un anno intero per regalarmi unacrociera alle Antille».
La terza assesta il colpo vincente: «Mio figlio è anco-ra più straordinario. Tre volte alla settimana va dallopsicanalista, e lo paga solo per parlare di me».
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Le Madri(in ordine cronologico)
Amalia Freud, nata Nathansohn (1835-1930), mogliedi Jacob; madre di Sigmund, Julius, Anna, Rosa, Mitzi,Dolfi, Paula e Alexander;
Jeanne Proust, nata Weil (1849-1905), moglie diAdrien; madre di Marcel e Robert;
Pauline Einstein, nata Koch (1858-1920), moglie diHermann; madre di Albert e Maja;
Minnie Marx, nata Schönberg (1865-1929), moglie diSamuel; madre dei Fratelli Marx: Leonard (Chico),Adolph (Harpo), Julius (Groucho), Milton (Gummo),Herbert (Zeppo);
Louise Cohen, nata Ferro (1870-1943), moglie di Mar-co; madre di Albert;
Mina Kacew, nata Iosselevna Borisovskaia (1883-1941), moglie di Arieh; madre di Roman (detto Ro-main Gary);
Nettie Königsberg, nata Cherry (1906-2002), moglie diMartin; madre di Allan (detto Woody Allen) e di Letty.
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Un paradiso riservato alle madri
«Dio ha inventato le madri ebree perchénon aveva tempo di fare tutto da solo».
Proverbio ebraico
«Piange, ho proprio l’impressione che pianga».«Ma perché?».«Forse non sa di essere morta?».«Non è un buon motivo per essere triste».«Ma lei, signora, ha dimenticato lo stato in cui era
quando è arrivata qui, nel paradiso delle madri ebree?».«Lei non c’era nemmeno!».«Me l’hanno raccontato!».«D’accordo, signora “so-tutto-io”».A piccoli passi, le due anziane donne che bisticciava-
no si avvicinarono a Rebecca, la quale non riusciva afrenare le lacrime. Suo malgrado. Come se il corpo lefosse scivolato via. E lei si lasciasse andare. Non capivache cosa le stesse succedendo, dal momento che nonaveva l’abitudine di piangere, né di sentirsi perduta osorpresa. Fino a quel momento, era riuscita a evitarequalsiasi imprevisto che potesse turbarla. Per non pro-vare paura e forse per non restare delusa, aveva presoin mano la propria vita e deciso, una volta per tutte, dimantenere il controllo della sua esistenza e delle sueemozioni. Si era imposta una disciplina ferrea che ave-
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va sempre seguito senza deroghe. Come altri amano levacanze e l’ozio, lei amava l’organizzazione, la pianifica-zione, l’ordine. Rebecca accumulava elenchi su ogni ar-gomento: le spese da fare, i libri che aveva letto, quelliche doveva ancora leggere (la cui lista era ben più lun-ga), i pensieri da non dimenticare, i viaggi da organizza-re, gli itinerari da conoscere, gli orari da pianificare…Non lasciava niente al caso.
Così si stupì di essere presa alla sprovvista. Che cosa lestava succedendo? Dove si trovava? Guardava quelle don-ne che potevano essere sue nonne, anzi bisnonne, vestitealla moda degli anni Venti. Un salto nel passato? Una fe-sta in maschera? Perché bisbigliavano osservandola? Sitrovava a casa di una di loro? Tentò di alzarsi aggrappan-dosi a un tavolo di nocciolo. Perché notava la qualità dellegno proprio mentre si sentiva tanto disperata?
La più minuta delle due anziane donne l’invitò adaccomodarsi su un profondo divano di velluto nero, scu-ro come il suo sguardo. Gli occhi a mandorla moltotruccati, i tratti del volto segnati dall’età, paffuta e conl’aria decisa, indossava un cappello con la veletta solleva-ta e un abito di pizzo acquistato sicuramente in un ne-gozietto a buon mercato. Sorrise e chiese gentilmente:
«Come si chiama?».«Rebecca Rosenthal, e lei?».«Io sono Louise Cohen, la madre di Albert», rispose
la donnina. «Forse ha sentito parlare di lui…».«La madre di Albert Cohen?», domandò Rebecca in-
timidita, come capita spesso quando ci si trova a incon-trare una persona famosa senza esservi preparati.«L’autore di Bella del Signore è suo figlio?».
