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UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF BRUXELLES - BELGIQUE THESE FINALE EN “SCIENCES CRIMINOLOGIQUES” DALLA PARAFILIA AL CRIMINE STORIE DI SEXUAL SERIAL KILLERS Specializzando: Lidia Fiscer Matr. 3189 Bruxelles, ottobre 2013

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UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF

BRUXELLES - BELGIQUE

THESE FINALE EN “SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”

DALLA PARAFILIA AL CRIMINE STORIE DI SEXUAL SERIAL KILLERS

Specializzando: Lidia Fiscer Matr. 3189 Bruxelles, ottobre 2013

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Lidia Fiscer – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Terzo Anno) A.A. 2012/2013

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INDICE DEI CONTENUTI

1. Introduzione pag. 4

2. Nati per uccidere

2.1. Meccanismi psicologici e classificazione dei serial killers pag. 6

2.2. Il ruolo delle fantasie pag. 16

2.3. Dalla fantasia all’omicidio pag. 17

2.3.1. La fase totemica: trofei e souvenirs pag. 18

2.4. La scena del crimine pag. 20

2.4.1. Caratteristiche della scena del crimine associate alle

differenti tipologie dei serial killers pag. 24

3. Il mondo perverso dei sexual serial killers

3.1. Cosa si intende con il termine “perversione” pag. 25

3.2. I Disturbi Sessuali pag. 27

3.3. La classificazione di Mac Cary pag. 29

4. Dalla parafilia al crimine

4.1. L’Impero di Thanathos: i Necrofili pag. 33

4.2. Una parte vale più di tutto il resto: i Feticisti pag. 36

4.3. Le donne anziane vittime della perversione: i Gerontofili pag. 39

4.4. Il piacere di infliggere sofferenza: i Sadici Sessuali pag. 44

4.5. Alcuni casi di interesse criminologico pag. 48

5. Gianfranco Stevanin: il “mostro di Terrazzo” tra sesso e morte

5.1. La storia della sua vita pag. 51

5.2. Il materiale sequestrato nel “casolare degli orrori” pag. 54

5.3. L’esame delle perizie pag. 58

5.3.1. Le perizie d’ufficio pag. 58

5.3.1.1. Esame psichico pag. 63

5.3.1.2. Inquadramento diagnostico pag. 69

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5.3.2. La perizia dell’accusa pag. 77

5.3.3. La perizia della difesa: un processo sul filo dell’infermità pag. 79

5.4. Il processo davanti la Corte d’Assise pag. 81

5.4.1. Anche Stevanin sale sul banco dei testimoni pag. 86

5.4.2. Il pubblico ministero chiede il massimo della pena pag. 91

5.4.3. La sentenza della Corte d’Assise pag. 92

5.5. Il processo davanti la Corte d’Assise d’Appello pag. 94

5.5.1. La sentenza della Corte d’Assise d’Appello pag. 97

5.6. La revisione del processo d’Appello pag. 100

5.7. Le vittime di Stevanin pag. 103

5.8. Stevanin: l’ultima intervista pag. 106

6. Destino e futuro dei serial killers

6.1. Problemi inerenti l’imputabilità pag. 110

6.2. Ipotesi di trattamento psicofarmacologico pag. 113

6.3. Ipotesi di trattamento psicoterapico preventivo e non pag. 114

7. Le 100 parafilie più bizzarre

7.1. Classificazione pag. 115

Conclusioni pag. 119

BIBLIOGRAFIA pag. 122

SITOGRAFIA pag. 126

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1. Introduzione

Gli Stati Uniti, dove risiede il 5% della popolazione mondiale, annoverano annualmente

il più alto tasso di serial killers dell’intero globo, attestandosi intorno al 76% del totale,

seguiti dall’Europa, che ne conta il 17% - di cui il 28% di nazionalità inglese ed il 27%

tedesca.

All’interno del territorio americano, è lo stato della California a detenere il primato,

seguito da New York, Texas e Illinois, mentre il più basso indice di criminalità spetta al

Maine.

Il 90% degli assassini seriali, oltre ad essere di sesso maschile e di razza bianca,

proviene dal ceto medio basso. Si tratta solitamente di individui intelligenti, ma

mediocri nei risultati scolastici, con un’infanzia contrassegnata da violenze e

maltrattamenti, sia fisici che psicologici. Per lo più, essi sono il frutto di relazioni

instabili, con genitori che, a loro volta, possono vantare un passato criminale, problemi

psichiatrici, di alcolismo o di tossicodipendenza. È dimostrato che i bambini cresciuti in

un tale contesto familiare, oltre a trascorrere in solitudine la maggior parte del loro

tempo, riversano rabbia e frustrazione, accumulate nell’ambito domestico, sugli animali,

che ne diventano vittime e cavie predilette.

Nonostante vi siano moltissime persone che, a dispetto di una fanciullezza colma di

soprusi, riuscendo a superare i traumi, conducono una vita serena, alcune (tra queste

John Cannan, Kenneth Bianchi e John Gacy) replicano su altri, non appena fatto

ingresso nel mondo degli adulti, le sofferenze sperimentate su loro stessi, elevando però

a livello esponenziale la soglia delle proprie atrocità.

Questi individui, cui viene in qualche modo impedita la crescita psicologica necessaria

al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, si ritrovano di conseguenza incapaci di

accedere in modo equilibrato alla vita adulta: percepiscono se stessi come persone

incomprese, ma speciali; appaiono ossessionati dal desiderio di esercitare un qualche

controllo, di imporsi sugli altri piegandoli alla propria volontà e, non riuscendo ad

ottenere alcun risultato soddisfacente agendo nella legalità, finiscono per uccidere,

torturare, stuprare e macellare le proprie vittime, ricevendo da tali atti criminali un

immenso, quanto effimero appagamento.

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Il loro incredibile gusto per la caccia all’uomo, l’eccitazione provata nell’ordire un

agguato, nel sequestrare e torturare la preda, unita all’esaltazione percepita nel

sopprimere, rende questi serial killers, il cui aspetto appare per lo più ordinario,

particolarmente pericolosi e letali.

Criminali come Ted Bundy, Kenneth Bianchi, Gianfranco Stevanin e molti altri,

sembrano trarre piacere dalla sofferenza altrui e questo li induce a prolungarla il più

possibile, arrivando a considerare se stessi quali creature superiori.

Il 60% delle vittime di omicidi seriali è costituito da donne: negli Usa si parla di almeno

duecento delitti annui a sfondo sessuale.

Un numero che, per quanto elevato, appare minimo se paragonato ai 18.000 assassini

commessi nell’ambito domestico, lavorativo o conseguenti alle frequenti risse nei locali.

Ciò nonostante, i massacri seriali suscitano maggiore sconcerto, probabilmente a causa

del forte squilibrio nel rapporto tra vittime e carnefici.

Inoltre, la componente sadica, spesso assente nei misfatti non imputabili a particolari

contesti, risulta pressoché immancabile in quelli di natura seriale: Randy Kraft,

narcotizzate le proprie prede e inseriti acuminati bastoncini da cocktail nei loro organi

genitali o maniglie di portiere di automobili nelle loro membra, vi appiccava il fuoco,

godendo nell’udire gli atroci lamenti emessi da coloro che lui stesso aveva mutato in

vere e proprie torce umane. Allo stesso modo John Wayne Gacy, Kenneth Bianchi,

Angelo Buono, Ted Bundy inflissero crudeli e prolungati supplizi a quanti ebbero la

sfortuna di incrociare il loro cammino.

È proprio questo istinto sadico a caratterizzare il fragile ego dei serial killers sessuali, i

quali bramano disperatamente il raggiungimento di una posizione di potere nella società

civile, che diversamente non riuscirebbero ad ottenere.

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2. NATI PER UCCIDERE

2.1. Meccanismi psicologici e classificazione dei serial killers

Il termine serial killer ha una storia relativamente recente, e d’altra parte è solo dagli

anni Cinquanta che i ricercatori hanno cominciato a distinguere le varie forme di

omicidio. È il criminologo James Reinhardt1, in un suo libro del 1957, Sex Perversion

and Sex Crimes, ad utilizzare per primo la definizione di chain killer per indicare

l’assassino che lascia dietro di sé, appunto una catena di omicidi.

Alcuni anni più tardi, nel 1966, John Brophy, uno studioso inglese, identifica lo stesso

fenomeno con il termine serial murderer, definizione ripresa dallo psichiatra forense

Donald Lunde2 circa dieci anni dopo, nel suo testo Murder and Madness.

Nel 1988 il National Institute of Justice statunitense elabora una prima descrizione di

ciò che, in concreto, si intende per omicidio seriale: l’uccisione di una serie di due o più

soggetti, delitti separati e commessi generalmente, ma non sempre, da un unico autore.

I crimini possono essere attuati con un intervallo di tempo che varia da poche ore sino a

molti anni, ed il movente va ricercato non tanto in un guadagno immediatamente

identificabile, quanto nella gratificazione di un bisogno psicologico profondo

dell’assassino. Le caratteristiche della scelta del crimine, il comportamento

dell’omicida, il rapporto con la vittima e le violenze agite su di essa riflettono

componenti sadiche e sessuali dell’autore.

Nel 1994 Robert Ressler3, agente speciale dell’FBI, pubblica Whoever Fights Monster.

Il libro viene presentato come l’autobiografia del più celebre cacciatore di assassini

seriali, un faccia a faccia con alcuni fra i più terribili killers statunitensi, un manuale

frutto dell’esperienza di vent’anni, per imparare ad “identificare e riconoscere il mostro

sconosciuto che ci cammina accanto”. Al di là delle usuali enfatizzazioni pubblicitarie,

il testo ha il merito di riportare alcune testimonianze preziose sulla personalità del

criminale che, d’ora innanzi, sarà universalmente chiamato “serial killer”.

Sempre Robert Ressler4, con la collaborazione dell’altrettanto celebre John Douglas e

1 REINHARDT J. J., Sex Perversions and Sex Crimes, C. Thomas, Springfield, I11, 1992. 2 LUNDE D. T., Murder and Madness, San Francisco Book Company, San Francisco, CA, 1976. 3 RESSLER R. K., SHAHTMAN T., Whoever Fights Monsters, St. Martin’s Press, New York, 1994. 4 RESSLER R., DOUGLAS J. E., BURGESS A. W., BURGESS A. G., Crime Classification Manual,

Jossey Bass Publishers, San Francisco, 1992.

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della psichiatra Ann Burgess, pubblica nel 1992 il Crime Classification Manual, vero e

proprio trattato sui delitti violenti, dove la proposta di classificazione si basa sul

movente del criminale. Anche il CCM dà una propria definizione di serial killer: “Tre o

più eventi omicidiari, commessi in tre luoghi differenti, separati da un intervallo di

raffreddamento emozionale (cooling-off period).

Il concetto di cooling-off permette di comprendere come l’assassino seriale sia un

predatore soggetto ad un ciclo, che inizia con una progressiva eccitazione, si muove

dalla preparazione dell’evento in forma di fantasia sino alla sua realizzazione e si

conclude con un momento, successivo al delitto, di scarico emozionale. Può essere un

periodo di durata variabile, a cui fa seguito il nuovo imporsi di una fantasia sadica, di

una fase di progettazione, di identificazione della vittima, di appostamento, di

pedinamento, cattura, morte.

Negli ultimi anni, anche l’unità specializzata dell’FBI si è allineata alla commissione

del National Institute of Justice, nel ritenere sufficienti due vittime e non più tre per

poter parlare di serialità omicida.

Tra i delicati argomenti da affrontare in relazione all’allarmante fenomeno dei serial

killers, vi troviamo innanzitutto:

1) la classificazione dei soggetti responsabili di omicidio multiplo fornita dall’FBI in

relazione alle modalità esecutive del reato;

2) la classificazione dei serial killers in relazione alla motivazione a compiere l’atto;

3) la classificazione delle componenti psicodinamiche e comportamentali comuni;

4) la classificazione delle fasi dell’omicidio seriale.

Per quanto riguarda il I punto, vi troviamo:

a) Serial Killer (o assassino seriale) che si caratterizza per la commissione di delitti

plurimi con caratteristiche di mostruosità, intervallati l’uno dall’altro con caratteristiche

di ciclicità temporale;

b) Spree Killer (o assassino compulsivo) che si distingue per le modalità esecutive, a mò

di orge omicide, verso 2 o più persone in un lasso di tempo molto breve, in luoghi

differenti però contigui in un unico evento, come se fosse stato colto da un raptus

omicida;

c) Mass Murder (o assassino di massa) con modalità omicidiaria contestuale di più

persone.

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E veniamo ora a considerare il II punto, la classificazione dei serial killers in relazione

alle motivazioni a compiere l’atto, fornita dall’FBI. Vi compaiono cinque tipi di serial

killers:

a) il Serial Killer “Visionario”

b) il Serial Killer “Missionario”

c) il Serial Killer “Edonista”

d) il Serial Killer del “Controllo del potere”

e) il Serial Killer “Lussurioso” (Lust Killer)

a) Il tipo Visionario di omicida in serie, comprende quei serial killers che eseguono i

loro omicidi come conseguenza degli ordini ricevuti da “voci allucinate” o per causa di

particolari “visioni” ricevute. Sono vere e proprie “allucinazioni di comando” e la voce

udita è generalmente quella di Dio o di Satana, che fornisce le indicazioni per la

commissione dell’omicidio. Tali serial killers con allucinazioni visive, identificano in

loro la presenza di un’entità soprannaturale e quindi di un demone che impone loro di

uccidere e di distruggere. La maggior parte di questi serial killers è affetta da franca

patologia da configurarsi in un quadro o di schizofrenia di tipo paranoide oppure di un

disturbo allucinatorio paranoide. Nel primo caso, l’omicidio è solitamente condotto in

modo bizzarro o male organizzato, mentre nel secondo caso esso può essere eseguito in

maniera ben pianificata.

b) Il tipo Missionario è caratterizzato dal dover compiere una missione, che

generalmente consiste nella ferma convinzione di dover ripulire il mondo da persone

considerate indesiderabili (abitualmente prostitute, vagabondi, spacciatori di droga).

Tale serial killer pur generalmente non soffrendo di una psicosi, è spesso condizionato

da personali convinzioni sostenute da alcune false percezioni di tipo paranoide; difatti

non provano alcun rimorso per le loro azioni, in quanto fermamente convinti di eseguire

un compito utile al benessere della società. Un esempio emblematico di serial killer

missionario ci è fornito dal recente caso di Pedro Alonso Lopez venditore ambulante

colombiano di 31 anni con all’attivo 310 omicidi. Cento bambine seviziate e strangolate

in Columbia, altrettante in Perù, centodieci nell’Equador, dove colto sul fatto fu

arrestato. Lo strangolatore delle Ande, come fu soprannominato, si definiva un

liberatore: “le ho soppresse per liberarle dalle sofferenze che subivano nella vita

terrena”, riferì in una particolareggiata confessione.

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c) Il tipo Edonista si distingue per il particolare piacere che prova nell’uccidere. È l’atto

omicida in sé e per sé che fornisce una tale piacevole sensazione, del tutto simile a

quella forma di “orgasmo emotivo” provato dal cosiddetto “forte giocatore” quando

scommette e aspetta i risultati. Può essere considerata una variante del “Taking Risk”,

classico delle persone “bisognose di rischio” o di forti emozioni che troviamo non

soltanto nei forti giocatori di carte ma anche per esempio, nei praticanti della cosiddetta

roulette russa mediante pistole.

d) Il Serial Killer del “Controllo del potere” è, invece, quel tipo di omicida in serie il

cui scopo principale è quello di esercitare il totale controllo su di un’altra persona, fino

al potere definitivo di deciderne il destino. In questi casi, lo stupro, la sodomia e la

distruzione dell’anatomia sessuale, non hanno in effetti una reale motivazione a

carattere erotico (ed il sesso costituirebbe quindi soltanto uno strumento, un veicolo),

bensì rappresentano essenzialmente il desiderio più profondo di esercitare il proprio

potere ed il totale controllo psicofisico sulla vittima.

L’approfondito esame del caso Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, ha difatti

confermato appieno tale necessità di psicofisico controllo totale della vittima,

spersonalizzata e considerata pertanto alla stessa stregua di un oggetto.

La categoria dei serial killers del “controllo del potere” può, ma non sempre, essere

associata ad una quinta categoria, rappresentata dal:

e) tipo Lussurioso (Lust Killer) il cui principale scopo, più che il controllo del potere è

quello essenzialmente di ottenere un soddisfacimento di carattere meramente sessuale.

Si ritiene che i serial killers di tipo lussurioso siano caratterizzati essenzialmente da

iperstimolazione organico-sessuale per scompenso ormonale, importante da considerarsi

in quanto ben proficuamente risentirebbe di un trattamento farmacologico ormonale

riequilibrante, quale ad esempio quello del Ciproterone trattato che potrebbe

rappresentare, se il soggetto è consenziente, una sorta di castrazione chimica non

definitiva, bensì reversibile alla sospensione del trattamento, già ammessa in California.

È doveroso considerare in questa sede che, una cospicua stimolazione organica, può

verificarsi anche in occasione delle fasi maniacali della sindrome maniaco-depressiva a

carattere ciclico, oppure in caso di disturbi della personalità di tipo ossessivo con

prevalenza di monoideismo5 a carattere sessuale. Sempre l’FBI considera i serial killers

5 In psicologia si intende una concentrazione morbosa della mente su un’unica idea dominante.

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lussuriosi come appartenenti a due tipi: quello “asociale disorganizzato” abitualmente

psicotico, caotico e bizzarro nel suo comportamento sessuale e quello “asociale

organizzato” che si distingue per metodicità, accuratezza di esecuzione materiale e

astuzie, pienamente consapevole della criminalità delle sue azioni, nonché dell’impatto

sulla società e desidera l’eccitamento che gli deriva dalla pubblicità fornitagli dalla

scoperta dei cadaveri.

Nei serial killers lussuriosi, le fantasie giocano un ampissimo ruolo e spesso passano

molto tempo a fantasticare sulle modalità per portare a termine le loro azioni criminose.

Psicanaliticamente tale sadismo si ritiene attribuibile ad un arresto del proprio sviluppo

psicosessuale con una non sviluppata capacità di controllo sulla sfera istintuale

primordiale, quest’ultima, innata in ciascun essere umano.

Il comportamento sadico quando sezionano in modo bestiale le proprie vittime, è stato

paragonato a quello del bambino che distrugge i propri giocattoli prima di essere

riuscito a conquistare lo sviluppo dei suoi freni inibitori, questi ultimi, in grado poi di

ben equilibrare e/o di gestire le pulsionalità più profonde.

Per Millon si tratterebbe di inflessibilità adattiva, ovverosia di una riduzione delle

strategie alternative dinanzi ad un problema, con conseguente riduzione delle possibilità

di apprendere nuovi schemi comportamentali più funzionali, adulti ed equilibrati,

associata alla presenza di circoli viziosi di comportamento, con successiva

riproposizione degli stessi effetti comportamentali in definitiva con patologiche

distorsioni degli schemi cognitivi ed interpretativi della realtà esterna, commisti ad una

bassissima soglia di tolleranza allo stress. Ovviamente il tutto, in un concorso di cause

educazionali, ambientali, intrapsichiche, adattive e biologiche.

Uno degli innumerevoli esempi di questo tipo di serial killer ci viene fornito dal

diciottenne William Heirens di Chicago che violentò ed uccise le sue vittime

strangolandole, ne fece a pezzi i corpi e li nascose in una botola. Quando fu arrestato

dichiarò: “Per Dio fermatemi prima che uccida ancora. Non posso controllarmi”.

Tra gli altri serial killers di questo “tipo lussurioso” vi troviamo per esempio:

l’ungherese Bela Kiss (1916), George J. Smith in Inghilterra ed Henry Desirè Landru in

Francia (1921), Earle Nelson negli Stati Uniti (1926), Albert Fish a New York (1929), il

“macellaio pazzo” di Kingbury Run a Cleveland tra il 1935 ed il 1938, Rudolph Pleil

(1958) e Richard Speek a Chicago (1966), Ed Kemper e Dean Corll nel Texas (1973),

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Joachin Kroll (1976), e poi altri esempi ancora tra i quali David Berkovitz “il figlio di

Sam” a New York (1977), Kenneth Bianchi “lo strangolatore di Hillside” a Los Angeles

(1978), Peter Sutcliffe “lo squartatore dello York-shire” in Inghilterra, Theodore Bundy

(1975), John Wayne Gacy a Chicago, giustiziato di recente, ed altri ancora, non ultimo

Joel Rifkin a New York (1994).

Tra i più noti serial killers del gruppo dei serial killers sadici, il tedesco Bruno Ludtke

detiene il record degli omicidi sessuali noti, avendo confessato 85 omicidi commessi tra

il 1927 e 1944. Egli affermò di aver tagliato pezzi di carne dalle natiche e dalle cosce di

14 delle sue vittime e di averli più tardi mangiati.

Molte delle vittime dei suddetti killers, sia maschi che femmine, vennero impalate dopo

la morte.

Il killer americano Ed Kemper (1973) ha mostrato un comportamento molto simile a

quello di Jeffrey Dahmer. Egli ha violentato i corpi delle vittime a casa di sua madre e,

dopo averle uccise, le ha fatte a pezzi ed apparentemente ha goduto nell’aver avuto

rapporti sessuali con un corpo privo della testa. Alcuni dei suoi omicidi presentano

elementi di necrofilia.

La mutilazione dei corpi, con lo smembramento, la dissezione chirurgica e la

decapitazione, è piuttosto frequente nelle vittime dei sexual serial killers, da Ted Bundy,

Jack lo Squartatore, a Fritz Haarmann di Hannover.

Il sadismo, come per esempio quello espresso anche da Nevil Heath, l’assassino che

uccise due ragazze in Bretagna nel 1946, non è sempre una questione di desiderio

sessuale, ma più spesso di necessità di affermazione dell’Io, come reazione alle

umiliazioni subite da un uomo che non ha successo, con bassissima soglia di tolleranza

alle frustrazioni, nonché un concorso di cause educazionali, ambientali, ecc…

Rudolf Pleil nel 1958 uccise 50 donne e si dichiarò orgoglioso della sua “perfezione”.

Richard Speck è ben noto per l’omicidio di ben 8 giovani infermiere a Chicago, nel

1966. Tutti i corpi delle vittime vennero trovati nudi, coperti di tagli e di ferite vari.

Tutti i suddetti serial killers raggiungevano l’orgasmo attraverso la feroce mutilazione

dei corpi delle vittime. Alla base dei loro crimini c’era un notevole impulso sessuale,

unito ad abnorme aggressività ed al desiderio di controllo sull’altro essere umano.

Spesso i delitti commessi mostrarono una buona dose di programmazione metodica. A

volte le vittime, come nel caso Dahmer, venivano messe in posizioni sessuali oscene e

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fotografate per ricordo. Spesso i corpi venivano smembrati ed a volte la loro carne

veniva mangiata dal killer sadico, come nei casi di Karl Denke, di Albert Fish e di

Joachin Kroll. Denke, affittava camere in una casa di Munsterberger e uccise oltre una

dozzina di vagabondi, uomini e donne, e mangiò parte dei loro corpi, che teneva

conservati in salamoia. Nel 1928, a New York, Fish, un vecchio dall’aspetto gentile,

torturò un gran numero di bambini e li uccise strangolandoli, quindi mangiando parte

dei loro corpi in una specie di stufato. Kroll e Dean Corll, nel 1973 in Texas,

violentarono, torturarono ed uccisero 31 ragazzi.

Nel 1974 Paul John Knowles in seguito alla sue crisi incoercibili, violentò ed uccise 19

donne in 4 mesi. Nel 1976 e nel 1977, a New York, David Berkowitz – il figlio di Sam –

uccise giovani donne e coppiette; gli vennero attribuiti 7 assassinii. Kenneth Bianchi, lo

strangolatore di Hillside, che in seguito sostenne di avere una doppia personalità,

commise 7 omicidi a Los Angeles tra il 1977 ed il 1978; tutte le sue vittime erano

donne. Nel 1978, a Chicago, nella casa di John Wayne Gacy vennero trovati i corpi di

28 giovani. Egli ammise di averne uccisi altri 5. Uccideva i giovani nel corso di una

violenza omosessuale sadica. Peter Sutcliffe, il trentacinquenne squartatore dello

Yorkshire, in Inghilterra, uccise 13 donne mutilandole. Egli dichiarò di ricavare una

gratificazione sessuale nell’accoltellare le vittime.

Ted Bundy commise i suoi omicidi depravati, tra il 1974 ed il 1978. Venne accusato

dell’uccisione di 19 giovani studentesse, spesso dello stesso tipo corporeo e con lo

stesso aspetto. Egli commise questi omicidi durante le sue crisi di esasperato

narcisismo. Successivamente sostenne di aver ucciso oltre 300 donne.

Questa lunga lista di serial killers a sfondo sessuale mostra la diffusione di questo

demone sociale. Sfortunatamente questi sono solo i casi registrati. È logico ritenere che

il numero reale sia maggiore e che la loro presenza nella nostra società sia più alta di

quanto non pensiamo. Tuttavia, la maggior parte di questi individui che uccidono non

mostra alcun comportamento particolare ben individuabile o discutibile, il che ne rende

più difficile l’identificazione.

Abra Hamsen, nel 1973, sostenne che il cosiddetto omicida plurimo è un individuo

molto malato. Spesso si tratta di schizofrenici paranoidi ed i loro omicidi sono di tipo

bizzarro, caotico ed inesplicabile, analogo al tipo “asociale disorganizzato” come

definito dall’FBI. Tuttavia non è sempre così, difatti soltanto più di recente è stato

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possibile distinguere il tipo “asociale disorganizzato” classico del malato mentale da

quello “asociale organizzato” a cui appartengono la maggior parte dei serial killers.

Di enorme importanza ai fini di studio e di interesse criminologico, si presentano alcuni

casi, oltremodo noti alle cronache ed approfonditamente esaminati, quale quello per

esempio di Jeffrey Dahmer definito il Mostro di Milwaukee, che ci consente di

comprendere meglio le più peculiari sfaccettature dei meccanismi psicologici comuni a

più serial killers.

Jeffrey Dahmer di anni 32, dichiarato sano di mente, è stato condannato a 15 ergastoli

per i suoi 15 omicidi effettuati con accoltellamento o strangolamento. Fotografava i

cadaveri o parti di essi che abitualmente frantumava, sezionava, smembrava, eviscerava

con cottura delle carni e tentativi di conservazione. Era spinto da un’enorme ostilità

repressa e da desideri frustrati, nonché profondi sentimenti di paura di essere rifiutato.

Difatti, durante tutta l’infanzia e adolescenza è stato frustrato sia dalle eccessive

richieste del padre e sia dal comportamento imprevedibile della madre nei suoi riguardi

e nei riguardi del padre con cui vi erano perenni litigi, conclusi poi con un divorzio

traumatico che ha lasciato l’imputato con sentimenti di rabbia, rifiuto, frustrato e privo

di guida.

Già durante i continui litigi dei genitori, Dahmer esprimeva il proprio risentimento con

attività distruttiva nei boschi circostanti la casa, colpendo ripetutamente con

atteggiamento imbronciato e solitario gli alberi, con dei bastoni, per intere ore, ed era

incapace di esprimere la propria rabbia in altro modo, anche con i compagni, definiti da

lui stesso “grassi, sciocchi ed arroganti”.

Lo prendevano in giro ed era incapace di esprimere la propria rabbia per paura di

vendette e di “peggiorare le cose”. Dalla anamnesi risultante negli atti del processo e

quindi dalle interviste allargate alla famiglia risulta che il piccolo Jeffrey si sentiva privo

di speranze nel suo desiderio di cambiare la vita. Era un isolato con periodi alternati di

forte aggressività, insicuro, con profondi sentimenti di inferiorità e di essere rifiutato,

del tutto privo di empatia nei confronti degli altri, con atteggiamento francamente

asettico, anaffettivo e di difesa: “… non mi è mai piaciuto lo sport” dice Dahmer,

“….ho sempre pensato che gli altri erano migliori di me. Ero invidioso degli altri

ragazzi. A volte provavo un risentimento così profondo da pensare di doverli uccidere”.

Sempre durante la prima adolescenza è stato coinvolto in attività omosessuali con un

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suo coetaneo, solo per 4 o 5 volte.

Non ha mai avuto esperienze eterosessuali e si masturbava guardando uomini attraenti,

giovani muscolosi, su riviste omosessuali. Dissezionava piccoli animali quali i girini,

ma anche cani e volpi e li conservava in formaldeide. A scuola effettuò alcune

dissezioni al corso di biologia e una volta portò a casa la testa di un maiale conservando

gelosamente il cranio. Beveva alcolici già all’età di 13 anni, mentre all’età di 17-18

iniziò a fare uso di sostanze.

La sua prima anomala fantasia fu di colpire a 15 anni con una mazza da baseball un

ragazzo bianco di 18 anni mentre passeggiava a 5 migli da casa: “… il tipo mi piaceva”

dice Dahmer “… e avevo la fantasia di colpirlo sulla testa e fare sesso con lui”. La sua

attività omosessuale (peraltro mai di tipo passivo) omicida ed il sesso non

rappresentavano altro che il tramite per esprimere i suoi impulsi di compensatoria

prevaricazione, comando, controllo e possesso dell’altro essere umano, a causa dei suoi

profondi sentimenti di essere rifiutato. Difatti, a tal proposito così si esprimeva: “… lo

volevo tenere lì… non volevo perderlo… lo trovavo particolarmente attraente… volevo

tenermi dei suoi ricordi… continuavo a giacere accanto al suo corpo morto,

baciandolo”; e poi ancora: “... ho sempre avuto il desiderio di controllare gli eventi. Ho

spesso fantasticato di essere sempre in grado di avere quello che volevo: potere, sesso,

denaro”.

Sulla scorta dell’esperienza fornitaci dalla disamina da parte dell’FBI nonché di più

Autori6, delle centinaia di serial killers ormai di pubblico dominio, passiamo ora alla III

classificazione relativa alle componenti psicodinamiche e comportamentali comuni a

tutti i serial killers.

Trattasi di ben 24 componenti, non sempre presenti in toto in tutti i serial killers ma che

si articolano a mò di caleidoscopio, con prevalenza di queste o di quelle componenti a

seconda del singolo caso.

Vi troviamo:

a) il timore di perdere la stima di sé;

b) le sue più profonde aspirazioni narcisistiche;

c) le frustrazioni subite in tal senso;

d) l’estrinsecazione della volontà di potenza compensatoria (il cosiddetto “sé grandioso 6 PALERMO G. B., Aggressività e violenza. Oggi: Teorie e manifestazioni, Edizioni Essebiemme,

Noceto (PR), 2001.

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patologico” o formazione reattiva di superiorità nei confronti dei propri profondi

sentimenti di inferiorità);

e) il narcisismo maligno;

f) abnormi timori abbandonici a causa spesso dell’inesistente del tutto, strutturazione del

fisiologico complesso edipico7;

g) razionalità più che emozionalità;

h) comunicazione fredda, asettica e non emozionale;

i) fantasie di controllo, potere e totale dominio sulla vittima;

l) fantasie di sesso-violenza alimentata da film o riviste in cui vi è correlazione tra sesso

e violenza e preferenza per le attività autoerotiche;

m) fantasie di squartamento, necrofilia, cannibalismo;

n) desiderio di trattenere con sé il cadavere della vittima o parte di essa;

o) compromessa identificazione con il proprio sesso;

p) deformazione della capacità di amare;

q) indifferenza per la propria vita;

r) indifferenza per la vita altrui;

s) impulsività;

t) ostilità e tendenza alla menzogna;

u) aggressività e incapacità di adeguarsi ai regolamenti ed agli impegni della società;

v) schemi di comportamento ossessivo compulsivo con un vero e proprio graduale

processo di apprendimento;

w) ricerca di vittime fisicamente attraenti e non capaci di opporre eccessiva resistenza

fisica;

x) assenza di rimorsi;

y) gratificazione dalla pubblicità fornita loro dal ritrovamento dei corpi e della

mitizzazione dei mass media verso le loro persone;

z) tendenza dichiarata alla recidiva.

Per quanto riguarda invece il IV punto relativo alla classificazione delle fasi

dell’omicidio seriale vi troviamo:

1) la fase aurorale;

7 MASTRONARDI V., Manuale per operatori criminologici e psicopatologici forensi, Giuffrè, Milano,

2012.

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2) la fase di puntamento;

3) la fase della seduzione;

4) la fase della cattura;

5) la fase omicidiaria;

6) la fase totemica;

7) la fase depressiva.

2.2 Il ruolo delle fantasie

Nella mente del serial killer la fantasia è quello strumento che permette al bambino

traumatizzato di sfuggire dal mondo dei suoi carnefici; nella fantasia il piccolo ha il

controllo della situazione, nella fantasia può reindirizzare l’ostilità e la violenza di cui è

bersaglio, dirigendola verso gli altri. Soprattutto fra i serial killers che uccidono per il

piacere sessuale, ma in quasi tutti gli assassini seriali, sognare ad occhi aperti,

fantasticare un’esperienza sadica e brutale con la vittima è un momento comune e

centrale. Il comportamento che l’omicida tiene sulla scena del crimine si modella

appunto su tali fantasie, che anticipano l’azione. Ma l’impossibilità che la vittima

risponda all’aggressione in modo esattamente prevedibile conduce ad una discrepanza

tra quanto immaginato e quanto sperimentato nel momento dell’esplosione della

violenza. Non ci potrà mai essere piena corrispondenza tra aspettativa e realtà: ecco

quindi carburante per nuove e sempre più raffinate fantasie.

La maggior parte di noi mette in scena, nell’immaginario, situazioni dalle più innocenti

alle più aggressive, attribuendo loro un valore sostanzialmente positivo, spesso

terapeutico. Nel serial killer, invece, violenza e sesso sono asserviti da un piacere

maggiore: il totale controllo della vittima. Ciò è talmente importante che spesso la

morte della vittima costituisce un evento antieconomico nella ricerca di piacere: così si

spiega il racconto di coloro che sono riusciti a sopravvivere ad un assassino proprio

aderendo allo schema di comportamento proposto dall’aggressore, uno schema di pieno

asservimento alla sua fantasia di controllo totale.

