First Line Press Magazine#3/LAVORO

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Con questo numero vi proponiamo un ventaglio di storie che sono sicuramente paradigmatiche dei diritti sempre più smaterializzati nel nuovo rapporto uomo-lavoro. Si è passati dalla schiavitù, a fare i sacrifici per lavorare, da chi ha la possibilità, economica e sociale, di poter lavorare (sobbarcarsi datori di lavoro che non pagano, ma regalano prestigio o comprare corsi di formazione per un lavoro futuro), fino alla nuova schiavitù dei disoccupati/ricattati. La ricerca sul mercato del lavoro di Istat Italia, che ha raccolto i dati del 2014 fino al mese di aprile, riporta numeri funerei: dal 1977 sono i peggiori. La disoccupazione per gli under 25 è al 46%, con un picco spaventoso al sud: 60,9%. In pratica in Italia 3,487 milioni di persone non lavorano, senza considerare quelle che lavorano senza che il proprio impiego possa garantire autosufficienza e dignità. Il mercato del lavoro odierno che abbiamo descritto in questo numero è una rappresentazione di quanto sia difficile.

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Ci occupiamo di conflitti, periferie, volti, storie che c’imbrattano diventando libere di essere raccontate.

First Line Press Magazine

anno 1 | numero #3

Rivista curata dalla redazione del sito internetfirstlinepress.org

Redazione giornalisticaLorenzo GiroffiAndrea LeoniDomenico MusellaFlavia OrlandiGiuseppe RanieriNatascia Silverio

IllustrazioniHobo

Progetto grafico e layoutDomenico Musella

In copertinaIllustrazione di Domenico Musella

In quarta di copertinaBanner di Marta Ghezzi

First Line Press è una testata giornalistica regolarmente registrata presso il Tribunale Civile di Santa Maria Capua Vetere - Autorizzazione n. 810 del 24/10/2013

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale

editoriale | #3

Ci permettiamo di storpiare un titolo di Cesare Pavese per introdurre di questo nostro numero. Nei secoli ci sono state digressioni filosofiche, lotte sociali e modellamento degli spazi, sempre in funzione del rapporto tra uomo e lavoro. Tutto ciò perché in un modo o nell’al-tro, oltre ogni etichetta che ha provato anche a sbarazzarsi o ad esorcizzare tale rapporto (stacanovismo, decrescita, fordismo, utilitarismo, precarietà, stabilità, ecc), in qualsiasi tipo di società, il fardello del lavoro diventa un qualcosa che va a plasmare l’identità di un essere umano, in particolar modo nel suo rapporto con gli altri. Per quante critiche potrebbero muoversi verso tale meccanismo, “Lavorare così stanca” non vuole di certo avventurarsi in tale ambito speculativo. Con questo numero vi proponiamo un ventaglio di storie che sono sicuramente paradigmatiche dei diritti sempre più smaterializzati nel nuovo rapporto uomo-lavoro. Si è passati dalla schiavitù, a fare i sacrifici per lavorare, da chi ha la possibilità, economica e sociale, di poter lavorare (sobbarcarsi datori di lavoro che non pagano, ma regalano prestigio o comprare corsi di formazione per un lavoro futuro), fino alla nuova schiavitù dei disoccupati/ricattati. La ricerca sul mercato del lavoro di Istat Italia, che ha raccolto i dati del 2014 fino al mese di aprile, riporta numeri funerei: dal 1977 sono i peggiori. La disoccupazione per gli under 25 è al 46%, con un picco spaventoso al sud: 60,9%. In pratica in Italia 3,487 milioni di persone non lavorano, senza considerare quelle che lavorano senza che il proprio impiego possa garantire autosufficienza e dignità. Il mercato del lavoro odierno che abbiamo descritto in questo numero è una rappresenta-zione di quanto sia difficile mettere i colpevoli davanti alle proprie responsabilità, perché rinchiusi in complesse matrioske, ma anche di come i lavoratori, in questo limbo, possano comunque ancora organizzarsi e trovare nuove forme di lotta. Troverete un dossier sul sistema delle cooperative e della logistica in Italia, emblema di una commistione di potere politico e sindacale che piega sempre le classi più deboli. Ma nuovi soggetti, come i migranti/lavoratori (Andrea Polzoni ne mostra alcuni delle cam-pagne in un suo portfolio), stanno proponendo nuove strategie di contrasto che possano richiedere il rispetto di un contratto nazionale troppe volte barattato con scuse illogiche. Nel numero c’è anche un reportage da Porcia, che vi racconterà quello che è stato un sogno produttivo italiano ormai in declino e pieno di ricatti: quello dell’Electrolux. Segue un articolo su come i lavoratori del mercato dei fast food, dal Nord America all’Africa, fino all’Europa, stiano organizzando una protesta comune contro lo sfruttamento di queste grandi corporation. Il numero continua la propria tela grazie ad una chiacchierata nei Paesi Baschi. Un insegnante che lavora trasmettendo un aspetto importante della propria identità: l’idioma. Un libro/inchiesta del collettivo Clash City Workers ed un’intervista a loro ci chiarirà alcuni aspetti importanti del sistema lavoro in Italia. Questo numero è incorniciato dalle vignette di Hobo.La pagina culturale è molto ricca. Il Medio Oriente e tutto quello che lì è stato lavoro storico/archeologico, in questi ultimi anni ha visto un progressivo deterioramento e saccheggia-mento. A chiudere un articolo che mette in fila alcuni quesiti sul lavoro nel campo artistico.Il tema del nostro numero 3, il primo della nuova periodicità di FLP Magazine che da ora sarà bimestrale, non è estemporaneo. Rappresenta anche uno step di avvicinamento ver-so la mobilitazione dell’11 luglio a Torino: occasione per manifestare il malessere per disoccupazione, austerity e tanto altro.