«Glielo avevo detto che Albert è conosciuto», si ralle-grò Louise girandosi verso l’altra donna, più alta e piùimponente, che chiese con una punta di aggressività:
«E conosce anche i Fratelli Marx?».
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«Vuol dire che lei è la madre?».Minnie Marx rise di cuore. Sembrava uscita da un
romanzo di Erckmann-Chatrian, nel suo abito nero conlo scollo fermato da una spilla, i capelli ondulati e il vi-so tondo e troppo incipriato sul quale spiccava il rossodelle labbra dipinte.
«Si potrebbe dire che non sarebbero mai stati famosisenza di me!».
«La smetta di vantarsi, Minnie, così stancherà Rebec-ca».
«Affatto», replicò quest’ultima, «adoro i Fratelli Marx.C’era un tempo in cui tutte le domeniche sera andavo avedere i loro film in un cinema d’essai. I miei preferiti,La guerra lampo dei Fratelli Marx e Servizio in camera, eranoun vero antidoto alla mia vita troppo malinconica. Grou-cho mi faceva ridere con i baffoni, l’accento newyorkesee il suo assurdo senso dell’umorismo. Era lui quello chemi affascinava di più».
«Più di Chico?», domandò Minnie.Per evitare dissapori con la madre dei Fratelli Marx,
Rebecca parlò degli altri figli.«Erano tutti divertenti. Credo mi piacesse in partico-
lar modo ritrovare le stesse gag in ognuno dei loro film:Harpo davanti alla sua arpa, Chico con l’accento spasso-so, Margaret Dumont con l’aria indignata perché anco-ra una volta si era lasciata prendere in girodall’irresistibile Groucho».
«Noto che lei ha decisamente un debole per Grou-cho», osservò Minnie.
«Chi ha inventato walk this way1 è un genio», disseRebecca.
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1 Walk this way significa sia “seguimi” sia “cammina in questomodo”.
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Minnie non poté impedirsi di scoppiare a ridere e diimitare la tipica camminata di Groucho, a grandi falca-te, piegato in avanti e con il sigaro in bocca.
«E perché non parla di Albert?», domandò LouiseCohen.
«Bella del Signore mi aveva stregato. Solal è bello, in-telligente, seducente e disperato. Ero pazza di lui. Epenso che l’autore dovesse assomigliargli».
Louise Cohen arrossì di soddisfazione e assentì:«Sì, anche se lui lo negava, Solal e Albert hanno più
di un punto in comune».
Rebecca aveva la sensazione di essere a un esame delquale nessuno le aveva comunicato l’argomento. Sup-poneva che ci si aspettasse che fosse a conoscenza delmaggior numero di dettagli possibile sui figli Marx eCohen, e che non lesinasse complimenti al loro riguar-do. Fino a quel momento, non se l’era cavata troppomale. Ma si stupì di aver voglia di superare una prova dicui non conosceva la posta in gioco. Si trattava di addol-cire quelle donne? Di rimanere con loro? Era forsemorta? Però, non poteva essere morta senza che se nefosse resa conto! Non aveva attraversato nessun tunnel,non aveva visto una luce bianca, la sua vita non le erapassata davanti agli occhi negli ultimi istanti della suaesistenza…
«Vi ho sentito dire che sono morta. È impossibile,non ho avvertito niente».
«Non se ne è accorta», le disse dolcemente Minnie.Louise Cohen le domandò che cosa era successo pri-
ma del suo arrivo da loro.«Proprio niente».Rebecca si esaminò: riconobbe il suo pullover verde
preferito, i pantaloni di pelle scamosciata che le dona-vano tanto, gli stivaletti con i tacchi che le facevano ma-
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le ai piedi. Non era cambiato nulla, tranne quello chela circondava; si trovava in un salotto che non conosce-va.
«Qual è l’ultimo avvenimento che ricorda?», insistet-te Louise Cohen.
«Perché tortura questa povera ragazza? La lasci tran-quilla. È già abbastanza sconvolta così», disse Minnie.
«È lei che ha cominciato, Minnie. Non mi accusi.Rebecca sta bene. È solamente un po’ turbata, niente distrano».