Le torture e le umiliazioni che il serial killer attua, rappresentano poi il tentativo di

disumanizzare, spersonalizzare la vittima. È durante l’aggressione, la degradazione, la

tortura, che le fantasie legate all’originario trauma infantile trovano spazio e si

traducono in atti di violenza. Possono trascorrere anche dieci o vent’anni fra gli eventi

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traumatici ed il comportamento omicidiario, periodo durante il quale il killer si è

totalmente dissociato dal trauma, lo ha rimosso e confinato al di fuori dell’area di

consapevolezza. La dissociazione ha permesso all’omicida di mantenere un sufficiente

controllo della realtà ed un accettabile inserimento nel mondo sociale. Ma quando

interviene un fattore scatenante, ad esempio un trauma che anche simbolicamente

riconduce al passato, un’umiliazione, un abbandono, la drammaticità dell’esperienza

infantile riprende il sopravvento, minaccia di travolgere un equilibrio psichico esile e

precario, di annientare.

È necessario fronteggiare l’angoscia, il panico, l’insopportabile sensazione di completa

vulnerabilità: occorre agire per riprendere il controllo, per ristabilire una continuità.

Uccidere diviene un mezzo per dominare paure inesprimibili.

Il primo delitto può non essere pienamente progettato e costruito con precisione:

l’assassino è allora maldestro, forse la morte della vittima non è nemmeno ricercata

consapevolmente.

La sensazione di onnipotenza, tuttavia, è inesprimibile. Non è più possibile rinunciarvi.

2.3. Dalla fantasia all’omicidio

Joel Norris8, psicologo statunitense, per primo identifica e descrive il comportamento

dei serial killers come scandito da un andamento ciclico, secondo il succedersi di fasi

ben distinte e fortemente intrecciate:

fase aurorale: il killer gradualmente si ritrae dalla realtà, se ne distacca, elaborando

fantasie sempre più precise e articolate, che lo spingono all’azione;

fase di puntamento: l’assassino è alla ricerca della sua preda, su un terreno che studia

con attenzione. Concentrato, determinato, si è trasformato in un predatore letale;

fase della seduzione: avviene l’approccio con la vittima, che viene prima sedotta, poi

ingannata e sopraffatta;

fase della cattura: la vittima è talmente controllata dal suo aggressore, la fantasia può

trovare la sua rappresentazione;

fase omicidiaria: l’omicidio avviene con modalità fortemente simboliche, rimandando a

situazioni di grande impatto vissute nell’infanzia. Costituisce nello stesso tempo uno

scarico emotivo e sessuale;

8 NORRIS J., Serial Killers: The Growing Menace, Doubleday, New York, NY, 1988.

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fase totemica: il serial killer cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere derivato

dall’uccidere. Ecco, quindi, il fotografare, lo smembrare, gli atti cannibalici,

l’impossessarsi di parti del corpo o oggetti della vittima come trofei;

fase depressiva: subentra non appena l’illusione svanisce e il piacere viene meno.

L’assassino realizza che nulla è cambiato nella sua vita, l’onnipotenza assaporata nel

disporre della vita e della morte della vittima ha lasciato spazio alla sua profonda

inadeguatezza, all’impossibilità di colmare l’abisso della propria solitudine.

Il ciclo è completo.

Nell’ultima fase, la depressiva, in qualche caso può avvenire che l’assassino cerchi di

agevolare la propria identificazione e la cattura, giungendo a volte persino alla

confessione; il suo racconto allora può essere accolto con grande scetticismo. Occorre,

tuttavia, ricordare come, in ogni indagine su un grave delitto, seriale o no, compaia

spesso un mitomane e come in ogni caso non sia facile distinguerlo immediatamente.

2.3.1. La fase totemica: trofei e souvenirs

Alcuni assassini seriali amano collezionare trofei o souvenirs che appartengono alla

vittima, oppure sono ad essa collegati. Gli analisti dell’FBI distinguono i “trofei”,

raccolti da quelli che definiscono gli assassini organizzati, per ricordare il proprio

successo nella caccia, dai “souvenirs”, più tipici dei killers disorganizzati, oggetti che

costituiscono il fulcro delle loro fantasie malate, catalizzatori di nuovi progetti di

distruzione. Anche se la distinzione non è da tutti riconosciuta, trofei e souvenirs vanno

riferiti ad un unico momento del ciclo del serial killer secondo Norris: la fase totemica.

Nel caso di omicidi a sfondo sadico-sessuale, il trofeo può poi essere rappresentato da

una parte del corpo della vittima.

Dal punto di vista investigativo è evidentemente importante identificare cosa sia stato

sottratto, per poterne individuare il significato simbolico e, unitamente ad altri dettagli

della scena del crimine, ricostruire il profilo di personalità dall’assassino ancora

sconosciuto.

Jerome Hernry Brudos nasce nel gennaio del 1939 nel Sud Dakota e, ancora bambino, si

trasferisce con la propria famiglia in California.

Due sono i momenti fondamentali che segnano la sua infanzia: una madre dominante,

incapace di qualunque manifestazione d’affetto e l’interesse feticistico, precoce e

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insolito, per le calzature femminili. Ha appena compiuto 5 anni quando, tra i rifiuti

abbandonati, scopre un paio di scarpe con i tacchi alti; le porta a casa, le indossa

ammirandosi allo specchio, ma viene scoperto dalla madre che si infuria, gliele strappa

dalle mani e le distrugge dandogli fuoco.

La reazione della donna fisserà per sempre il valore trasgressivo del feticcio: negli anni

successivi Jerome sottrae le scarpe alla sorella. Ha imparato a non farsi scoprire. A 16

anni non è capace di resistere alla tentazione di rubarle ai vicini di casa. Un anno dopo,

per la prima volta, deve affrontare un tribunale minorile: ha aggredito una ragazza che

rifiutava le sue violente richieste di un rapporto fisico. Dopo essere stato sottoposto ad

un trattamento psichiatrico, che però non dà alcun risultato, si arruola nell’esercito nel

1959. Ha 20 anni ed i suoi sogni cominciano a popolarsi di ragazze che si insinuano di

notte nel suo letto. Jerome ha comportamenti strani, si aliena le simpatie dei compagni

ed è costretto ad abbandonare la vita militare dopo pochi mesi.

Nel 1961 ha il suo primo rapporto sessuale: la ragazza rimane incinta e lui è costretto a

sposarla. Il matrimonio non inciderà per nulla sulle sue condotte perverse.

L’interesse per Brudos non si limita più alle scarpe, ma si estende alla biancheria intima,

che sottrae dalle case del vicinato durante le sue visite notturne. In occasione di uno di

questi furti una donna si sveglia improvvisamente e lo sorprende: la aggredisce,

facendole perdere conoscenza e, prima di lasciare l’abitazione con i suoi trofei, la

violenta.

Il 26 gennaio 1965 Jerome Brudos fa la sua prima vittima: Linda Slawson, 19 anni,

bussa alla porta dell’uomo proponendogli l’acquisto a rate di un’enciclopedia. Dopo di

lei, il serial killer colpirà altre quattro volte.

Delle vittime conserva trofei: asporta il seno di una donna, lo tratta con sostanze

chimiche e lo trasforma nel suo fermacarte preferito. Attinge alla sua collezione di

indumenti intimi per vestire i cadaveri, agghindarsi egli stesso e scattare fotografie che

colleziona, prima di liberarsi dei corpi che getta in un fiume. Ma, come spesso accade

negli omicidi seriali, l’assassino abbandona la prudenza: una vittima prescelta sfugge

all’aggressione. Brudos inizia allora a contattare studentesse del vicino campus

universitario, invitandole telefonicamente per un appuntamento.

Identificato e catturato, la polizia ne perquisisce l’abitazione rinvenendo la sua

“collezione di trofei”. In uno degli scatti, accanto al corpo senza vita di una vittima,

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agghindato e messo in posa, inavvertitamente ha ritratto se stesso. Il 27 giugno 1969

venne condannato al carcere a vita.

2.4. La scena del crimine

L’analisi della scena del crimine rappresenta il primo passo in qualunque indagine, sia

che ci si debba occupare di un furto con scasso, sia che si abbia a che fare con un

omicidio efferato. La scena del crimine appare ancora più importante nel caso dei delitti

seriali, perché lì, con il ripetersi degli omicidi, il serial killer inevitabilmente racconta

qualcosa di sé agli investigatori. E racconta in ogni scena un particolare in più, un

dettaglio che rimanda al proprio modo di percepire e di comportarsi; in alcuni casi, non

rari, l’omicida lascia un segno chiaro, lancia una sfida, poco importa agli investigatori

quanto egli ne sia consapevole. La capacità di leggere ed interpretare correttamente la

scena di un delitto nasce da un’unica, originale abilità di sintesi, fatta di preparazione

scientifica, di esperienza sul campo, di intuizione, potremmo dire, artistica.

Intuizione artistica: può sembrare un’immagine forzata, da libro giallo o da pellicola

hollywoodiana. Invece, molto semplicemente, gli agenti speciali dell’FBI spesso

descrivono il teatro di un crimine come la tela di un pittore e il detective procede come

un critico d’arte impegnato nello sforzo di cogliere l’animo dell’artista nella

disposizione delle forme o nella distribuzione dei colori.

Ma la scena del crimine non è certamente solo una palestra per cultori delle arti

figurative, e si fonda su parametri certi, il primo dei quali, principio base della

criminalistica, lo dobbiamo ad Edmond Locard, responsabile del laboratorio di polizia

scientifica di Lione, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Locard, nel 1910, enuncia il

suo celebre “principio di interscambio”: quando due soggetti entrano in contatto tra

loro, ne deriva un trasferimento di materiale dall’oggetto A all’oggetto B o viceversa,

oppure si ha un trasferimento reciproco. In sostanza: ogni criminale lascia sulla scena

traccia di sé e di ogni scena rimane traccia del criminale.

Il riferimento alla scena del crimine ci consente di aggiungere elementi per identificare

il serial killer; riprendiamo, illustrandoli con esempi, le caratteristiche principali

dell’azione dell’assassino ed i comportamenti evidenziabili sulla scena del crimine che è

necessario analizzare e comprendere: il modus operandi, la firma, la forensic awareness,

lo staging e l’undoing.

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Il modus operandi rappresenta l’insieme dei comportamenti, delle azioni che il

criminale compie per realizzare il proprio delitto; si tratta di tutto ciò che viene ritenuto

indispensabile per raggiungere lo scopo prefissato. Il killer apprende progressivamente

quale condotta, fra le tante, sia quella più economica ed efficace. Per questo motivo il

modus operandi può modificarsi da un delitto al successivo, in base all’esperienza.

14 luglio 1974. La spiaggia sulle rive del Lago Sammamish.

Janice Orr e Denise Naslund, belle ragazze giovani e dai lunghi capelli scuri,

scompaiono nel nulla. Da tempo gli investigatori sanno di avere a che fare con un

assassino seriale, perché le ragazze svanite senza lasciare traccia sono già molte e di

alcune di loro, a distanza di tempo, è stato rinvenuto il cadavere.

Finalmente una testimonianza: Janice Graham, anche lei giovane e carina, racconta di

essere stata avvicinata da un uomo attraente, di età fra i 20 ed i 25 anni, che si è

presentato a lei con il nome di Ted. Gentile, affascinante, vestito con un paio di jeans ed

un t-shirt bianca, colpisce particolarmente l’attenzione di Janice per l’ingessatura che

porta ad un braccio, sospeso al collo da una fascia. L’uomo racconta di essersi

infortunato durante una partita di tennis e le chiede aiuto per issare una tavola da vela

sul tetto della propria auto. In fondo non c’è nulla di male nel dare una mano a quel

ragazzo, che fra l’altro è anche giovane e carino. Giunti però all’area del parcheggio,

Janice non trova alcuna tavola da caricare. Ted le dice allora che avrebbe dovuta

recuperarla a casa dei suoi genitori e la invita a salire in auto e ad accompagnarlo. La

ragazza ha un’esitazione: “Si è fatto tardi, devo correre, mio marito mi sta

aspettando…”. Un’esitazione che le salverà la vita.

L’uomo le sorride e la saluta. Poco più tardi, però, mescolandosi alla folla, Janice vede

l’uomo dirigersi verso la propria auto. Al suo fianco una ragazza bella, giovane e

sorridente. Ted Bundy userà più volte questo stratagemma. Il suo sorriso è nel contempo

seduttivo ed innocente e la simulata lesione al braccio lo fa apparire innocuo.

Le ragazze che accettano alla fine di salire sulla sua auto trovano una seconda, ben più

allarmante sorpresa: la maniglia della loro portiera è stata rimossa. Non è possibile

fuggire dall’auto.

A differenza del modus operandi, la firma o signature, non rappresenta un

comportamento indispensabile per portare a compimento l’azione criminale. Evidenzia

piuttosto un bisogno psicologico profondo, un messaggio più o meno consapevole

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lanciato agli investigatori e, come tale, si presenta con costanza nei successivi delitti

della serie. Comportamento statico dunque e di grandissima importanza per la

decifrazione della personalità, dei conflitti, dei bisogni, dei disturbi. Per illustrare gli

aspetti di signature nei delitti di un serial killer, il Crime Classification Manual

racconta il caso di Steven Pennell.

Steven Pennell è un assassino, un sadico sessuale, autore di almeno 3 omicidi, tutti ai

danni di prostitute con una storia di tossicodipendenza alle spalle. Il modus operandi del

killer, costante nei diversi delitti, prevede il contenimento della vittima, legata con corde

e immobilizzata con nastro isolante: solo in questo modo Pennell può torturare,

esercitando un controllo totale.

La firma di questo assassino si rivela, invece, nella natura delle lesioni inflitte. Pennell

si accanisce infatti su alcune parti del corpo, in particolare sul seno e sulle natiche,

colpendo e martoriando con vari oggetti quali martelli, pinze e tenaglie. L’aggressività

sadica si scatena su vittime ancora in vita, per la gratificazione sessuale che il killer trae

dalla sofferenza delle donne. Un altro elemento riconducibile alla firma dell’assassino è

la modalità con cui si libera dei cadaveri: pienamente visibili, gettati con fredda

indifferenza ai bordi di una strada di grande passaggio.

Insieme al modus operandi ed alla firma, altro elemento fondamentale del

comportamento dell’assassino è la forensic awareness, un termine difficile da tradurre

ma che, in sostanza, può essere riassunto come l’attenzione del criminale a tutti quegli

accorgimenti prima, durante e dopo la commissione di un delitto, finalizzati a non

lasciare tracce o indizi che possono far risalire alla sua identità.

Per illustrare il concetto di forensic awareness, viene solitamente presentato l’esempio

di uno stupratore seriale, la cui carriera criminale si concluse con l’omicidio della sua

ultima vittima. L’uomo aggrediva giovani donne nel più assoluto silenzio, il volto

incappucciato, costringendole dopo la violenza subita a denudarsi degli abiti che

portava via con sé e a lavarsi con un detersivo industriale.

Di fronte ad un delitto con queste caratteristiche, anche in assenza di una serialità, il

detective può ipotizzare che il delinquente sconosciuto sia in realtà un soggetto con una

precedente carriera criminale e muoversi quindi alla ricerca di passate condanne per

episodi di segno simile.

Ovviamente la forensic awareness è una condotta appresa e generalmente si modifica ad

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ogni successivo episodio, rendendo sempre più difficile il lavoro di investigazione.

Se modus operandi, firma, forensic awareness sono peculiarità del criminale, staging e

undoing si riferiscono, invece, alle caratteristiche della scena del delitto e della

disposizione della vittima.

Lo staging, la messa in scena, rappresenta la deliberata alterazione della scena del

crimine prima dell’arrivo delle forze di polizia. Due sono le motivazioni alla base dello

staging: la prima, la più intuibile, risponde all’esigenza di depistare gli investigatori

allontanando i sospetti dall’autore del reato. La seconda, meno frequente, è tipicamente

associata alle morti nel corso delle cosiddette autoerotic fatalities, le pratiche sessuali

autoerotiche che, per errore o leggerezza, possono concludersi con la morte del

soggetto, particolarmente incline a coltivare in solitudine il piacere, pertanto non

facilmente soccorribile in caso di necessità. In questi casi, infatti, il piacere viene

ricercato attraverso un’asfissia controllata dal soggetto stesso; costrizioni al collo

riducono l’apporto di sangue arterioso al cervello e la condizione di lieve ipossia che si

viene a creare amplificherebbe l’intensità di un orgasmo ottenuto attraverso la

masturbazione. Ecco allora che, chi interviene per primo sulla scena, da un lato non

vuole comparire, dall’altro può avvertire il bisogno di proteggere la vittima o i suoi

familiari dalla vergogna e dall’umiliazione.

A differenza dello staging, l’undoing (traducibile con disfare, annullare) sulla scena del

crimine è un’evenienza rara. Anch’esso rappresenta una deliberata modificazione del

luogo in cui è stato commesso un crimine, ma va attribuita al rimorso dell’assassino,

che si sente in qualche misura colpevole del delitto e cerca di prendere le distanze

quanto meno sul piano simbolico. Può allora ricoprire il volto della vittima, spostare il

corpo, ricomporlo in una posizione di dignità, la dignità che ha svilito con la sua

mortale aggressione.

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___________________________________________________________________ 24

2.4.1. Caratteristiche della scena del crimine associate alle differenti tipologie di

serial Killers9

CARATTERISTICHE Visionario Missionario Edonista Lussurioso

Lust killer

Controllo

del

potere

Scena del crimine sotto

controllo

No Si Si Si Si

Overkilling Si No No No No

Tortura No No No Si Si

Spostamento del

cadavere

No No No Si Si

Vittima specifica No Si Si Si Si

Arma lasciata sulla

scena

Si No Si No No

Conoscenza personale

della vittima

No No Si No No

Vittima conosciuta Si No Si No No

Sesso aberrante No No No Si Si

Strumenti di tortura No No No Si Si

Strangolamento No No No Si Si

Penetrazione sessuale ? Si Non

usuale

Si Si

Penetrazione con

oggetti

Si No No Si Si

Necrofilia Si No No No Si

9 HOLMES R., Profiling Violent Crimes, Sage Publications, New York, 1996.

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___________________________________________________________________ 25

3. IL MONDO PERVERSO DEI SEXUAL SERIAL KILLERS

3.1. Cosa si intende con il termine “perversione”

Secondo la lingua italiana il termine “perversione” corrisponde ad una sorta di

degenerazione di un istinto, e dal latino il termine perversio è indicativo di

rovesciamento, volgimento, mentre pervertere è accomunato ai molteplici significati di

pervertire, abbattere, rovinare, confondere, violare.

Attesa, quindi, la pluralità delle pulsioni istintuali, il concetto di perversione può ben

agevolmente essere esteso ed applicato anche a quegli istinti non riducibili

esclusivamente alla sessualità.

Potremmo difatti registrare perversioni dell’istinto di nutrizione, del “senso morale”,

degli istinti sociali, del possesso esclusivo del coniuge ed altre.

Considerate le finalità del presente lavoro, lo stesso sarà mirato esclusivamente alla

perversione in rapporto alla sessualità e sulle conseguenze che i relativi comportamenti

perversi non disgiunti dall’acting-out (passaggio all’atto aggressivo), possono avere

sull’uomo inteso nel duplice ruolo di soggetto ed oggetto.

Freud parla di perversione riferendo unicamente il fenomeno alla sessualità; difatti lo

stesso Autore, pur riconoscendo l’esistenza di altre pulsioni, non considerò mai queste

ultime come perverse e nei “Tre saggi sulla sessualità”, scrive: … “la disposizione alla

perversione, non è qualcosa di raro e di particolare, bensì una parte della costituzione

detta normale”.

Freud, partendo dalla convinzione che esiste una sessualità infantile (sottoposta al gioco

delle pulsioni parziali, connesse alla diversità delle zone erogene), la quale precede lo

sviluppo sessuale vero e proprio, arrivò a considerarla e infine descriverla come una

“disposizione pervertita polimorfa”.

Pertanto, secondo Freud, la perversione sessuale adulta, non sarebbe altro che un

riaffiorare di pulsioni parziali della sessualità infantile, una regressione ad una

fissazione precedente della libido.

Secondo Laplanche e Pontalis10, la perversione è “una deviazione rispetto all’atto

sessuale normale, volto ad ottenere piacere mediante penetrazione genitale, con una 10 LAPLANCHE J., PONTALIS J. B., Enciclopedia della LECCESE E., Il serial killer, nella realtà e

nell’immaginario, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2001.

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persona del sesso opposto”.

Si dice che vi è perversione quando: l’orgasmo è ottenuto con altri oggetti sessuali

(omosessualità, pedofilia, rapporti con animali, ecc…) o con altre zone corporee

(piacere anale per esempio); l’orgasmo è subordinato in modo imperioso a certe

condizioni intrinseche (feticismo, travestitismo, voyeurismo, esibizionismo,

sadomasochismo), che possono provocare da sole, il piacere sessuale. Più in generale, i

due Autori sottolineano che “si designa come perversione, l’insieme del comportamento

psicossessuale che si accompagna a tali atipie nell’ottenimento del piacere sessuale”.

Krafft-Ebing11 rimane uno degli Autori più autorevoli, che cercò di raggruppare le

psicopatie sessuali nell’elenco che segue:

- paradossia: consiste nella comparsa dello stimolo sessuale al di fuori del periodo

normale dell’attività anatomo-fisiologica degli organi di riproduzione;

- anestesia: mancanza di stimolo sessuale;

- iperestesia: aumento dello stimolo sessuale;

- parestesia: perversione dello stimolo sessuale.

Secondo lo stesso Krafft-Ebing è perversa ogni manifestazione dell’istinto sessuale non

corrispondente agli scopi ed alle finalità della natura, ovverosia la riproduzione.

Secondo tali vedute, le perversioni possono quindi essere suddivise in due grandi

gruppi: il primo in cui è da considerarsi perverso lo scopo dell’azione

(sadomasochismo, feticismo ed esibizionismo); il secondo in cui è viceversa perverso

l’oggetto e, di conseguenza, per lo più anche l’azione (omosessualità, pedofilia,

gerontofilia, zoofilia).

Il tentativo più recente di inquadrare le parafilie sotto un profilo medico è quello del

DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.

Attualmente, la quarta versione elenca le forme più frequenti: l’esibizionismo, il

feticismo, il frotteurismo (il piacere che deriva dallo strofinarsi contro una persona non

consenziente), la pedofilia, il masochismo ed il sadismo sessuale, il feticismo di

travestimento ed il voyeurismo; assegnando poi alla categoria “non altrimenti

specificate”, forme meno comuni come la necrofilia, la coprofilia e via enumerando.

Va sottolineato, a scanso d’equivoci, come già dal 1974 l’omosessualità egosintonica,

vissuta consapevolmente e con accettazione, sia stata giustamente eliminata dall’elenco 11 KRAFFT-EBING VON R., Psychopathia Sexualis, a cura di E. De Beccard e R. Jotti, Homerus,

Roma, 1971.

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delle patologie.

Una classificazione utile la fa Robert Sadoff12 nel suo Sexual Deviance: Theory,

Assessment and Treatment del 1997. Per Sadoff le parafilie possono essere divise in due

grandi gruppi, che chiama aggressive e anonymous; nel primo ci sono lo stupro, il

sadismo e la pedofilia; mentre nel secondo trovano spazio forme come il feticismo ed il

frotteurismo.

Anil Aggrawal, docente di medicina legale dell’Università di New Delhi, ha proposto

per parafilici ed aggressori sessuali un graduale passaggio dalle pure parafilie ai crimini

sessuali; si parte con perversioni quali l’acarofilia, vale a dire il piacere sessuale del

grattarsi, per passare al feticismo, alla zoofilia ed all’esibizionismo; un gradino più in là

nella scala, ed ecco la necrofilia ed il sadismo, prima di giungere a condotte delittuose

come la pedofilia, lo stupro e l’omicidio per libidine.

La lacuna, però, di tutti questi studi è che nessuno, sino ad oggi, è in grado di chiarire,

una volta per tutte, a quale criterio riferirsi per stabilire se una condotta sessuale sia

deviante o patologica, se sia più utile la cornice statistica, quella religiosa oppure

culturale.

Ma per arrivare ai sexual serial killers, ai protagonisti di questo lavoro, manca un

passaggio fondamentale: quello che conduce dalla parafilia al crimine. È ovvio che non

tutti i parafilici si trasformano in criminali sessuali e non tutti i criminali sessuali sono

parafilici.

3.2. I Disturbi Sessuali

Nel Codice di Classificazione Nosografica Internazionale rappresentato dal DSM IV

(1996), tra i Disturbi Sessuali vi troviamo: le Disfunzioni Sessuali, le Parafilie e i

Disturbi dell’Identità di Genere.

Le Disfunzioni Sessuali sono caratterizzate da un’anomalia del desiderio sessuale e

delle modificazioni psicofisiologiche che caratterizzano il ciclo di risposta sessuale e

causano notevole disagio e difficoltà interpersonali. Le disfunzioni sessuali

comprendono i disturbi da avversione sessuale, i disturbi dell’eccitazione sessuale,

disturbo del piacere sessuale, disturbi da dolore sessuale, disfunzione sessuale dovuta ad

una condizione medica generale, disfunzione indotta da sostanze e disfunzione sessuale

12 SADOFF R., Sexual Deviance: Theory, Assessement and Treatment, Pocket, New York, 1997.

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non altrimenti specificata.

Le Parafilie sono fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e intensamente

eccitanti sessualmente, che in generale riguardano: 1) oggetti inanimati, 2) la sofferenza

o l’umiliazione di se stessi o del partner, 3) bambini o altre persone non consenzienti,

che si manifestano per un periodo di almeno 6 mesi. Per alcuni soggetti, fantasie o

stimoli parafilici sono indispensabili per l’eccitazione sessuale e sono sempre inclusi

nell’attività sessuale. In altri casi, le preferenze parafiliche si manifestano solo

episodicamente (per es. durante periodi di stress), mentre altre volte il soggetto riesce a

funzionare sessualmente senza fantasie o stimoli parafilici. Il comportamento, i desideri

sessuali o le fantasie causano disagio clinicamente significativo o compromissione

dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.

Le fantasie parafiliche posso essere agite con un partner non consenziente in modo da

risultare lesive per il partner stesso (come nel sadismo sessuale o nella pedofilia). In

alcune situazioni, la messa in atto delle fantasie parafiliche può comportare lesioni auto

provocate (come nel masochismo sessuale). Le relazioni sessuali e sociali possono

essere danneggiate se altri trovano il comportamento sessuale vergognoso o ripugnante

o se il partner sessuale del soggetto rifiuta di condividere le preferenze sessuali

inusuali. In alcuni casi, il comportamento inusuale (per es. atti esibizionistici o

collezione di oggetti feticistici) può diventare l’attività sessuale principale nella vita

dell’individuo. Questi soggetti raramente giungono all’osservazione degli operatori

psichiatrici spontaneamente e, di solito, lo fanno solo quando il loro comportamento li

ha messi in conflitto con i partners sessuali o con la società. Non di rado, i soggetti

hanno più di una parafilia.

I Disturbi dell’Identità di Genere sono caratterizzati da un’intensa e persistente

identificazione con il sesso opposto, associata ad un persistente malessere riguardante la

propria assegnazione sessuale. Due ulteriori categorie aggiuntive sono poi rappresentate

dal Disturbo dell’Identità di Genere Non Altrimenti Specificato ed il Disturbo Sessuale

Non Altrimenti Specificato. Tale categoria viene inclusa per codificare i disturbi

dell’identità di genere che non sono classificabili come specifico Disturbo dell’Identità

di Genere. Gli esempi includono:

1) condizioni intersessuali (per es. sindrome di insensibilità agli androgeni o iperplasia

surrenale congenita) con concomitante disforia di genere:

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2) comportamento di travestimento con abbigliamento del sesso opposto transitorio e

connesso a stress;

3) persistenti pensieri di castrazione senza desiderio di acquisire le caratteristiche

sessuali del sesso opposto.

Viceversa, la seconda categoria del Disturbo Sessuale Non Altrimenti Specificato viene

inclusa per codificare un disturbo sessuale che non soddisfa i criteri di nessun Disturbo

Sessuale Specifico e non è né una Disfunzione Sessuale né una Parafilia. Gli esempi

includono:

1) marcati sentimenti di inadeguatezza riguardo alla presentazione sessuale o altre

caratteristiche connesse a standard auto-imposti di mascolinità o femminilità;

2) disagio connesso ad un quadro di ripetute relazioni sessuali con una successione di

partners vissuti dal soggetto come cosa da usare;

3) persistente ed intenso disagio riguardo all’orientamento sessuale.

3.3. La classificazione di Mac Cary

In questa sede non verranno trattati gli aspetti storico-filosofici, socio-culturali e

genetico-costituzionali dell’argomento in oggetto in quanto esulano dalle finalità del

presente lavoro, ma è bene sottolineare che, la letteratura sul tema ci fornisce una

multiformità di classificazioni tra cui, oltre a quella già riferita da Krafft-Ebing, le più

attuali ed autorevoli secondo Ferracuti e Lazzari13 risulterebbero essere quelle di

Karpman e quella del gruppo di ricercatori (Gebhard ed altri) dell’Istituto Kinsey,

nonché quella di Mac Cary (1967) che distingue tre criteri direttivi articolati quindi in

tre categorie:

I Modi anormali del funzionamento e della qualità della tendenza sessuale:

1) Sadismo (con le sottocategorie dell’omicidio sadico).

2) Masochismo.

3) Esibizionismo.

4) Scopofilia, voyeurismo.

5) Troilismo.

6) Travestitismo.

7) Oralità sessuale. 13 FERRACUTI F., LAZZARI R., Aspetti sociali dei comportamenti devianti sessuali, Relazione al I

Congresso Internazionale di Sessuologia, Sanremo, 5-8 aprile 1972.

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8) Analità sessuale o sodomia.

II Scelta abnorme del partner sessuale:

9) Omosessualità: considerata dapprima una forma di perversione sessuale caratterizzata

dall’inclinazione erotica verso soggetti dello stesso sesso, attualmente viene classificata

fra i disturbi psicosessuali soltanto se vissuta dallo stesso soggetto in modo conflittuale.

In tale ultimo caso è indicata come omosessualità egodistonica per differenziarla da

quella egosintonica, non più considerata come disturbo mentale (DSM III).

10) Pedofilia.

11) Bestialità.

12) Zoofilia.

13) Necrofilia.

14) Pornografia.

15) Oscenità.

16) Feticismo.

17) Frottage.

18) Saliromania.

19) Gerontosessualità.

20) Incesto.

21) Scambio coniugale (wife swapping).

22) Mysofilia, coprofilia, urofilia.

23) Masturbazione.

III Grado abnorme di desiderio o forza della pulsione sessuale:

24) Frigidità;

25) Impotenza;

26) Ninfomania;

27) Satiriasi;

28) Promiscuità e prostituzione;

29) Violenza carnale;

30) Seduzione;

31) Adulterio.

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È bene a questo punto, soffermarsi su una sintesi, sia pure allargata di alcune delle

relative definizioni.

Feticismo: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è legato all’adorazione di

singole parti del corpo, di capi di vestiario dell’altro sesso o semplicemente di tessuti

con i quali questo suole vestirsi. In genere il coito non porta soddisfacimento se non

accompagnato dalla presenza del feticcio e, lì dove il feticcio compare, può altresì la sua

presenza non garantire necessariamente una soddisfazione completa. L’interesse

sessuale è minimo ed è intimamente legato ai dettagli.

Zoofilia: è una perversione sessuale che comporta inclinazioni verso animali; può essere

accompagnata da azioni sadiche (maltrattamenti).

Pedofilia: è una perversione sessuale caratterizzata dall’inclinazione erotica verso

bambini, fanciulli o adolescenti, solo in un secondo momento preferiti dal pedofilo

come partners in relazione al sesso. La preferenza di un determinato livello di sviluppo

è stata ampiamente confermata dalle più recenti ricerche psicofisiologiche

sperimentate14.

Esibizionismo: è la perversione sessuale che consiste nel far mostra dei propri genitali

all’altro sesso o pubblicamente. Il soggetto esibizionista ama mostrare inaspettatamente

i propri genitali e sovente possono seguire atti masturbatori o altri. Bersagli

dell’esibizionismo possono essere prevalentemente ragazze già sviluppate, oppure

bambini e fanciulle.

Voyeurismo: la curiosità non è da confondersi con l’osservare segretamente situazioni

sessuali allo scopo di trarne eccitazione e soddisfacimento; difatti, in quest’ultimo caso,

la stessa curiosità si trasforma in voyeurismo, allorquando rappresenta l’unica o la

dominante meta sessuale nel comportamento di una persona15.

Masochismo sessuale: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è coniugato

alla sofferenza o all’umiliazione subita dal soggetto. È l’esatto contrario del sadismo

sessuale e consiste nel piacere legato al subire maltrattamenti inflitti da parte di altri.

Anche l’azione masochistica può essere associata al coito, oppure quest’ultimo,

sostituto del tutto dall’azione suddetta.

Sadismo sessuale: è la perversione sessuale in cui il soddisfacimento è legato alla

sofferenza, all’umiliazione inflitta al partner. Il soggetto sadico tenderebbe ad associare 14 SCHORSCH E., Sexualstraftater, Stoccarda, 1971. 15 MAISCH H., Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, Roma, 1982.

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la voluttà con le rappresentazioni di crudeltà attiva, il tutto sostenuto da una notevole

componente affettivo-emozionale. Appare chiaro che nel soggetto sadico non è il coito a

determinare il completo soddisfacimento sessuale, bensì è l’azione sadica a pilotare lo

stesso coito. In taluni casi, l’azione sadica può persino concludersi con l’uccisione del

partner: assassinio per libidine. Vi sono peraltro casi in cui il coito viene completamente

sostituito dall’azione sadica.

Necrofilia: è una rara perversione sessuale nella quale viene raggiunto l’orgasmo

mediante atti eterosessuali od omosessuali compiuti su un cadavere.

Gerontofilia: indica l’attrazione sessuale specifica, tendenzialmente esclusiva, verso

persone anziane da parte di persone molto più giovani.

Parafilia atipica: comprende tutte quelle forme non classificabili in altre parafilie come

per es. la coprofilia (feci), il fratteurismo (strofinamento), la clismafilia (clisteri), la

mysofilia (immondizie), la coprolalia o scatologia (frasi oscene al telefono) e l’urofilia

(urine).