LAVORARE COSÌ STANCA

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FABBRICATregua Electrolux

Natascia Silverio

pag. 4

PAESI BASCHILavorare per resistere

Giuseppe Ranieri

pag. 17

DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE/3

IKEA: istruzioni per l’uso

Francesca Ioannilli e Giulia Page da Commonware

pag. 28

CLASSI E LAVOROSe “otto” ore

vi sembran poche...

Andrea Leoni

pag. 8

DOSSIER LOGISTICA

E COOPERATIVE/1

Viaggio nell’Interporto di Bologna

Lorenzo Giroffi

pag. 20

TERZA PAGINAProfessione artista.

Gioie e miserie di un giovane talento – I parte

Monia Marchionni

pag. 40

CULTURA/

MEDIO ORIENTEI beni culturali arabi alla prova

delle presunte “primavere”

Giovanni Andriolo

pag. 36

RETAIL INDUSTRY

Il panino indigesto

Flavia Orlandi

pag. 13

DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE/2

Cooperazione allo sfruttamento

Domenico Musella

pag. 23

FOTOGALLERYMigranti nell’agricoltura

italiana

Foto di Andrea Polzoni

pag. 31

sommario | #3

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FABBRICA

Tregua Electrolux

Conclusa a caro prezzo per gli operai la vertenza simbolo della crisi industriale italiana. Ma cosa succederà dopo il 2017?

Natascia Silverio

Non è ancora mezzogiorno quan-do, davanti ai cancelli della portineria nord, si cominciano

a vedere gli operai in divisa blu che si affrettano a varcare i cancelli e a tim-brare il cartellino per l’inizio del secon-do turno in fabbrica. Qualche minuto dopo, quelli del primo turno attraver-sano di nuovo i varchi per tornarsene a casa. Siamo a Porcia, un piccolo comu-ne a tre km da Pordenone. Qui si trova uno degli stabilimenti italiani dell’E-lectrolux, multinazionale svedese che, come recita il sito internet aziendale, è “uno dei leader mondiali nel campo de-gli elettrodomestici per uso professio-nale, con una vendita di oltre 40 milioni di prodotti ogni anno, a clienti in 150 Paesi del mondo”.

In questo piccolo paese del Friuli Venezia Giulia si producono in partico-lare lavatrici mentre negli altri impian-ti di Forlì, Susegana (Treviso) e Solaro (Milano) a farla da padrone sono frigo-riferi, lavastoviglie, forni e piani cottu-ra.

Oggi, 19 maggio, è un giorno parti-colare e delicato: all’interno della fab-brica i rappresentanti sindacali hanno

tenuto le prime assemblee per spiegare in dettaglio ai lavoratori gli accordi di-scussi quattro giorni fa presso il Mini-stero dello Sviluppo Economico e suc-cessivamente approvati dal Governo a Palazzo Chigi, con la firma dello stesso premier Matteo Renzi. Seduti al tavo-lo delle trattative c’erano vari ministri e viceministri, i segretari generali di Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm, i presiden-ti delle quattro Regioni in cui hanno sede le fabbriche Electrolux ed i vertici dell’azienda.

L’umore degli operai che staccano dal primo turno non è alle stelle, molti di loro sono così arrabbiati da non vo-lersi fermare neanche per raccontare com’è andata la prima assemblea.

«Non ho partecipato all’assemblea, è da molti anni che non lo faccio», spie-ga un’operaia. Chiedo il perché. «Per-ché non so ancora per quanto siamo stati venduti», è la risposta. In lei, come in tanti altri, prevale la rassegnazione. Un gruppo di tre operai ghanesi affer-ma di aver assistito alla spiegazione degli accordi, per loro è meglio quanto è stato deciso, piuttosto che rimanere senza lavoro, oppure continuare con uno stipendio ridotto. Il Ghana era fino a pochi anni fa il Paese di maggior pro-venienza dei lavoratori di origine stra-niera dell’Electrolux di Porcia: sembra che l’azienda si recasse nello stesso Paese africano per cercare lavoratori. Porcia e il territorio del pordenonese rappresentavano infatti un polo d’at-trazione per tutti, in quanto sede delle più grandi industrie italiane nel settore manifatturiero. Quella che è diventata oggi Electrolux ha una lunga storia di radicamento in Friuli: nel 1916 Antonio Zanussi fondò un’azienda a conduzione

«Porcia e il territorio del pordenonese rappresentavano un polo d’attrazione per tutti in quanto sede delle più grandi industrie italiane nel settore manifatturiero»

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familiare che portava il suo nome. Sot-to la guida del figlio Lino nel secondo dopoguerra, la Zanussi ottenne fama a livello mondiale nel settore degli elet-trodomestici, per poi essere acquistata nel 1984 dal gruppo svedese.

I suoi lavoratori, nel corso delle pro-teste degli ultimi sette mesi, esibivano lo striscione “Noi siamo la Zanussi”, per ricordare, forse con un po’ di nostalgia, il grande valore che questa fabbrica ha rivestito per Porcia e per l’intero nord-est italiano: in tanto tempo non si era sviluppata solo la manifattura, anche il design industriale creativo aveva forni-to opportunità d’impiego a numerose persone.

Negli ultimi anni però, l’azienda sta trattando male i suoi operai e nelle sue logiche di profitto non ci mette nulla di sentimentale. La recente vertenza, so-

prattutto per quanto riguarda Porcia, è diventata infatti l’emblema della crisi industriale del nostro Paese, ottenendo anche parecchia risonanza nei princi-pali media.