Come mai quelle donne si permettevano di parlaredi lei come se non ci fosse? Rebecca si sentiva come la“nuova arrivata” che deve farsi accettare in un collegiofemminile, proprio lei che detestava le novità e la pro-miscuità. La situazione la sconcertava. Come era possi-bile che si ritrovasse insieme alle madri di Albert Cohene dei Fratelli Marx? Come mai si conoscevano? E per-ché rimanevano insieme, se litigavano su tutto?
«Mi domandava del mio ultimo ricordo…», disse Re-becca pensando che, se si fosse rifiutata di partecipare,non avrebbe scoperto nulla. Fu trascinata dalla curiosi-tà e decise di buttarsi.
«Sono stata catapultata fuori dalla mia automobile.Ricordo la pioggia che mi inzuppava i vestiti e qualcheistante più tardi ho avvertito un dolore acuto».
Minnie si impietosì:«Quanti anni ha? Sembra una bambina».«Trentotto. Non sono poi così giovane, sa?».«Dipende per che cosa».
Louise Cohen prese da parte Minnie Marx e le sus-surrò che non era il momento di rovinare tutto. Peruna volta che succedeva qualcosa, le sarebbe piaciutoconoscere ogni dettaglio. Soprattutto, non bisognavacontrariare Rebecca, che chiaramente non voleva accet-
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tare di essere morta. Se lo avesse appreso senza la deli-catezza necessaria, avrebbe potuto inibirsi ancora di piùe magari decidere di tacere o addirittura di andarsene!
Minnie si prese gioco di lei:«Lei si mostra premurosa con Rebecca per egoismo,
non per tranquillizzarla».«Perché, lei ha forse molte altre distrazioni?», si dife-
se Louise.«No, ha ragione».Insieme ritornarono da Rebecca, immersa nei suoi
pensieri.«Dunque, si è trattato di un incidente d’auto…», co-
minciò Louise per spingerla a raccontare.Rebecca prese a tremare, tanta era la violenza con
cui si ripresentavano la paura e il dolore che l’avevanoresa incapace di reagire.
«Siamo qui per aiutarla», disse Minnie con una gen-tilezza disarmante, «ci siamo passate anche noi».
Le due donne la guardavano senza manifestare im-pazienza. Aspettavano. Avevano tempo. Rebecca cercòdi ricordare. Prese a parlare lentamente per richiamarealla memoria i fatti, così come si erano verificati.
«Non vedevo niente, e i minuti passavano», spiegò. «Icapelli e il fango mi impedivano la visuale e mi rendevoconto, senza capire il motivo, che le automobili viaggia-vano di traverso. Bizzarro. Una bella inquadratura perun film, mi sono detta, come se la cosa non mi riguar-dasse. Eppure, ero sdraiata sull’asfalto e vedevo l’auto-strada fra il suolo e il telaio dell’automobile. Chiunqueavrebbe lottato per aggrapparsi alla vita. Io no. Io volevosolo che finisse il prima possibile. Mi ricordo di aver sen-tito dei passi frettolosi, voci nella mia direzione, una si-rena dei pompieri, persone che correvano… Credo chea questo punto io abbia perso conoscenza».
L’aveva colta il panico: non se ne parlava affatto di
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morire così presto. Non se lo aspettava. Aveva tanti ap-puntamenti quella settimana. Era piena di impegni.
«Di che genere?», domandò Minnie.«Sono professoressa di francese alla Sorbona, ho
corsi da tenere, elaborati da correggere, studenti da se-guire, ma soprattutto ho un figlio. Si chiama Nathan eresterà solo».
Impotente, Rebecca si lasciò travolgere dalla dispe-razione: era morta, questo era certo. Sulle prime si erasentita sollevata dal fatto che non avvertiva più quel do-lore insopportabile ma, ripensando agli ultimi avveni-menti, si disse che avrebbe potuto cercare di resistere enon lasciarsi morire. Avrebbe dovuto pensare a suo fi-glio. Ora lamentarsi non serviva più a nulla. Era mortae provava paura. Ciò che la spaventava non era il fattoche la sua vita fosse finita, ma l’aver lasciato Nathan.
Louise tentò di consolarla, precisando che non avevanessuna colpa se era morta; non si era mica suicidata.
«È stato un incidente. Non può farci nulla. Non haniente da rimproverarsi».
Pensierosa, Rebecca rimase in silenzio. Louise, te-mendo di vedere andar via la nuova arrivata, prese Min-nie da parte.