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4. DALLA PARAFILIA AL CRIMINE

Per suggerire che dietro ad un omicidio ci sia un movente sessuale, occorre sia presente

almeno uno degli elementi descritti dagli agenti dell’FBI Robert Ressler, John Douglas

e dalla psichiatra Ann Burgess. Il primo ha a che fare con il tipo, le condizioni o

l’assenza degli indumenti della vittima; poi c’è l’esposizione delle zone genitali del

cadavere; il terzo aspetto riguarda la modalità in cui il corpo è stato messo in posa sulla

scena del crimine; il quarto l’inserimento di oggetti estranei nelle cavità naturali; al

quinto ed al sesto posto ci sono la prova di un rapporto sessuale, orale, anale o vaginale

e l’evidenza di un’attività erotica sostitutiva, come ad esempio la mutilazione dei seni.

4.1. L’impero di Thanathos: i Necrofili

La necrofilia è una ben starna perversione, probabilmente la più ripugnante, e non è

semplice trovarla come condotta isolata. Si accompagna di solito al sadismo oppure al

cannibalismo.

Sugli aspetti patologici della necrofilia, la comunità scientifica non ha però ancora

raggiunto conclusioni certe, anche perché il disturbo, più che un quadro clinico

omogeneo, appare come uno spettro di comportamenti molto diversi tra loro. La base

genetica è sostenuta da chi ha messo in relazione le anomalie del lobo temporale con

tutta una serie di parafilie, inclusa la necrofilia; mentre le teorie psicoanalitiche spaziano

da un’ostilità inconscia verso la figura dei genitori, accompagnata da impulsi sadici ad

esplorare il corpo materno, all’interiorizzazione degli atteggiamenti familiari che

vedono nel sesso qualcosa di sporco e pericoloso.

In ogni caso, la classificazione più recente ad opera dello psichiatra indiano Anil

Aggrawal16, parla di almeno nove categorie di necrofilia, dalla più innocente alla

peggior forma di perversione criminale, fornendo per ciascuna esempi particolari.

Si comincia con la tipologia dei role players, i giochi di simulazione. Qui la necrofilia è

del tutto simbolica e l’eccitamento viene raggiunto fingendo che uno dei partners sia

morto e magari risorga proprio grazie ad una prestazione sessuale. Esistono persino

servizi specializzati nell’offrire prostitute truccate e agghindate come cadaveri, adagiate 16 AGGRAWAL A., References to the paraphilias and sexual crimes in the Bible, in Journal of Forensic

and Legal Medicine, 2008.

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su un catafalco.

Non è raro che nella fantasia subentrino poi aspetti di vampirismo e, in letteratura, è

citato il caso di una donna che pretendeva che il compagno si fingesse morto, per poi

stimolarne i genitali, fingendo che l’erezione provocata fosse in realtà dovuta al rigor

mortis.

La seconda categoria è rappresentata dai necrofili romantici, incapaci di accettare la

morte della persona amata. Per questo arrivano a chiedere di mummificarne il corpo, in

tutto o in parte. Il più celebre caso di necrofilia romantica è certo quello che ha visto

coinvolto il dottor Carl Tanzler.

Nato a Dresda, in Germania, l’8 febbraio 1877, Tazler emigra negli Stati Uniti nel 1926.

Prende moglie, ha due bimbe, ma poi lascia la famiglia per trasferirsi al Marine Hospital

di Key West, in Florida, dove lo assumono come radiologo. Più tardi Carl racconterà di

aver avuto in gioventù visioni in cui appariva il volto di una bellissima antenata, la

contessa Anna Costantina von Cosel e, quando nel corso di una visita medica, si

presenta davanti a lui la ventenne Maria Elena Milagro, per poco non perde i sensi.

Ecco il volto della contessa, ecco la donna della sua vita!

Nessuno ha mai saputo con certezza se la donna abbia ricambiato l’adorazione del

dottor Tanzler, ma quel che è certo è che Maria Elena si ammala di una forma incurabile

di tubercolosi. Carl tenta ogni terapia possibile, ma il 25 ottobre 1931 deve arrendersi. Il

radiologo si addossa allora le spese del funerale e la costruzione di una cappella

dedicata all’amata, dove sosta in preghiera praticamente ogni notte.

Nell’aprile del 1933, Tanzler decide che non gli è più possibile stare lontano da Maria

Elena, ne dissotterra il corpo e se lo porta a casa. Ne sistema le ossa, aggiunge un paio

di occhi di vetro alle orbite ormai vuote e, man mano che la pelle del cadavere

scompare, la sostituisce con della morbida seta. Senza parlare della necessità di

ricorrere costantemente ad una gran quantità di disinfettanti e profumi.

L’idillio prosegue fino a quando la notizia della macabra vicenda arriva all’orecchio

della sorella di Maria Elena, che affronta Tanzler e scopre il corpo: questo però avviene

nell’ottobre del 1940, nove anni dopo la morte della donna e sette di macabra

convivenza tra il radiologo ed il suo amore perduto.

Giudicato capace di affrontare un processo, Carl Tanzler venne rilasciato, anche per

l’ormai avvenuta prescrizione del reato.

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La terza tipologia proposta dal dottor Aggawal è quella della necrofilia latente, propria

dei soggetti con un ricco mondo di fantasie. Come nei primi due casi, non siamo ancora

nell’ambito dei comportamenti criminali, ma certo il livello di patologia inizia ad

aumentare.

Si tratta di soggetti che fantasticano rapporti con un cadavere, non perdono un funerale,

una tumulazione, frequentano assiduamente i cimiteri.

A costoro, la vicinanza di un corpo in una bara provoca un’immediata eccitazione ed è

per questo che, la gran parte di loro, cerca impiego presso le agenzie di pompe funebri o

gli obitori.

Role players, romantici e latenti non arrivano mai a un contatto diretto con un cadavere

ed è per questo che sono definiti “necrofili platonici”.

I necrofeticisti piuttosto che avere rapporti completi con un cadavere non disdegnano la

possibilità, se l’occasione è propizia, di prendersi qualcosa del defunto, da un capo

d’abbigliamento fino ad una parte del corpo; portata sempre addosso come amuleto o

lasciata a casa come oggetto di stimolo; la parte rimossa concede ai feticisti

un’impagabile eccitazione erotica.

I necromutilomaniaci, tipologia numero cinque, ottengono la loro gratificazione erotica

praticando la masturbazione mentre mutilano un cadavere; alla ricerca di un piacere

estremo, possono anche cibarsi di alcune parti del corpo.

I necrofili opportunisti sono individui che hanno normali rapporti sessuali e, la loro

mente, non è abitata da fantasie necrofile. Nondimeno, possono arrivare ad avere

rapporti completi con un cadavere, approfittando di situazioni particolari. Un esempio è

il caso descritto nel 1989 dagli psichiatri Rosman e Philip Resnick: un uomo di 37 anni

conosce una donna di dodici anni più anziana e inizia con lei una soddisfacente

relazione. Purtroppo un giorno, completamente ubriaco, maneggiando un’arma da

fuoco, colpisce accidentalmente la compagna uccidendola all’istante. Colto dal panico,

cerca di nascondere il corpo, ma la vista del cadavere lo eccita a tal punto da portarlo ad

un rapporto completo. È probabile che, riferiscono Rosman e Resnick, l’impulso

dell’uomo sia emerso dalla sua conoscenza delle pratiche necrofiliche attraverso le

pubblicazioni pornografiche che collezionava.

I necrofili classici rifuggono dai rapporti sessuali normali, pur avendone la possibilità.

Se cercano la disponibilità di un cadavere, è proprio perché quel tipo di rapporto è

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quello che fornisce loro il maggiore piacere sessuale.

La categoria più pericolosa dal punto di vista criminale è quella degli assassini

necrofili, che uccidono per procurarsi un cadavere con cui intrattenere rapporti sessuali.

In questa categoria possono essere ben inseriti celebri serial killers come Jeffrey

Dahmer, diciassette omicidi tra il 1972 ed il 1981 o Ted Bundy, condannato alla sedia

elettrica per trentasei omicidi commessi tra il 1971 ed il 1978. Anche Gary Leon

Ridgway, può essere definito un assassino necrofilo.

Nato l’8 febbraio 1948, mostra un morboso e precoce interesse per le prostitute. Si

sposa una prima volta all’inizio degli anni Settanta e nel 1975 convola a nozze una

seconda volta ed ha un bimbo. Si separa nel 1982, per sposarsi una terza volta, all’età di

52 anni, ed inizia ad uccidere proprio in quell’anno. Riescono ad identificarlo soltanto

nel 2001, e una volta catturato confessa di aver ucciso 48 volte, anche se si pensa che le

sue vittime siano più di 90. Durante il processo, emerge che più volte l’assassino è

tornato nel luogo dove aveva occultato i corpi, per avere rapporti sessuali con i

cadaveri. In un’occasione pare che sia arrivato al punto di lasciare suo figlio in auto,

proprio per soddisfare i suoi bisogni necrofilici.

La nona, ed ultima categoria, è certamente la più aberrante, ma non necessariamente la

più pericolosa.

Si tratta dei necrofili esclusivi, una parafilia molto rara, in cui i soggetti non possono

avere altra vita sessuale se non con i defunti. Il loro comportamento può diventare

problematico nel caso in cui l’impulso a recuperare un cadavere sia talmente imperioso

da eliminare qualunque freno inibitorio.

4.2. Una parte vale più di tutto il resto: i Feticisti

Ancor prima che ad una parafilia, il termine feticismo è riservato ad una forma arcaica

di religiosità, dove l’oggetto di cultura è il feticcio, un oggetto di ispirazione umana o

animale, che si ritiene dotato di poteri magici.

È il filosofo Charles de Brosses a coniare il termine nel 1760 pensando in chiave

antropologica e solo cent’anni dopo lo psichiatra tedesco Krafft-Ebing lo associa ad una

forma ben specifica di perversione. Una ventina di anni più tardi Sigmund Freud lo

spiega con la sua teoria dello sviluppo psicosessuale, come un meccanismo per superare

l’angoscia di castrazione del bambino durante la fase edipica.

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Parafilia prevalentemente maschile, sui manuali moderni, il feticismo per essere tale

deve rispondere a tre criteri: il primo racconta che devono essere presenti, durante un

periodo di almeno 6 mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti e

intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’uso di oggetti inanimati, come

ad esempio capi di biancheria intima femminile.

Il secondo criterio sostiene che le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti

devono causare un disagio importante o compromettere le capacità sociali, lavorative o

di altre importanti aree del funzionamento.

Il terzo ed ultimo aspetto chiarisce che gli oggetti feticistici non sono limitati a capi di

abbigliamento femminile per travestirsi oppure a strumenti progettati per la

stimolazione genitale, come vibratori o sex toys in generale.

Come tutte le altre parafilie, il feticismo si traduce in un continuum di comportamenti,

dai più innocui ai più stravaganti, e a volte mortali.

Si comincia con il prediligere alcune caratteristiche del partner, dall’aspetto

all’abbigliamento, senza che la cosa impedisca il piacere con altri ed in altri contesti; si

passa, quindi, alla presenza obbligata del feticcio per raggiungere l’orgasmo, quindi alla

sostituzione del partner con l’oggetto. Da ultimo, ed entriamo nel campo del crimine,

c’è chi arriva ad uccidere solamente per entrare in possesso del particolare eccitante,

non raramente una parte del corpo della vittima.

Tra le classificazioni del feticismo, mantiene sempre la sua validità quella proposta da

Krafft-Ebing nel 1886, che propone tre categorie: nella prima il feticcio corrisponde ad

una parte del corpo, nella seconda ad un capo d’abbigliamento, e da ultimo, nella terza,

ci sono materiali come il velluto, la seta, la pelle, il lattice.

E il feticismo per una parte del corpo delle donne è al centro di uno dei casi più

controversi della nostra storia del crimine.

C’è una vicenda strana, fatta di persone scomparse e di delitti, ma anche di indizi

particolari: capelli, ciocche di capelli. Tutto sembra cominciare a Bournemouth, una

piccola cittadina inglese, dove il 12 novembre 2002 viene trovata morta la

quarantottenne Heather Barnett.

Un brutto omicidio, un assassino che ha infierito con colpi di coltello, recidendo i seni

della vittima e mutilandone il corpo. Ma non basta, perché c’è un altro dettaglio, meno

crudele ma altrettanto inquietante: serrate in entrambe le mani di Heather ci sono

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ciocche di capelli, femminili sì, ma che non appartengono a lei, ne è possibile

riconoscerne l’origine.

I sospetti convergono su un giovane italiano che abita a due passi dalla casa della

Barnett, Danilo Restivo e, a questo punto, ecco ritornare dal passato l’ombra di un

mistero, quello di Elisa Claps, 16 anni, scomparsa nel nulla a Potenza, il 12 settembre

1993.

Elisa quella mattina, uscita da messa, aveva un appuntamento con un ragazzo che si

chiama Danilo Restivo, un ragazzo che ha la strana abitudine di salire sugli autobus con

una forbice in tasca e tagliare le chiome delle ragazze.

Il 17 marzo 2010, nel sottotetto della chiesa potentina della Santissima Trinità, vengono

ritrovati i resti della povera ragazza; è stata uccisa a coltellate e l’assassino le ha poi

reciso alcune ciocche di capelli.

Il 30 giugno 2011 il tribunale della contea di Winchester condanna Danilo Restivo

all’ergastolo per l’omicidio di Heather Barnett.

Il giudice che emise la sentenza lo definì un assassino freddo e calcolatore, capace di

avere ucciso Elisa così come, dieci anni dopo, la povera Heather.

Ad oggi, nel caso Claps, Danilo Restivo è imputato per l’omicidio della ragazza.

Ma è possibile passare dall’ossessione per i capelli all’aggressione, all’omicidio sadico?

Il caso di Restivo e di Brudos (trattato nel par. 2.3.1) hanno dimostrato in modo chiaro il

percorso criminale che parte dall’assillo per un feticcio fino ad arrivare al delitto.

Verrebbe piuttosto da pensare che i tacchi a spillo siano più eccitanti di una ciocca di

capelli, se non ci venisse in soccorso il solito Krafft-Ebing, che in mezzo ai 35 casi

dedicati al feticismo descritti in Psychopathia Sexualis, al numero 52, ci mette questo:

Caso 52, P., quarantenne, scapolo, cresciuto bene, intelligente, ma presto gravato da

tic e complessi di coercizione. Amava platonicamente, faceva spesso progetti

matrimoniali; si univa solo raramente con prostitute, ma non ne provava alcuna

soddisfazione, piuttosto ribrezzo.

Una sera fu arrestato a Parigi mentre, nella confusione della calca, recideva la treccia di

una ragazza. Quando lo arrestarono teneva ancora la treccia nella mano e aveva le

forbici in tasca. Cercò di scagionarsi dicendo di avere avuto uno smarrimento

momentaneo, di essere affetto da un’infelice mania, più forte di lui, e ammise di aver

tagliato già altre dieci trecce, che custodiva in casa con la più piacevole soddisfazione.

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P. racconta che durante gli ultimi tre anni, quando la sera si trovava solo in camera, si

sentiva male, era dominato dalla paura, aveva capogiri, era pervaso da un desiderio

sfrenato di toccare le chiome di una donna. Al culmine dei suoi attentati afferma di

essersi sempre eccitato al punto di avere solo percezioni e quindi ricordi incompleti di

quanto avveniva intorno a lui. Durante il sopralluogo, furono trovati in casa oltre 65

trecce e ciocche ed una quantità di forcine, nastri ed altri oggetti di toilette femminili.

Un’ulteriore evoluzione della parafilia feticista, prevede non tanto l’ossessione per una

parte, ma la trasformazione dell’intero corpo in un oggetto.

Esistono fanatici del robot fetishism che chiedono alla partner di simulare la

trasformazione in umanoide; ci sono poi i seguaci dell’agalmatofilia, l’attrazione

sessuale per statue e manichini. Ancora più ampia è la categoria del transformation

fetishism, in cui la donna accetta, ad esempio, di trasformarsi in una bambola,

vestendosi e prendendo le pose di una barbie al servizio dell’amante.

Infine, un passo più in là sta il fat fetishism, la predilezione per una compagna obesa,

una categoria più ampia di quella che predilige le skinny girls, le ragazze ridotte a

scheletro da devastanti pratiche anoressiche.

4.3. Le donne anziane vittime della perversione: i Gerontofili

L’attrazione di giovani nei confronti di chi appartiene alla terza o quarta età risente

dell’indubbia influenza di epoche e culture: non era infrequente nell’Ottocento trovare

ragazze sedotte da un uomo decisamente più anziano, e nel secolo precedente toccava ai

ragazzi struggersi per un rapporto con donne attempate.

Siamo tuttavia ben lontani dal parlare di una parafilia, la gerontofilia appunto, e dal suo

sconfinamento nei territori del crimine.

Purtroppo le statistiche criminali mostrano, invece, un aumento delle aggressioni

sessuali ai danni di donne anziane – praticamente mai le vittime sono uomini – tanto che

il Manuale di Classificazione dei Crimini dell’FBI dedica al tema un capitolo speciale e

lo affronta, come nel caso degli altri delitti violenti, seguendo un’impostazione del tutto

pragmatica, a partire dall’analisi dei profili delle vittime.

È evidente, infatti, che una donna di 70-80 anni è una persona spesso vulnerabile perché

nei due terzi dei casi vive sola, dato che l’aspettativa di vita più lunga nel genere

femminile finisce per produrre più vedove che vedovi. Poi c’è il fatto che difficilmente

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la sua abitazione è dotata di sistemi di sicurezza efficaci e, da ultimo, la struttura fisica

più fragile e la minor forza rendono più difficile resistere o fuggire davanti ad un

aggressore.

Quando l’approccio si trasforma in un attacco letale, la causa di morte più frequente è lo

strangolamento, seguito dall’uso di corpi contundenti ed armi bianche; mentre l’impiego

di armi da fuoco è meno presente.

Per quanto riguarda l’aggressore, le statistiche dicono che il 60% vive a meno di sei

isolati di distanza dalla casa della vittima, la metà di loro risiede nello stesso isolato,

tanto che la maggior parte degli aggressori raggiunge e si allontana dalla scena del

crimine a piedi.

Indipendentemente da età e razza, chi violenta e uccide donne anziane ha quasi sempre

dei precedenti penali, soprattutto per rapina. Di bassa cultura, senza un’occupazione

stabile, per la gran parte celibi ed economicamente dipendenti, gli offenders

condividono l’abuso frequente di alcool e stupefacenti.

Se identificati, la metà di loro confessa immediatamente, mentre un altro 20% si lascia

andare ad ammissioni parziali: in fondo prendersela con una vittima così fragile e

particolare non è cosa di cui andar fieri. Per questo l’interrogatorio di un sospettato

dovrebbe centrarsi, almeno all’inizio, sul movente economico ed evitare la componente

sessuale della vicenda.

Passando all’analisi della scena del crimine, è raro ce ne sia più d’una. Il primo

approccio, l’aggressione, l’omicidio e le attività post mortem avvengono tutte nello

stesso modo. La maggior parte degli aggressori penetra nell’abitazione della vittima

tramite porte o finestre, oppure ricorre a tranelli ed inganni, e nei tre quarti dei casi ciò

accade tra le otto di sera e le quattro del mattino.

Gli oggetti impiegati per strangolare, per colpire o accoltellare appartengono di solito

alla vittima, e la gravità delle ferite può dare indicazioni importanti sul profilo del

criminale: più sono gravi e numerose, minore è l’età del soggetto e più vicina la sua

residenza al luogo del delitto.

Capita spesso che il colpevole non si curi di lasciare tracce sulla scena: liquido seminale

e saliva, capelli e peli pubici sono tra i reperti che vanno cercati con cura. Difficilmente

poi questo tipo di criminale sottrae alle sue vittime oggetti da conservare come trofei o

souvenirs: piuttosto si prende denaro in contanti, gioielli o piccoli oggetti di valore.

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Ma ciò che veramente impressiona nella violenza sulle donne anziane è il livello di

crudeltà e di ferocia, il ricorrere all’inserzione di oggetti ed alla mutilazione; il che

rimanda al grande interrogativo sul movente degli stupratori e killers gerontofili.

Tra le analisi più recenti, una in particolare appare interessante, ed è quella che il

professor Hadrian Ball consegna nel 2005 al Journal of Forensic Science. Ball identifica

due modelli concettuali dietro agli abusi ed agli omicidi a sfondo sessuale di donne

anziane. Il primo poggia su una motivazione prettamente legata al sesso, e vede

l’aggressore come un soggetto deviante, affetto da una parafilia. Il secondo spiega,

invece, l’aggressione come una variante psicodinamica dello stupro, una variante

fondata sulla rabbia. In questo caso, la donna non viene scelta per uno scopo sessuale,

ma per il suo ruolo di vittima supplente: nell’anziana controllata, ferita ed umiliata,

l’aggressore trova il sostituto simbolico di una figura d’autorità, in genere la madre

dispotica e castrante che ha condizionato la sua infanzia.

Un’ ulteriore tipologia, sempre basata sul movente, la propone il Massachusetts Trauma

Center, che distingue gli “opportunisti” dagli offenders motivati dalla rabbia,

dall’erotizzazione sessuale e dal bisogno di vendetta.

L’ offender opportunista agisce in modo impulsivo, senza preparare o pianificare la

violenza. Non mostra alcuna preoccupazione per la salute della sua vittima, e lo stupro

avviene per l’immediata gratificazione che produce.

Nella categoria dei pervasive anger, gli aggressori motivati dalla rabbia, l’uso della

forza è eccessivo e gratuito. L’aggressione non è dominata da fantasie sessuali; piuttosto

qualunque tipo di resistenza da parte della vittima, anche la più debole, innalza il livello

di aggressività fino all’omicidio.

La violenza di chi agisce sulla spinta di un’erotizzazione estrema, invece, appare molto

ben pianificata: il sex offender sceglie la sua vittima, si cautela dal lasciare indizi che lo

incriminino, e si porta dietro gli attrezzi idonei all’aggressione.

Nei vendicatori il fulcro del movente è la rabbia esclusivamente rivolta al genere

femminile, e non diffusa, come nel caso della pervasive anger. Le loro azioni sono

sadiche e brutali, e la violenza è asservita al piacere di umiliare, non alla gratificazione

sessuale.

Ma per dimostrare che la gerontofilia criminale non è cosa che riguardi epoche o paesi

lontani, c’è una storia che è accaduta in Italia pochi anni fa: una storia che aspetta una

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conclusione che forse non arriverà mai.

“ Da piccolo mi ricordo che era tutto proibito. I primi ricordi li ho che avevo 5 anni. Il

primo giorno di scuola, la presentazione al maestro ed ai compagni. Mio padre mi ha

accompagnato, mia sorella era già lì. A scuola mi trovavo bene, imparavo le cose senza

difficoltà, andavo d’accordo con i miei compagni. Ho dovuto ripetere il sesto anno, ho

dovuto fare il compito dell’esame finale in un’altra scuola. Mi sono sentito molto male

per questo, forse mi hanno fatto delle ingiustizie. Poi ho fatto tre anni di scuola

superiore e due di liceo. Quando avevo 18 anni pensavo già di venire in Italia. Non mi

piaceva la Tunisia, la gente, il modo di vivere, le bugie, le liti. Ero una persona

indesiderata da tutti, bevevo, passavo le notti fuori, mi denunciavano, la polizia veniva

a cercarmi”.

Lui si chiama Ben Mohamed Ezzedine Sebai e nasce il 15 ottobre 1964 a Qayrawan, la

città delle trecento moschee, secondo di otto fratelli, quattro maschi e quattro femmine.

Arriva in Italia nel luglio del 1988, e trova presto lavoro come bracciante a Cerignola, in

Puglia. Poi, nel maggio del 1990 si sposta a Merano, dove si mantiene facendo il

lavapiatti e più tardi l’operaio. Lo arrestano a dicembre, con l’accusa di violenza

sessuale ai danni di una ragazza.

In carcere, anche in Italia, Sebai ci resta poco. Gli concedono il beneficio della

condizionale e la Questura di Bolzano gli consegna un decreto di espulsione. Lui non si

scompone, lo butta da qualche parte e torna a Cerignola, dove ricomincia a lavorare nei

campi.

Nel gennaio del 1993 i carabinieri di Bari lo arrestano per una rapina, e Sebai dà loro

false generalità. Gli toccherebbe scontare un anno ed undici mesi se non fosse che, per

la seconda volta, gli riconoscono il diritto alla sospensione condizionale.

Viene nuovamente fermato a Pescara, nell’aprile del 1993, ma se la cava perché dà un

falso nome e con quello non è schedato; un trucco che ripete almeno altre quattro volte.

Ci vorranno quattro anni per arrestarlo, e da allora nessuno si è più sognato di lasciarlo

andare, anzi, è probabile che dal carcere non uscirà mai più, perché nel frattempo si è

scoperto che Sebai è un serial killer. Il più prolifico assassino che abbia mai agito in

Italia, secondo soltanto a Donato Bilancia.

12 gennaio 1994: Assunta Aprile

8 luglio 1995: Petronilla Vernetti, 83 anni

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13 agosto 1995: Celeste Commessatti, 83 anni

24 aprile 1996: Celeste Madonna, 81 anni

30 maggio 1996: Giuseppina Corbetta, 72 anni

10 agosto 1996: Anna Stano, 85 anni

15 gennaio 1997: Maria Totaro, 76 anni

5 aprile 1997: Grazia Montemurro, 76 anni

1 maggio 1997: Anna Maria Stella, 69 anni

9 maggio 1997: Santa Leone, 82 anni

14 maggio 1997: Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni

28 luglio 1997: Maria Valente, 84 anni

28 luglio 1997: Rosa Lucia Lapiscopia, 90 anni

27 agosto 1997: Angela Sansone, 84 anni

15 settembre 1997: Lucia Nico, 75 anni

Ma perché l’avrebbe fatto, perché se la sarebbe presa con tutte quelle povere e fragili

signore anziane? In parte Sebai dà la colpa all’alcool, perché era l’alcool che gli faceva

uscire la rabbia.

Ma chi aveva picchiato il giovane Sebai, tanto da lasciargli dentro un gran senso di

ingiustizia e la voglia, un giorno di rifarsi?

“… Mia madre mi colpiva con le ciabatte e mi metteva del tabacco in polvere negli

occhi, per punirmi. Anche le altre donne del paese aiutavano mia madre a fare questo.

A volte il peperoncino me lo metteva nell’ano per punirmi. Mia nonna aiutava le altre

donne a picchiarmi. Mia madre e le sue amiche mi picchiavano, erano tutte vestite di

nero. A undici anni ho cominciato a picchiare mia madre e, crescendo, diventavo

sempre più forte di lei. Tutti i miei fratelli avevano paura di me”.

Donne vestite di nero, donne anziane: proprio come Assunta, Petronilla, Celeste e tutte

le altre.

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4.4. Il piacere di infliggere sofferenza: i Sadici Sessuali

Il concetto di sadismo sessuale è ambiguo perché comprende tanto chi si limita a

fantasticare, tanto chi arriva a torturare, mutilare e uccidere, passando per i soggetti che

scelgono un partner consenziente, ovviamente masochista, ben disposto a subire dolore

ed umiliazioni.

Meglio allora sarebbe riservare il termine sadico-sessuale solo agli individui che

traducono in gesti la loro perversione e lo fanno ai danni di una vittima.

Ogni investigatore che abbia raccolto le dichiarazioni di una vittima torturata o che

abbia lavorato sulla scena di un omicidio sessuale sadico, non dimenticherà mai questa

esperienza.

La crudeltà umana si rivela in numerosi modi, ma raramente in maniera più desolante

che nei crimini dei sadici sessuali.

Che cos’è il sadismo sessuale?

Sadismo sessuale significa eccitarsi per la sofferenza altrui. Sappiamo tutti che

l’eccitazione sessuale può arrivare nei momenti più strani, anche in persone

perfettamente normali. Nel caso di assassini sessuali sadici, invece, essa emerge come

risposta alla sofferenza della vittima.

Riporto le parole di due sadici sessuali che raccontano i loro desideri.

Uno scrive: “lo scopo principale è farla soffrire, perché non esiste potere più grande

che si possa esercitare su una persona che quello di infliggerle dolore, forzarla a

sottomettersi, farla soffrire, senza che sia in grado di difendersi. Il piacere della

dominazione completa di un’altra persona è la vera essenza dell’impulso sadico”.

Un altro assassino scrive delle sue attività sadiche con la sua vittima: “lei si contorceva

dal dolore ed era una cosa che mi faceva impazzire. Stavo fondendo la massima

gratificazione sessuale: lo stupro, e la vetta del dominio: la paura. Stavo creando

un’unione totale che è impossibile spiegare….vivevo per l’unico scopo di causare

dolore e ricevere appagamento sessuale….mi gustavo il dolore tanto quanto il sesso…”.

Entrambe le dichiarazioni confermano che è la sofferenza della vittima, e non

semplicemente l’inflizione del dolore fisico o psicologico, ad essere sessualmente

stimolante. Uno di questi uomini faceva entrare ed uscire la vittima da uno stato di

incoscienza in modo da poter assaporare continuamente e per un tempo estremamente

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lungo le sofferenze.

Infliggere dolore rappresenta per l’aggressore un modo efficace per sollecitare le

risposte desiderate: obbedienza, sottomissione, umiliazione, paura, terrore.

Le sofferenze fisiche e psicologiche sono degli specifici particolari, scoperti durante le

indagini, a stabilire se il crimine commesso presenta i tratti del sadismo sessuale oppure

no.

Le cose da accertare sono: se la vittima ha sofferto, se la sofferenza è stata causata

intenzionalmente e se ciò ha eccitato l’aggressore. Tali paletti devono essere posti in

quanto atti sessuali o violenti eseguiti su una vittima incosciente o morta non

costituiscono necessariamente prova di sadismo sessuale, dal momento che la vittima

non può provare dolore. Per questo motivo, le sole violenze post-mortem non indicano

sadismo sessuale.

Gli stupratori, per esempio, causano di certo sofferenza alle vittime, ma soltanto il

sadico sessuale infligge dolore, fisico o psicologico, in maniera intenzionale, con lo

scopo di amplificare il proprio godimento. Bisogna tener presente che gli atti di estrema

crudeltà o che causano molto dolore alla vittima, in genere, sono messi in atto per scopi

non sessuali, anche durante crimini di natura sessuale. Il comportamento dei sadici

sessuali, così come quello di altri criminali sessualmente devianti, si estende su uno

spettro molto ampio. I sadici sessuali possono essere dei cittadini normali che rispettano

le leggi, che hanno delle fantasie che però non mettono in atto o che mettono in pratica

con dei partners consenzienti. Soltanto quando commettono dei crimini, essi stessi e le

loro fantasie diventano soggetti di interesse per le forze dell’ordine.

Tutti gli atti criminali di natura sessuale iniziano come fantasie. In ogni caso, a

differenza di quanto accade per le normali fantasie sessuali, quelle dei sadici si

concentrano sulla dominazione, sul controllo, sull’umiliazione, sul terrore,

sull’aggressione e sulla violenza, oppure su una combinazione di questi temi, intesi

come mezzo per causare sofferenza. Al variare del tipo di fantasia, varia anche il grado

della violenza. Le fantasie che emergono dai ricordi personali dei criminali sono

complesse, elaborate e riguardanti scenari estremamente dettagliati, che includono

metodi specifici di cattura e controllo, luoghi in cui commettere il crimine, ordini che la

vittima deve eseguire, sequenze di atti sessuali e specifiche risposte da parte della

vittima.

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Pertanto, il piacere principale dell’assassino è quello di prolungare il più possibile le

sofferenze delle vittime, ritardandone il momento del decesso. Spesso, questo tipo di

assassino seriale fa ricorso a strumenti che gli consentono di immobilizzare la vittima

(manette, corde, ecc..) per poter poi prolungare l’agonia.

Quando una vittima viene disumanizzata, in un certo senso, il torturatore la percepisce

come essere che merita la punizione oppure come qualcuno che provoca una sensazione

di disgusto e quindi, nella sua prospettiva distorta, l’aggressività diventa giustificata.

Il serial killer sadico ha bisogno di avere un contatto con la vittima ed uno dei modi

preferiti di uccisione è lo strangolamento, perché gli permette di prolungare a piacere il

momento reale del decesso, aumentando o diminuendo la forza della stretta: l’assassino

può guardare negli occhi la vittima che lotta inutilmente contro la morte e vederla

spegnersi lentamente, azione che cresce la sua tensione erotica e che, nella maggior

parte dei casi, culmina nell’orgasmo.

Un’importante classificazione dei serial killers sadici ci viene proposta da Schurman-

Kauflin17:

Sadico “maniaco sessuale”: la scena del crimine è caratterizzata da overkilling,

degradazione della vittima, lesioni concentrate su genitali, glutei e seni.

Questo tipo di sadico è il più feroce, è pieno di odio verso il genere femminile e gli

piace la violenza. Di solito, nel suo aspetto, c’è almeno una caratteristica femminile

(una voce dal timbro chiaro, corporatura gracile, seni troppo sviluppati). L’umiliazione

della donna serve per farli sentire più mascolini.

Sadico “pedofilo”: la scena del crimine è caratterizzata da vittime infantili, segni di

tortura e disposizione esterna del cadavere.

Spesso, questo sadico ha alcune componenti femminee nel suo aspetto proprio come il

maniaco sessuale, ma il suo livello di insicurezza è più profondo, ragion per cui sceglie i

bambini come vittime. Ha un aspetto rassicurante, spesso è sposato, ha famiglia e un

lavoro stabile.

Sadico “omosessuale”: i cadaveri ritrovati sulla scena del crimine presentano segni di

mutilazione, “sperimentazione” varia e smembramento.

Di solito, questo sadico ha un aspetto piuttosto mascolino e una corporatura massiccia.

17 SCHURMAN-KAUFLIN D., V.U.L.T.U.R.E.: Profiling Sadistic Serial Killers, Universal Publishers,

2005.

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Molto curato nell’aspetto e molto abile nella manipolazione. Metodo preferito di

uccidere è lo strangolamento, dopo aver stordito la vittima con droghe e/o alcool.

Sadico “macho man”: la scena del crimine è piuttosto ordinata, pulita, e l’uccisione è

effettuata con calma.

Questo sadico è il più intelligente e sicuro di sé. Usa il fascino per avvicinare le donne

che considera dei semplici “giocattoli” per il suo piacere. Ha una visione estremamente

arcaica del rapporto uomo/donna. È il tipo più ossessivo e paranoide, interessato alle

attività di polizia e militari. Si intende di psicologia e criminologia.

Sadici attivi in coppia: la scena del crimine è caratterizzata da modelli

comportamentali differenti che rispecchiano le singole personalità, ma c’è sempre

tortura, stupro e mutilazioni sui cadaveri delle vittime.