Il gigante svedese si è ritrovato dun-que in perdita e per non delocalizzare i suoi stabilimenti in Polonia e in altri Paesi, in cui aveva fatto investimenti, non sempre saggi, chiedeva una se-rie di provvedimenti che, tra gli altri, prevedevano la riduzione del 40% del salario, fino ad arrivare alla possibilità di chiudere lo stabilimento di Porcia. Tutto questo per tagliare il costo del la-voro, rendendo di nuovo competitivo il prezzo del prodotto finito e portandolo ai livelli delle aziende della multinazio-nale all’estero.

Alla fine, ciò che è stato firmato a Roma, dopo molti mesi di mobilitazio-

ne e presidio permanente da parte de-gli operai, in sit-in davanti alla fabbrica di Porcia ed alle altre fabbriche italiane Electrolux, contempla: l’aumento della produttività per alcuni impianti; la ri-duzione del 60% dei permessi sindaca-li; il taglio di 5 minuti di pausa duran-te i turni, scongiurando però almeno la chiusura; la diminuzione dei salari. L’accordo rappresenta probabilmente solo una pausa, un compromesso che permetterà di andare avanti fino a tut-to il 2017, salvo eventuali ed ulteriori sorprese. Ma cosa accadrà in seguito?

«Per garantire il futuro, abbiamo voluto fortemente tutte le garanzie del Governo e della Regione Friuli Venezia Giulia», mi spiega Gabriele Santarossa, membro della RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) della UILM (Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici) di Porcia.

«Questo perché non facciamo affi-damento sulle garanzie di Electrolux, che condiziona sempre qualsiasi suo impegno all’andamento del mercato. L’impegno del Governo serve, visto che è prevista una sorta di verifica seme-strale sulla tenuta degli accordi, con la presenza anche della Regione. Ci sembra la forma massima di garanzia ottenibile in questo momento; infat-ti, anche se il mercato non reggesse in maniera adeguata, l’azienda si deve co-munque adoperare per mantenere l’oc-cupazione. Electrolux ha assunto l’im-pegno formale di creare 150 posti di lavoro, reintegrando a Porcia lavorazio-ni che adesso sono in Polonia, in Cina o altrove. In alternativa ha promesso di condurre al suo interno un’azienda non ancora specificata, che dovrebbe rioccupare queste persone. C’è ancora riserbo a riguardo e su questo abbiamo chiesto un’ulteriore tutela da parte del Governo. Contiamo che questi impegni funzionino».

Gabriele, oltre a far parte della RSU dal 1991, è a sua volta un operaio di linea, che lavora sulle catene di mon-taggio dove vengono assemblate le la-vatrici. Mi racconta cosa tutto questo significhi quotidianamente.

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«Di norma vengono prodotti in to-tale 642 pezzi al giorno, se si fanno tur-ni di 8 ore con un determinato regime di pause. I pezzi diminuiscono quando i turni sono di sei ore. Un operaio di li-nea quindi ripete gli stessi movimenti per più di 600 volte al giorno.

La produzione di una tale quantità di pezzi può causare danni alla salute, in particolare all’apparato muscolo-scheletrico, come confermano molti operai che, essendo da molti anni in fabbrica, hanno dovuto subire opera-zioni ai tendini. I 5 minuti che verranno sottratti alle pause, come previsto dagli ultimi accordi, hanno sicuramente un peso significativo in questo senso. Dal 5 maggio abbiamo ripreso con i turni di sei ore. Essendoci poco lavoro, l’azien-da può cambiare regime dalle 8 alle 6 ore e viceversa con un preavviso di una settimana. Se aumentassero le richieste produttive, non è escluso che si torni alle 8 ore. Gli straordinari sono ormai un ricordo di almeno 5-6 anni fa».

La riduzione dei turni a sei ore rap-presenta la concretizzazione del famo-so “contratto di solidarietà”, strumento utilizzato dalle aziende italiane in mo-

menti di difficoltà, che permette loro di distribuire il lavoro, ma anche di otte-nere incentivi da parte del Governo.

«Qui la produzione riguarda solo le lavatrici. Una delle innovazioni che do-vrebbe portare volumi aggiuntivi è un nuovo modello di lavasciuga che monta un componente particolare, la pom-pa di calore. Così si evita di asciugare la biancheria utilizzando la resistenza che consuma una grande quantità di energia. Stando alle dichiarazioni di Electrolux, il modello dovrebbe essere uno dei primi del suo genere ad essere immesso sul mercato, e dovrebbe aiu-tare la ripresa. Essendo poi un prodot-to ad alto valore aggiunto - quindi ad alto margine di guadagno, stiamo par-lando di apparecchiature che costano più di mille euro - si creerebbe quindi un’opportunità per lo stabilimento di Porcia».

L’azienda ha fatto anche delle mos-se sbagliate, investimenti all’estero che non si sono rivelati troppo oculati. Ga-briele ce li racconta.

«Electrolux comprò qualche anno fa, pochi mesi prima della rivoluzio-

ne, il gruppo egiziano Olympic. Dalle notizie che ci arrivano, in quel luogo lo stabilimento non sta funzionando come ci si aspettava. Non si può dire che i vertici Electrolux siano stati dei grandi strateghi. Si è anche investito in Ucraina per puntare al mercato russo. In questo modo si intendeva bypassare i costi doganali. Poco tempo dopo sono state chiuse le frontiere e quindi è stato impedito anche l’accesso a quel merca-to. Sono tutti investimenti che compor-tano perdite di milioni di euro. Qualcu-no afferma anche che Electrolux abbia

«La recente vertenza, soprattutto per quanto riguarda Porcia, è diventata l’emblema della crisi industriale del nostro paese, ottenendo anche parecchia risonanza nei principali media»

PORCIA (PORDENONE) | Presidio ai cancelli della fabbrica, 1 Maggio 2014. Non è presente nessun operaio perché tutti si sono recati alla manifestazione per la Festa dei Lavoratori, indetta dai sindacati nella vicina Pordenone(Foto Natascia Silverio)

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scatenato gli eventi dell’ultimo periodo per ottenere soldi dal Governo italiano, al fine di compensare le perdite subite in Egitto ed Ucraina, ma bisogna dire che non sono voci confermate.