«Crede che ci troviamo davanti a una depressa?».«Come vuole che lo sappia, io? L’abbiamo incontra-
ta nello stesso momento».«Faccia qualcosa per tirarla su di morale. Sa essere
divertente, lei!».Minnie non era sicura di poter aiutare quella giova-
ne donna, bella e fredda come una statua. Non somi-gliava a loro. Era minuta, indossava i pantaloni, aveva icapelli biondi che le ricadevano sulle spalle, e poi lesembrava che fosse più sbalordita delle altre: si agitavadavvero troppo per suo figlio.
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«Che ne sarà di Nathan senza di me?», si chiese Re-becca. «Conosco tutto di lui: i silenzi, il sorriso appenaaccennato quando è orgoglioso di sé, i suoi attacchi dirisa, i nervosismi quotidiani. Ne so interpretare gli statid’animo. So che ha bisogno di due cuscini per dormiree che non tollera la minima coperta. Ricordo quel suosorriso mezzo addormentato che mi faceva sciogliereogni mattina. Solo io posso essere disposta ad ascoltarela musica indiana che lui adora e ad ammirare i suoisforzi per essere elegante quando indossa le stesse, eter-ne camicie bianche allineate nell’armadio come una di-visa. Sapevo tacere quando era necessario. E sapevoincoraggiarlo e motivarlo».
«Si abituerà a vivere da solo, non se la prenda», disseLouise con delicatezza.
«Pensiamo di essere indispensabili», rincarò vivace-mente Minnie Marx, «ma le garantisco che suo figlio sela caverà molto bene senza di lei. È quello che è succes-so con i miei…».
Rebecca l’interruppe.«L’ultima volta che gli ho parlato, ci siamo lasciati in
malo modo. Gli ho dato dell’incapace. Se ne è andatodi casa senza una parola, senza voltarsi indietro».
Louise Cohen era sgomenta. Non capiva come si po-tesse pensare di criticare la luce dei propri occhi.
«Non è che, siccome non ha mai contraddetto Al-bert, lei sia stata una madre migliore», osservò MinnieMarx. «Io ho sgridato molto i miei figli. Loro mi giudi-cavano autoritaria e insopportabile, ma mi obbedivano.E alla fine mi hanno ringraziato».
Rebecca si stava innervosendo.«Ma lei non è morta mentre era in rotta con uno di
loro».«No, riconosco che deve essere terribile».
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Louise le pestò un piede, criticando la sua mancan-za di tatto. Minnie ribatté che evocando «la luce deisuoi occhi», lei non aveva certo mostrato maggioresensibilità.
«Bisogna che vi racconti», le interruppe Rebecca.«Nathan è uscito dall’aula degli esami addirittura senzaaver completato il suo compito di diritto. Non me l’hadetto, l’ho scoperto io grazie a un collega. Quando l’hoaffrontato, ha confessato che non sopportava questamateria, che la studiava solo perché io potessi dire, par-lando di lui, “mio figlio è avvocato”. Ha aggiunto chemi immischiavo di tutto, che sapeva quel che faceva,che aveva il diritto di vivere la sua vita e anche di farsibocciare a un esame, se voleva. Io che mi vantavo di es-sere scampata alle crisi adolescenziali così temibili, e in-vece mio figlio mi ha sbattuto in faccia quello checovava dentro. Mi ha accusato di ogni male, addossan-domi la responsabilità del fallimento della sua vita… adiciotto anni. Cose ben più gravi di un ridicolo esame,ha aggiunto. E aveva ragione, me ne rendo conto soloora».
«Ma no! Assolutamente no!», esclamò Minnie. «Leilo faceva per il suo bene, e per lei quell’esame era im-portante. Non c’era da discutere e non deve rammari-carsi».
«Scherza? Sono stata un mostro! Gli ho spiegato conuno sguardo indignato quanto mi aveva deluso, primadi opporgli un silenzio glaciale. Se n’è andato sbatten-do la porta. L’incidente è accaduto poche ore dopo».
Louise Cohen era inorridita per la durezza di Rebec-ca. Il fatto che fosse morta poco dopo le sembrava me-no grave dell’umiliazione che aveva inflitto a suo figlio!
Rebecca continuava a parlare senza rendersi contodell’effetto disastroso che stava scatenando, perché le
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premeva rivelare ogni cosa, come se le sue parole potes-sero cancellare il rimorso che la torturava.