Il grado di violenza è molto elevato e c’è sempre una personalità dominante dell’altra.

La coppia può essere anche uomo/donna.

Modello V.U.L.T.U.R.E. di Schurman-Kauflin:

- V= VIOLENT

Tutti i sadici amano utilizzare una forte dose di violenza per scaricare la loro rabbia;

- U= UNINHIBITED

Il sadico è completamente disinibito e gli piace sperimentare sesso estremo e uccisioni

alternative;

- L= LIARS

L’uso sistematico di menzogne è parte integrante della personalità dei sadici

manipolatori;

- T= TALKERS

La manipolazione verbale viene usata nell’approccio con la vittima e amplificata la

sensazione di potere;

- U= UNFEELING

Il sadico è emotivamente insensibile ai bisogni degli altri;

- R= RUTHLESS

La crudeltà assoluta permette al sadico di torturare e uccidere senza avere

ripensamenti;

- E= EMPTY

Il sadico avverte un vuoto interiore al quale riesce a dare sollievo temporaneo solo

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infliggendo dolore agli altri.

4.5. Alcuni casi noti di interesse criminologico

Qui di seguito verranno riferiti sette casi particolarmente significativi, lì dove alla

degenerazione dell’istinto sessuale è associato l’acting-out.

I caso

Edward Paisnel, appaltatore-giardiniere a cottimo, di Channel Island del Jersey (1957),

rapiva adolescenti dai loro letti e li sottoponeva alle più estrose oscenità, sodomizzando

sia le ragazze sia i ragazzi, effettuando peraltro su questi ultimi la fellatio. Fu accusato

di 20 crimini e condannato a 30 anni di carcere.

II caso

Peter Griffiths di 22 anni, abitante con i genitori, ex soldato della guardia (1948); una

notte nei pressi di Blackburn, nel Lancashire, entra in ospedale e da una corsia popolata

da bambini, rapisce la bambina più grande (tale Juhe Devaney di 4 anni) ricoverata per

disturbi al torace e la conduce a sé, verso il muro di cinta dello stesso ospedale,

violentandola brutalmente e spappolandole il cranio contro il muro. Il medico legale

asserì: “Ho l’impressione che la bambina sia stata tenuta per i piedi e la sua testa

sbattuta ripetutamente contro il muro”. Griffiths aveva avuto una ragazza la quale lo

aveva lasciato perchè beveva troppo. La sera del delitto era uscito “per passare da solo

una serata tranquilla”, racconta lo stesso Griffith, (bevve undici pinte di birra, due

Guinnes e due doppi Rum), “… la tenevo sul braccio destro e lei mi aveva messo le

braccia intorno al collo. Sono sceso, ho attraversato il prato e l’ho distesa sull’erba…

lei non smetteva di piangere… ho perso la pazienza ed a questo punto sapete quello che

è successo dopo”.

III caso

Gaston Dominici (1952) 77 anni sposato con prole, contadino in Alta Provenza.

Voyeurista occasionale, uccise una famiglia composta da tre persone: padre, madre e

figlia, perché scoperto nell’atto di osservare le bellezze della madre, la quale si stava

spogliando in aperta campagna. Non seppe resistere di fronte a quegli indumenti

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femminili che la donna si toglieva di dosso, eccitandosi. Sparò ed uccise le tre vittime,

in quanto offeso dal marito di lei. La bimba venne uccisa poi con il calcio del fucile in

cui non rimanevano più proiettili. Fu condannato all’ergastolo nel 1960.

IV caso

Fritz Haarmann di Hannover (1925), 40 anni, omosessuale cannibale che dopo aver

abusato sessualmente di giovani sodomizzandoli, li uccideva e li mangiava, oppure li

vendeva perché fossero mangiati (era una spia della polizia). Fu assicurato alla giustizia

e ammise di aver commesso 24 omicidi.

V caso

Albert De Salvo, 35 anni. Operaio, uomo integerrimo e ottimo padre di famiglia; amava

molto i suoi due bambini, ma si lamentava perché la moglie, a suo dire, era “fredda” e

viceversa lui era superdotato, desideroso di rapporti sessuali anche sei volte al giorno.

Lo stesso De Salvo così asseriva: “… quando vado in macchina a lavorare, comincio a

crearmi l’immagine e poi mi scarico da solo, ma 5 minuti dopo sono di nuovo pronto e

l’immagine ritorna e la pressione mi sale nella testa, mi capite?”. Lo strangolatore

utilizzava le seguenti strategie: brandiva un colpo in testa o poneva un braccio intorno al

collo non appena la donna gli voltava le spalle. Denudava la vittima e, dopo l’atto

sessuale, il corpo veniva sistemato in posa suggestiva e lasciava il seno verso l’alto e la

gambe nude divaricate.

VI caso

Patrick Byrne, operaio, 28 anni, di origine irlandese. Caratterizzato da un atteggiamento

ambivalente odio-amore verso il sesso femminile; ne era al tempo stesso ossessionato e

terrorizzato. Era un “voyeurista”, ed una sera dopo aver fatto abuso di alcolici in

compagnia di due amici, Byrne iniziò a curiosare attraverso i vetri di una finestra

illuminata in corrispondenza della quale vide una ragazza attraente (Stephanie Baird di

29 anni) che, in maglietta e sottoveste, si pettinava. Byrne entrò in casa e nel corridoio

incontrò la ragazza e, sfiorandole il seno, si eccitò intensificando i toccamenti. La

ragazza provò a ribellarsi ma lui la soffocò con le mani. Stephanie cadde per terra, la

sua testa rimbalzò sul pavimento ed il cranio si fracassò. A questo punto Byrne abusò

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sessualmente della vittima ormai deceduta e con un coltello da cucina mutilò il

cadavere, iniziando dapprima con il seno di destra: “… ho cominciato a tagliare

tutt’attorno”, disse Byrne, “… sono rimasto stupito e deluso, quando si è staccato e mi

è rimasto in mano. L’ho guardato e l’ho scaraventato verso il letto, poi mi sono dato da

fare con quell’altro. Poi ho cominciato con la nuca… continuavo a tagliare… quando la

testa si è staccata l’ho presa per i capelli e mi sono alzato. L’ho tenuta davanti allo

specchio e l’ho guardata. Pensavo di terrorizzare tutte le donne. Volevo farla pagare a

tutte per avermi provocato questa forma di tensione nervosa con il loro sesso”. Fu

condannato all’ergastolo.

VII caso

Alfred Charles Whiteway, di anni 22, operaio edile. Assassino dell’Alsazia. Coniugato

con una 18enne, un figlio, in attesa di un secondo. Stupratore incallito, aveva

abitualmente più donne a disposizione, ma non era mai soddisfatto. Lo eccitava

realmente soltanto la violenza carnale. Portava abitualmente con sé un’accetta e

raggiunse un totale di ben 12 violenze carnali. Una domenica di fine maggio, Whiteway

aggredì due ragazze che alle undici di sera ritornavano a casa in bicicletta ed i cadaveri

furono ritrovati nel fiume con il cranio fracassato, il corpo pugnalato e con evidenti

segni di violenza carnale. Il patologo che esaminò i cadaveri, evidenziò particolare

violenza nell’aggressione e stabilì che prima dell’aggressione le ragazze erano vergini.

Whiteway così dichiarò alla polizia: “sono malato, la mia testa non va, ci deve essere

qualcosa, non riesco a frenarmi”. Il 22 dicembre 1953 Whiteway fu impiccato.

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5. GIANFRANCO STEVANIN:

IL “MOSTRO DI TERRAZZO” TRA SESSO E MORTE

5.1. La storia della sua vita

È stato uno dei più spietati serial killer del nostro Paese, ma anche uno dei più

particolari, un maniaco sessuale con l’indole dell’assassino, dell’eliminatore. Il suo

nome è Gianfranco Stevanin, ma per le sue efferate imprese è stato soprannominato,

all’epoca, il “re dei feticisti”, il “Landru della Bassa”, il “giustiziere delle prostitute”, il

“mostro di Terrazzo”.

Questo perché oltre ad avere un debole per le donne, soprattutto per le prostitute, a

Gianfranco piacevano certi giochi sessuali, quali il “bondage” ed il “fetish”, con i quali

si intratteneva con le sue compagne occasionali, le quali, però, non sempre riuscivano,

come vedremo ad uscirne vive. Sei di loro ci hanno rimesso la vita, vittime di pratiche

sessuali estreme, frutto di sadismo e di perversione.

Quella di Gianfranco Stevanin è la storia di un uomo che non riusciva ad avere un

approccio fisico con le donne se non con la violenza, con la sopraffazione, dettata dalle

regole del “padrone” che ordinava e della “schiava” che ubbidiva e soddisfaceva

qualsiasi desiderio o impulso maniaco. Ma è anche una storia fatta di solitudine, di

annientamento sociale e psicologico.

Forse non sarà ricordato come il più prolifico serial killer italiano ma probabilmente, al

momento, può essere ricordato come il più perverso di tutti.

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Gianfranco Stevanin nasce a Montagnana (PD) il 21 ottobre 1960 da Noemi Miola e

Giuseppe Stevanin, due facoltosi proprietari terrieri che vivono sostentandosi

completamente con i frutti dei loro possedimenti. Si tratta di una famiglia abbastanza

facoltosa ed i genitori sono anche fin troppo protettivi nei confronti dei figli (così, in

un’intervista, Stevanin afferma: “i miei, forse per iperprotettività, intervenivano sempre;

in poche parole, se volevo fare qualcosa senza sottostare al loro occhio inquisitore,

dovevo tenerla nascosta”. Poi aggiunge che tutto questo gli dava fastidio all’inizio,

perché i suoi non lo consideravano un adulto in proporzione all’età che aveva; dopo,

però, ha iniziato a decidere con la sua testa e diceva loro solo l’indispensabile).

Quando ha 5 anni, sua madre ha una gravidanza difficoltosa ed i genitori, non potendo

badare al piccolo, decidono di mandarlo in collegio. La gravidanza finirà con un aborto

spontaneo e Gianfranco tornerà a vivere in famiglia. Tuttavia, la sua permanenza è

limitata perché pochi mesi dopo si farà male cadendo e battendo la testa contro un

attrezzo agricolo. La cosa si risolve con un grosso spavento e 4 punti di sutura per il

piccolo, che viene mandato nuovamente in collegio per evitare che finisca per farsi male

di nuovo. Questa volta la permanenza durerà per tutto il ciclo delle elementari, medie e

primo anno di superiori, privando il bambino dell’affetto e della figura dei genitori,

soprattutto del padre come riferimento.

Proprio in questi anni, quando lui ne ha 13, vive la sua prima esperienza sessuale; viene

molestato da una ragazza 24enne che abusa di lui, anche se poi sarà lui stesso a

scagionarla ammettendo che la cosa non gli era dispiaciuta e che non aveva cercato di

fermarla.

Nel 1976 torna a casa e pochi mesi dopo resta vittima di un altro incidente, stavolta

molto più grave. Gianfranco ha la passione delle moto potenti ed è proprio da una di

queste che cade procurandosi una “lesione bilaterale dei lobi frontali”, finendo in coma

per due settimane. Dopo un mese subisce un delicato intervento di chirurgia plastica

per la ricostruzione delle fosse craniche del margine orbitario. Gianfranco si salverà da

questa brutta esperienza ma verrà distrutta tutta la sua sfera psicologica. Perde amici,

fidanzata ed abbandona gli studi. Il suo comportamento cambia e diventa più bizzarro,

inizia a soffrire di un principio di epilessia e non riesce a stare sui libri a lungo perché

ha difficoltà di concentrazione e soffre di forti emicranie. Che la sfera comportamentale

abbia subito un grave colpo lo si vedrà negli anni immediatamente a venire.

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Dal 1978 al 1983 verrà processato diverse volte per svariati capi d’accusa: simulazione

di reato (inscena un rapimento e chiama anche i suoi genitori per farsi pagare il

riscatto), rapina, violenza privata (costringe una ragazza, sotto minaccia di una pistola,

che poi si scoprirà giocattolo, ad accompagnarlo ad una festa).

Nel 1983 verrà poi condannato per omicidio colposo per aver causato la morte di una

ragazza che aveva investito in auto.

Nonostante tutte queste peripezie giudiziarie, è proprio in questi anni, precisamente dal

1980 al 1985, che vive la sua unica vera storia d’amore con Maria Amelia. Purtroppo

lei si ammala gravemente e Gianfranco viene continuamente sollecitato dai familiari a

lasciarla, cosa che poi farà per evitare screzi in famiglia. Tempo dopo, però, si pentirà

amaramente di questa scelta e proverà a cercarla di nuovo, ma lei nel frattempo si è

rifatta una vita, anche sentimentale, e lui di questo ne soffrirà e non poco.

Probabilmente dopo i due traumi fisici subiti negli anni, questo è il colpo di grazia che

trasformerà definitivamente Stevanin in un mostro, il “mostro di Terrazzo”.

Comincia la discesa agli inferi. Gianfranco comincia a frequentare prostitute e si

allontana per sempre dal concetto di amore e sessualità vissuta in modo normale. Gli

incontri diventano regolari e le fantasie sempre più perverse e violente. La sua vecchia

passione per la fotografia torna prepotente e comincia a pagare le prostitute affinchè si

facciano ritrarre in pose oscene.

Nel suo casolare, dopo l’arresto verranno recuperate più di 7000 foto. E come per le

foto, anche tutto il resto, compreso l’esistenza di un serial killer che operava nella zona,

verrà appreso solo dopo il suo arresto, avvenuto il 16 dicembre 1994.

Tutto verrà scoperto per caso. Quel giorno, infatti, al casello di Vicenza una donna apre

la portiera di una Dedra blu e corre verso una macchina della Polizia parcheggiata nelle

vicinanze. La ragazza si chiama Gabriele Musger (nome che poi risulterà falso, il suo

vero nome è in realtà Sigrid Legat) ed è una prostituta che lavora nella zona. Il suo

racconto è sconcertante. Era stata avvicinata da quel ragazzo gentile e di bella presenza,

che gli aveva proposto di posare nuda per lui, dietro compenso di 1.000.000 di vecchie

lire. La ragazza accetta e lo segue nel casolare ma, ben presto, capisce che la situazione

degenera e si ribella quando si trova legata polsi e caviglie al tavolo sul quale è stesa

sulla schiena. Lui è diventato nervoso e la minaccia, così lei pur di salvarsi la vita, lo fa

cadere nell’errore che gli costerà caro. Gli promette dei soldi, tanti soldi, 25.000.000 di

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lire per lasciarla andare. Dice di averli in contanti a casa sua. Lui accetta, la porta a casa

ed al casello di Vicenza, appunto, approfittando della sua distrazione nel pagare il

pedaggio, scappa.

Inizialmente l’accusa è di violenza carnale e sequestro di persona ma dalla perquisizione

seguente, nel suo casolare, vengono fuori altri inquietanti indizi che fanno allargare

l’indagine. Ovviamente sono i documenti delle ragazze scomparse a suscitare maggiore

preoccupazione negli inquirenti. Stevanin, nonostante questi indizi abbastanza

compromettenti non confessa subito i delitti. Lo farà soltanto dopo il ritrovamento del

primo cadavere.

5.2. Il materiale sequestrato nel “casolare degli orrori”

Durante le perquisizioni nella casa di Stevanin, i carabinieri rinvengono del materiale

che viene messo sotto sequestro18: un taglierino, due pistole giocattolo, indumenti

intimi, capi di abbigliamento femminile, borsette da donna ed i documenti di donne

scomparse tempo prima e di cui non si era saputo più nulla ed un vero e proprio

schedario relativo alle prostitute che aveva conosciuto, con descrizione somatica,

misure, prestazioni a cui erano propense e voto finale. Poi ancora, circa 150 contenitori

di foto, per un totale di oltre settemila fotografie, negativi non ancora sviluppati, decine

di videocassette porno, una capigliatura bionda, contenitori con peli pubici; inoltre,

giornali pornografici, lettere ad amanti e fidanzate, santini ed immagini di libri sacri,

riviste, romanzi, enciclopedie di medicina, atlanti di anatomia e volumi sull’uso della

macchina fotografica.

Relativamente ai capelli ed ai peli, Stevanin, in un primo momento, informa che sono di

18 Questura di Verona, verbale di sequestro, 19/11/1994.

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tre o quattro donne, successivamente dice di averne rasate parecchie, non ricorda però il

numero preciso: “provavo piacere a vedere una ragazza adulta come una ragazzina; mi

piaceva sentire la pelle liscia, senza peli”. Per quanto riguarda i capelli, continua a

spiegare di non ricordare, ma di seguito precisa: “io tenevo i peli pubici ed i capelli

perché pensavo di farmi l’imbottitura di un piccolo cuscino; già c’erano i peli pubici,

mi sono detto: perché non mettere anche dei capelli?”19.

Dei libri sequestrati molti erano a carattere erotico o sadico. Al di là dei temi, i periti

spiegano che colpisce il fatto che la maggioranza di questi si collocano, come anni di

pubblicazione, tra il 1985 ed il 1989, quasi a testimoniare, come l’interesse per

questioni inerenti la sessualità si fosse concentrato in quell’arco temporale, per poi

scemare nettamente.

Ma è lo stesso Stevanin a precisare, di fronte al dubbio dei periti, che “semplicemente,

non hanno trovato quelli di prima; ce n’erano molti di più che poi ho eliminato, perché

non avevo niente a che vedere con il sentimento applicato al sesso”20.

I consulenti delle parti processuali, successivamente, hanno preso visione di tutta la

documentazione cartacea e fotografica, analizzandone approfonditamente il contenuto,

ritenuto estremamente importante per la ricostruzione del profilo psicologico del

periziando. Emerge chiaramente che Stevanin leggeva e, poi, modificava quanto

appreso, arricchendo e variando le tecniche erotiche sulla scorta di esperienze e fantasie

personali; inoltre, il giovane di Terrazzo, copia alcune parti di libri e riviste,

trascrivendoli in parte a mano, in parte a macchina, e spiegando egli stesso che

“servivano per me oppure per darli a persone che, in quel momento, mi

interessavano”21.

Particolarmente importante, secondo i periti, risulta essere il libro Facile da uccidere22,

per una parte del suo contenuto e, soprattutto perché, in copertina è raffigurata una

donna bionda, seduta di spalle su di una sedia, nuda, legata con la tecnica del bondage

(immobilizzazione), con appesa una macchina fotografica. A specifica domanda,

Stevanin liquida la questione affermando di non aver ancora letto il libro. Si tratta di un

romanzo di letteratura poliziesca, in cui si descrivono le ultime ore di vita di un serial

19 LODI C., PACCHIONI P., Indagine su un mostro: il caso Stevanin, Tascabili Sonzogno, Milano,

1999, p. 30. 20 Ibidem. 21 Ivi. 22 KATZENBACH J., Facile da uccidere, Mondadori, Milano, 1987, pp. 133, 210, 274.

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killer, narrando, da un lato, il rapporto con la vittima tenuta sotto sequestro; dall’altro, la

biografia del protagonista, interpretata in chiave psichiatrica. Particolarmente suggestivi

risultano alcuni passi, se confrontati con la storia e le vicende di Stevanin.

Infatti, gli psichiatri hanno sottolineato, nella loro perizia, le analogie di comportamento

tra il periziando e Douglas Jeffers, il protagonista del romanzo.

I due esperti, Fornari e Galliani, sostengono che Stevanin, suggestionato dal romanzo,

potrebbe aver voluto emulare, almeno in parte, le gesta del suo “eroe”: un fotoreporter

che ama fotografare le proprie vittime appena uccise, tra cui donne tagliate a pezzi,

prostitute assassinate e sepolte nei terreni della casa d’infanzia, donne legate e seviziate

con il rasoio. Scrivono i periti nel loro commento: “se confrontato con quanto è noto

della sessualità dello Stevanin, dei suoi hobbies, del suo modus operandi nell’approccio

sessuale e nella successione degli omicidi, dei reperti rinvenuti nella sua auto e in casa

e di come si è svolto l’episodio con la Musger, il libro appare estremamanete

suggestivo, tanto da poter far sorgere l’ipotesi che il personaggio del libro sia stato

assunto come modello”23.

In data 25 settembre 1996, Stevanin consegna ai periti un foglio scritto di proprio pugno

e copiato da una rivista pornografica trovata in carcere. In questa pagina descrive “come

mi riconosco”: “elegante, raffinato, sempre con un accenno di quel buon profumo e

perfettamente rasato”. In lui e da lui ogni cosa è al suo posto, tutto in ordine. E sempre

con quella piccola perversione: a lui la donna piace “nature”, in minigonna, senza slip

né collant e depilata. In questo modo, infatti, “il piacere inizia quando esco dalla porta

di casa e termina solo quando rientro a casa”24.

A questo punto Stevanin precisa che la pornografia non ha niente a che fare con

l’oscenità. Secondo i periti, queste poche righe ritraggono Stevanin in un modo che

coincide perfettamente con il profilo psicologico da loro effettuato.

Tra le altre cose, sono state sequestrate numerose “schede di fotomodelle”,

accompagnate da alcuni facsimile di scheda tipo, con molte voci inerenti le misure del

corpo delle ragazze. Recano tutte la voce “esperienze”; in seguito Stevanin precisa che

la dizione indica “esperienze fotografiche” e contengono generalità della modella, dati

descrittivi quali misure corporee (altezza, peso, giro seno, fianchi) e colore dei capelli,

tipo di servizio fotografico per il quale la ragazza è disponibile. 23 Relazione fornita dai periti G. Ponti e I. Galliani alla Corte d’Assise. 24 Ibidem.

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Il serial killer rivela ai periti la sua intenzione di fare il fotografo e non più l’agricoltore.

Ammette che le foto venivano fatte solo per suo piacere e che furono scattate in un arco

temporale piuttosto ampio (1981-1994); tutte le ragazze che sono inserite nelle schede,

sostiene di averle conosciute e che nessuna è inventata; viene, invece, appurato in

seguito che solo alcune di quelle donne sono realmente esistenti.

Allegati alle schede, vengono trovati dei fogli che inducono gli inquirenti a ritenere che

la finalità di esse fosse legata all’intenzione di svolgere servizi fotografici pornografici

ed avere delle credenziali da presentare ad eventuali clienti e nuove candidate.

In alcune cartelle, sono presenti scritte che fanno riferimento allo Stevanin come

fotografo (es. modella n. 2: “unico fotografo, sviluppatore e stampatore delle mie

fotografie sarà Stevanin Gianfranco”).

Fare qualche foto, diceva, lo aiutava a creare un clima di confidenza e di complicità; del

resto Stevanin affermava che “le foto mi servono per ricordare o per fantasticare”.

Sono state rinvenute numerose missive nell’abitazione dell’agricoltore indirizzate alla

sua ex fidanzata e, ovviamente, l’argomento principale di esse è il sesso. In molte di

queste, egli cerca di convincere la ragazza a spingersi oltre quanto abbiano già

sperimentato sul piano delle esperienze sessuali. Vi è anche un foglio in cui Stevanin

scrive un pensiero al suo grande amore: “ti voglio tanto bene. Franco al suo amore,

l’Amelia, l’anima gemella per l’eternità”25.

Poche sono le lettere che esulano dall’argomento sesso; in una di queste il serial killer

parla di una ragazza che apprezza per la sua semplicità e sensibilità: “vedi, mi ha colpito

di te la semplicità e la franchezza con le quali ti sei confidata con me; e, visto che le

persone capaci di aprirsi e fidarsi del prossimo sono poche, troppo poche, tu rientri in

quella cerchia di persone con le quali vale veramente la pena aprirsi, donare il tutto per

tutto, donare tutto se stesso”26. Poi continua scrivendo: “e visto che quando posso

aiutare qualcuno mi sento veramente realizzato, tu mi hai dato molto, non credi? Di

questo non finirò mai di ringraziarti. Sono le persone come te che mi rendono felice.

Felice di sentirmi utile, di fare qualcosa di utile, felice di vivere”27.

25 Questura di Verona, verbale di sequestro, 19/11/1994. 26 Ibidem. 27 Dal materiale sequestrato nell’abitazione di Stevanin.

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5.3. L’esame delle perizie

Sono state molte le volte in cui i periti hanno incontrato Gianfranco Stevanin, così come

lo sono state le ore di colloquio; di conseguenza, lunghe e dettagliate sono state le

relazioni psichiatrico-forensi sulle condizioni di mente del periziando, presentate

durante l’incidente probatorio.

5.3.1. Le perizie d’ufficio

I periti d’ufficio, Ugo Fornari e Ivan Galliani, nominati dal Gip del Tribunale di Verona,

Carmine Pagliuca, hanno ricevuto l’incarico ben due volte, uno in data 13 aprile 1996,

l’altro in data 21 settembre dello stesso anno. I risultati dei test effettuati sono i

seguenti28:

* scala di intelligenza Wais, Q.I.= 114. Si tratta di un soggetto con buona dotazione

originaria, con armonico sviluppo delle funzioni psichiche;

* test di Behn Rorschach: mette in evidenza un’affettività “guardinga”, un

adeguamento affettivo con poca libertà e flessibilità, mediato dal calcolo e dal

ragionamento; si può, quindi, desumere l’esistenza di meccanismi di ipercontrollo

rigido;

* test di Rosenzweig: rivela la presenza di un elevato numero di risposte extrapunitive,

indice di vulnerabilità dell’Io;

* M.M.P.I.: il profilo che ne deriva rivela una preoccupazione del soggetto di fornire

un’immagine di sé convenzionale, verosimilmente al fine di evitare presunti giudizi

negativi;

* IPAT (ASQ): rivela il livello d’ansia. Il risultato ottenuto si riscontra in soggetti

eccessivamente rilassati, sicuri;

* TAT e ORT: mostra una buona capacità di identificazione nelle situazioni, nei

personaggi e nell’atmosfera emotiva.

Al termine dei test, i periti commentano con Stevanin i profili ed i risultati di essi,

affermando che è ben dotato intellettivamente, non emergono difetti di memoria, non ci

sono dei grossi indici di dispersione; di fondo, non è una persona ansiosa e neppure

depressa; risulta essere un soggetto sospettoso e cauto; emerge anche una certa

28 Dagli Esami di Sussidio Psichico Diagnostico, consegnati ai consulenti delle parti.

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aggressività, il bisogno di tenere tutto sotto controllo (elemento tipico dei serial killers)

e l’incapacità di lasciarsi andare alle emozioni.

Durante i colloqui con i periti, Stevanin parla a lungo della madre, con la quale dice di

aver avuto sempre un buonissimo rapporto. Spiega, però, di non essere mai riuscito ad

avere una relazione duratura con le ragazze (fatta eccezione per Maria Amelia), perché

lei si intrometteva sempre; afferma “mia madre era peggio di uno 007, era praticamente

impossibile depistarla, era peggio di un segugio, praticamente mi faceva dire quello che

in realtà io le volevo tenere segreto”29. Da un certo momento in poi, Stevanin esclude i

suoi genitori dalle sue storie personali facendo di testa sua. Tutto questo rivela, secondo

i periti, un rapporto molto conflittuale ed oppositivo con la figura materna. Sua madre,

comunque, ha avuto una grande importanza per lui, specie nei primi quattro anni della

sua vita. Tanto che, alla fine, ammette che potrebbe aver influito molto l’allontanamento

dalla famiglia e la chiusura in collegio, dove si sentiva oppresso e non amato. Tutto

questo lo ha fatto soffrire perché non è più stato oggetto delle cure e dell’attenzione

della madre. Afferma, infatti, che “l’affetto della madre è un affetto unico; più nessuno

nella vita dà quello che la madre ha dato ad ognuno di noi quando eravamo bambini;

mia madre, senz’altro, mi dava tutto il possibile”30; questo è il suo convincimento, cioè

che la madre fosse sempre dalla sua parte, nonostante l’avesse mandato in collegio ed

avesse per questo motivo patito un senso d’abbandono.

Infatti, quando scappa dall’istituto, ha il suo primo rapporto sessuale con una donna

sposata, proprio perché in lei cerca, per i periti, più l’affetto che non la libertà e quella

donna rappresenta per lui l’immagine materna.

Secondo Fornari e Galliani, la madre ha sempre considerato Gianfranco Stevanin come

un bambino, non lo ha lasciato crescere; addirittura quando in un incidente provoca la

morte di una persona, la madre lo tranquillizza e lui stesso disse che lei aggiunse: “ti

comprerò una macchina nuova”.

È nell’infanzia, dicono i periti, che si è costruita una figura, fonte inesauribile di

gratificazioni, poi la frustrazione di un bisogno e la delusione di un’attesa gli possono

aver causato un trauma.

Si ha un’involuzione del sentimento, fino al suo spegnimento, con la progressiva

prevalenza dell’erotismo, fino al trionfo assoluto di questo. 29 Ibidem. 30 Ibidem.

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La constatazione: “la donna non mi può dare spontaneamente e disinteressamente

quello che mi dava mia madre”, esprime la sua profonda delusione; quindi l’amore

originario si è un po’ per volta trasformato in odio per la donna, pur continuando a

cercare nella figura femminile la fonte della gratificazione primaria.

Da questo momento in avanti, la donna non è più vissuta da lui come buona e tutte le

esperienze che ha avuto hanno consolidato in lui quest’idea. A livello inconscio,

spiegano i periti, Stevanin si è convinto che non sarebbe mai cresciuto, che non sarebbe

mai stato in grado di stabilire una relazione paritaria con la donna e ciò per colpa della

figura femminile stessa. Tutte le attese sono state deluse e Stevanin chiude la partita

degli affetti, perché convinto che le donne lo obbligassero a chiudere questa partita31,

non perché egli non avesse il desiderio di dare affetto; si sente amareggiato perché le

donne lo hanno “fregato pesantemente”, iniziando dalla madre.

Secondo Fornari e Galliani, sacrificare l’affettività è stata la sua sconfitta; nel rapporto

di coppia, egli si ritiene un perdente e di questo ritiene responsabile la donna. Cercano

di capire, i periti, cosa possa essere successo dentro di lui per arrivare ad uccidere sei

donne; ma è egli stesso che non sa spiegarlo. Si cela dietro molti “non ricordo” e

afferma che “la nostra memoria, nel decidere quali ricordi lasciare vivi e quali lasciar

andare, opera una selezione. In base ad essa potrebbero mancare particolari

importanti; è probabile che si cancellino i ricordi di poca importanza e quelli brutti”32.

Ha dei flash, rievoca qualcosa e le uniche vittime che seppellisce (la Pulejo e la

Pavlovic), sono quelle che ricorda con affetto; delle altre quattro dice di non

rammentare neanche il nome. Del resto con queste ultime non c’era legame alcuno.

Infine, aggiunge che “se mi dicessero che ci sono altre vittime oltre a quelle sei, non

saprei cosa dire”.

Da queste risposte, spiegano i periti, non si riesce ad approfondire la psicodinamica dei

suoi reati, né a comprendere appieno i suoi vissuti. Il suo atteggiamento rimane bloccato

e chiuso, non tradisce emozione alcuna.

L’attenzione di Stevanin, però, è altissima. È turbato, soprattutto vuol sapere se tutto il

discorso fatto lo porterà al riconoscimento di una patologia che potrebbe averlo indotto

a compiere i delitti; vuol sapere, inoltre, se e come interrompere questa potenziale

patologia. Sostiene, infatti, che “se gli argini posso metterli io, praticamente la 31 Dalla relazione presentata dai periti G. Ponti e I. Galliani alla Corte d’Assise. 32 Ibidem.

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pericolosità non ci sarebbe più”. Attraverso queste parole, affermano i periti, appare

chiaro l’obiettivo perseguito da Stevanin e qual è la sua strategia difensiva; del resto, dai

colloqui effettuati non emergono sensi di colpa o rimorso verso le vittime ed i loro

parenti.

Emergono alcuni elementi ricorrenti in molti momenti della sua vita, considerati dai

periti di straordinaria importanza:

a. l’abbandono, che non scatena soltanto la solitudine, ma spinge anche alla ricerca

compulsiva di qualche forma di riempimento;

b. il vuoto, che è la negazione del sentimento. Stevanin associa tristezza-solitudine-

freddo. La mancanza totale di sentimento coincide, per lui, con la solitudine. “Ho

sentito la vera solitudine”, ripete più volte, “soprattutto dopo la fine della storia con

Amelia”; di contro, si collocano i vissuti legati all’amore ed al sentimento, termini che

associa a trasporto-amore-famiglia-fisicità-intimità.

Sono i periti, ma anche gli avvocati difensori che, in ogni incontro, sollecitano Stevanin

a ricordare il più possibile i momenti cruciali degli incontri con le vittime, quelli in cui è

avvenuta la morte. Sono soltanto i racconti riguardo la Pulejo e la Pavlovic ad essere

fluenti, proprio perché, come detto, sono quelli a cui Stevanin era in qualche modo

legato. Relativamente alle altre vicende, le memorie sono bloccate; per questo ha dei

flash, spiega che “non c’è una visione che mi porta da qui fino alla fine, vado

spezzettato”. Tutti i suoi ricordi, afferma di “riviverli come se rivivessi un sogno, non

come qualcosa che è veramente successo”. Ed è così che, nelle lunghe rievocazioni

ricche di “presumo di ricordare”, “potrebbe essere”, “non ricordo”, “pensandoci bene”,

racconta di aver fatto a pezzi i corpi di alcune ragazze e che, a quelle reminiscenze,

collega due flash di zone vicine a dei canali, dove potrebbe aver buttato i corpi o parti di

essi. Sottolinea che nessuno di questi ricordi gli fa pensare ad un omicidio, precisando,

però, che “questo lo dico per la mia coscienza, non per voi”; anzi, ammette di essere

raccapricciato all’idea di aver fatto qualcosa del genere e non sa darsi una spiegazione

di come possa essere arrivato a tanto.

Nonostante i numerosi inviti dei periti, al fine di rinunciare ai suoi “non ricordo” ed

incoraggiandolo in un clima estremamente comprensivo, Stevanin afferma: “io

continuerò a sforzarmi, anche se mi costa; indipendentemente da quello che mi costa,

se per caso dovessi ricordare parlerò; non è mica simpatico dover ricordare cose

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simili”.

Nessuna rassicurazione da parte di Fornari e Galliani, quindi, è riuscita a smuoverlo più

di tanto; tutto questo, secondo i periti, indica la natura tutt’altro che psicogena delle sue

amnesie. Infatti, la caratteristica propria del suo modo di non ricordare, documenta in

maniera quanto mai chiara che egli può ricordare tutto perfettamente, altrimenti non gli

sarebbe possibile, a tratti, ricordare in modo così dettagliato.