Non dico che viviamo con maggior soddisfazione il fatto che si sia riusciti a raggiungere una tregua, perché io la chiamo così. Tuttavia lo considero un momento necessario per riprendere fiato e riflettere su quello che stiamo facendo. Riflettere insieme ai lavorato-ri, perché con loro abbiamo condiviso un percorso faticoso. In totale penso che abbiamo fatto almeno un mese di scioperi, a un certo punto ho comincia-to a perdere il conto. Abbiamo chiesto un impegno enorme a tutti quanti. Tre-gua… ma nel frattempo sicuramente Electrolux continuerà a mettere in atto i suoi piani. Immagino che fra tre anni, se non cambia qualcosa di sostanziale nel sistema economico generale, ci tro-veremo a fare i conti con nuove condi-zioni che verranno poste. Né il sindaca-to, né i lavoratori potranno essere da soli a gestire tali sfide, perché con le promesse di Electrolux non si fa stra-da. Avevamo già sottoscritto a marzo dell‘anno scorso un accordo che dove-va garantire almeno fino al 2017 alcu-ne condizioni, per poi constatare che, neanche dopo sei mesi, quegli impegni non erano stati mantenuti. Una delle azioni più importanti è stata quindi riu-scire a coinvolgere il Governo ai massi-mi livelli sulla gestione di questo tipo di problemi. Non è più possibile lasciare i lavoratori da soli, perché così non pos-

«Se poi accettiamo anche la proposta di ridurre ulteriormente i salari per salvare l’economia, allora acconsentiamo anche alla riduzione in schiavitù di migliaia di italiani»

siamo che subire quelle che sono scelte considerate inevitabili. Il fatto che un’a-zienda debba andare a produrre dove ci guadagna di più rappresenterebbe un dato scontato per una certa men-talità. Così facendo, allora si dà anche per scontato che in Italia non ci siano più posti di lavoro, che la manifattura scompaia. O si cambia questo modo di pensare, che rappresenta anche un paradigma utilizzato dai politici e da-gli esperti di economia, oppure non ci sono alternative per la parte più debole dell’attività lavorativa in Italia.

Trovo un risultato straordinario il fatto che siamo riusciti a respingere l’attacco sul salario. C’erano state an-che dichiarazioni dei politici a riguardo che affermavano che era giusto fare dei sacrifici per salvare il lavoro. Se aves-simo accettato un condizionamento di questo genere, nella diga si sareb-be aperta una falla, in cui si sarebbe-ro infilate tutte le aziende italiane. Già con i livelli di salario attuali gli operai del nostro Paese sono ai minimi livel-li in Europa. Se poi accettiamo anche la proposta di ridurre ulteriormente i salari per salvare l’economia, allora acconsentiamo anche alla riduzione in schiavitù di migliaia di italiani. Credo

che questa sia l’utopia di qualche in-dustriale e politico italiano, che vede con nostalgia gli anni in cui si poteva svalutare la lira riuscendo a rendere i prodotti Made in Italy competitivi; non potendo più svalutare la moneta, ora si svaluta il lavoro degli operai. La perdita della consapevolezza di essere una “classe”, un gruppo, diventa così un elemento di debolezza anche nelle lotte che sosteniamo».

Nei giorni che sono seguiti alla mia visita, i 1200 operai dell’Electrolux di Porcia hanno espresso il loro parere sugli accordi di Roma in un referen-dum tenutosi in fabbrica. Il 79% ha optato per il sì, che è prevalso anche negli stabilimenti di Forlì, Susegana e Solaro. Lacrime e sangue, dunque, per un compromesso che dovrebbe essere il migliore possibile. Le conseguenze però ricadono sempre sulle spalle dei lavoratori e la conferma viene non solo dall’Italia, ma anche dalla Francia: pro-prio in questi giorni presso lo stabili-mento di Revin sono in corso tensioni tra operai ed Electrolux. �

OPERAI | All’uscita del primo turno di lavoro nello stabilimento Electrolux di Porcia, lunedì 19 maggio 2014 (Foto di Natascia Silverio)

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CLASSI E LAVORO

Una chiaccherata con il collettivo Clash City Workers, autori del libro Dove sono i nostri edito da La Casa Usher

Andrea Leoni

Se si parla di lavoro non potevamo far a meno di tirar in ballo il collet-tivo Clash City Workers, autore del

libro che scientificamente, ma anche chiaramente e semplicemente, spie-ga la composizione della classe oggi, il punto di vista dei lavoratori, dei prole-tari, di “quella maggioranza che non di-spone di rendite o mezzi di produzione, ma che per sopravvivere è costretta a lavorare, ovvero a vendere a qualcuno, in cambio di denaro, il proprio tempo, le proprie energie e le proprie capaci-tà”. Abbiamo raggiunto telefonicamente un’attivista del collettivo, per rileggere cosa sta accadendo oggi, considerando anche l’affermarsi del governo Renzi.

Com’è nato il libro?