«Nathan probabilmente si sentirà colpevole per lamia morte. Deve pensare che, se non mi avesse parlatocosì aspramente, io senz’altro non mi sarei innervosi-ta… Forse avrei evitato quello stupido incidente!».
«È vero? Avrebbe potuto evitarlo?».«No».Le lacrime salirono agli occhi di Rebecca. Louise le
prese la mano e le parlò dolcemente, benché fosse sgo-menta per il suo atteggiamento.
«Non pianga, andrà tutto bene», le disse.“Perché queste donne bizzarre sono così premuro-
se?”, si domandò Rebecca al culmine dell’angoscia.«Come può esserne certa? Nathan è un orfano. So
cosa deve sopportare. Quando mia madre morì, avevol’impressione che mi osservasse, che fosse presente e ioconversavo con lei, le chiedevo consiglio, le raccontavola mia vita. Avevo solo dieci anni, e questo mi consola-va. Bisogna dire che mio padre non mi parlava mai dilei. Faceva parte di quella generazione che non rivelavai propri sentimenti, che non mostrava le emozioni, checonsiderava il lamentarsi alla stregua di un crimine con-tro l’umanità o, perlomeno, contro chi gli stava intor-no. Parlare di sé era indecente. È forse per questo chemi sono sentita abbandonata?».
«Non reagirà come lei», provò a dire Louise. «D’al-tronde, cambierà, passerà dallo sconforto alla tristezza,per approdare sulle rive di una nostalgia quasi serena».
«Albert Cohen non si è mai ripreso dalla sua scom-parsa. Nell’opera Il libro di mia madre, invoca lei che,benché morta, continua a vivere nei suoi sogni. Smarri-ta nell’Oltretomba, senza identità, resta così presentenel suo quotidiano che lui la rimprovera per averlo ab-bandonato egoisticamente. Dubita del suo amore. E, se
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i miei calcoli sono giusti, Cohen aveva quarantotto anniquando lei è morta. Ed era un adulto già celebre! Se luiha avuto difficoltà a sopportare il lutto, immagini Na-than, che è ben lungi dall’essere un uomo maturo!».
Minnie si protese verso Rebecca:«Potrebbe cercare di considerare anche la nostra tri-
stezza! È stata una dura prova lasciare i nostri figli, ces-sare di essere al corrente di ciò che li riguardava,mollare la presa, constatare che la loro vita continuavasenza di noi. Le altre possono testimoniarlo».
«Le altre?».«Oh sì, vedrà, siamo in tante. Qui ci sono le madri di
Marcel Proust, di Sigmund Freud, di Romain Gary…».Rebecca scoppiò a ridere, un riso confortante: lei
era madre, era ebrea. E dunque era una madre ebrea?Faceva parte del mito? Il fatto di trovarsi in mezzo aquelle donne famose era una garanzia per l’avveniredel figlio?
«Ci sono solo madri ebree qui?».«Non c’è bisogno di essere ebrei per essere una ma-
dre ebrea», osservò Minnie. «Nemmeno di essere ma-dri. Mio marito era una madre ebrea, come lei, cometutte noi. È un epiteto, sa. È sinonimo di affettuosa, de-vota, eroica, possessiva, esigente, curiosa, ossessionatadall’alimentazione e dalla sicurezza, paranoica, ango-sciata e angosciante, costantemente preoccupata per ipropri figli».
«Ma voi siete tutte ebree?».«È così, non è colpa nostra», rispose Louise.Minnie Marx le spiegò che il concetto di “madre
ebrea” era abbastanza recente. All’inizio del ventesimosecolo, le madri ebree erano materne, protettrici e af-fettuose. Grazie ai romanzieri americani, ad esempioSaul Bellow e Philip Roth, si erano progressivamente
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trasformate in yiddishe mama per il loro amore esagera-to, soffocante, addirittura patologico.
«E Woody Allen», aggiunse Rebecca.«Non c’è solo la scuola newyorkese a rappresentare
la “madre ebrea”», disse Louise Cohen. «Albert ha scrit-to Il libro di mia madre nel 1954 in Francia».