In primo luogo, Fornari e Galliani, sottolineano che Stevanin si è sempre presentato ai

numerosi incontri avuti presso il carcere di Verona Montorio; si è dimostrato lucido,

cosciente, perfettamente orientato nel tempo, nello spazio, nei confronti della propria

persona e della situazione di esame.

Hanno valutato la modalità di esposizione, osservando che è completamente aderente

alla realtà processuale ed alle sue esigenze, nonostante non abbia seguito un filo logico

nella ricostruzione degli eventi. Stevanin è apparso, come detto, molto dotato sul piano

intellettivo, attento, preciso, pignolo fino all’eccesso; una coerente e costante freddezza

ha accompagnato ogni suo dire.

Affermano i periti che “Stevanin ha invocato improvvisi black-out della coscienza e

rievocazioni del tipo dream-state, per quello che riguarda gli eventi più vicini ai

delitti”; ma il modo in cui ha ricordato i fatti “è assolutamente incompatibile con un

disturbo dello stato di coscienza, quale il soggetto vorrebbe far intendere essere stato

presente in lui”.

Nel fornire le proprie ammissioni, aggiungono, è molto attento alle esigenze

processuali, ma anche a quelle di “immagine”, allo scopo di apparire agli altri come una

persona dedita a pratiche di sesso estremo, ma non come un sadico o un violentatore; è

evidente la precisa intenzionalità di ammettere quanto non può essere più

ragionevolmente negato.

I comportamenti sessuali, pur rivestendo carattere di abnormità e di perversione, non

possono assumere valore di malattia; quindi non acquisiscono rilevanza alcuna agli

effetti della valutazione dell’imputabilità.

Non corrisponde ad alcuna entità clinica e/o psicopatologica l’atmosfera di sogno e di

irrealtà in cui il periziando ha cercato di ammantare le prime ammissioni.

È evidente che Stevanin ha utilizzato questa modalità espositiva in modo intenzionale:

accampa dei ricordi in forma di flash e delle lacune amnesiche che vengono poi

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facilmente recuperate con ricordi dettagliati dell’ambiente in cui si sono svolti i fatti,

degli oggetti, dei comportamenti, di ciò che è avvenuto dopo33.

Quindi, i periti sostengono con sicurezza che questi dati non sono assimilabili a quegli

“stati crepuscolari” tipici della personalità multipla. Affermano, altresì, che “la capacità

di giudizio, di analisi, di critica, sono perfettamente conservate e che Stevanin presenta

una cronica incapacità di dire il vero, un’eccessiva fiducia nelle sue capacità ed abilità,

un temerario piacere a sfidare gli altri, una consumata abilità a presentarsi come

vittima-carnefice, un freddo controllo della situazione peritale, una struttura

narcisistica ed egodistonica, un mal dissimulato disprezzo per la donna”.

Questi tratti sadici, perversi e narcisisti sono comuni alla maggioranza degli assassini

seriali, per cui possiamo considerare Stevanin un serial killer tipico.

In questi soggetti continuano i periti, il deterioramento dell’esperienza affettiva è

espresso nella loro insofferenza per qualsiasi accrescimento di angoscia, nella loro

incapacità di deprimersi provando un dolore che riguarda la loro persona, nella loro

impossibilità di innamorarsi e di provare tenerezza nelle relazioni sessuali.

In conclusione, dal complesso delle loro indagini, dalle cartelle cliniche analizzate, dalla

condotta avuta, Fornari e Galliani affermano che, al momento dei fatti per i quali è sotto

processo, Gianfranco Stevanin non era affetto da alcuna infermità tale da costituire vizio

parziale o totale di mente.

5.3.1.1. Esame psichico

Lucido, orientato nel tempo e nello spazio e nelle persone, il campo di coscienza è

sufficientemente esteso e comprensivo, senza restringimenti e la coscienza permette

slittamenti e spostamenti temporali adeguati e competenti. La coscienza dell’Io sembra

nella norma, non si hanno alterazioni del sentimento di proprietà dei propri atti di

conoscenza. La memoria sembra, nei termini elementari, in ordine. Gli eventi

immediati, recenti e presenti sono ricercati con caparbietà e precisione. I contenuti

mnesici sono sistemati in schemi temporali esatti, non vi è rattrappimento della

susseguenza temporale e storica degli eventi, non vi sono paramnesie, non

confabulazione, non aspetti dismenesici o di deformazione di nessun tipo. Gli eventi che

coincidono e riguardano gli omicidi sono, invece, presentati come sconosciuti, estranei,

33 Ibidem.

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con qualche recupero più recente, ma immersi in una specifica inconsapevolezza, come

attività totalmente estranea e non posseduta dalla coscienza dell’Io, con un

atteggiamento di perplessità globale che pare costruito allo scopo di questo passaggio

specifico del colloquio.

Dunque, la situazione generale per ciò che riguarda la funzione mnesica è ottimale,

occorre rilevare la presenza di amnesie lacunari specifiche. In realtà aree di scotomi

mnesici investono gli eventi concatenanti ed i lassi di tempo che si riferiscono alle sue

azioni criminose. Queste sono specificamente cancellate, in un’atmosfera tra il

trasognato ed il perplesso, con un’attitudine di chi si chiede cosa mai siano queste cose

e con un’aria di perdita di contenuti attraverso la confusione: l’attributo perplesso è

quello che meglio si adatta a questa situazione. Clinicamente questo fenomeno è

fortemente vicino alla simulazione: è possibile perché i due stati mentali si

sovrappongono, che accanto a questo vi sia una condizione di doppia coscienza o

coscienza dell’Io collaterale, un fenomeno cioè di tipo ganseiforme, anche se

propriamente non si rilevano i segni specifici del Ganser34.

Sembra che le sequenze dei cerimoniali sadici siano investite da un’onda di rimozione

che deriva da una mescolanza di angoscia e di sentimenti, più che di colpa, di imbarazzo

profondo per gli eventi che rendono sconveniente il ricordo e di forte guadagno

secondario che lo induce ad utilizzare queste attitudini conversive. In ogni caso, questa

conversione è un fenomeno che riguarda la revisione degli eventi, la modalità stilistica

del racconto. È nel racconto a posteriori che si applicano queste scissioni mnesiche che

non riguardano l’evento mnesico prodotto da un particolare stato di coscienza al

momento del fatto. È, in altre parole, una sorta di stratagemma narrativo che, in modo

oscillante tra il cosciente ed il non cosciente, egli ha adottato.

Si comprende che l’attenzione è in ordine: le risposte sono adeguate, parla

opportunamente se interrogato, ma prende iniziative autonome nel racconto con una

buona tensione attiva verso la situazione e le argomentazioni.

Il linguaggio, come si coglie durante il colloquio, appare corretto, del tutto scorrevole e

talora ridondante, con frequente presa di iniziativa, ricapitolazioni e richiami, addirittura

34 La sindrome di Ganser, chiamata anche pseudodemenza, è una sindrome neurologica di origine

isterica nella quale si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento quando il paziente è consapevole di essere osservato. Tale sindrome può essere considerata come simulazione o come isteria.

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richiami all’ordine dell’interlocutore se ha l’impressione che questi lasci l’argomento

inconcluso.

Il lessico è buono ma artificioso e non corrispondente al suo livello culturale; spesso

l’uso di una terminologia pseudo-tecnicistica gli conferisce un’aria enfatica costruita ad

hoc (per es. “ho un’intensa attività onirica”).

Sul piano strettamente formale, il linguaggio sembra in ordine, ma a dire il vero qualche

segno di intoppo, di scucitura dell’apparato logico e comunicativo, una certa singolare

prosodia, danno alla comunicazione una sfumatura stridente, un po’ innaturale, come di

una persona che viva in un mondo suo, distaccato, in modo eccessivamente autonomo.

Talora si notano complesse e ricercate modalità lessicali, tecnicismi o frasi costruite ed

elaborate, sembra al fine di divertire o impressionare l’interlocutore. Non si notano

componenti anomale.

La percezione è come di norma: non esistono oggi, e non risultano siano mai esistiti,

fenomeni dispercettivi né quantitativamente né qualitativamente, non fatti illusori, non

percezioni senza oggetto, quindi non allucinazioni, né pseudo allucinazioni, non

percezioni corporee anomale del contenuto di pensiero, non istanze allusive, né

particolare sospettosità o sensitività di allure paranoide.

L’affettività ha un’apparenza abbastanza inadeguata e recitante e sembra svolgersi in

un’atmosfera poco genuina che pare seguire un copione prefissato. Insomma, gli eventi,

emotivamente immani, dei suoi trascorsi, sembrano scuoterlo poco: il coinvolgimento è

limitato, i vissuti di rimorso sono formali, l’argomento è distanziato e raffreddato.

Tuttavia, non c’è dubbio che il livello ansioso deve essere notevole e deve essere

sempre stato così: si tratta, sembra, di un’ansia vissuta come esperienza interiore

astenizzante e bloccante, e sembra che ogni richiesta di aumento di prestazioni

interpersonali e sociali produca la risposta di insufficienza, determinando una

componente di inerzia e di rinuncia che limita criticamente ogni tipo di rendimento

sociale.

Non si rileva depressione che tuttavia potrebbe essere sommersa dalla recita disinvolta e

grandiosa, che fa compiere al sig. Stevanin clamorosi understatements, come quello di

enfatizzare il suo ottimo rapporto con tutti.

Non vi sono fobie strutturate, non claustro né agorafobie, non sentimenti di panico.

Invece, esiste un quadro di stato da allarme generale che investe la sfiducia nel proprio

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corpo, il senso di precarietà generale e di bisogno di conferma e rassicurazione. Su

questa sorta di inerzia genericamente psicofobica si basa la grande dipendenza del

paziente, che produceva probabilmente una serie di esigenze di conferma attraverso il

controllo delle persone, essenzialmente delle partners.

Non si può escludere una componente istrionica, di tecnica di teatro, di manipolazione,

di presentare un’angolatura di sé integro, privo di colpe a lui conosciute, ma è assai più

attendibile che la condizione sia da riferirsi ad una impostazione narcisistica, in cui

prevale la realtà interna, con le sue esigenze di costruire un’immagine a se stante,

svincolato da regole sociali e norme relazionali, con reali difficoltà di comunicazione

non solo emotiva ma anche linguistica. In questo senso è comprensibile che la

comunicazione, nella sua globalità, divenga povera, limitata, priva di vivacità e

dell’accompagnamento emozionale, anche se le domande specifiche e mirate svelano

una specifica competenza alla risposta, solo presente se stimolata, difficilmente

autonoma, a testimoniare la dimensione più narcisistica che istrionica della modalità di

relazione. Tutto questo è certamente alimentato da uno stile di vita immerso in un

rapporto con la madre coinvolgente ed autosufficiente, impenetrabile dall’esterno,

aiutato dall’isolamento sociale che nel mondo della campagna può essere

obbiettivamente più spiccato ed accettato.

Il sig. Stevanin è figlio unico, sempre vissuto in una situazione apparentemente nella

norma, in un nucleo familiare composto da tre persone, una famiglia benestante di

agricoltori possidenti. Tuttavia, bisogna premettere che il mondo in cui viveva, ed ha

sempre vissuto, è un mondo che in sé contiene i germi dell’isolamento. Una grande casa

di campagna, fisicamente lontana da altre abitazioni, circondata da appezzamenti ampi

di territorio, una casa grande e dignitosa, ma abbandonata ad un certo degrado, che

indica l’incuria e la distanza di tutto il nucleo familiare da interessi relazionali, con un

modello dell’Io individuale ed una identificazione di ruolo familiare incurante e

trascurato: il degrado abitativo corrisponde alla modalità incongrua dei vissuti del

nucleo familiare. Tutto ciò non risulta dalla sua narrazione, che invece ruota intorno ad

uno sforzo descrittivo di presentare l’ambito casalingo e familiare come dignitosamente

borghese, attraverso una descrizione stereotipa e precostituita, che restituisce

un’indagine costruita e non propriamente da lui vissuta: è un quadro di ciò che egli si

spetta sia la norma accettabile.

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Va ricordato che, proprio il distacco e l’isolamento, hanno conferito al sig. Stevanin,

come del resto accade di solito in questi casi, l’allure di buon ragazzo, mite, educato,

allure che si estendeva a tutto il nucleo familiare, a causa della impenetrabilità e della

intangibilità del sistema, che non era scalfito da problemi relazionali esterni né negativi

né, a dire il vero, positivi.

Qui viveva, dunque, una famiglia considerata dagli altri “buona gente” e normale, anche

se un po’ singolare. In realtà si tratta, per usare un’espressione ormai classica, di una

famiglia schismatic, secondo il termine di Bateson. Il padre buon lavoratore, poco

partecipe, poco coinvolto dai problemi, che tutto ignorava e veleggiava lontano, mentre

il nucleo era rappresentato dalla diade inscindibile madre-figlio, con la madre che era, e

rimane tuttora, anche durante la vita carceraria del figlio, tendente a risolvere per linee

esterne ogni bisogno ed incongruenza, a negare ogni esigenza mentale del figlio e ad

operare per agire concretamente inserendo il figlio in un mondo diadico, totalmente

autosufficiente: il figlio ha fame, gli si dà da mangiare, il figlio necessita di vestiti, gli si

procurano, il figlio si sporca, si pulisce (senza tener conto che lo sporco somiglia al

sangue), la casa puzza si aprono le finestre (senza tener conto di che odore si tratti),

mentre non fa nessun caso a cosa pensa, come vive dentro, che progetti ha. Un rapporto

interamente simbiotico, fusionale, in cui esiste una mente per due, secondo il modello

arcaico dell’allattamento al seno o, ancora più arcaicamente, del contenuto intrauterino,

del contenimento intrauterino, di un figlio adulto mai partorito.

I dati anamnestici mostrano come tutto ciò è stato accentuato dal turbinio che dopo i 16

anni è stato causato dal rilevante trauma che ha portato con sé un lungo e doloroso iter

di ricoveri, di interventi, che hanno invaso l’epoca tardo-adolescenziale, e che hanno

creato o riaffermato una personalità chiusa, narcisistica, distaccata assieme agli esiti

psicorganici, come la caduta della spinta relazionale, l’epilessia con le perturbazioni

sociali che comporta, aiutato dalla terapia antiepilettica.

I dati della carriera scolastica confermano questa situazione. In realtà, nulla di

propriamente anomalo e psicopatologico si è mai rilevato nell’anamnesi, in quanto

questa personalità è un disturbo che a malapena ed incompletamente si può situare in

Asse II del DSM IV, ed il suo comportamento non ha mai presentato all’esterno

anomalie. Ed è peraltro impossibile affermare se il trauma abbia presentato un cut off

point tra il prima ed il dopo della personalità, perché non esiste propriamente un

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“prima” della personalità, appunto prima dei 16 anni, quando ancora la personalità non

è sviluppata.

Nulla, dunque, di esteriormente psicopatologico e si può ben capire perché: in questa

situazione di chiusura, di isolamento narcisistico, ed in questa grande autosufficienza

collegata molto probabilmente alla collusione materna, tutta l’attività psichica si è

venuta concentrando in un mondo interno, autonomo, costituito da pulsioni e fantasie

erotiche che sono l’unico elemento portante della sua vita: per questo ci sono deboli

cenni di una vita sessuale integrata, con componenti affettive scarsamente valide,

relazioni evanescenti ed improbabili e non si trovano i tentativi, le frustrazioni ed i

successi, gli approcci, intensamente vissuti che nell’adolescenza e nella vita adulta

caratterizzano, tra difficoltà e soddisfazioni, la vita affettivo-sessuale.

È evidente che da sempre, da timidi inizi nella seconda infanzia, via via consolidandosi

col passare del tempo, e anche in seguito alla diminuizione delle capacità operative

relazionali in senso globale determinate dalla condizione di isolamento, tutta la vita

sessuale, ma si può dire tutta la vita mentale del sig. Stevanin, è ruotata intorno a queste

rappresentazioni mentali anomale, prima attraverso attività scoptofile di foto o

pubblicazioni del genere e poi, col passare del tempo, intorno a progettazioni di rituali

sadici, dapprima più timide ed identificative, poi sempre più consistenti e precise:

queste, aiutate dalle difficoltà relazionali e dall’ incapacità metaforica, simbolica e

sublimatoria, incapacità che rendeva impossibile un rapporto con una partner che

concordasse una relazione condivisa, hanno portato all’esito tragico.

Il fatto è che, accanto alla sessualità inizialmente masturbatoria e connessa come di

norma con fantasie scoptofile, ne esisteva un’altra che si veniva sviluppando,

caratterizzata da un desiderio di imporsi, di sottomettere ed umiliare col completo

possesso la partner, atteggiamento che aumentava a dismisura l’eccitamento sessuale. Il

problema consisteva nel fatto che l’incapacità di far funzionare la fantasia, l’oggetto

interno mentale, la rappresentazione e la narrativa interna, gli ha decurtato la possibilità

di vie mentali per realizzare fantasticamente queste istanze; non funzionando il

preconscio con le sue capacità di mentalizzare, di usare immagini e metafore, di narrarsi

una storia interiore, si rendeva possibile solo l’acting o l’espressione comportamentale

per mettere in funzione e concretizzare le spinte pulsionali che per lui prendevano

esistenza solo quando si realizzavano in fatti e comportamenti.

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Tutto questo trova conferma, sul piano profondo, proprio dalla relazione fusionale e

simbolica con la madre: in questo caso l’ambivalenza era senza dubbio importantissima.

La stretta fusionale materna, da un lato facilitava dall’inizio ogni cosa e rendeva

possibile l’impossibile, ma nella stesso tempo costituiva un abbraccio mortale e

soffocante che produceva la reazione arcaica di furore distruttivo, connesso col piacere,

piacere scaturente dalla vendetta e dal dolore della vittima in quel momento quanto mai

vicina a lui; il che è tipica aporia della condizione perversa.

5.3.1.2. Inquadramento diagnostico

L’inquadramento diagnostico del caso presenta qualche difficoltà, non tanto in sé, ma in

quanto comporta la valutazione dell’interferenza degli esiti del trauma encefalico in

anamnesi. È intanto evidente che non si è di fronte ad un quadro evidente e conclamato.

L’integrità sostanziale del linguaggio, la coerenza e il susseguirsi corretto delle

concentrazioni associative, l’attitudine generale globalmente adeguata, i contenuti di

pensiero privi di dimensione di convincimento palesemente erroneo o di allontanamento

della coscienza di realtà, l’assenza di elementi dispercettivi, di automatismo mentale, di

fenomeni di azione esterna, di tendenza all’autoriferimento, di sensitività e proiettività

paranoide, la presenza di una motilità sciolta e non bloccata, senza fenomeni di

stereotipia, di palicinesia, di alterazioni posturali, priva di scoordinata concitazione,

depongono per un’assenza di fenomeni psicotici della serie schizofrenica, dalla

schizofrenia, alle forme schizoaffettive o schizofreniformi, dai disturbi paranoidi a

quelli più genericamente deliranti.

L’umore sembra adeguato alla situazione, né si rilevano nella storia clinica momenti di

tipo depressivo. Non c’è insonnia, né rallentamento psicomotorio, né idee di colpa o di

autoaccusa. Situazioni di nevrosi strutturata specifica non osservabili: non idee fobiche,

né manifestazioni comportamentali o ideatorie di tipo anancastico35; non risultano turbe

della cenestesi36.

35 In psichiatria si intende un comportamento sintomatico delle persone affette da disturbo ossessivo-

compulsivo in cui il soggetto non può mancare di compiere alcune azioni o di avere determinati pensieri.

36 La cenestesi è una sensazione generale relativa ai visceri interni ed alla loro attività vegetativa. Si tratta della somma di sensazioni propriocettive e interocettive (con esclusione di quelle che vengono dagli organi sensoriali propriamente detti) che determina, pertanto, un sentimento generale di benessere o di malessere, di affaticamento, di energia, di malattia. Si tratta di una sensazione generale che sta alla base della cd. immagine del corpo o schema corporeo e, per suo tramite, della coscienza di sé e delle

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Sul piano psicorganico non vi sono rilievi da fare. La presenza di coscienza, coscienza

dell’Io, orientamento e memoria ineccepibili, l’assenza di segni focali, la mancanza di

difficoltà lessicali, di linguaggio concreto, di cenni di incoerenza, il buon livello

comunicativo e della conversazione, non permettono di porre una diagnosi di disturbo

psicorganico di alcun tipo.

Altra cosa, però, se si passa dai quadri clinici conclamati alle sfumature. Si può notare

in quest’area un certo grado di rilassamento e di scucitura dei nessi logici ed emotivi più

sottili, una certa perplessità espressiva ed alcuni stridori nella connessione e

nell’adeguatezza delle tonalità affettive, un certo grado di scissione tra contenuti e

modalità espressive, da riferirsi ad una struttura in parte istrionica ed in parte narcistica

della personalità.

Dato il modo in cui gli eventi criminosi sono presentati, sarebbe possibile pensare ad un

disturbo dissociativo, del tipo personalità multipla o sdoppiamento di coscienza. Ma

intanto questa sindrome è più di pertinenza della narrativa che della clinica, in quanto

difficilmente in clinica può essere comprovata: essa comporta una vera disapprovazione

di una parte della coscienza.

Questo quadro, per poter essere avallato sul piano clinico, necessiterebbe una scissione

della coscienza, con perdita del sentimento di proprietà di una parte del campo di

coscienza, con quindi un preciso scotoma mnestico della parte disappropriata, e un “non

sa la mano destra quel che fa la mano sinistra” non come metafora ma come realtà: il

Dr. Jekyll deve avere amnesia psicogena di Mr. Hyde, senza la qual cosa siamo di fronte

a comportamenti contrastanti, ma sempre con coscienza unitaria. Occorre ricordare

anche che i fenomeni di dissociazione di coscienza di questo tipo sono accettabili

clinicamente per eventi di scarsa durata e complessità organizzativa, e non per un

susseguirsi di eventi coordinati, anche se maldestramente, così articolati.

L’inquadramento nosologico fondamentale è la parafilia. L’intensa spinta pulsionale a

ricercare il piacere attraverso la triade sottomissione sessuale-umiliazione-forzatura

della partner e sua dedizione obbligata e incondizionata, che produce aumento rilevante

dell’eccitamento sessuale, è caratteristico della parafilia sadica. È possibile qui che la

parafilia abbia i caratteri particolari della parafilia compensativa reattiva, che flotta sulla

funzioni dell’Io. La cenestesi, inoltre, per le sue polarità fondamentali di benessere e di malessere è la sorgente primordiale del tono affettivo, cioè dell’umore e costituisce un fattore psicodinamico della massima importanza.

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superficie dell’Io in momenti di particolare frustrazione e inquietudine (insoddisfazioni

generali, bisogno di compensazione).

Di solito queste situazioni vengono attribuite dalla teoria psicoanalitica all’antico

vissuto di aggressività ambivalente e di istanze di risarcimento per i sentimenti di

abbandono materno. È, però, sufficiente l’esame clinico, che presenta un indiscutibile

rilievo della parafilia sadica e che mette in chiaro l’esistenza, in questo caso, del rituale

parafilico quasi compulsivamente eseguito: è proprio, infatti, delle parafilie l’esecuzione

di un accurato rituale, funzionale all’eccitamento sessuale ed al piacere. In questo caso

esiste una ripetizione di rituali parafilici, ripresentatisi intermittentemente, con rituali di

sottomissione ed imposizioni, iter consistente in pratiche fotografiche, esecuzioni di

pratiche sessuali sul filo del rischio di vita delle partners che egli definisce “sesso

estremo”, che non sempre si ferma al momento giusto ma travalica nella tragedia: nella

parafilia sadica, si sa dove si comincia ma non si sa dove si finisce. Come se egli

seguisse un manuale di istruzioni interno o possibilmente anche esterno. Il rituale,

seppur approssimativo, sadico, che comporta grande eccitazione e piacere, non può che

rimanere sul piano di questo grossolano e pericoloso acting, a livello solo

comportamentale, in presenza di incapacità di mentalizzare e di costruire immagini

interne (mentali) integrative e costitutive nel mondo fantastico, che in qualche modo

normalizzano la parafilia e rendono meno pericoloso il comportamento trasformando

l’atto in interamente o parzialmente simbolico. Non manca nel complesso rituale

descritto una dimensione narcisistica, che comporta un accenno ad un’organizzazione

per strutturare una sorta di trauma occultante e depistante, che faceva parte ed integrava

come ultimo atto la ritualità, con sue dimensioni anch’esse rituali, di occultamento e di

furtività (sostituzione di targhe, ecc..). Lo strazio e l’occultamento del cadavere è parte

integrante del rituale parafilico.

Il quadro nosologico delle parafilie si riferisce in modo adeguato al caso in esame, in

quanto è composto da fantasie, impulsi sessuali e comportamenti ricorrenti,

intensamente eccitati ed eccitanti sessualmente, che nel caso del sadismo riguardano

appunto la sofferenza e/o l’umiliazione della partner: va tenuto presente che, come è

quasi la regola, fantasie e stimoli parafilici sono nel caso del sig. Stevanin indispensabili

per l’eccitazione sessuale, sono in altre parole elementi di base indispensabili per la

sessualità e sono sempre impliciti nell’attività sessuale.

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La preferenza della fantasia parafilica, in questo caso, è di essere portata alle

conseguenze estreme, per rendere la partner, quali che fossero le condizioni di partenza,

non consenziente e per realizzare comportamenti sessuali effettivamente lesivi per la

partner stessa. Questo è in gran parte legato al fenomeno di cui sopra si è parlato, e cioè

dell’incapacità o rilevante inefficienza della elaborazione fantastica, della “ficition”

interiore, della costruzione di rappresentazioni simboliche e metaforiche, in susseguenze

normative che costruiscano, anche previo accordo con la partner, situazioni

soddisfacenti e non lesive o non troppo lesive.

È prevedibile che il parafilico, con capacità di costruzione fantastica e di

mentalizzazione, strutturi situazioni che rendano meno specifico, più mascherato, a

diversi livelli di sublimazione, lo stimolo sessuale anomalo. Il concetto di sublimazione

nasce come metafora dalla chimica, ove indica il passaggio di stato saltando lo stadio

intermedio: in questo caso la realizzazione della pulsione erotica saltando

l’erotizzazione propriamente, a volte produce comportamenti ad alto valore sociale. Per

esempio, il sadico può fare il soccorritore e guidare un’autoambulanza, o può fare la

professione chirurgica. In molti casi queste persone possono guardare, leggere,

collezionare romanzi, foto, films o, nelle ipotesi più regolari, procurarsi un partner

consenziente con cui risolvere simbolicamente, attraverso simulacri (legature, finte

fustigazioni, schiavitù simbolica), le spinte sessuali. Ovviamente, i soggetti privi di

partners consenzienti ricorrono alle prestazioni di prostitute, che però sono

difficilmente consenzienti a pratiche anche simboliche, per l’ovvio motivo che per un

accordo di questo tipo occorre una profonda conoscenza e una notevole fiducia tra i

partners. In casi abbastanza rari si ha la realizzazione di questi vissuti e spinte sadici su

vittime non consenzienti. Ciò avviene specificamente quando si realizzano due

condizioni che si sono essenzialmente poste in convergenza nel caso in esame. Esse

sono, da un lato l’intensità della spinta istintuale sadica, massima in questo caso, e

dall’altro la grave incapacità di sublimare, di costruire elementi fantastici, di creare

simbolismi, dato l’importanza che ha questo elemento.

Nel caso, dunque, del sig. Stevanin la focalizzazione parafilica implica azioni reali, non

simulate, in cui il soggetto ricava eccitazione sessuale dalla sofferenza prevalentemente

fisica, ma anche psicologica (soprattutto la sottomissione e l’ umiliazione) della vittima,

del controllo completo della stessa, terrorizzata soprattutto dall’anticipazione

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dell’attacco sadico. Nel suo caso, è la sofferenza della vittima ad essere sessualmente

eccitante in modo specifico, attraverso atti indicanti il dominio (soffocare, ingabbiare,

ecc...).

Come è la regola, la gravità e la lesività dell’atto sadico aumenta con il tempo e con la

ripetitività. A questa situazione, già del tutto ben delineabile nosologicamente, in cui

spinta pulsionale e impossibilità di gestirla fantasticamente agiscono in modo così

intenso sul comportamento, si aggiunge un altro elemento di grande importanza. Il sig.

Stevanin appare un individuo totalmente isolato, con difficoltà di stabilire relazioni

valide, intanto sul piano affettivo o della solidarietà o delle intese socio-affettive, o di

vicinanza di interessi, con poche possibilità di scambio di pensiero e di emozioni con gli

altri. Egli non è capace di comunicare, di parlare con qualcuno, di esprimere le proprie

idee e vissuti, in modo da riceverne conferme o sconferme, e di operare confronti.

Chiuso, come estraniato, vivendo in una casa isolata, in un’ambientazione non povera,

non limitata in sé, ma in un’estraniante decadenza, tra mura, infissi e mondi fatiscenti e

strani, come arcaici ed inaccessibili.

I luoghi dove si consumano i suoi tragici rapporti sessuali esprimono una freddezza ed

uno squallore totale, il contrario di ogni istanza amorosa o affettuosa. Tocchiamo qui il

senso vero, psicopatologico e psicoanalitico, del termine perversione, al di fuori dei

risvolti linguistici correnti ed etici, nel senso propriamente della pulsione erotica, e cioè

intesa verso il piacere, che cambia al momento della realizzazione, da positivo a

negativo, l’ottenimento dello stesso dalle situazioni che creano dolore e disgusto.

In questa situazione, il comportamento generale configura il personaggio totalmente

isolato e chiuso e si risveglia e fuoriesce dal bozzolo solo nel momento in cui si muove

a tendere verso il raggiungimento dei suoi protocolli e delle sue ritualità di piacere

stravolto. Un comportamento che mira al soddisfacimento di istanze pulsionali interiori

senza tener conto delle esigenze della realtà esterna, un mondo psichico con nessun

contatto con il mondo reale.

Due sono le ipotesi che si possono fare per spiegare questa realtà: in primo luogo, la

grande, impellente e quotidiana presenza della pulsione parafilica che riempie la mente,

riempiendo ogni spazio e ponendo tutto in secondo piano rispetto ai suoi programmi ed

alle sequenze di progetti sadici, rendendo impossibili relazioni, progetti diversi ed

addirittura desideri ed istanze che si discostino da quella centrale; in secondo luogo, che

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esista una struttura di personalità oscillante tra il narcisismo e l’istrionico, essendo il

narcisismo evidente da una certa grandiosità del progetto sadico, che mira ad una

realizzazione di ogni aspetto delle sue spinte, con dispregio della realtà, della vita degli

altri, dei sentimenti altrui e della società e del mondo con le sue regole sociali ed etiche,

e dell’esigenza di adeguarsi, almeno un minimo a queste regole. E l’aspetto istrionico

collegato ad una sorta di belle indifference, ma privo di elementi amplificanti, nella sua

tecnica di teatro e nella sua recita continua per presentare il volto di una persona

anonima e senza nessuno spicco, con anzi la generica presenza di buon ragazzo,

totalmente recitato per la limitazione dei contatti e delle relazioni sociali.

I due aspetti ovviamente arretrano, se vogliamo scendere alle dimensioni più profonde,

alla sua vita antica, che sembra svolgersi come storia di un bambino molto strettamente

tenuto, ma poco compreso, considerato e poco voluto. Siamo di fronte ad una struttura

familiare inconsistente in cui non esiste un centro di gravità: la madre, isolata, distante,

con in mente elementi di accadimento esterno, con una rilevante chiusura e ottusità

rispetto alle esigenze emozionali. Il padre, buon lavoratore e senza linee generali di

impostazione verso il figlio. Il vissuto del bambino può essere considerato del tutto

simile a quello di un orfano grandioso, abituato al possesso di tutto ciò che lo circonda e

che lascia al degrado. Possiamo ben pensare che questo abbia prodotto due tipi di

risposta: un profondo risentimento per l’abbandono antico implicito nella situazione,

con un grande bisogno di risarcimento narcisistico per la grande frustrazione subita, che

si esprime nella direzione presa dalla pulsione libidico-emotiva di controllo e dominio

totale sulla figura femminile, origine di abbandono.

Il controllo sadico ha la funzione di realizzare il piacere a lui negato nelle esigenze

infantili, con la fantasia che a questa revanche edipica si associ la garanzia di non poter

essere abbandonato dall’oggetto amato-odiato, in un’ambivalenza narcisistica

onnipotente. Infatti, è necessario porre in rilievo l’altro aspetto fondamentale di questa

infanzia abbandonata nell’abbondanza, per usare questo ossimoro: questo ha

determinato la caduta e la dissoluzione del superIo edipico maturo, determinando un

senso di onnipotenza narcisistica, di poter fare ogni cosa quasi impunemente, e

lasciando solo residui di un superIo arcaico, spietato, abbandonatore e che licita ogni

sofferenza inflitta agli altri per il proprio piacere, spietato e feroce.

La costruzione a posteriori, di una serie di amnesie psicogene, come quelle che il sig.

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Stevanin presenta attualmente, può essere del tutto ovvia, non necessariamente

nell’ambito della simulazione, ma anche in quello appunto narcisistico onnipotente, del

meccanismo di negazione contro ciò che non può spiegare in modo accettabile e che in

qualche modo scalfirebbe l’integrità della sua persona, e sottolineerebbe la palmare

evidenza del fallimento del suo progetto. In questo senso le amnesie psicogene non sono

funzionali e integrate con il quadro clinico che ha condotto ai comportamenti sadico-

distruttivi, ma sono elementi attuali, a posteriori, comparsi ora per far fronte alla gravità

dello scacco.

Premesso che la personalità del serial killer non esiste sul piano nosologico, ma è

un’invenzione letteraria, non vi è dubbio che la diagnosi centrale è qui quella di

parafilia, nella specificazione di sadismo sessuale. La prima domanda che ci si pone è se

con questo inquadramento nosologico ci si trovi di fronte ad un comportamento non

evitabile, che comporta caduta della valutazione cognitiva della realtà, della possibilità

di valutare le opportunità sociali, le regole, e di comporle con le proprie esigenze

pulsionali. Non vi è dubbio che questi comportamenti siano intrinseci ad un certo tipo di

funzionamento mentale ed è quindi molto comprensibile e ci induce ad una valutazione

della realtà parafilica come una tragica esigenza difficile da combattere, soprattutto se si

tiene conto del retroterra dinamico che ha indotto, attraverso un iter di sviluppo

doloroso, a queste istanze così interamente anomale. Vero è che la scarsa capacità di

simbolizzazione, la nulla capacità di sublimazione, la povera possibilità di operazioni

fantastiche, non ha permesso al sig. Stevanin vie d’uscita diverse per la realizzazione

compromissoria ed accettabile del suo sadismo.