«Il libro nasce dall’esigenza di an-dare a vedere, al di là della narrazione e dei racconti, ma anche oltre la perce-zione soggettiva, che noi ad oggi abbia-mo della classe, qual è la composizione del mondo del lavoro in Italia. Quali sono le percentuali degli occupati in

Italia, di che cosa si occupano, che tipo di lavoro fanno e quindi sostanzialmen-te andare a vedere attraverso i dati, non solo osservando attraverso percezioni soggettive individuali (se uno abita in una grande città incontra un certo tipo di lavoratori, chi invece sta nei piccoli centri altri), al fine di valutare com’è composto il lavoro in Italia. La finalità è ovviamente quella di intervenire su questo mondo in un duplice modo. Da una parte fare inchiesta, dall’altra orga-nizzare le lotte. Abbiam cercato di ve-dere quali sono i settori lavorativi più caldi e quali quelli che potrebbero sur-riscaldarsi in futuro. Lo scopo del libro non è di tipo speculativo e accademico, ma ha un fine concreto da un punto di vista politico. Riteniamo sia importante perché individuando e comprendendo la composizione di classe in Italia può esser più semplice, almeno si spera, in-tervenire, coordinare le lotte e cercare di comporre quel tessuto che un po’ si è parcellizzato, soprattutto sul piano po-litico, ma anche su quello della rappre-sentanza e sul versante sindacale.

Il libro è così composto: una prima parte metodologica, nella quale noi cer-chiamo di individuare la centralità della contraddizione capitale/lavoro, quindi in qualche modo sarebbe la parte in cui cerchiamo di indicare a chi si occupa di politica ed a quelli che si preoccu-pano di provare a cambiare l’esistente un metodo di lavoro sperimentale, sul quale noi stiamo provando ad interven-tire. Non offriamo un pacchetto precon-fezionato. Quello che però proviamo a dire è che mai come in questo momento in Italia la contraddizione primaria, al di là di tante altre contraddizioni che sono anch’esse certamente fondamen-tali (penso a quella della casa come a quelle ambientali), secondo noi è quella capitale/lavoro. Cioè sostanzial-mente quella che riguarda il processo di maggior precarizzazione del mondo del lavoro e l’ipersfruttamento. Quindi cerchiamo di introdurre questo nella prima parte del libro, perché secondo è la contraddizione con cui dobbiamo necessariamente aver a che fare. Poi nei vari capitoli andiamo a studiare pezzo

Se “otto” ore vi sembran poche...

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dopo pezzo la struttura produttiva ita-liana: nel primo capitolo andiamo a ra-gionare su un primo “mito”, un primo racconto, secondo noi poco fondato per quanto riguarda la struttura produttiva italiana: quello secondo il quale l’Italia vivrebbe un periodo di fortissima dein-dustrializzazione. E lo andiamo a vede-re, confrontandoci con i dati dell’Istat, utilizzati dall’Unione Europea e pro-dotti dalla controparte, la borghesia».

Avete menzionato anche i dati forni-ti da Intesa San Paolo...

«Intesa San Paolo è uno dei no-stri punti di partenza e lo utilizziamo come tale perché, come dicevo prima, vorremmo superare l’idea della “nar-razione” per produrre una fotografia oggettiva della realtà. Intesa San Paolo, in particolare, da questo punto di vista ci ha involontariamente aiutato perché ha fatto un lavoro che noi probabilmen-te, anzi sicuramente, con le nostre forze non avremmo potuto fare. Il suo “La ter-zializzazione dell’economia europea: è vera industrializzazione?“, in cui già dal titolo in qualche modo si desume la do-manda che per noi è centrale. In questa inchiesta Intesa San Paolo prende i dati in forma disaggregata, quindi sostan-zialmente più nello specifico di quan-to noi possiamo fare semplicemente leggendo la percentuale degli occupati nei vari settori, li scompone e lo fa non soltanto per quanto riguarda quelli ita-liani, ma anche per le altre principali economie europee: Francia, Germania, Inghilterra e Italia. È interessante an-che come in questo studio ci sia conti-nuamente un paragone con due anni in particolare (vengono messi in relazio-ne due momenti): nello studio del 2007 si fa un confronto con il 1971, ossia gli anni ‘70. Anche noi abbiamo provato a

fare questo parallelo, utilizzando dati più recenti di Ocse, Istat, Eurostat, che vanno tra il 1971 e il 2011. In qualche modo abbiamo incrociato vari studi e siamo andati a vedere come era com-posta la forza lavoro in Italia nel 2011 e come lo era nel 1971. In più diciamo che il 1971 per me è stato un anno im-portante durante il quale c’è stata un’e-strema centralità nel dibattito politico di quello che è il comparto del lavoro legato all’industria: si parla della figu-ra dell’operaio, assoluto protagonista da un punto di vista politico. E noi ab-biamo provato a capire se oggi questa figura è sostituita da figure differenti o se invece il panorama è più complesso.