Minnie usò il suo tono più dolce per non urtare lasensibilità di Louise:
«Le madri ebree sono sempre esistite: Sara, Rebecca,Rachele, Lea, Jokebed, la madre di Mosè… Ma il con-cetto in sé è un’invenzione americana, divenuta moltofamosa nel 1964 con la pubblicazione del libro di DanGreenburg Come diventare una madre ebrea in 10 lezioni.Questo ha cambiato tutto».
«La madre di Woody Allen non è qui?», domandòRebecca.
«No», rispose Louise.«Non l’avete mai vista?», insistette.«Sì, ma non è rimasta a lungo con noi».«Perché? Io sono una fan di Woody Allen».«Anch’io», replicò Minnie, che non diede altre spie-
gazioni su quell’assenza.
Rebecca si ripromise di rimandare la domanda a piùtardi. D’altra parte, non capiva granché, malgrado le lo-ro spiegazioni. Per la prima volta pensò al suo funerale.Quante volte se l’era rappresentato in sogno? Immagi-nava la sua migliore amica in lacrime, i suoi colleghiche chiacchieravano fra loro. Il film scorreva davanti aisuoi occhi: alcuni piangevano, altri erano semplicemen-te venuti a firmare il registro, troppo agitati, troppo as-sillati dalla vita per fermarsi anche solo un’ora. Iparenti stavano attorno a suo figlio. E anche se, nellascena che cento volte si era immaginata, Antoine, il pa-dre di Nathan, era inconsolabile, lei dubitava che sareb-
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be venuto; l’aveva abbandonata molto presto dopo lanascita del figlio e non era stato un padre presente.Tuttavia, quanto le sarebbe piaciuto che si fosse com-mosso! Non appena si parlava di lui, non poteva evitareun fremito nelle mani, il mento tremante, la voce rotta,il cuore che batteva troppo forte e l’animo agitato. Di-ciotto anni dopo il loro incontro, provava ancora perlui gli stessi sentimenti. Proseguì il suo sogno a occhiaperti e immaginò il figlio che prendeva la parola in si-nagoga per dire qualche frase tenera e affettuosa suldolore causato da quella perdita.
«Ha delle foto?», domandò Louise strappandola aisuoi pensieri.
Istintivamente, Rebecca cercò la borsa. La sua borsa!Ne aveva dimenticato persino l’esistenza, ma il fatto diaverla là, al suo fianco, rendeva questo oggetto di cuoiologoro più prezioso dell’amico più intimo. E non si sen-tì più persa quando ritrovò, infilate in una tasca, alcunefoto di Nathan. Aveva conservato, dalla materna alle su-periori, le foto di scuola in cui tutti i bambini hanno latendenza ad assomigliarsi. A cinque anni, non avevanoforse tutti la riga, accuratamente tracciata a sinistra? Adieci, una frangia troppo lunga per cercare di nascon-dere gli occhiali di cui si vergognavano? A quindici, icapelli lunghi arruffati e l’apparecchio ai denti?
«Ma è uno splendido ragazzo!», esclamò Louise,guardando l’ultima foto, la più recente. «Doveva esserepazza di lui».
«L’ho adorato. Con i suoi riccioli bruni, gli occhichiari a mandorla, Nathan assomiglia a una miniaturapersiana».
«E a suo padre», sottolineò Louise, «con una madrecosì bionda».
Assomigliava talmente tanto ad Antoine che Rebec-
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ca aveva avuto difficoltà a considerarlo un essere indi-pendente e non il clone del padre. Guardarlo le procu-rava un misto di felicità e di angoscia. Passavadall’ammirazione più autentica al timore che non sa-pesse cavarsela nella vita.
«Nathan perde le chiavi, dimentica gli appuntamen-ti, sperpera il denaro e resta senza far nulla, se non cisono io dietro a scuoterlo. La sua camera è in un disor-dine tale che non riesce a trovare mai niente, neanchecercando bene. Senza di me è perduto. Quando dabambino non riusciva a mettersi il cappotto, glielo infi-lavo io, e gli sistemavo anche i lacci per evitargli la fati-ca; io facevo i suoi compiti invece di spiegarglieli».
«Lei non aveva pazienza», disse Louise, «voleva an-dare veloce».
«È vero, non ho mai sopportato la lentezza, volevoche fosse perfetto subito, senza dargli il tempo di impa-rare. Il risultato è che temo di averne fatto un buono anulla. Come potrà cavarsela senza di me?».
«È un problema molto diffuso fra le madri ebree»,affermò Louise Cohen.
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