Tuttavia, il controllo degli impulsi è nelle parafilie possibile in generale, ed in questo

caso, l’esecuzione del rituale parafilico non è uno scoppio improvviso, comporta una

messa in opera precisa ed una complessa organizzazione: la coscienza dell’Io è sempre

attiva, ed una serie di eventi sfavorevoli o la presenza di altri inibirebbe questa sequenza

comportamentale. È il superIo che è indebolito, ed è l’istanza sovracosciente di

controllo che va esercitata e che viene meno. Istanza che può essere sempre richiamata.

Non vi è dubbio, dunque, sull’esistenza della parafilia sadica, con tratti narcisistici, in sé

non in grado di scemare la capacità di intendere e volere.

Il problema, dunque, è solo uno: data l’esistenza di una lesione neurologica, definita con

precisione, è questa lesione tale da portare nella parafilia una componente di incapacità

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di controllare la pulsione parafilica e di renderla totalmente travolgente, tale da aver

annullato la possibilità di tenerla a freno e di considerare i fattori circostanti sociali e

personali? In altre parole, ha ridotto la coscienza dell’Io o ha determinato un

restringimento di coscienza, tale che la spinta parafilica sia rimasta il solo contenuto

mentale esistente?

In definitiva ci si domanda se la lesione organica possa agire sull’elemento parafilico

fino ad alterare la possibilità di valutare la situazione e darsi uno stop.

Non appare possibile attribuire ad una lesione psicorganica, che qui sarebbe

asintomatica, lo scatenamento incontrollabile di una parafilia sadica svolta invece con

complessi e strutturati rituali, con sequenze organizzate ed ordinate, e con attitudini

ripetitive.

In sintesi non vi è dubbio che esiste una parafilia e precisamente un sadismo sessuale,

associata a personalità dai tratti narcisisti, del tutto indipendente dalla lesione cerebrale

postraumatica. Esiste una lesione cerebrale ma non vi è nessun motivo clinico di

affermare che esista e sia esistita una condizione psicorganica tale da alterare il

controllo delle pulsioni o la coscienza dell’Io, rendendo impossibile il contenimento

delle istanze parafiliche.

Nella realtà, il sig. Stevanin è una persona tragicamente, sinistramente unitaria. Egli

porta, con una pianificazione precisa, attraverso rituali e cerimoniali ripetitivi, la sua

istanza, la pressione delle sue pulsioni, insiste nella sua parafilia sadica, verso la

realizzazione del piacere, attraverso la sofferenza dell’oggetto amato, per portarlo oltre,

sempre con produzione di piacere, alla distruzione manipolatoria dell’oggetto ormai

reso totalmente inerte.

Tutto ciò che è accaduto, è costituito non da singoli fatti isolati e autonomi, ma da un

vero e proprio stile di vita, il che è caratteristica della struttura sadica, anche di forme

più lievi di questa. In realtà, egli imposta ed organizza tutta la sua vita in funzione della

progettazione, della pianificazione e dell’organizzazione della realizzazione e della

messa in scena, delle esigenze sessuali anomale, come se tutta la sua vita fosse diretta a

realizzare sceneggiature scritte nella mente ed a porle in atto.

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5.3.2. La perizia dell’accusa

Lo psichiatra Marco Lagazzi ha partecipato, in qualità di consulente del pubblico

ministero Maria Grazia Omboni, alle operazioni peritali condotte dai periti Fornari e

Galliani sulla persona di Gianfranco Stevanin, ed ha ritenuto necessario trarre alcune

osservazioni di carattere clinico e psichiatrico-forense, riguardanti i seguenti aspetti

della condizione clinica e comportamentale del periziando:

a. la definitiva valutazione circa la sussistenza o meno di patologie somatiche,

neurologiche o psichiatriche, in atto al momento dei fatti;

b. lo studio del comportamento del periziando nella vicenda processuale e peritale;

c. la coerenza tra la personalità del periziando, messa in luce dalle protratte indagini

peritali e le caratteristiche proprie dei serial killers.

In merito al primo aspetto, Lagazzi ha rilevato che, come documentato dalla sua stessa

storia clinica e dal diario clinico della casa circondariale, Stevanin non risulta essere

affetto da nessuna patologia somatica o psichiatrica di rilievo. Al contrario risulta,

sempre secondo Lagazzi, che il periziando ha mantenuto sempre una costante vita

sociale e di relazione. La stessa meticolosità del soggetto nella descrizione delle

pratiche sessuali, la capacità di ricordarne la frequenza, la durata delle stesse, consente

di chiarire come, in ogni momento delle sue attività, Stevanin sia stato pienamente

edotto di quanto faceva e come conservi un adeguato ricordo di quanto vissuto e

realizzato37.

Per quanto riguarda il tema dei “non ricordo”, attraverso i quali Stevanin ha articolato il

dialogo con i periti, il consulente dell’accusa sostiene che essi non corrispondono ad

alcuna possibile manifestazione amnesica di carattere psicopatologico o deficitario.

Oltre a ciò, rileva che non risulta documentato alcun ricovero ospedaliero in ambito

psichiatrico, mentre risulta allegato solamente un trattamento psicologico, limitato nel

tempo, risalente a molti anni addietro (a causa del trauma cranico riportato

nell’incidente stradale del 1976). Quindi, Lagazzi, esclude con certezza ogni possibile

dubbio circa la piena imputabilità del periziando.

Circa l’aspetto delle indagini peritali e della situazione processuale, Lagazzi è

perfettamente d’accordo con i suoi colleghi Fornari e Galliani, in particolare sul

37 Dalla relazione presentata al consulente tecnico del PM, Marco Lagazzi.

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mantenimento del contatto con la realtà da parte di Stevanin. Afferma, infatti, che il

periziando, in ogni momento delle indagini, ha sempre mostrato una costante attenzione

per gli elementi che emergevano, un’eccezionale capacità di concentrazione e di

gestione del dialogo; in questo modo esprime un’immagine di sé coerente con i suoi fini

e con la sua strategia difensiva. Lagazzi nota, inoltre, un’attenta consapevolezza delle

notizie che emergevano attraverso la stampa ed una meticolosità nel proporre

un’immagine di sé il più possibile positiva. Il perito definisce Gianfranco Stevanin “ben

agganciato alla realtà”, quindi del tutto adeguato rispetto all’esercizio dei propri diritti

difensivi.

Anche Lagazzi, come i periti nominati dalla Corte, è d’accordo nel sostenere la piena

coerenza tra le caratteristiche di Stevanin e quelle proprie dei serial killers descritti nella

letteratura e nella cronaca. Particolarmente importante, a questo proposito, è l’eccessiva

fiducia nelle sue capacità e quel temerario piacere di sfidare gli altri38. Proprio questo,

infatti, è uno degli elementi tipici degli assassini seriali.

Come già analizzato in precedenza, ognuno di questi assassini ritiene di essere più

capace degli inquirenti e di farla franca; spesso accade che sia proprio lo stesso

assassino seriale a decidere la propria strategia difensiva, anche al di là dei suggerimenti

dei propri difensori, proprio perché è convinto di saper gestire meglio il complesso

gioco di menzogne, ammissioni e verità che intende proporre agli investigatori.

In alcuni serial killers, spiega Lagazzi, questa tendenza a rifiutare la delega a terzi della

propria difesa è molto evidente. Quindi non condivide, anzi considera addirittura

fantasioso, voler qualificare questa scelta oggettiva come una “automatica diminuente

della capacità processuale del periziando”, come, invece, sostengono i consulenti della

difesa.

Il perito del PM termina la sua relazione affermando che: “nulla consente di identificare

in Gianfranco Stevanin un minus habens, ma, al contrario, è un individuo la cui

personalità e le cui risorse sono del tutto compatibili con i molti delitti realizzati e con

l’impunità che, se non si fossero verificati il caso della Musger ed il casuale

ritrovamento dei reperti, forse ancor oggi lo caratterizzerebbe”39.

In conclusione, Lagazzi, ritiene di poter solo confermare le chiare ed incontrovertibili

valutazioni alle quali sono giunti i periti Fornari e Galliani. Con questo riafferma la 38 Ibidem. 39 Ibidem.

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piena capacità processuale del periziando, attestando, con piena serenità al di fuori di

qualsiasi dubbio, l’assenza di elementi psicopatologici tali da integrare una condizione

di infermità di mente; quindi ritiene necessario consegnare Stevanin al giudizio che lo

attende, per i gravi e ripugnanti delitti da lui compiuti.

5.3.3. La perizia della difesa: un processo sul filo dell’infermità

Gli avvocati Accebbi, Dal Maso e Roetta, difensori di Stevanin, nominano i periti

Francesco Pinto e Giovanni Battista Traverso, per dare una valutazione del caso in

chiave psichiatrico-forense e, quindi, per valutare la presenza, al momento dei fatti per i

quali si procede, di un’infermità che ne limitasse grandemente o ne escludesse la

capacità di intendere e di volere. I due esperti incentrano la valutazione dell’imputabilità

su un episodio ritenuto da entrambe le parti processuali fondamentale per lo sviluppo

della personalità di Gianfranco Stevanin: l’incidente del 1976.

I periti di parte spiegano che Stevanin è affetto da una complessa sindrome

psicopatologica su base organica di origine post-traumatica, ben dimostrabile sul piano

strutturale e funzionale (esami TAC e RMN), che interessa i lobi frontali, il lobo

temporale destro ed alcune strutture profonde del sistema limbico, sede degli istinti,

dell’aggressività e della memoria40; ciò ha determinato una grave forma di epilessia

temporale post-traumatica.

Stevanin viene più volte ricoverato prima all’Ospedale di Legnano e successivamente

trasferito nel reparto neurochirurgico dell’Ospedale Civile Maggiore di Verona, dove i

medici intervengono chirurgicamente per ricostruire il margine orbitario destro.

Dopo due anni dall’incidente viene nuovamente ricoverato a causa della comparsa di

“crisi di perdita di coscienza generalizzante”. Nonostante la terapia, le crisi epilettiche

continuano a comparire, tanto che nel 1980 si assiste ad un nuovo ricovero per “crisi

comiziali”.

I periti di parte sostengono che il lobo frontale sovrintende a quei fenomeni di controllo,

critica ed inibizione che consentono valutazioni e scelte adeguate, soprattutto quando si

tratta di scelte comportamentali o, comunque, correlate a problematiche eticamente

rilevanti41. Le alterazioni del sistema limbico, poi, spiegano la presenza di carenza

critica e di disturbi della memoria di fissazione. 40 Dalla relazione consegnata dai periti di parte F. Pinto e G. B. Traverso alla Corte d’Assise. 41 Ibidem.

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Pinto e Traverso sono concordi nel sostenere che le suddette anomalie cerebrali sono

state responsabili di gravi e significativi cambiamenti comportamentali, riconosciuti da

tutti, ed hanno avuto un ruolo centrale nella strutturazione di alterazioni della

personalità di tipo patologico; queste alterazioni riguardano sia la personalità generale

del periziando, ma soprattutto la sfera della psicosessualità, determinando vere e proprie

parafilie che, abbiamo visto, sono disturbi psichiatrici codificati nel Manuale

Diagnostico e Statistico (DSM-IV) dell’American Psychiatric Association.

Tutte queste alterazioni patologiche a carico del sistema nervoso centrale, secondo i

consulenti tecnici della difesa, hanno pesantemente condizionato non solo la

commissione dei reati per i quali si procede, ma anche tutti i reati precedentemente

commessi. Naturalmente, i periti hanno accostato a queste anomalie altri elementi

significativi, quali esperienze nell’infanzia e nell’adolescenza, le alterate relazioni

parentali, il contesto socioculturale, l’utilizzazione di materiale pornografico,

l’intervento di fattori situazionali.

Sul piano affettivo-volitivo, Stevanin appare, a loro dire, appiattito, instabile, labile,

“portato a reagire in modo acritico agli stimoli interni ed esterni. Incapace di scelte

ponderate, in quanto facile preda di spinte incontrollate e di episodici momenti di

discontrollo, nei quali, verosimilmente, la patologia complessa di cui soffre si rinforza,

annullandosi le difese a livello superiore e comparendo strutture psicotiche, che

emergono nei momenti in cui alle fantasie perverse si sostituisce la perversione agita. A

questo punto la sostituzione di un’intenzionalità con un’altra diviene estremamente

difficile, permettendo la concretizzazione dell’evento delittuoso”42.

I consulenti tecnici della difesa precisano, inoltre, che nell’interpretazione dei test non si

sono limitati ad un’analisi formale dei protocolli, come, invece, sostengono abbiano

fatto i periti d’ufficio; dichiarano di aver considerato “il discorso del paziente nella sua

interezza”43, riscontrando una patologia neuropsichiatrica grave, che costituisce

infermità ai sensi di legge. Ritengono, quindi, che Stevanin abbia commesso i reati “in

uno stato di mente tale da escludere sia la sua capacità di intendere, vale a dire la

capacità di comprendere il vero significato delle sue azioni e le loro conseguenze sul

piano giuridico, sia la sua capacità di volere, cioè la libera scelta di autodeterminarsi

42 Ibidem. 43 Metodo introdotto nel 1954 dallo psichiatra Roy Schafer.

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secondo i motivi”44. Data la gravità patologica sofferta dal periziando, ritengono che egli

debba considerarsi, dal punto di vista clinico-criminologico, persona socialmente

pericolosa.

5.4. Il processo davanti la Corte d’Assise

“È processabile. Gianfranco Stevanin è sano di mente”. Sulla base delle perizie

psichiatriche, il 5 novembre del 1996 viene rinviato a giudizio. Un anno dopo, lunedì 6

ottobre 1997, in Corte d’Assise si apre il dibattimento. Diciannove udienze,

centoquattordici giorni in aula, novanta testimoni che sfilano davanti ad una giuria

popolare quasi interamente composta da donne: quattro giovani ragazze, più o meno

della stessa età delle vittime e due uomini. Anche il pubblico ministero, come detto, è

una donna: Maria Grazia Omboni ha esposto i fatti alla Corte, presieduta da Mario

Sannite e con Mario Resta come giudice a latere.

Soltanto per la lettura dei capi d’imputazione, il cancelliere ha impiegato diciassette

minuti: una serie di articoli del codice penale per crimini atroci che neppure l’asettica

formulazione giuridica riesce ad attenuare. Nell’aula parole sconvolgenti richiamano

una carrellata di immagini da brivido: “sesso estremo”, “mutilazioni di parti intime”,

“deturpamenti di cadavere”, “sadismo”, “brutalità”. Il sostituto procuratore punta il dito

sulla criminosa attività sessuale, che era la principale occupazione di Stevanin. Il

magistrato inizia con un racconto che va indietro nel tempo, quando una sera del 1989

l’imputato fu fermato dalle forze dell’ordine; in macchina aveva un campionario di

attrezzi erotici, cacciaviti, un coltello e una pistola scacciacani. Maria Grazia Omboni

ripercorre, poi, i tre anni di attività investigativa alla ricerca di persone scomparse e dei

loro corpi sepolti: l’austriaca Roswita Adlassnig (mai trovata), Claudia Pulejo, Blazenka

Smojo, Biljana Pavlovic. E ancora: il mistero del tronco non identificato (forse quello di

una prostituta di origine tailandese) e il giallo dell’omicidio in fotografia, l’altra donna

senza nome. Riassume le caratteristiche dell’inchiesta sviluppata soprattutto sulle

sconvolgenti dichiarazioni di Stevanin durante gli interrogatori in carcere. Confessioni,

secondo l’accusa, rilasciate dall’agricoltore nella speranza di barattarle con la possibilità

di esser riconosciuto incapace di intendere e volere.

Alla prima udienza l’aula è strapiena. Il “mostro di Terrazzo” non tradisce nemmeno un

44 Ibidem.

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attimo di turbamento, è un blocco di ghiaccio, non batte ciglio davanti ai parenti delle

vittime che un implacabile regista sembra aver voluto collocare a pochi metri dalla

gabbia. L’imputato ottiene subito di stare fuori da questa e siede tra i suoi avvocati.

Attento, impassibile, non perde una parola, prende appunti come uno studente diligente.

Ha anche cambiato fisionomia: si è tagliato la barba e rasato completamente i capelli,

forse un coupè de theatre orchestrato dai suoi difensori, affinché giudici e giurati

possano vedere la cicatrice semicircolare che il loro assistito porta sulla tempia destra,

conseguenza del noto incidente del 1976.

Agli psichiatri viene data la parola già alla seconda udienza, precedenza chiesta dal P.M.

ma osteggiata dai difensori.

Il professor Ugo Fornari dipinge dell’imputato un ritratto a tinte fosche: “è un serial

killer che mi ha affascinato; dopo i colloqui con lui ero stanchissimo, perché sgusciava

via come un’anguilla. Giocava come il gatto fa con il topo, ma in questo gioco il

topolino ero io”. Per il perito d’ufficio, le confessioni non sarebbero altro che “le

rivelazioni di ciò che lui stesso non poteva più nascondere”. Stevanin, insomma, è uno

stratega abilissimo, intelligente e dotato di un certo carisma. Assaggiava le reazioni

facendo ipotesi; a seconda delle nostre reazioni faceva marcia indietro o andava avanti.

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L’esperto in questione respinge con forza l’ipotesi di trovarsi davanti un malato oppure

un soggetto affetto da sdoppiamento della personalità. Afferma, infatti, che i tanti “non

ricordo” pronunciati da Stevanin contrastano con altri minimi, a volte inutili, particolari

raccontati dall’agricoltore. Il suo comportamento sarebbe frutto di una ipoaffettività e

conseguenza di una disfunzione sessuale. Ma sapeva quello che faceva fino all’ultimo

momento. Secondo Fornari è un bambino mai cresciuto, a causa della madre che non

l’ha mai lasciato crescere, lo ha sempre giustificato, impedendogli così di provare

rimorso o pentimento per le uccisioni delle donne. Tant’è che le donne che si

ribellavano erano quelle che si salvavano; insomma, Stevanin al comando “no”

ubbidisce; riemerge in lui il bambino che teme la madre, che l’ascolta quando lei gli

impone di fare qualcosa.

Il perito della difesa, Traverso, sostiene, invece, che Gianfranco Stevanin è una persona

malata, che la parte destra del suo cervello è stata danneggiata a seguito dell’incidente.

C’è una carenza di materia grigia nel cervello dell’agricoltore. Sono l’esito di lesioni

che hanno colpito in profondità la sfera degli istinti e, quindi, dell’aggressività, della

sessualità, della memoria. Sostiene, inoltre, che Stevanin, a causa di questo, non ha

avuto una vita normale, ha abbandonato gli studi ed il suo comportamento è stato

radicalmente stravolto.

Il processo procede a tappe serrate; passo dopo passo, con la minuzia e la pignoleria che

ha contraddistinto tutta l’indagine, il pubblico ministero Omboni ha cercato di

ricostruire le prove e gli indizi a carico dell’imputato. Vengono ascoltate le madri delle

vittime, che raccontano storie che si assomigliano. Poi tocca ad altri testimoni, ancora

donne, alcune sono amiche delle vittime, altre sono le sue ex “fidanzate”; il loro

contributo è importante, in quanto si apprendono le abitudini sessuali del presunto serial

killer: la disponibilità ad accogliere le perversioni sessuali (fotografarle nude, rasarle il

pube, fornirle indumenti intimi) è sempre proposta con delicatezza ed educazione. Tutto

questo, per la difesa, significa che Stevanin non praticava abitualmente sesso violento

spinto fino al sadismo; per l'accusa e le parti civili, invece, dimostra chiaramente che

l'imputato, non solo è capace di intendere, ma anche e soprattutto di volere, perciò in

grado di assumere atteggiamenti diversi con le proprie partners, delle quali solo alcune

rimangono vittime dei suoi giochi erotici. Testimonia anche la Musger, a porte chiuse, la

donna che lo ha fatto incastrare nel novembre 1996, dando l’avvio all’indagine su

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questa terribile storia.

Poi arriva anche il momento del “primo amore”, Maria Amelia, il rapporto più

importante in assoluto, come aveva detto Stevanin agli psichiatri. C’è voluta

un’ordinanza della Corte per portarla davanti alla giuria; si è sposata, ha dei figli e

un’altra vita; le viene concesso di essere sentita a porte chiuse. Stevanin si è presentato

in aula con il vestito delle feste, un gessato grigio scuro, mocassini neri, calze intonate

alla camicia azzurra; manca solo la cravatta, ma quella è vietata dai regolamenti

carcerari. Lei, per oltre mezz’ora, racconta la storia di quell’amore che, finendo male, ha

forse scatenato la furia omicida di Gianfranco Stevanin, e lo descrive come un ragazzo

mite, tranquillo, gentile, ma anche come un uomo che non riusciva a diventare adulto.

Al processo, arriva anche il momento della madre dell’imputato, Noemi Miola, e del

cugino, Antonio De Togni, entrambi accusati di concorso in occultamento di cadavere;

questi ultimi sono stati chiamati in causa da un compagno di detenzione di Stevanin, il

quale gli avrebbe riferito che, la sera della morte della Pulejo, arrivò la madre che

rassicurò l’agricoltore e chiamò il cugino per farsi aiutare ad avvolgere il corpo ed a

sotterrarlo nel luogo in cui fu poi ritrovato. Parla il cugino che riversa sulla madre di

Gianfranco Stevanin un mare di sospetti: “non poteva non sapere” afferma; alcuni giorni

prima di arare il campo, dove fu poi ritrovato il cadavere della Pavlovic, la donna si era

raccomandata di non effettuare lavori in quell’area e che ci avrebbe pensato suo figlio,

una volta uscito dal carcere; in seguito, quando fu ritrovato il “pacco”, come lo chiama,

corre ad avvertire la zia, la quale gli suggerisce di non avvertire i carabinieri, ma di

parlare prima con gli avvocati. Non solo, il cugino parla anche di indumenti, scarpe e

bigiotteria femminile che la donna gli diede da gettare via. È Stevanin, però, a

proteggere la madre, tanto da arrivare a proporre al presidente della Corte di ripetere

l’esperimento dell’avvolgimento del cadavere, per dimostrare che riusciva a farlo da

solo; era, forse, la disperata mossa del figlio per tenere la madre lontana da ogni

responsabilità?

È il momento delle domande degli avvocati. L’avvocato Guarienti, di fronte al perché

Stevanin sia diventato un serial killer, afferma che egli è sicuramente sano di mente,

come ha dimostrato il suo comportamento nel corso del processo e che la causa dei

delitti vada ricercata nel problematico rapporto con la madre, un personaggio che

incombe sul processo anche se assente, l’unica figura femminile con cui rapportarsi, con

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un sentimento di odio/amore; e, citando le parole del cugino dell'imputato, afferma:

“bisogna essere stati in quella famiglia; lì, apparire è sempre stato più importante che

essere”.

L’avvocato Bastianello lo descrive come un “assatanato che uccide solo per soddisfare

il suo piacere sessuale”; mentre l’avvocato Cazzola esordisce dicendo: “mancano in

quest’aula le persone che dovrebbero gridare assassino a Stevanin, le vittime”45,

affermando, poi, di essere di fronte ad un serial killer che sembra essere uscito dai

profili psicologici dell’F.B.I.

Ai difensori dell'imputato spetta una missione disperata: dimostrare l’infermità mentale

del loro assistito, data la lucidità con cui Stevanin ha risposto sotto i loro occhi ad ogni

domanda. La tesi dell’avvocato Acebbi è ardita: in conseguenza del trauma cranico e

delle lesioni al cervello riportate nell'incidente stradale del ‘76, Gianfranco Stevanin è

totalmente incapace di intendere e volere quando uccide; non lo è, invece, quando

occulta i cadaveri; insomma, un malato che va curato e che, dopo avergli dato il minimo

della pena per le incriminazioni minori, va recluso in un ospedale giudiziario46.

L’avvocato Roetta, asserisce che: “è difficile difenderlo”, perché non aiuta loro nella

difesa; ritiene che l’ergastolo non possa risolvere il problema, perché Stevanin è “una

persona sola, un malato che non è mai stato curato. Adesso è il momento di farlo”.

L'avvocato Acebbi, invece, punta il dito sulla madre che, forse, era consapevole della

pericolosità del figlio, sicuramente era preoccupata “più della vergogna che della

colpa”; la malattia del figlio era, per lei, una vergogna, quindi andava tenuta in casa.

L’avvocato Dal Maso è l’uomo che più è stato vicino a Stevanin negli ultimi tre anni

della sua vita; d’altra parte è stato lo stesso imputato, al momento di parlare dei suoi

rapporti di amicizia a metterlo al primo posto; anche il legale ammette di sentire per lui

sentimenti di affetto. Chiede alla Corte l’assoluzione, perché il suo cliente è una persona

incapace di intendere e di volere, in quanto “le sue azioni incongrue sono indice di una

mente assolutamente disturbata”. Conclude affermando di aver capito, dopo tutto il

tempo passato con Stevanin che “l’umana miseria è compatibile con la malattia e che,

comunque, c’era un uomo che mi chiedeva aiuto”.

Il legale conclude la replica, il presidente della Corte d’Assise, Mario Sannite, porge

45 Ibidem. 46 Ivi.

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l’ultima domanda di rito all’imputato: “Cosa si aspetta dai giudici?”. Lui si alza: “Sono

probabilmente malato……adesso però bisogna vedere quale idea ogni giurato si è fatto

di me”.

5.4.1. Anche Stevanin sale sul banco dei testimoni

Cinque udienze, trenta ore di interrogatorio durante il quale l’imputato rimane sempre

lucido, con quel sorriso indecifrabile, che qualcuno considera tonto ed altri furbissimo;

le braccia conserte, gli occhi fissi su un punto lontano, la voce ferma, sempre con lo

stesso tono monocorde. Parla per ore, ha una risposta logica per ogni contestazione che

gli viene mossa; rimescola le carte, scambia gli anni, sovrappone vicende, donne,

cadaveri; si sofferma minuziosamente su dettagli insignificanti e poi si rifugia dietro

comodi “non ricordo” quando gli viene chiesto di precisare i momenti chiave del suo

racconto.

Viene messo sotto torchio dal pubblico ministero, dagli avvocati di parte civile, persino

dai suoi legali, passa momenti difficili, ma non dà mai quell’impressione di incapacità

di intendere e volere. Quando il presidente Sannite gli chiede se avverte sensi di colpa,

egli risponde: “ero qui che ci stavo pensando, non saprei rispondere. Non saprei fino a

che punto io possa essermi sentito colpevole di queste situazioni”; i congiuntivi ci sono,

i sentimenti, ancora una volta, no. Nel momento in cui gli avvocati di parte civile

contestano a Stevanin che, nel suo caso, compaiono tutti i tratti tipici di un serial killer,

lui risponde di aver l’impressione che certe cose siano loro a volerle mettere assieme a

tutti i costi. Un momento importante, che mette l’imputato in difficoltà, arriva quando

l’avvocato Cazzola gli pone dei problemi esistenziali, sui quali l’assassino seriale non

ha preparato alcuna risposta; tergiversa, prende tempo, la sua imperturbabilità sembra,

per la prima volta, vacillare. Ecco il contraddittorio tra il legale e l’imputato:

Volevo capire se per il signor Stevanin esiste un concetto di bene e di male.

Caspita ... si rende conto che per rispondere a questa domanda ci vorrebbe tutta la

giornata?

Non credo...

Il concetto di bene e di male certo che ce l’ho

Possiamo conoscerlo? Qui stiamo parlando di vita e di morte. Di persone che c’erano e

non ci sono più.

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Male è ovviamente quello che va contro la salute e la vita di una persona. E anche

contro la moralità, se vogliamo. In generale bene è l’opposto, per farla breve.

E per farla lunga?

Avete da battere record?

Interviene il presidente Sannite a richiamare Stevanin a risposte più adeguate. Passano

quasi tre minuti prima della risposta.

Bene è tutto ciò che favorisce il benessere dell’uomo.

Segue un’altra lunghissima pausa.

Male, invece, è ... stimolo agli atti negativi della vita, porta a valenze negative.

Lei si è sempre ispirato al concetto di bene?

Ho cercato di farlo.

Ed è riuscito?

Spesse volte si, qualche volta no.

Su quali aspetti?

A volte non sono riuscito a capire bene le persone e, pur volendo far del bene,

inconsciamente ho fatto del male, perché non riuscivo a comprendere i problemi di una

persona, non so se rendo l’idea.

Esiste un concetto di normalità e di non normalità per lei?

La normalità esiste sì, solo che è un concetto molto soggettivo.

Ma esiste una distinzione tra questi due concetti?

La stessa distinzione che ho fatto prima. Cambia solo la vetrina.

Esiste un limite ai propri desideri, al proprio volere, al proprio piacere?

I limiti ci devono essere.

Quali sono?

I limiti sono quelli stabiliti da ciò che è bene e male. Un limite da non oltrepassare è

quello che può provocare del male, tanto per dire.

Ha mai oltrepassato questi limiti?

Devo ammettere che li avevo già passati inconsapevolmente.

Quanto vale per lei la vita umana?

Che io sappia nessuno può dare un valore alla vita umana.

Per qualcuno può valere molto poco….

Il valore è incalcolabile.

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Considera la carcerazione una giusta punizione?

Almeno una parte di colpa, per aver nascosto i cadaveri c’è ... la carcerazione per

quella parte di colpa che so di avere, la vivo serenamente, perché so che sono lì per

espiare una colpa. Ma se dovessi essere incarcerato per altri reati, ben più gravi, direi

che è ingiusta…

Non le sembra che ci sia una progressione nella sua condotta? Lei inizia conservando un

cadavere e arriva, nella fase finale, al sezionamento del cadavere. Non le sembra una

forma di perfezionamento di un certo stile?

Se avessi avuto il controllo della situazione non ci sarebbe stato nessun decesso,

probabilmente.

Bisogna vedere quale era stata la sua volontà effettiva….

Adesso mi sembra che stia esagerando.

Si è mai eccitato nel tagliare un cadavere?

Una sensazione che ho avuto…

C’è una forma di piacere a veder morire una persona?

Direi proprio di no.

Che sensazione ha provato lei?

Un po’ di panico…

Un atteggiamento diverso, Stevanin, assume subito dopo con il suo avvocato, “l’unico

amico rimastogli”. Voce suadente, tono basso, ammiccante, confidenziale. Deve

dimostrare ai giudici che il serial killer che si trovano di fronte è un essere totalmente

privo di coscienza, ossia della capacità di comprendere ciò che ha fatto.

Gianfranco di donne te ne sono morte tante, sei sfortunato o cosa?

Molto fortunato no.

Hai mai collezionato peli pubici?

Collezionato… avevo iniziato qualcosa del genere…

Che volevi farne?

L'imbottitura di un piccolo cuscino.

Ma un cuscino del genere rientra dalla parte del bene o da quella del male?

Non ci vedo nulla di male.

Hai mai mangiato carne umana?

Oh Dio… se dovessi risponderti, ti direi di no... certo che, con i vuoti di memoria che mi

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ritrovo, non posso esserne certo.

Se tu l’avessi mangiata, rientrerebbe nel concetto di bene o di male?

Rimanendo nella normalità… se una persona è normale non credo…

Tu sei anormale?

Non lo posso sapere. Deve essere qualcun altro a spiegarmelo.

Di queste morti, di queste disgrazie che ti sono capitate, ti eri preoccupato?

Forse troppo e… ma poi sono capitate quando mio padre stava male e quindi mia

madre poteva salvarmi fino a un certo punto.

Dicevi, la prima può andare, la seconda vabbé, alla terza cominci a preoccuparti…

Perché la prima non basta a preoccuparsi?

Ma un campanello d’allarme ti è suonato?

Per la prima (la Pulejo), sai che non posso avere qualche responsabilità.

E con la Smoljo?

Non so cosa pensare…

Ma ti preoccupi? Dici “io con le donne non voglio averci più niente a che fare”?

È una soluzione troppo radicale. Non era colpa mia, quindi…

Sempre le donne, di cui non può fare a meno, che rappresentano il centro dei suoi

desideri, dei suoi pensieri. Ma poi, spiega, che nella sua vita c’è una sola donna che

rappresenta “il massimo di femmina, di donna”; non dice il suo nome, ma tutti sanno

che parla di lei, di Maria Amelia. Di certo, l’andrebbe a trovare se uscisse dalla galera

domattina, ma è consapevole di non essere più accettato, visto il castello messo in piedi

dai mass media, eppure, riprende, “un tentativo lo farei, visto che il mio desiderio era di

formarmi una famiglia”. Continua a parlare il difensore Dal Maso.

Ti consideri una brava persona?

Vorrei evitare di fare apprezzamenti su di me, potrebbero essere fraintesi dalla stampa.

Voglio sapere da te se ti consideri una brava persona.

Io si. Mi considero discretamente.

Ti consideri un soggetto pericoloso?

Assolutamente no. Anzi, ho sempre cercato soluzioni ai problemi con diplomazia, senza

alzare la voce.

Tu sei un soggetto pericoloso…

Più che pericoloso, direi che forse sono un soggetto che ha bisogno di cure.

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Vuoi chiedere pietà a qualcuno?

Come minimo ai parenti delle vittime.

Lo fai sinceramente o è una cosa che fai perché devi farlo?

Non è un pro forma. Per pro forma non faccio niente.

Ti faccio un esempio: “cari signori, io ho commesso questi reati, devo chiedere scusa ai

genitori e alle famiglie delle vittime, sono una persona che ha bisogno di cure, vi chiedo

la massima accortezza nel giudicarmi. Sono pentito di quello che ho fatto”. Prova a

dirlo con le stesse parole cosa senti.

Vedi, adesso in quattro e quattr’otto, sicuramente…

No, quando si arriva al dunque, tu parti sempre con il quattro e quattr’otto. Dopo tre

anni hai tutto il tempo per esprimere un concetto di pentimento o di quello che senti.

Puoi farlo? Ce l’hai questo sentimento? Fai tu, esprimi qualcosa. Non possiamo

chiedere noi per te. Prova.

L’unica cosa che posso dire è che c’è il rischio di dire banalità.

Di banalità ne hai dette tante. Siamo al dunque, esprimi un tuo sentimento riguardo a

queste vittime, riguardo a quello che è successo. Lascia stare le banalità, non sono

banalità.