Quello che abbiamo messo a verifi-ca è l’idea per cui il settore dei servizi sarebbe in una fase di assoluta crescita (che poi è la base del mito per cui sa-remmo in un periodo di deindustria-lizzazione) e quella per cui si parla – e secondo noi a torto – di economia ita-liana come ormai votata al terziario. Ebbene abbiamo verificato che questa crescita del terziario è effettiva, ma an-dando ad analizzare i dati disaggregati, forniti da Intesa San Paolo, constatiamo che in realtà il terziario di cui si parla altro non è che quello dei servizi legati all’impresa. Per cui in qualche modo è vero che c’è uno sviluppo del terziario, ma certamente non nella direzione del-la Svizzera o del Lussemburgo, bensì strettamente connesso all’industria. Per fare un esempio, le esternalizza-zioni di tanti comparti che prima erano annoverati nel numero dei lavoratori dell’industria (per esempio quelli delle pulizie, quelli che si occupavano della logistica, dello spostamento del pro-dotto non finito, ecc), quando il proces-so di esternalizzazione non era ancora maturo, parliamo all’inizio degli anni

’70, erano annoverati tra i lavoratori dell’impresa, dell’industria. Oggi diven-tano lavoratori dei servizi. Lo stesso vale per tanti altri lavoratori che sono strettamente connessi alla produzione materiale: chi si occupa dell’implemen-tazione tecnologica, piuttosto che delle telecomunicazioni. Ciò che andiamo a sostenere nel primo capitolo è che se sono cresciuti dei servizi non sono cer-to quelli legati al turismo o alla finanza, ma quelli dell’impresa. Ciò secondo noi si combina ad un altro tipo di ragiona-mento, quello sul quale ci stiamo foca-lizzando adesso e che riguarda la rein-ternalizzazione: abbiamo avuto modo di verificare che esiste un tentatativo rilevante di riportare i centri produttivi all’interno dell’Occidente (definizione per altro superata), contrastando un altro mito che è quello per cui tutta la produzione è spostata fuori dagli Stati Uniti d‘America, dall’Europa e in gene-rale dalle economie più avanzate).

Quello che leggiamo dai dati è esat-tamente il contrario: è in corso una reinversione del processo e ci trovia-

«Siccome quelli a cui vendiamo tempo e forze ne vogliono sempre di più, fino a consumarci, solo sesappiamo bene su chi siamo [...] possiamo sperare di non morire di fame e di fatica»(estratto dal libro)

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mo in un momento di forte reinterna-lizzazione. Tanto per fare un esempio negli Stati Uniti il cavallo di battaglia dell’amministrazione Obama è stato Select USA. Un piano di reindustrializ-zazione in cui, carta alla mano, si offre ad investitori la possibilità di “riportare un’impresa a casa”. Il discorso proposto è “fate attenzione, è inutile che andiate ad investire in Cina o in India, noi vi of-friamo delle condizioni migliori”. Ovvia-mente queste condizioni migliori sono fondate sullo sfruttamento, per molti aspetti un processo simile a quello che sta producendo il Governo Renzi in Ita-lia e che prima di lui hanno prodotto Enrico Letta e Mario Monti. In partico-lare quest’ultimo, secondo la filosofia del “tornate a investire nel nostro Pae-se, a produrre in Occidente perché poi, non vi preoccupate, a tener buoni i la-voratori ci pensiamo noi, ad abbassare la pressione fiscale sull’impresa ci pen-siamo noi, poi vi agevoliamo, facciamo in modo che per voi imprenditori ed industriali sia più conveniente tornare a casa ad investire”».

Meccanismo simile a quello che ha portato alla tragedia nella miniera di Soma, come avevate spiegato in un vostro lavoro sulla Turchia, da voi definito come “un caso da manua-le dell’applicazione delle “riforme” neoliberiste. Manovre che stanno

imponendo e vorrebbero massiccia-mente imporre anche in Italia. Come si possono rileggere anche le rivolte turche?

«Il metodo è stato esattamente lo stesso. Abbiamo visto un fenomeno che era quello delle mobilitazioni legate a Gezi Park. Di fronte a quelle manife-stazioni ci siamo interrogati e ci siamo detti “com’è possibile produrre quel livello di conflitto? Com’è stata possi-bile la diffusione di ciò?” Piuttosto che andarci a soffermare sull’intervista al singolo manifestante, sull’impressione che lui aveva avuto sul comportamento della piazza, abbiamo fatto un passo in-dietro, abbiamo visto qual è stato il pro-cesso di trasformazione della Turchia dal 2001 ad oggi. Nel 2001 avevamo una Turchia devastata dal punto di vi-sta economico: un PIL al 9,4%, un’infla-zione che viaggiava quasi al 70% (una cifra astronomica se pensiamo che in Italia in quel momento eravamo al 3% e la media europea si aggirava intorno al 2,5%). In altre parole un Paese in gi-nocchio. Ma cosa succede in Turchia e perché secondo noi la questione è par-ticolarmente interesante per poi capire la situazione italiana di oggi? Succede che Recep Tayyip Erdoğan (che è di-ventato poi il simbolo e l’uomo-motore di questo processo di trasformazione) altro non fa che andare a svendere le condizioni presenti, ma anche quelle future, dei lavoratori turchi per attirare investimenti. Tant’è che oggi ci capita

molto più spesso di vedere sull’etichet-te delle magliette “made in Turkey”: praticamente dalla compagnia Zara è tutto fatto in Turchia, perché tut-to quello che Erdoğan ha fatto è stato prima creare un forte consenso politi-co, mantenendo contemporaneamente un’impostazione neoliberista e un rife-rimento all’immaginario dell’Islam. A ciò ha poi accompagnato delle riforme molto concrete, aggressive ed impopo-lari, per cui alla fine degli anni 2000 è riuscito a rispettare punto dopo punto il programma imposto dal Fondo Mo-netario Internazionale. In particolare quello che lui è andato a disciplinare è stata tutta la normativa in materia di impresa: riforma del mercato del lavo-ro, liberalizzazione e privatizzazione di tutta una serie di settori. Questi sono due dei punti più importanti dei primi anni 2000. Vediamo il collegamento con quanto successo a Soma: per quan-to possa sembrare un volo pindarico, se si vanno ad analizzare gli appelli dei sindacati che nel dopo tragedia hanno indetto le manifestazioni molto parte-cipate, le responsabilità sono chiare: il problema è stato il processo di privatiz-zazione, ma anche l’accelerazione dei tempi di estrazione. Non dimenticando tutto il sistema di corruzione per cui, pur di agevolare queste imprese priva-te, in questo caso proprio la miniera di Soma, non si facevano controlli, non ci si occupava minimamente né delle con-dizioni dei lavoratori, né tantomento della loro sicurezza. Ciò che dobbiamo dire su Soma è che non si tratta di omi-cidi bianchi, di morti bianche come le chiamiamo in Italia: il conto dei morti è una sorta di effetto collaterale, è una cosa contenuta nel calcolo, è una cosa che “ci sta”. In un conto che è solo di carattere economico. In questo senso il collegamento tra le riforme di Erdoğan e quello che è accaduto è abbastanza stretto, perché la deregolamentazio-ne generale del mercato del lavoro sul piano della riforma contrattuale e sul piano della sicurezza ha una ricaduta molto concreta sulla vita dei lavorato-ri. In Turchia poi l’altro processo che è stato assolutamente portato avanti da Erdoğan è quello della riduzione all’im-potenza del sindacato, per cui senza