Non mi sento ancora di spiegare io stesso perché siano successi certi fatti e nonostante

questo sono molto amareggiato, per quello che è successo, veramente molto

amareggiato, perché erano tutte persone per le quali c’era, più o meno, un certo

sentimento. Farei di tutto per far tornare in vita queste persone, ma so che questo non è

possibile….in ogni caso se mi dovesse ricapitare mi comporterei, immagino, in modo

diverso.

E cioè, se avessi un’altra donna tra le braccia cosa faresti?

Andrei al Pronto Soccorso, dai carabinieri, insomma farei quello che va fatto e non ho

fatto perché preso dal panico, chiamiamolo così….

Questo sarebbe il tuo messaggio di pentimento?

Capisco di non rendere l’idea di pentimento, ma caspita è difficile esprimere qualsiasi

sentimento d’altronde.

Unico risultato finale: Stevanin appare alla giuria come un soggetto incapace di provare

emozioni. Un anaffettivo.

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5.4.2. Il pubblico ministero chiede il massimo della pena

“Ergastolo”. Alle 17.37 la parola cade inesorabile nel silenzio dell’aula. Scivola su uno

Stevanin immobile al suo posto. Dopo cinque ore e quaranta minuti di requisitoria il

pubblico ministero Maria Grazia Omboni ha pronunciato la sua richiesta, con tutte le

aggravanti: nella ricostruzione dei sei omicidi e della violenza carnale non c’è posto per

nessuna attenuante. Gli assassini, per il P.M., sono stati tutti volontari e legati da un

unico filo conduttore, non ce n’è uno più grave degli altri, vista l’efferatezza con cui

sono stati compiuti. Merita il massimo previsto dal codice penale: il carcere a vita più

tre anni di isolamento diurno.

Stevanin si aspettava questa richiesta, per due anni i suoi legali lo avevano messo in

guardia. Mentre il magistrato lo descrive come il più spietato degli assassini, l’imputato

risponde ai cronisti mandando bigliettini: “dico chiaro e tondo che il P.M. sta

esagerando alcuni fatti, minimizzandone altri ed in generale sta stravolgendo il senso

dei fatti in questione pur di dare l’immagine più negativa possibile ed arrivare ad un

ovvio risultato. Sta tracciando un’immagine che mi rende adatto ad una piena

imputabilità. Scontato che, se questa viene accolta, non mi posso che aspettare il

massimo della pena. (Ma ciò non significa che sia la mia vera immagine e, la

conseguente, giusta pena)”.

Maria Grazia Omboni procede nella sua requisitoria, precisa, nitida, senza nulla

concedere ad effetti speciali e chiude il cerchio dei crimini. Parte dalle due violenze

sessuali: quella commessa nei confronti di Maria Luisa Mezzari nel lontano 1989 e di

Gabriele Musger il 16 gennaio 1994. Dentro il cerchio scorre la cronologia degli

omicidi: Roswita Adlassnig (giovane prostituta, incantata dal fotografo in cerca di

modelle. Muore ai primi di maggio del 1993; il suo corpo non viene mai trovato);

Caludia Pulejo (tossicodipendente, soffocata il 15 gennaio e sepolta a ridosso di un

muro del casolare); Blazenka Smoljo (prostituta soprannominata “Fatina”, strangolata il

5 luglio 1994 e gettata nell’Adige); Bilijana Pavlovic (cameriera slava illusa dalle

promesse di un lavoro e soffocata con un sacchetto di plastica il 18 settembre 1994);

due sconosciute: una tagliata a pezzi, l’altra ritratta in una foto, orribilmente mutilata

nelle parti intime.

Ricomposto il puzzle, il magistrato inquadra la personalità dell’imputato e le cause della

sua criminosa attività sessuale. Azioni provocate da “risentimento per non essere

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apprezzato e considerato quanto lui avrebbe voluto essere e quanto lui riteneva di

meritare. Ha avuto molte relazioni con donne ma, alla fine, tutte hanno deciso di

interrompere i rapporti perché era bugiardo, inaffidabile, noioso, in ogni caso non

suscitava più il loro interesse. Questi aspetti della personalità lo hanno portato a

collezionare una serie di insuccessi; e gli insuccessi non fanno piacere a nessuno, però

a Stevanin sono risultati particolarmente pesanti. Così, ha coltivato dentro di sé

rancore e risentimento e ha maturato il desiderio di rivalersi e di riaffermare, anche

con la violenza, se stesso sulle donne. Poi il suo bisogno di sentimento, rimasto

insoddisfatto, ha lasciato spazio alla ricerca del sesso e la difficoltà di colmare anche

questo lo ha condotto a pratiche sempre più spinte e letali per le compagne occasionali,

considerate come oggetti usati per il soddisfacimento dei propri bisogni e poi da gettare

e distruggere nel momento in cui non servivano più, dimostrando il massimo disprezzo

per il bene supremo della vita umana”. Gli avvocati dei parenti delle vittime calcano la

mano, gli tolgono l’ultimo spiraglio: l’incapacità di intendere e di volere al momento

dei fatti.

Spetta all’avvocato Dal Maso giocare l’ultima carta. Afferma: “punirlo anziché curarlo

sarà difficile, non si capisce chi si debba punire, se il ginecologo, il fotografo, il serial

killer, il ragazzo perbene. Vi chiedo di assolverlo perché i fatti sono stati commessi da

una persona incapace di intendere e di volere”.

Sono le 10.55. La Corte si ritira in camera di consiglio.

5.4.3. La sentenza della Corte d’Assise

È il 28 gennaio 1998, la Corte, il presidente Sannite, il giudice togato Resta ed i sei

giudici popolari, entrano in camera di consiglio per uscire meno di sei ore dopo. Dopo

114 giorni e 19 udienze, il presidente della Corte scandisce: “responsabile di tutti i

reati”. Stevanin si irrigidisce appena. I muscoli del viso un po’ contratti. “Ergastolo”.

L’espressione del serial killer si fa di pietra. Fermo, immobile ascolta le altre pene che

gli piovono addosso.

Quindi, la giuria accoglie in pieno la tesi e le richieste dell’accusa; hanno riconosciuto

Stevanin colpevole di tutti i reati ascrittigli in un capo di imputazione interminabile, tra

cui sei omicidi volontari, mutilazioni e occultamento di cadavere, stupri e sequestro di

persona. L’idea di tutti i giurati è stata quella di una persona pienamente consapevole di

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quello che ha fatto e non di un malato di mente, come avevano, invece, cercato di

dimostrare fino all’ultimo i suoi legali.

Da qui, la condanna all’ergastolo, tre anni di isolamento diurno appena sarà esecutiva;

la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il risarcimento alle parti

civili per oltre un miliardo, 150 milioni per ogni genitore e alla figlia minore di Roswita

Adlassnig, 50 milioni per ogni fratello, sorella e figli delle vittime, più le spese degli

avvocati di parte civile e quelle processuali. E, onde evitare che successive lungaggini

nella definizione del giudizio consentano a Stevanin di uscire dal carcere per decorrenza

dei termini, ecco anche l’ordinanza di custodia cautelare per gli ultimi quattro omicidi

che gli sono stati contestati e per i quali, ora, è stato condannato.

Omicidi volontari, crudeli e agghiaccianti, tutti egualmente gravi, sottolinea la sentenza,

frutto di una mente lucida, capace di distinguere il bene dal male e di scegliere se lasciar

vivere o morire le donne conosciute. Gianfranco Stevanin è colpevole anche di una

lontana violenza carnale del luglio 1989, ai danni di una prostituta veronese. Importante

perché, vincolandola ai sei delitti con la continuazione, dimostra la correttezza della

ricostruzione accusatoria del P.M. Omboni, per la quale, l’agricoltore avrebbe iniziato la

propria carriera di assassino seriale in quella ormai remota estate del 1989 e l’ha

continuata imperterrito e impunito fino all’arresto, quando, a seguito della violenza

sessuale ai danni della Musger, viene scoperto. E quale era il suo ritmo? Nel maggio del

‘93 sparisce la Adlasnig, nel gennaio del ‘94 la Pulejo, poi un crescendo; luglio dello

stesso anno la Smoljo, settembre la Pavlovic, ottobre la “studentessa”, novembre la

Musger. Per tre di loro, almeno, adesso ci sarà la pace di un sepolcro, per le altre no; si

può solo sperare che Stevanin restituisca, magari “ricordando un altro poco”, anche a

queste sue vittime la possibilità di una degna sepoltura.

Gianfranco Stevanin, trentasette anni, possidente terriero che nella sua vita aveva fatto

più nulla che poco, aveva una sola passione: il sesso. Una passione che ha condotto alla

morte sei giovani donne, anche se per lui, sembra essere stata colpa della morte il fatto

che non siano sopravvissute. “Non mi hanno capito”, è l’unico commento che fa in

tempo a dire al suo legale Dal Maso, prima di venire bruscamente portato via dall’aula.

Stevanin esce di scena, se ne va solo, come solo è stato per tutto il processo, senza il

conforto di una presenza amica o di un parente. Anche questa è la sua tragedia.

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5.5. Il processo davanti la Corte d’Assise d’Appello

Il 22 marzo 1999 prende il via, presso la Corte d’Assise d'Appello di Venezia, il

processo di secondo grado per i delitti attribuibili al “mostro di Terrazzo”. Gianfranco

Stevanin non è comparso davanti ai giudici. Ha preferito rimanere nel carcere di

Brescia, dov’è detenuto. Non ha quindi ascoltato, nell’aula semideserta, i particolari

agghiaccianti dei delitti, così come li ha evocati il giudice a latere Antonio De Nicola

nella relazione preliminare del processo d’appello. È la scarsa presenza di mass media e

di semplici curiosi a impressionare maggiormente nel secondo grado processuale; si ha

una situazione completamente opposta a quella verificatasi in Corte d’Assise.

Il primo momento importante dell’udienza si ha quando il presidente della Corte,

accogliendo la richiesta dei difensori di Stevanin, ha disposto una nuova perizia

neurologica, che dovrà stabilire se le lesioni al cervello subite nell’incidente stradale del

1976, hanno determinato una diminuzione o addirittura l’annullamento della capacità di

intendere e di volere dell’agricoltore. L’incarico formale sarà affidato ai professori

Gianfranco Denes, Giuliano Avanzini e Mario Tantalo. L’organo giudicante, presieduto

da Silvio Giorgio, ha riaperto, quindi, la questione preliminare dell’imputabilità del

serial killer. La presenza, accanto ai due neurologi, di uno psicopatologo forense, lascia

presumere che sarà chiesto un parere sul piano neurologico e non solamente su quello

psichiatrico previsto dall’incarico. Questa soluzione è importante, perché i periti

d’ufficio del Gip e i periti dell’accusa in primo grado, non erano neurologi, mentre

questa specializzazione aveva il professor Pinto, che, nei risultati delle analisi da lui

svolte, aveva svelato un “buco nero” nel cervello del periziando.

I difensori di Gianfranco Stevanin hanno riportato altri due parziali successi nella prima

udienza. Il primo è stato quando la Corte ha disposto l’acquisizione del verbale in lingua

originale (tedesco) dell’interrogatorio di Barbara Adlassnig, sorella di una delle sei

vittime, Roswita, scomparsa dopo un incontro con l’agricoltore nel maggio del 1993.

Era stato uno dei punti controversi del dibattimento di primo grado, perché conteneva

un’indicazione temporale dell’ultima telefonata ai familiari da parte della prostituta

austriaca che poteva scagionare Stevanin per uno dei sei delitti. Infatti, Barbara

Adlassnig parlava del settembre 1993, quindi, quattro mesi più tardi dell’incontro con il

serial killer. Un supplemento di indagine dei carabinieri aveva portato la Corte di

Verona a ritenere che la donna si fosse confusa e a considerare prevalente il riferimento

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ad una fiera che si tiene a Graz (città dove risiedeva) a maggio, in occasione della quale

Roswita aveva promesso di tornare a casa con dei regali per i due figli. La Corte

veneziana si era riservata anche di decidere sulle cause della morte della Pulejo. Dal

Maso, infatti, ha rilanciato l’ipotesi del decesso per overdose, contro quella per

soffocamento della tossicodipendente, che era stata, invece, accolta da giudici di primo

grado.

Le parti civili, invece, hanno presentato la propria rinuncia a costituirsi in appello, visto

che poche settimane prima erano state risarcite grazie alla vendita dei poderi in via del

Brazzetto e via Torrano, dove Stevanin aveva seppellito alcuni dei cadaveri delle proprie

vittime. E, così come era stato profilato da alcuni, si ha un clamoroso rovesciamento

delle conclusioni della Corte d’Assise di Verona. I periti, infatti, hanno stabilito che,

quando Stevanin uccideva, anche se lo ha fatto più volte, era incapace di volere, perciò

non punibile. Giuliano Avanzini, Gianfranco Denes e Mario Tantalo hanno decretato

che, al momento di compiere gli omicidi di cui l’agricoltore è stato accusato, aveva una

“capacità di intendere grandemente scemata, mentre era esclusa la capacità di volere”.

I periti della Corte d’Assise d’Appello hanno, perciò, privilegiato gli aspetti neurologici

rispetto a quelli psichiatrici ed hanno riscontrato in Gianfranco Stevanin una forma di

epilessia causata da una lesione cerebrale frontale destra, provocata dall’incidente

motociclistico e lesioni atrofico-degenerative di entrambi i lobi frontali del cervello. E

proprio questi danni avrebbero influito sulla sua volontà nel momento di uccidere.

Stevanin, invece, sarebbe stato pienamente consapevole sia nel compiere atti di violenza

sessuale, sia nell’occultare i cadaveri delle sue vittime. La loro conclusione è stata

tuttavia concorde nel definire socialmente pericoloso il periziando.

Di fronte ad una perizia d’ufficio di questo tipo, pochi spazi sono rimasti per l’accusa. Il

procuratore generale Augusto Nepi, al termine della requisitoria, chiede perciò 13 anni

di reclusione per l’occultamento e la distruzione dei cadaveri e l’assoluzione per i reati

di omicidio. Alla richiesta di condanna ha poi aggiunto anche l’applicazione della

misura di sicurezza di dieci anni a causa della pericolosità sociale dell’imputato. Il P.G.,

pur condividendone le conclusioni, ha sottolineato l’esistenza di “contraddizioni e

lacune” nel lavoro dei periti, da cui non emergerebbero con chiarezza i “fattori

scatenanti degli atti omicidiari, che non possono essere giustificati da lesioni

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craniche”47. Per il calcolo complessivo della pena, il magistrato ha chiesto il massimo

previsto per il reato di vilipendio di cadavere, sette anni, per l’episodio più grave, più

quattro per gli altri episodi legati agli omicidi contestati per i quali non è punibile.

Infine due anni di reclusione per l’episodio di tentata violenza sessuale a Maria Luisa

Mezzari.

Il procuratore generale aveva “scontato” a Stevanin anche l’accusa di omicidio nei

confronti di una donna di cui rimangono alcune fotografie che la ritraggono con lesioni

conseguenti a pratiche di “sesso estremo”. A detta di Nepi, infatti, non si può presumere

che la donna ritratta fosse priva di vita. I legali di Gianfranco Stevanin, invece, hanno

insistito sulla completa non punibilità del loro assistito chiedendone l’assoluzione. Le

reazioni delle parti, come prevedibile, erano del tutto contrastanti.

I difensori dell’imputato cantano vittoria, anche se ritengono più giusto tenerlo sotto

osservazione per un lungo periodo, data la sua pericolosità. L’avvocato Bastianello, che

rappresentava la madre di Biljana Pavlovic nel primo processo, si dichiara

“esterrefatto”, trovando la valutazione psichiatrica dei periti anomala; ritiene, infatti,

che, interpretando a segmenti la personalità dell’imputato, non sia stata valutata

appieno.

L’avvocato Guarienti, difensore della madre della Pulejo in primo grado, commentando

la sentenza, sostiene invece che il discorso dell’incapacità di volere poteva esser valido

solo per il primo omicidio, non quando si hanno uccisioni ripetute. “Il processo lo

stanno facendo le perizie, non i giudici”, afferma Giampaolo Cazzola, che assisteva i

fratelli della Pulejo; a Verona, sostiene, i giurati avevano avuto la possibilità di avere

Stevanin sotto gli occhi per molti giorni e di valutarne il comportamento. A Venezia

questo non è avvenuto. Continua affermando che: ”la svolta processuale dimostra

quanto sia stata azzeccata la decisione di chiudere l’accordo per i risarcimenti prima

dell’Appello almeno i parenti delle vittime hanno avuto qualcosa, altrimenti, oggi, non

potrebbero accampare nessuna pretesa”48.

Spetta a questo punto ai giudici di Venezia emettere la sentenza.

47 Dalla motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia. 48 BENDRAME G., L’accusa “grazia” Stevanin, “L’Arena di Verona”, 7/07/1999.

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5.5.1. La sentenza della Corte d’Assise d’Appello

Il 7 luglio 1999 la Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Silvio Giorgio, emette

finalmente il verdetto. Il giudizio è ancor più mite di quanto chiesto dal pubblico

ministero: 10 anni e sei mesi. Stevanin, quindi, è stato ritenuto incapace di intendere e di

volere al momento in cui violentava e uccideva le sue vittime e lo hanno, di

conseguenza, assolto per tutti gli omicidi e le violenze sessuali per i quali era stato

condannato in primo grado all’ergastolo.

“Folle”, invece, Stevanin non era, secondo i giudici veneziani, quando mutilava

orribilmente i cadaveri delle donne che aveva ucciso, quando li faceva a pezzi, quando

ne disossava alcune parti e li occultava nei propri poderi o se ne sbarazzava nei corsi

d’acqua della zona. E solo per questo (e per una tentata violenza sessuale del 1989), lo

hanno condannato a dieci anni e sei mesi di carcere. Insomma, la Corte ha accolto in

pieno le tesi degli ultimi tre periti che hanno studiato i meandri del pensiero e del

comportamento di Gianfranco Stevanin: Giuliano Avanzini, Gianfranco Denes, Mario

Tantalo. Tre esperti che, a leggere la perizia, hanno studiato più il cervello in senso

materiale, che la mente del periziando. Ed, infatti, sulla base del quesito posto dalla

Corte, hanno analizzato a fondo soprattutto le conseguenze del “buco nero” nella mente

di Stevanin, a causa del grave incidente stradale del 1976. Due lesioni profonde ai lobi

frontali che non hanno intaccato né la capacità di comunicare, né quella di muoversi, ma

che, secondo i periti, ha inibito la capacità di autocontrollo davanti a certi stimoli. Ed

anche le amnesie, limitate ai momenti cruciali degli omicidi, sono credibili, mentre per

Fornari e Galliani, erano invece, finte e strumentali.

Su una cosa tutti i periti sono stati d’accordo: la pericolosità sociale di Stevanin ed il

rischio che, se rimesso in libertà, possa uccidere di nuovo. La Corte, recependo anche le

richieste del P.G. Nepi, ha previsto l’applicazione della misura di sicurezza della

permanenza, per almeno dieci anni, in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. E, proprio

perché ritenuto pericolosissimo, la Corte d’Assise d’Appello, alle prese con il problema

della scarcerazione del serial killer, in quanto la sentenza rendeva di fatto nulli tutti i

termini di custodia cautelare, ha disposto, da un lato, la “liberazione” dell’imputato,

dall’altro, il suo immediato internamento provvisorio in una struttura psichiatrica

criminale, per la “prevedibile reiterazione di gravi reati e per l’irreversibilità e

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l’immodificabilità, anche in senso peggiorativo della sua condizione”49.

Una sentenza clamorosa, che fa discutere. Una sentenza che nasce senza che quelli che

erano delegati a pronunciarla abbiano mai visto né sentito Stevanin. Il procuratore Nepi,

che aveva accolto in toto la perizia della difesa chiedendo 13 anni di reclusione, i sei

giudici popolari, il presidente Giorgio e il giudice togato De Nicola, hanno preso le loro

decisioni solamente sulla base della lettura di documenti processuali e perizie medico-

legali. Risulta, da questo punto di vista, apprezzabile la strategia difensiva dei legali di

Stevanin, nel sottrarre il loro assistito al dibattimento in aula. Un esame diretto che ha,

in primo grado, contribuito in maniera determinante alla formazione della convinzione

della capacità di intendere e di volere dell’imputato.

Il legale di Stevanin afferma: “i giudici hanno capito che l’imputato è una persona

malata e che è più giusto curarlo, anche se rimane un criminale. Solo un difetto mentale

di origine organica poteva spiegare il perché di tanta violenza in Gianfranco

Stevanin”50. Di tutt’altro avviso è l’avvocato Guarienti che sostiene che: “le conclusioni

della Corte andrebbero bene se fossimo di fronte ad un unico episodio, ma qui gli

omicidi sono sei. Anche ritenendo accidentale la prima morte, Stevanin sapeva

benissimo che, ripetendo certe situazioni, la conseguenza sarebbe stata il decesso della

donna che stava con lui”.

Come detto, la perizia in base alla quale Gianfranco Stevanin è stato ritenuto incapace

di intendere e di volere è stata più neurologica che psichiatrica in senso stretto. I periti

hanno, di conseguenza, compiuto un’indagine “neuropsicologica”. E definiscono la

neuropsicologia “lo studio, attraverso il metodo sperimentale, delle relazioni

intercorrenti tra il sistema nervoso centrale e la vita mentale”, ritenendo che questa sia

la branca delle neuroscienze che negli ultimi anni ha avuto il maggiore sviluppo grazie

all’affinarsi delle tecniche di indagine radiologica, di misurazione delle variazioni del

flusso ematico o del metabolismo cerebrale e all’applicazione di sofisticati modelli

teorici delle funzioni cognitive51. Il tipo di lesioni presenti in Stevanin può provocare

infatti, i cambiamenti, talora drammatici, della personalità e del controllo delle

emozioni che si manifestano o sotto forma di impulsività e comportamento inadeguato

sulla base di un mancato controllo degli impulsi inibitori, o come restringimento del

49 Motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia. 50 BENDRAME G., Il procratore generale: “convinto dai periti”, “L’Arena”, 8/7/1999. 51 Dalla relazione consegnata dai periti alla Corte d’Assise d’Appello.

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campo degli interessi e di indifferenza emotiva52. Uno dei nodi irrisolti rimane quello

“dell’amnesia a scacchiera”, ossia del mancato ricorso dei momenti cruciali di alcuni

dei “decessi accidentali” delle donne che facevano sesso con Stevanin.

Tirando le conclusioni, i tre periti dell’appello formulano una prima diagnosi di

“epilessia con crisi parziali secondariamente generalizzate”, che non hanno però “alcun

ruolo nell’ambito dell’imputabilità di Stevanin”, non incide cioè sulla capacità di

intendere e di volere. Diverso è il caso delle lesioni encefaliche. I danni ad alcune aree

del cervello possono “compromettere meccanismi inibitori che scattano normalmente

alla visione del dolore altrui, una sorta di indifferenza alla sofferenza”. Soprattutto,

però, possono dar luogo alla cosiddetta “sindrome frontale”, in particolare tre

incapacità: di modulare il proprio giudizio in conformità con le situazioni vissute, per

cui egli non appare in grado di distinguere tra una trasgressione morale e una

convenzionale, di appendere dalle situazioni svantaggiose e di inibizione

dell’aggressività. Su queste componenti organiche deteriorate si è innestato un comune

denominatore: l’ estrinsecazione di una sessualità vissuta come un percorso erotico ad

alto rischio.

Nella motivazione della sentenza si afferma anche che: il solo epilogo pronosticabile per

Stevanin è la segregazione in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario a vita. Da questo

passo, si denota lo scetticismo dei giudici, data la natura organica della malattia di

Gianfranco Stevanin, sulle possibilità di miglioramento che potrebbero, in futuro,

rimetterlo in libertà. I legali dell’agricoltore, sono parzialmente d’accordo, in quanto

sostengono che: “è certo che non potrà mai guarire, ma credo che, col tempo, potrà

esser tenuto sotto controllo, anche perché le pulsioni sessuali decadono con l’età”53.

Stevanin viene in seguito trasferito nell’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere. Nel

frattempo, l’avvocato dell’agricoltore annuncia di voler ricorrere in Cassazione per

ottenere un’assoluzione piena. La medesima intenzione viene denunciata dal

procuratore generale. Come prevedibile, la Sentenza emessa dalla Corte d’Assise

d’Appello di Venezia ha provocato molteplici reazioni per lo più orientate verso lo

sdegno.

Emblematica, a tal proposito appare il commento di Gian Guido Zurli, uno dei maggiori

52 Risultanze della perizia effettuata su Stevanin in Corte d’Assise d’Appello. 53 BENDRAME G., Stevanin, manicomio per sempre?, “L’Arena”, 1/09/1999.

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esperti italiani di serial killers. Egli, in primo luogo definisce “vergognosa” la sentenza,

avendo seguito da vicino il processo e ritenendo che Stevanin sia pienamente normale,

come ha dimostrato la lucidità mantenuta durante tutto il dibattimento di primo grado.

Ritiene, inoltre, incontestabili le perizie effettuate da Fornari e Lagazzi, ritenuti i

migliori in questo campo e asserisce che i periti d’ufficio che si sono pronunciati in

secondo grado sono soltanto “psichiatri di sperdute università di provincia in cerca di

notorietà”. Afferma che la soluzione adottata (incapacità quando uccideva, capacità

quando occultava i cadaveri) sia esclusivamente una situazione di comodo. Conclude

affermando che chi ci rimette sono “le vittime e i loro parenti, che non hanno ottenuto

giustizia e il Popolo Italiano, che non è assolutamente d’accordo con questa sentenza,

anche se pronunciata in suo nome”.

5.6. La revisione del processo d’Appello

Una nuova svolta nel processo che vede imputato l’agricoltore di Terrazzo per la morte

di sei donne tra il 1993 ed il 1994, avviene quando il P.G. Augusto Nepi presenta ricorso

alla Corte di Cassazione.

Il motivo del ricorso è basato sulla presunta carenza e illogicità della motivazione sui

risultati delle perizie. Alla stregua dell'art. 606 del codice di procedura penale, che

consente il ricorso per Cassazione in caso di mancanza o manifesta illogicità della

motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato, il P.G.

contesta la sentenza emessa dai giudici di Venezia. La “motivazione”, spiega il

procuratore generale, “aderisce incondizionatamente alle conclusioni dei periti e dei

consulenti tecnici di parte, pur in presenza di opposte conclusioni dei periti di primo

grado, ma non analizza o trascura alcune lacune argomentative e trasforma in certezze

diagnostiche quelle che sono meri enunciati ed ipotesi scientifiche”. “La sentenza”,

continua, "ignora alcune lacune ed incongruenze in modo illogico e non può quindi

sottrarsi all’annullamento”54. In particolar modo viene criticato l’approccio

metodologico nella trattazione del tema. Del resto, afferma lo stesso procuratore

generale, “è del tutto infondato e immotivato che l’imputato fosse consapevole e

determinato nell’intraprendere il rapporto sessuale a rischio, ma altrettanto non fosse

per l’evento conclusivo della morte della partner e non si espone perché sia disattesa

54 BENDRAME G., Stevanin, il P.G. chiede si annulli la sentenza, “L’Arena”, 5/11/1999.

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l’ipotesi opposta, che fosse proprio l’evento omicidiario quello perseguito e attuato

attraverso il percorso erotico”. La Cassazione, con un provvedimento preso il 24

maggio 2000, annulla la sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia il 7

luglio 1999 e, ai sensi dell’art. 623 del codice di procedura penale, rinvia il processo ad

un’altra sezione della stessa Corte.

Il 30 novembre del 2000 inizia, perciò, il processo d’Appello-bis nei confronti di

Gianfranco Stevanin, che al momento sta scontando la pena nell’Ospedale Psichiatrico

Giudiziario di Montelupo Fiorentino. La prima udienza del processo, priva

dell’imputato, forse memore del risultato ottenuto in secondo grado dai sui legali, inizia

con la richiesta da parte del P.G. di una nuova perizia psichiatrica sull’agricoltore. Gli

incarichi sono affidati ai dottori Gaetano De Leo, Francesco De Fazio, Luigi Rossi e

Giovanni Mancardi. Nella scelta dei consulenti, il collegio si è premurato di far

scandagliare tutte le possibili angolature della personalità dell’imputato, nominando un

medico legale, uno psichiatra, un criminologo e un neuropsichiatra. Nei precedenti gradi

di giudizio qualcuna di queste figure era assente, causando lacune che, tra l’altro,

avevano portato all’annullamento della prima sentenza d’Appello.

I giudici sono, perciò, chiamati nuovamente a decidere sulla capacità di intendere e di

volere di Stevanin al momento dei delitti e sulla loro premeditazione: è questo, infatti, il

punto debole della motivazione del primo appello annullata dalla Cassazione. In questa

prima udienza, i legali dell’imputato presentano istanza per la concessione del rito

abbreviato, che viene accolta dalla Corte. Anche in questo caso, il processo di svolge

essenzialmente sulla base dei risultati degli esami effettuati dai periti sulla persona di

Gianfranco Stevanin. Per quanto riguarda le richieste effettuate dalle parti, come era

prevedibile, si ha una netta contrapposizione tra il P.G., che chiede l’ergastolo, ed i

legali di Stevanin, che chiedono la non punibilità del loro assistito per incapacità di

intendere e di volere.

Il 23 maggio 2001, la Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Luigi Lanza, dopo cinque

ore di camera di consiglio, emette la propria sentenza: è ancora ergastolo. La Corte

d’Assise d’Appello, accogliendo in pieno le richieste del procuratore generale, non ha

concesso all’imputato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle

aggravanti. La Corte ha, inoltre, emesso un ordine di cattura nei confronti di Stevanin e

ne ha disposto il trasferimento immediato in un istituto penitenziario. L’agricoltore è

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stato, invece, assolto in via definitiva per un sesto delitto, quello della donna di cui era

stata trovata una fotografia che la ritraeva con lesioni causate da rapporti sessuali

estremi. “Sadico, ma non pazzo, affetto da un disturbo mentale, ma non tale da non

poter capire che doveva fermare la sua foga sessuale prima di infierire sulle vittime. E i

suoi delitti hanno la causa esclusivamente nel soddisfacimento della propria libido”55.

È in questo passaggio, pronunciato da uno dei quattro periti d’ufficio, il crinale che ha

portato alla condanna all’ergastolo per l’agricoltore veronese. L’esito della perizia non

ha dato scampo a Stevanin: se per un solo delitto si sarebbe potuta invocare la non

imputabilità, ciò non è possibile quando gli omicidi si sommano.

Le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Venezia

affermano anche che il “mostro di Terrazzo” possedeva “mezzi intellettivi e culturali per

evitare siffatti crimini e, comunque, per non ripeterne il percorso dopo la prima volta”.

Quanto alle condizioni mentali, la Corte sottolinea che “né il trauma cranico, né

l'epilessia, né la relazione con la madre assumono ruoli causali”56. Secondo l’organo

giudicante, inoltre, nei delitti assumono un ruolo aggravante la sua condotta sempre

lucida e l’atteggiamento processuale mai rivelatore di un barlume di pentimento, ma

attento ad adeguarsi di volta in volta ad una nuova emergenza probatoria. A Gianfranco

Stevanin resta il lumicino della Cassazione, ma è una speranza flebile, vista in fondo ad

un tunnel lungo quanto può esserlo l’ergastolo.

È, infine, la Suprema Corte a mettere la parola fine sulla tormentata vicenda giudiziaria

iniziata nel 1994 e che vede come protagonista assoluto l’agricoltore di Terrazzo. Il 7

febbraio 2002, la Cassazione, infatti, conferma la Sentenza della Corte d’Assise

d’Appello di Venezia che ha inflitto a Gianfranco Stevanin l’ergastolo. Si chiude così la

clamorosa vicenda, iniziata quasi casualmente nel novembre del 1994, con la denuncia

della prostituta austriaca Gabriele Musger, sfuggita a Stevanin nei pressi del casello

autostradale di Vicenza Ovest e che ha coinvolto l’opinione pubblica nazionale. Dopo

un iter processuale tormentato e ricco di colpi di scena, cala finalmente il silenzio sulla

vicenda che vede coinvolto il serial killer più sadico della nostra storia.

55 VACCARI A., L’esito della superperizia non gli ha dato scampo, “L’Arena”, 24/03/2001. 56 Motivazione della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Venezia.

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5.7. Le vittime di Stevanin

BILJANA PAVLOVIC

Cameriera slava, scompare nel 1994. Il suo corpo sarà ritrovato il 12 novembre

dell’anno successivo sepolto nei campi che circondano il casolare di Terrazzo.

Sul suo cadavere saranno trovate molte mutilazioni, compresa l’escissione della pelle

del pube. La Pavlovic muore probabilmente per asfissia causata da un sacchetto di

plastica, lo stesso trovato sulla sua testa, mentre il suo cadavere è avvolto nel Domopak.

Nel corso degli interrogativi di lei Stevanin dirà: “quella sera al casolare decidemmo di

fare qualcosa di diverso. La feci spogliare, le legai le mani dietro la schiena, la feci

sdraiare a faccia in giù e tirai la corda dalle mani fino intorno al collo. Una volta finito

di fare l’amore, mi accorsi che era morta. Lasciai il cadavere al casolare, non sapendo

cosa fare, avevo una gran confusione. Quando tornai vidi che i topi avevano morsicato

il volto. Le misi un sacchetto sulla testa, avvolsi il corpo nel Domopak, scavai una buca

e la seppellii (…). Lo feci per affetto, perché il suo corpo si conservasse, era una cara

amica”.

BLAZENCA SMOIJO

Di lei non si sa praticamente nulla. Il suo cadavere viene rinvenuto a Piacenza d’Adige

il 3 luglio 1994. Il suo passato è avvolto nel mistero. A lungo è stata cercata inutilmente

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una sua amica, Silvana Kovac, che avrebbe potuto avere indizi utili alle indagini. Molto

probabilmente anche lei era una prostituta, e Stevanin di lei così parla: “non so neppure

chi fosse e che nome avesse. Ricordo solo che non la portai al casolare, ma nella casa

nuova. Mi pare fosse autunno. Facemmo l’amore piegati su un fianco, io le misi le mani

intorno al collo e lei morì. La portai al casolare, lasciai il corpo lì un paio di giorni, poi

presi un taglierino da barba, tagliai prima una gamba in due pezzi, poi l’altra, quindi le

braccia. Le ho tagliato anche la testa, l’ho rasata e non ricordo se ho fatto dei pezzi

anche del tronco. Ho lavorato diverse notti…”.

CLAUDIA PULEJO

29 anni, tossicodipendente e sieropositiva, era una vecchia amica di Gianfranco

Stevanin. Si prostituiva di tanto in tanto solo per pagarsi la droga. Scompare il 15

gennaio 1994. Indossava un vestito nero scollato, degli stivaloni ed una borsetta. Si

stava recando a casa di Stevanin perché le aveva promesso 15 scatole di Roipnol, un

potente farmaco per le crisi di astinenza, in cambio di alcune foto per le quali avrebbe

dovuto posare. Tutti i suoi affetti personali, compresi i documenti, vengono ritrovati

nella villa di Stevanin il giorno dopo il suo arresto. Cerca di discolparsi asserendo che si

trattava semplicemente di souvenirs di avventure sessuali, che la giovane gli avrebbe

ceduto spontaneamente.

In seguito sarà lo stesso Stevanin ad indicare agli investigatori il luogo dove la ragazza è

stata sepolta. Il I dicembre 1995 il suo cadavere viene esumato dal terreno dove sorge il

magazzino del casolare di Stevanin. Il corpo della Pulejo – avvolto nella plastica – è

stato seppellito in una vera e propria fossa, come se Stevanin avesse voluto dimostrare

rispetto nei suoi confronti.

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ROSWITA ADLASNIG

Di lei si sa che era una prostituta. A denunciare la sua scomparsa, l’8 maggio del 1993, è

Petra una sua amica. Sarà proprio lei, al processo, a dichiarare che prima di scomparire,

Roswita aveva incontrato Stevanin. In una delle abitazioni di quest’ultimo vengono

trovate 11 foto che la ritraggono. L’assassino ammette di averla conosciuta, ma nega di

sapere qualcosa sulla sua scomparsa. Dice di averla fotografata solo all’aperto e, da

allora, di non averla più vista. Ma oltre alle foto all’aperto, ce ne sono altre,

particolarmente spinte, che la ritrarrebbero distesa su un telo azzurro. Il suo corpo non è

mai stato trovato.

PRIMA DONNA NON IDENTIFICATA

Razza bianca, sesso femminile, capelli biondi lisci, età compresa tra i 25-30 anni.

Questo il sommario identikit della donna che potrebbe essere stata uccisa da Stevanin.

Durante le numerose perquisizioni nell’abitazione di Stevanin è stato trovato un nastro

di negativi fotografici. In essi sono riprese con l’autoscatto scene di sesso estremo

dell’agricoltore di Terrazzo con questa donna misteriosa. In altre pose sembra che

l’uomo la stia facendo a pezzi.

Stevanin ha sempre negato di aver mai scattato quelle immagini, in altre occasioni ha

affermato di non ricordare.

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SECONDA DONNA NON IDENTIFICATA

Si tratta della donna il cui cadavere è stato trovato da un contadino in un sacco di juta

non lontano dal casolare di Stevanin, il 3 luglio 1995. Struttura esile, alta appena 1,45

cm circa. Si è ipotizzato che potrebbe trattarsi di un’asiatica. L’identità di questa donna

è sempre stata un mistero. Non si sa come la donna sia stata uccisa, né quando sia

morta.

Una sua coscia è stata rinvenuta in un canale, diverso tempo dopo il ritrovamento del

resto del cadavere, su indicazione dello stesso Stevanin.

5.8. Stevanin: l’ultima intervista

“Ricordo vive tutte le donne che ho ucciso”.

Dal carcere di Opera, dove sconta l’ergastolo, parla il serial killer di Terrazzo.

OPERA (Milano) — Non è lo più stesso, Gianfranco Stevanin. Il più famoso serial

killer italiano dice di aver scoperto la fede e di sentirsi pronto ad uscire dal carcere.

“Voglio dedicare la mia vita a fare del bene”, giura. “Farò volontariato”. Bugie? Solo il

tentativo disperato di accelerare la concessione del primo permesso-premio? Stando a

chi ha seguito il suo percorso di recupero all’interno del carcere di Opera, è cambiato

davvero. Non c’è traccia – affermano – del “mostro di Terrazzo” che negli anni Novanta

uccise sei donne durante dei rapporti sessuali estremi, le tagliò a pezzi e le sotterrò nei

campi vicino casa. Di certo non è più il trentenne della provincia di Verona, figlio di

possidenti terrieri, che raccontò di voler realizzare un cuscino con i peli pubici delle

vittime. Oggi Stevanin è un ergastolano di 51 anni, i capelli lunghi, appesantito dall’età

e dalla vita carceraria. Ama scrivere e in carcere punta a diplomarsi in ragioneria e

magari a laurearsi. A distanza di oltre dieci anni dalla condanna definitiva, ha accettato

di rispondere (attraverso uno scambio epistolare) alle domande del Corriere del Veneto.

E lo fa, dice, perché si consideri che nella sua storia “oltre al bianco e al nero, esiste

anche il grigio”.

Che persona è, oggi, Gianfranco Stevanin? “Potrei risponderle, un po’

semplicisticamente, che la mia pazienza è notevolmente aumentata e si è sviluppata

anche la mia adattabilità. Ho imparato inoltre a sfruttare in modo costruttivo il tempo

che ho a disposizione”.

Ad esempio studiando… “Mi sono iscritto al maggior numero di corsi disponibili e sto

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cercando di arrivare alla maturità superiore, studi che interruppi in gioventù a causa di

un incidente motociclistico. Gli studi per ora vanno bene e mi piacciono, come mi piace

tutto ciò che può arricchire il mio bagaglio culturale…”.

Chi in questi anni le è stato vicino, assicura che è cambiato. Cosa le ha insegnato il

carcere? “Non è facile rispondere in due parole… La funzione del carcere è la

rieducazione in merito a ciò che di male si è commesso. Ma non sempre la prigione

riesce a esserlo, specialmente in una situazione carceraria come quella odierna. Nel mio

caso, però, sarebbe stato utile stabilire meglio in che misura ero cosciente di quel che

facevo all’epoca dei fatti. Quantomeno per stabilire il tipo di rieducazione di cui

necessitavo. Nonostante tutto, secondo la mia modesta opinione, l’obiettivo è stato

raggiunto”.

Un anno fa è circolata la voce che volesse farsi frate, sarà davvero questo il suo

futuro? “Avendo deciso di dedicare la mia vita al volontariato o, comunque, a fare del

bene seguendo i dettami del cattolicesimo, farmi frate sarebbe probabilmente la cosa più

indicata. Il mio passato, però, mi porta a escludere questa possibilità. E poi, in fin dei

conti, si può fare del bene anche senza necessariamente indossare il saio…”.

Come ha scoperto la Fede? “Per quanto riguarda il mio rapporto con la Fede in Dio,

vorrei descriverlo partendo un po’ a monte dei tempi attuali. Sono nato in una famiglia

in cui la Fede cattolica era solida e molto radicata e anche in me, fin da giovanissimo, la

Fede era viva…”.

Poi cos’è cambiato? “Nella mia gioventù c’è stato un periodo buio in cui, alla Fede, si

sovrapposero… altri interessi. Ma durante la carcerazione quella Fede sommersa, ma

che comunque c’era, è riemersa totalmente ed è divenuta così importante che è da quella

che ora mi voglio far guidare”.

Nonostante la condanna all’ergastolo, ha ormai maturato i termini per ottenere i

permessi-premio per uscire dal carcere. Li ha già richiesti? “Come ha detto lei, sarei

già nei termini, come tempi, per ottenere i primi permessi di uscita. Per la burocrazia ed

il sistema carcerario occorrono, però, anche altri requisiti per poterli richiedere. Io sto,

per l’appunto, attendendo che maturino questi requisiti”.

Quale sarà la prima cosa che farà quando lascerà il carcere? “Quando potrò uscire

la prima cosa che farò, se possibile, sarà una passeggiata immerso nella natura, in aperta

campagna. Voglio potermi guardare attorno vedendo solo il verde della natura e non

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sbarre o cemento”.

Cosa le manca di più della libertà? “La lista ovviamente sarebbe molto lunga.

Volendo citare solo le cose più importanti, oltre al contatto con la natura mi mancano gli

affetti, le amicizie vere e l’essere attorniato da persone tranquille che abbiano repulsione

per la violenza e amino i veri valori. Non sto facendo retorica, ciò che ho appena detto

lo penso veramente. Tutto il resto passa in secondo piano…”.

La leggenda vuole che in carcere lei riceva molte lettere di ammiratrici… “Diversi

anni fa ho effettivamente ricevuto lettere da ammiratrici, per usare le sue parole. Tra

queste persone che mi hanno scritto, qualcuna l’ho ritenuta poco veritiera o non mi ha

lasciato un recapito a cui rispondere. Ad altre ho risposto e con qualcuna ho allacciato

dei rapporti epistolari piuttosto duraturi”.

Nel suo futuro si vede con una donna a fianco? Le piacerebbe sposarsi? “In futuro,

beh… la cosa è piuttosto controversa. Per essere schietto l’idea non mi dispiacerebbe

affatto ma, per una serie di motivi che non sto a spiegare, ritengo che mi sentirò meglio

se, invece di legarmi a una persona in particolare, mi dedicherò totalmente a voler bene

e aiutare chiunque si trovi nel bisogno. Magari in accordo con qualche ente

assistenziale…”.

Ripensa mai alle donne che ha ucciso? “Lei mi porta su terreni che definirei…

“sdrucciolevoli”. Ma non prenda le mie parole come una lamentela: era ovvio che

avremmo affrontato anche argomenti non propriamente facili o leggeri. Nonostante sia

passato un bel po’ di tempo, io ci penso eccome alle ragazze decedute. Nei miei ricordi

però quelle ragazze sono vive, ed è così che vorrei continuare a ricordarle”.

Si sente responsabile della loro morte? “Dal momento che gli inquirenti dicono che

ho commesso quei fatti - devo dire così poiché di quei fatti io non ho mai avuto il

ricordo - è ovvio che mi debba sentire responsabile. Ora però sono io a farle una

domanda: quanto mi dovrei sentire responsabile se sapessi che in quei momenti non ero

cosciente di ciò che facevo?”.

Dopo vari pareri discordanti, la sentenza definitiva l’ha dichiarata capace di

intendere e di volere. Che risposta si è dato alla sua domanda? “Naturalmente non

posso pretendere che mi si creda solo sulla parola quando dico che, se fossi stato

cosciente, quei fatti non sarebbero avvenuti. Ripercorrendo quanto accaduto, però, varie

cose farebbero pensare, in modo abbastanza inequivocabile, all’operato di qualcuno che

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non è in sé… Immagini, solo come ipotesi, che qualcuno potesse dimostrare che ero

inconsapevole. Pensa che in tal caso mi si potrebbe mettere all’indice come colpevole?

Ma allora, sapendo che il dubbio esiste, non crede che si sia puntato il dito su di me con

troppa facilità?”.

A chi si riferisce? “Non solo all’operato dei mass media, ma all’operato di chiunque mi

ha giudicato”.

Perché ha voluto rilasciare questa intervista? “Io sono già stato condannato, quindi

non è l’estremo, e a volte penoso, tentativo di difesa dalla condanna. In cuor mio so di

cosa sono responsabile, ma quello è un problema che riguarda solo me e la mia

coscienza. Parlo ora perché mi piacerebbe che, una volta tanto, a ogni cosa fosse dato il

suo giusto nome e si considerasse che, oltre al bianco e al nero, esiste anche il

grigio…”.

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6. DESTINO E FUTURO DEI SERIAL KILLERS

6.1. Problemi inerenti l’imputabilità

Quello dei serial killers è un argomento che suscita orrore – è ovvio – ma pure

attrattiva, comunque interesse, forse anche sproporzionato.

L’omicidio seriale, come detto, si definisce come l’assassinio di più vittime, ma che in

aggiunta viene compiuto in risposta a bisogni emotivi.

Molti dei serial killers si caratterizzano per comportamenti – prima, durante e dopo

l’omicidio – che violano i nostri più radicati tabù in merito alla pietà, al rispetto per la

persona umana e dunque anche per il suo corpo, al disgusto, a tutti i concetti possibili di

“normalità”.

La psichiatria e la psicologia forense fin dall’Ottocento hanno cercato delle spiegazioni

e l’interrogativo è valido ancor oggi: sono pazzi costoro? O li chiamano “folli” solo per

segnalare la loro deviazione dalla norma etica e statistica?

Dunque – in ambito forense i quesiti sono collegati – sono responsabili delle loro

atrocità o sono degli infelici determinati senza scampo dal loro patologico modo

d’essere?

Per Lunde57, per esempio, coloro che commettono più omicidi sarebbero nella quasi

totalità dei casi malati; per la Simon almeno alcuni dei serial killers58 soffrirebbero di

una forma di disturbo dell’umore atipica, e comunque gli omicidi stessi sono da

reputarsi sintomi di un disturbo maniaco depressivo. Le differenze fra omicida seriale

psicopatico ed omicida seriale psicotico sono messe in luce da Benezech59 riguardo alle

condizioni familiari, all’anamnesi, alle abitudini voluttuarie, ai precedenti penali, alla

personalità, al modus operandi, al rapporto con la vittima, al comportamento successivo

al reato; l’Autore conclude con la differenza in termini di responsabilità penale,

affermando che lo psicopatico è penalmente responsabile e lo psicotico penalmente

irresponsabile in quanto privo di coscienza e sprovvisto di capacità empatiche, senso di

57 LUNDE D., Murder and Madness, San Francisco Book Company, San Francisco, 1976. 58 SIMON R. I., Post Traumatic Stress Disorder in Litigation: Guidelines for Forensic Assessment, Amer.

Psychiatric Press, 1995. 59 BENEZECH M. et al., Cannibalism and Vampirism in Paranoid Schizophrenia, in The Journal of

Clinical Psychiatry, XLII, 7, 1981.

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colpa e lealtà verso chiunque.

Secondo Holmes e De Burger60, la maggior parte dei serial killers non sono né da

valutarsi in termini psicopatologici, né sono malati di mente; la maggior parte degli

omicidi seriali non sono psicotici.

Il punto è che l’aver fatto “cose da pazzi” non comporta essere giuridicamente infermi

di mente. Che poi i serial killers abbiamo pure qualche problema, o si può dire di più,

che per loro si trovino senza fatica categorie nosografiche che li descrivono, soprattutto

nell’ambito dei Disturbi di Personalità, è comprensibilissimo, anzi è tautologico.

Dietz, lo psichiatra che ha collaborato allo studio dell’FBI sugli autori di omicidi seriali,

ha chiarito a proposito di costoro che: “a nessuno dei serial killers che ho avuto modo di

studiare o visitare era applicabile la formula della infermità mentale, ma al contempo

nessuno di loro era normale. Tutti erano affetti da turbe mentali. Ma nonostante questi

disturbi, legati alla sfera sessuale ed al carattere, agivano sapendo quello che facevano

e sapendo che era sbagliato. E sceglievano di farlo ugualmente”.

Per Douglas e Olshaker61: “sicuramente soffrono di un grave disturbo o difetto

caratteriale. Sicuramente chiunque tragga piacere dallo stupro, dalla tortura, dalla

morte ha dei problemi psicologici piuttosto pronunciati (…). Molta gente sembra non

afferrare il concetto che si possono avere problemi mentali o emotivi – anche gravi – ed

essere tuttavia in grado di distinguere il bene dal male e conformare di conseguenza il

proprio comportamento”.

Un serial killer – afferma lo psichiatra Paolo Crepet – è un uomo più normale che

pazzo, se non fosse così non potrebbe reiterare i delitti che compie. Il pazzo che uccide,

uccide una volta sola e poiché in quell’omicidio si è ucciso, diventa una persona

inoffensiva. L’assassino seriale, invece, deve avere un grandissimo controllo su di sé e

sull’ambiente; deve essere capace di sfuggire alle ricerche della polizia, sapersi

mimetizzare come uomo perfetto. Certo, è probabile che egli abbia una percezione

totalmente fuori controllo della sessualità, dell’affettività, ma è comunque perfettamente

cosciente e responsabile di quello che fa.

Il professor Bruno spiega che il serial killer non è un pazzo inteso nel senso classico:

60 HOLMES R., DE BURGES J., Serial Murder, Sage, Newbury Park, 1998. 61 DOUGLAS J. E., OLSHAKER M., Mindhunter,: Inside the FBI’s Elit Serial Crime Unit, Scribner,

New York, 1995, p. 315.

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l’assassino seriale uccide perché gli piace farlo, per instaurare un rapporto fisico con il

cadavere della sua vittima. È una grave deviazione degli impulsi, ma ciò non vuol dire

che sia necessariamente pazzo.

Allora, si farà diagnosi di “Disturbo di Personalità non Altrimenti Specificato”, come

nel caso di Dhamer che uccise almeno quindici giovani, si intrattenne sessualmente con

i loro cadaveri, si rese responsabile di atti di cannibalismo, conservò parti dei corpi in

freezer, di “Disturbo Narcisistico” come nel caso di Gianfranco Stevanin e Ted Bundy.

Ciò perché ben poco sfugge allo scrupolo classificatorio, che contempla di tutto, dai

Disturbi dell’Apprendimento, ai Tic, alla Fobia Sociale, ai disturbi Somatoformi, al

Disturbo dell’Alimentazione e che, se messo alle strette, può sempre contare

nell’accogliente categoria del “ Disturbo Mentale Non Specificato”. E ciò va benissimo

per la psichiatria clinica, ma saggiamente è lo stesso DSM-IV-TR a schermirsi: si legge,

infatti, nella “Raccomandazione cautelativa” del Manuale: i concetti clinici e scientifici

implicati nella categorizzazione di queste condizioni come disturbi mentali possono

essere del tutto irrilevanti in sede giuridica, ove ad esempio si debba tenere conto di

aspetti quali la responsabilità individuale, la valutazione della disabilità e

l’imputabilità62.

In sintesi, un conto è la diagnosi, un altro è come e quanto questa diagnosi si riverberi

sull’imputabilità del soggetto.

Le esperienze di giustizia dimostrano che la maggior parte di essi sono responsabili e

quindi imputabili, perfettamente capaci di intendere e volere e quindi di

autodeterminarsi in relazione agli impulsi che motivano l’azione.

Essi sarebbero affetti da un “distrurbo di personalità” per niente significativo ai fini

forensi.

In questi casi, in Italia soltanto i disturbi di personalità che presentano “reazioni

abnormi” hanno valore di malattia e potrebbero configurare un vizio parziale e totale di

62 E ancora nel paragrafo intitolato “Uso del DSM-IV in ambito forense si moltiplicano le

raccomandazioni: “Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM-IV vengono utilizzate ai fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengono utilizzate o interpretate in modo scorretto. Questo a causa dell’imperfetto accordo tra le questioni di interesse fondamentale per la legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica (…). Inoltre, il fatto che la sintomatologia di un individuo soddisfi i criteri per una diagnosi del DSM-IV non ha nessuna implicazione per quanto riguarda il livello di controllo che egli può esercitare sui comportamenti che possono essere associati al disturbo”. (DSM-IV-TR, p. 11).

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mente. Secondo Fornari63, le reazioni abnormi, per poter soddisfare tale criterio, devono

presentare un’ interruzione di continuità con il precedente stile di vita del soggetto,

presentarsi come atti di sproporzione evidente del rapporto causa-effetto riferito

all’evento, associarsi ad una possibile compromissione dello stato di coscienza e

possibile presenza di disturbi dispercettivi o idee di riferimento oltre ad essere di una

durata relativamente breve. Ossia deve venire a mancare quella “capacità di volere” che

secondo la Corte di Cassazione indica “l’attitudine (del soggetto) ad autodeterminarsi

in relazione ai normali impulsi che motivano l’azione” (Cass. 12 febbraio 1982). Il

soggetto con disturbo di personalità, in assenza di segni di reazione abnorme

(interpretabile anche come decompensazione psicotica), sarebbe perciò imputabile in

quanto consapevole del proprio atto e con una normale autonomia volitiva.

Negli USA, come da orientamento ormai generalizzato, in più Stati, appare che non è

soltanto la presenza o l’assenza della malattia mentale che produce la possibilità di

essere imputato, ma piuttosto lo stato mentale al momento del crimine. In particolare, è

l’intenzione dell’attore a causare il risultato specifico o la consapevolezza che la sua

condotta quasi certamente produrrà quel risultato. La malattia, o i difetti mentali, di per

sé, non sono fattori causativi sufficienti per produrre la non imputabilità. Il rapporto va

cercato nell’intenzionalità e nella consapevolezza delle conseguenze. Soltanto più

recentemente, sempre negli USA, si è prospettata una nuova, interessante e

probabilmente equa possibilità: l’essere “Colpevole ma Malato Mentale” (CMM).

L’American Psychiatric Association è disponibile ad appoggiare tale posizione soltanto

se l’imputato potrà essere messo in grado di ricevere un trattamento mentale adeguato,

come conseguenza del suo essere stato riconosciuto malato di mente.

6.2. Ipotesi di trattamento psicofarmacologico

Atteso che, come spesso si è verificato, in assenza come in presenza di imputabilità, il

comportamento del serial killer è spesso condizionato nei suoi cofattori scatenanti da

disfunzionalità che vanno dalle fasi maniacali della Sindrome Maniaco-depressiva, alle

manifestazioni schizofreniche vere e proprie, all’iperstimolazione ormonale-sessuale, i

farmaci attualmente a disposizione perfettamente in grado, se ben gestiti, di arginare

l’impulso ad agire con il concorso di altri presidi operativi che vedremo poi, sono: i

63 FORNARI U., Psicopatologia e psichiatria forense, UTET, Torino, 1989.

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Neurolettici quali la Tioridazina, la Clotiapina, l’Aloperidolo, la Clorpromazina, la

Periciazina (specifico); gli Antiepilettici quali la Carbamazepina; gli Stabilizzanti

dell’Umore quali il Litio glutammato ed il Litio carbonato; gli Antidepressivi quali la

Fluoxetina e la Fluvoxamina; l’Anti androgeno quale il Ciproterone, ed altri ancora.

Tutti farmaci questi da utilizzarsi nella giusta interazione tra gli stessi, variabile caso per

caso.

6.3. Ipotesi di trattamento psicoterapico preventivo e non

Tali ipotesi trattamentali prendono spunto da tecniche di riabilitazione utilizzate in

Olanda nei confronti dei pedofili, così come dai 46 Programmi Americani denominati

“Parent United” nei confronti dei responsabili di violenza carnale nell’ambito della

famiglia, in cui la recidiva si è ottenuta nell’85% nei casi non trattati e soltanto nel 5%

nei casi trattati psicoterapeuticamente.

Una proposta interessante da lanciare potrebbe far capo ad una nuova linea telefonica di

aiuto da pubblicizzare, genericamente mirata alle manifestazioni aggressive non

necessariamente sfocianti in atti omicidiari. Tale aiuto potrebbe rappresentare un vero e

proprio momento di aggancio telefonico anonimo preventivo, preludio di una ben

sistematizzata successiva psicoterapia in considerazione anche del fatto che: 1) il serial

killer non è subito tale, ma trattasi di un comportamento criminale che si apprende nel

tempo; 2) l’insoddisfazione residua più profonda è sempre registrata anche nei serial

killers potenziali i quali lamentano a posteriori l’inesistenza di un aiuto terapeutico

preventivo.

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7. LE 100 PARAFILIE PIU’ BIZZARRE

7.1. Classificazione

È bene precisare che non tutte le parafilie qui di seguito riportate, necessariamente

conducono il soggetto alla commissione di un crimine.

Si passa, infatti, dalle più “insolite” ma “innocue”, alle più “strane” ma “pericolose” in

cui il soggetto parafilico può arrivare a manifestare un insolito piacere sessuale, in

solitudine o in presenza del partner, attraverso attività a dir poco “particolari”:

Ablutofilia Eccitamento legato a bagni e docce Acarofilia Eccitamento procurato dal grattarsi Acluofilia Eccitamento per il buio, le tenebre Acomoclitic Piacere per i genitali depilati Acrotomofilia Preferenza sessuale per soggetti amputati Agalmatofilia Attrazione per statue e manichini Aicmofilia Eccitamento per aghi e altri oggetti

appuntiti Akofilia Stimolazione sessuale attraverso l’udito Albutofilia Eccitamento attraverso l’acqua Alvinolagnia Eccitamento sessuale per l’addome del

partner; detto anche feticismo dell’addome Amaurofilia Eccitamento con un partner cieco o

bendato Amelotassi Attrazione per un partner privo di una arto Androidismo Eccitamento per robot con sembianze

umane Antolagnia Eccitamento nell’annusare il profumo dei

fiori Aracnofilia Eccitamento per i ragni Aretifismo Eccitamento per i soggetti scalzi Arpaxofilia Il piacere che deriva dal rubare o

dall’essere derubato Aulofilia Eccitamento per i flauti Autodermato-fagia Il mangiare la propria pelle e carne come

forma di masochismo erotico Automisofilia Eccitamento che deriva dall’essere sporchi Axillismo L’uso delle ascelle per scopi sessuali Batracofilia Eccitamento per rane e rospi Belonefilia Eccitamento per aghi e spille Brachioproctismo Il piacere sessuale che deriva

dall’inserzione di un braccio nella cavità anale del partner

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Capnolagnia Eccitamento derivante dal vedere altri

fumare Catagelofilia Piacere derivante dall’essere ridicolizzati Cateterofilia Eccitamento legato all’uso di cateteri Catoptronofilia Eccitamento dall’attività sessuale

compiuta davanti ad uno specchio Chezolagnia Masturbazione durante la defecazione Chionofilia Eccitamento per la neve Clismafilia Piacere sessuale attraverso l’uso di clisteri Coreofolia Eccitamento per la danza e nel danzare Cordofilia Eccitamento dall’essere legato con corde o

catene Coitobalnismo Attività sessuale in vasca da bagno Coproscopismo Piacere nel vedere altri defecare Crisofilia Eccitamento per l’oro o gli oggetti dorati Crurofilia Eccitamento per le gambe Dismorfofilia Eccitamento per partner deformi o

fisicamente compromessi Dorafilia Passione per pellicce e pelli animali Enditofilia Eccitamento per partner completamente

vestiti Entomofilia Eccitamento per gli insetti o l’uso di

insetti nell’attività sessuale Eproctofilia Eccitamento per le flatulenze Fallolalia Eccitamento legato a discorrere attorno ad

un pene ed alle sue caratteristiche Genufallatio Uso delle ginocchia per pratiche sessuali;

inserzione del pene tra le ginocchia Geusofilia Eccitazione attraverso il senso del gusto Ginelofilia Eccitazione per i peli pubici Ginofagia Eccitamento legato alla fantasia di

cucinare e mangiare una donna Ginoticolobo-massofilia Piacere sessuale nel mordicchiare il lobo

dell’orecchio del partner Ibristofilia Eccitamento legato alla conoscenza del

fatto che il proprio partner ha commesso atti di violenza

Idrofrodisia Eccitamento per gli odori della traspirazione, soprattutto delle zone genitali

Ierofilia Eccitamento legato all’uso di oggetti sacri Irsutofilia Predilezione per donne villose Laliofilia Eccitamento per il parlare in pubblico Lattafilia Eccitamento per il seno allattante Lipofilia Attrazione sessuale per partner obesi Mastigotimia Eccitamento attraverso la flagellazione

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Mazoperosi Gratificazione sessuale attraverso la mutilazione del seno femminile

Melissofilia Eccitamento per le api Metrofilia Eccitamento per le attività poetiche Nasofilia Eccitamento legato al toccare, leccare o

succhiare il naso del partner Nebulofilia Eccitamento per la nebbia Nosolagnia Eccitamento legato alla conoscenza di una

malattia terminale nel partner Odaxelagnia Eccitamento nel mordere Ofidiofilia Eccitamento per i serpenti Omoraschi Parafilia feticistica prevalentemente

giapponese, eccitamento legato alla sensazione di avere la vescica piena o l’attrazione sessuale per un soggetto con la vescica piena

Ondinismo Il piacere sessuale di ricevere l’urina dal partner

Ozolagnia Eccitamento legato agli odori del corpo, dal sudore alle urine

Pantofilia Eccitamento legato praticamente ad ogni cosa immaginabile

Peccatifilia Eccitamento legato all’aver commesso un peccato o all’essere responsabile di un crimine immaginario

Peniafilia Fascinazione erotica per la condizione di povertà

Pigofilemania Eccitamento che deriva dal baciare le natiche

Placofilia Attrazione per le pietre tombali Plusofilia Attrazione sessuale per i pupazzi di pezza

o per soggetti vestiti con costumi animali, come accade nei parchi giochi a tema

Pnigofilia Eccitamento per un soggetto che sta soffocando

Ptiriofilia Attrazione per i pidocchi Renifleur Eccitamento nell’annusare l’urina o gli

indumenti intimi Salirofilia Il piacere di ingerire saliva o sudore Schediafilia (o toonofilia) L’eccitamento sessuale che deriva da

tipologie o situazioni dei fumetti Septofilia Attrazione sessuale per la putrefazione e la

materia decomposta Siderodromofilia Eccitamento legato ai treni Simporofilia Eccitamento legato ad incidenti, catastrofi

o esplosioni Sitofilia Il piacere sessuale legato al cibo

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Socerafilia Eccitamento sessuale per la suocera Sofofilia Il piacere e l’eccitamento legato

all’apprendere Staurofilia Eccitamento legato alla croce o alla

crocifissione Stenolagnia Eccitamento per i muscoli scolpiti Stigiofilia Eccitamento legato alla fantasia di essere

destinato all’inferno Tafefilia Eccitamento dall’essere bruciati vivi Tafofilia Eccitamento legato alla partecipazione a

funerali Tamakeri Una variante del masochismo, prevalente

in Giappone, dove l’eccitamento deriva da una donna che prende a calci un uomo nella parti intime

Teratofilia Eccitamento per le persone dall’aspetto mostruoso

Trepterofilia Predilezione sessuale per le infermiere Tricofilia Eccitamento per i capelli Tripsolagnia Piacere sessuale che deriva dal lavare i

capelli Vincilagnia Eccitamento legato al bondage Vomerofilia Attrazione sessuale per il vomito o per

l’atto di vomitare Voranefilia Eccitamento al progetto di essere

mangiato da un altro essere umano Wakamezake L’atto sessuale che comporta bere alcolici

dalle cavità di un corpo femminile Xilofilia Eccitamento per oggetti in legno Zelofilia Eccitamento sessuale nel provare una

grave gelosia

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Conclusioni

Il serial killer non è il normale cittadino, il vicino della porta accanto che,

all’improvviso, una mattina si sveglia e decide di cominciare ad uccidere.

Il suo comportamento è frutto di una storia di esperienze traumatiche iniziate nella più

tenera età e proseguite negli anni. Alcuni assassini seriali hanno subito maltrattamenti

fisici e psicologici, abusi sessuali, traumi cranici; altri possono essere condizionati da

una predisposizione alla violenza già presente alla nascita. In ogni caso, è intorno al

trauma che si costruisce la struttura della personalità del futuro killer.

Per i ricercatori, l’omicidio seriale rappresenta una modalità comportamentale unica e

originale, che fonda le proprie radici e si alimenta nella violenza.

Violenza, crimine: scienziati, filosofi e giuristi da sempre si interrogano sulle cause che

conducono l’uomo a sopraffare il proprio simile, a prevaricare, ad infliggere sofferenze,

spesso estreme, spesso gratuite, sino alla morte.

L’aggressività è un istinto umano innato ed inevitabilmente centrale nella vita

emozionale degli individui o è qualcosa che il genere umano sviluppa in modo reattivo

o difensivo rispetto ad un ambiente percepito come frustrante o minaccioso?

Come in ogni campo del sapere, è forte la tentazione di riportare ogni evento ad

un’unica spiegazione che possa risultare sufficiente e completa. Ecco quindi il

proliferare di dotti articoli su qualificate riviste scientifiche che, a seconda del momento

storico, sottolineano le caratteristiche biologiche innate, oppure lo sviluppo psicologico

disarmonico, le disturbate relazioni familiari, i maltrattamenti subiti o l’ambiente

sociale in cui il futuro serial killer è cresciuto.

Eredità biologica, cromosomi, sostanze chimiche, traumi psicologici, abusi sessuali,

fantasie sadiche e stati dissociativi.

Proviamo a ricondurre le tante possibili cause anche perché, fino ad oggi, nessuno dei

fattori illustrati è risultato di per sé sufficiente a permettere di predire con buona

certezza un futuro comportamento omicida, tanto meno con carattere di serialità.

Nel modello trauma-controllo64

64 HICKEY E., Serial Murderers and their Victims, Wadsworth, Sydney, 2002.

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il ruolo centrale è occupato da un evento significativo e destabilizzante subito

nell’infanzia. La combinazione di più eventi traumatici produce un danno ben maggiore

di un singolo insulto, secondo una logica esponenziale più che di sommaria aritmetica.

Il primo risultato osservabile nel bambino è un sentimento di autostima estremamente

bassa, che lo condizionerà per tutta la vita.

Quasi tutti gli assassini seriali appaiono infatti come soggetti profondamente disturbati

da sentimenti di inadeguatezza e da dubbi circa le proprie capacità. Insieme alla certezza

di non avere alcun valore e pregio, il bambino sperimenta la dissociazione, come pure il

potere di consolazione e salvezza delle fantasie.

Durante la sua esistenza, il futuro serial killer si espone poi a fattori facilitanti: l’uso di

alcool e droghe, il consumo di materiale pornografico, l’interesse per il mistico e

l’occulto rinforzano le costruzioni di fantasie che, gradualmente, si arricchiscono di

componenti sadiche e perverse.

L’abitudine di ricorrere all’esperienza della dissociazione, d’altro canto, se da un lato

permette al bambino di sopravvivere, dall’altro gli impedisce di adottare meccanismi

più evoluti di adattamento alle frustrazioni ambientali.

Ogni avvenimento che in età adulta riecheggi il trauma infantile potrà costituire

l’elemento precipitante un processo di ben maggiore complessità.

In conclusione, ognuno di questi tentativi si è mostrato inevitabilmente parziale; il

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comportamento criminale è comunque un comportamento umano, pertanto costituito da

un’inestricabile interazione tra eredità e ambiante. Solo un approccio integrato può farci

compiere dei passi avanti nella comprensione.

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BIBLIOGRAFIA

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8/7/1999.

BENDRAME G., L’accusa “grazia” Stevanin, “L’Arena di Verona”, 7/7/1999.

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