«Non è tanto la grandezza della piazza o la violenza dello scontro, ma l’incidenza nella sfera di produzionedella ricchezza ad aver dato a chi si mobilità una potenza enorme» (estratto dal libro)

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«La loro [quella dei contadini, operai di tutti i tipi, muratori, impiegati, trasportatori, facchini...] è unaconflittualità temibile, perché continua, endemica, diffusa» (estratto dal libro)

neanche troppo pudore, nella stessa propaganda che il governo turco ha fat-to per attrarre investimenti, si è parlato anche dell’assenza di problemi dal pun-to di vista sindacale, promettendo che non ci dovrebbe mai essere una grande contrapposizione con i lavoratori. Que-sto perlomeno è quello che lui auspica. La cosa inquietante è che evidentemen-te sul piano degli investimenti questo meccanismo ha funzionato, perché l’e-conomia turca è cresciuta. Quello che noi immaginiamo per l’Italia è che se questo processo non viene ostacolato o invertito succederà qualcosa di simile. Su cosa si va a giocare l’ipotetica usci-ta dalla crisi dell’Italia? Solo su questo? Sul peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori italiani? E in ciò il piano Marchionne ha a mio avviso la pietra miliare, anzi se volessi-moo utilizzare termini forse poco con-soni a questa classe, Marchionne è stato avanguardia della borghesia mondiale, visto che ciò su cui ha puntato è stato lo sfruttamento dei lavoratori. È stato co-lui che ha affermato: “Basta sindacato, al tavolo si siede solo chi firma. Basta scioperi per ciò che attiene alla demo-crazia in fabbrica ed alle modalità del lavoro, quello di cui possiamo parlare è solo esclusivamente la questione sala-riale. Ossia ci può essere una variazione sul piano salariale: potete guadagnare un po’ di più o un po’ di meno, ma in sostanza tutto il resto della vostra vita, come la possibilità di essere rappresen-

tati sindacalmente, lo decido io”. E in questo quadro sia il tour mondiale di Monti, sia il Jobs Act di Renzi, sia anche l’accordo sulla rappresentanza del mag-gio scorso, sono assolutamente in linea. Il cerchio che si chiude: sempre meno democrazia sul posto di lavoro, sem-pre più sfruttamento. In questo senso quella che offre la crisi non è tanto una prospettiva di desertificazione del tes-suto produttivo italiano, teoria per cui si dice spesso: siamo destinati ad esser sempre più disoccupati ed a non ave-re più lavoro. Piuttosto il futuro e l’in-tervento politico sulla crisi sembrano rivolti al maggior sfruttamento, unito naturalmente a condizioni sempre peg-giori per la rappresentanza sindacale e la democrazia nel posto di lavoro.

Quindi arriviamo al Jobs Act di Ren-zi: cosa sta succedendo?

«Secondo noi l’operazione di Renzi è votata a questo tipo di obiettivo: da un lato quello di aumentare ulterior-mente la precarietà, dall’altro quello di abbassare i salari. Per far ciò Renzi mette in atto un meccanismo piuttosto furbo: il Jobs Act inizialmente sembra-va (o perlomeno se ne parlava così) una riforma complessiva sul mercato e sul mondo del lavoro. Invece Renzi lo ha “spacchettato” in tanti decreti legge: adesso è stata approvata la prima parte D.L. 114. Ciò ha permesso di colpire di

volta in volta settori diversi da un pun-to di vista generazionale e da un punto di vista economico. Per esempio, la pri-ma grande questione della flessibilità in entrata secondo noi è strettamente legata agli 80 euro. Mi spiego meglio: tende a precarizzare il lavoro perché non c’è l’obbligo di assunzione e si al-lunga il periodo dell’apprendistato. Ciò rappresenta una “mazzata” ai giova-ni e a chi entra nel mondo del lavoro. Noi pensiamo anche alla questione del tirocinio obbligatorio. La proposta di Renzi, ai fini del curriculum, è di ren-dere obbligatorio una sorta di nuovo servizio civile, di cui ha parlato molto nell’ultimo periodo».

Quella che lo stesso Renzi ha chia-mato la “leva per la difesa della pa-tria”

«Si, dialetticamente è anche tutto sommato bravo: lo propone come sa-crificio per la nazione, dicendo:”Noi non impariamo nei banchi di scuola”, come sempre ponendosi come uomo del fare. “Che stiamo a fare un anno in più a scuola? Facciamo piuttosto questo tirocinio che ci insegna cose concrete”. Ora sappiamo tutti benissi-mo. È lavoro non retribuito, ma lui te lo propone in questi termini. Questo, la precarizzazione in ingresso, il pro-lungamento degli anni di precariato, sono tutti elementi per cui si capisce

FABRIANO | Sciopero nazionale dei lavoratori di Indesit Company contro la delocalizzazione dell’azienda all’estero. Polizia in difesa dello stabilimento - (Foto di Andrea Leoni)

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come Renzi attacchi i giovani con il leit motiv:”Meglio fare un lavoro sottopa-gato o un lavoro anche non retribuito, come il tirocinio obbligatorio, piuttosto che non fare niente. Intanto ti inseri-sci nel mondo del lavoro, impari a fare delle cose, poi sicuramente troverai un posto migliore”. In realtà questa preca-rizzazione non sembra aver a che fare soltanto con i giovani, perché bisogna affiancarci una precarizzazione anche in uscita dal mondo del lavoro: Renzi è stato il primo ad affermare l’inutilità dell’articolo 18. E prospetta possibi-lità di licenziamento molto più facili. Ciò che accade è che anche a 50 anni puoi ritrovarti con quelle condizioni di flessibilità dell’entrata nel mondo del lavoro, che nei racconti del premier sembrerebbero riguardare soltanto dei diciottenni neodiplomati. L’idea è quella di una precarizzazione totale che però mediaticamente riesce a te-nere molto bene, grazie al contentino degli 80 euro. A chi vanno? Non vanno ai disoccupati e neanche ai pensionati. Servono a compensare una determina-ta base sociale, ma soprattutto servono alla strategia mediatica più complessi-va. Io credo che si possa ancora parla-re poco di dove andrà a parare il Jobs Act, perché c’è ancora molto da vedere in questo processo di precarizzazione

ed ipersfruttamento. Secondo me sia-mo solo agli inizi e Renzi sembra aver messo il piede sull’acceleratore anche rispetto ai precedenti governi Letta e Monti: non si taglia più qua e là, ma si fa una riforma strutturale che riguarda la precarizzazione, il lavoro a termine, l’uscita e soprattutto gli ammortizzato-ri sociali. Infatti, come già annunciato, la riforma della cassa integrazione e l’abolizione della stessa cassa integra-zione sembrano essere nell’orizzonte delineato da Renzi». �

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La terziarizzazione deLL’economia europea: è vera deindustriaLizzazione? www.group.in-tesasanpaoLo.com/scriptisir0/si09/content-data/view/wp_LugLio2007.pdf?id=cnt-04-000000001d5ef&ct=appLication/pdf

seLectusa http://seLectusa.commerce.gov/

sindacaLismo sociaLe. appunti per una di-scussione www.dinamopress.it/news/sinda-caLismo-sociaLe-appunti-per-una-discussione

chi è coLpevoLe deL massacro di soma in turchia? cronaca di una morte an-nunciata www.cLashcityworkers.org/internazionaLe/1430-chi-e-coLpevoLe-deL-massacro-soma-turchia-cronaca-morte-an-nunciata.htmL

turchia, strage di minatori: omicidio, non incidente http://firstLinepress.org/turchia-strage-di-minatori-non-incidente-omicidio/

cosa sta succedendo in turchia e cosa c’en-tra con noi. un’anaLisi e aLcune considera-zioni www.cLashcityworkers.org/documen-ti/anaLisi/1007-cosa-sta-succedendo-in-turchia-e-cosa-centra-con-noi.htmL

“guerra preventiva” aL confLitto. un’anaLisi deLL’accordo suLLa rappresentanza deL 31 maggio www.cLashcityworkers.org/docu-menti/anaLisi/1050-anaLisi-accordo-rappre-sentanza-31-maggio-guerra-preventiva-aL-confLitto.htmL

daL precariato aL voLontariato. suLLa rifor-ma deL terzo settore www.cLashcityworkers.org/documenti/commenti/1428-daL-preca-riato-aL-voLontariato-riforma-terzo-setto-re.htmL

[pomigLiano] per ricordare maria, conti-nuare La Lotta! www.cLashcityworkers.org/documenti/articoLi/1443-pomigLiano-ricor-dare-maria-continuare-Lotta.htmL

faq: Jobsact istruzioni per L’uso! www.indi-pendenti.eu/bLog/?p=30834

‘today we resist’: ceLebrating gezi one year Later http://roarmag.org/2014/05/today-we-resist-ceLebrating-gezi-one-year-Later/

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RETAIL INDUSTRY

Il panino indigestoLe lotte dei lavoratori Mc Donald’s dagli Stati Uniti al resto del mondo. E la vertenza è globale.

Flavia Orlandi

disumani, con il ricorso alla spionaggio del dissenso tramite crumiri, con il ri-catto degli immigrati illegali.

Sul piano del consumo invece le merci prodotte sono sofisticate e “adul-terate”. Walmart può permettersi prez-zi competitivi non solo per i bassi costi del fattore lavoro, ma anche perché le merci provengono molto spesso dalla Cina e la qualità è bassissima, così come lo è la sicurezza del prodotto. Si tratta di un meccanismo ormai diffusissimo e globalmente capillare: con le grandi catene di distribuzione che vanno a so-stituire la piccola distribuzione dei ne-gozi, la piccola borghesia scompare e le differenze di classe aumentano. Un’am-pia fetta di popolazione, che compren-de i lavoratori della retail industry (ma non si limita a quelli), sopravvive con stipendi al di sotto del livello di pover-tà e per farlo compra merci scadenti che rendono la qualità della vita molto bassa. Sebbene questa tendenza vada radicalizzandosi, non si tratta di certo di una novità della nostra epoca. Karl Marx aveva già parlato di questo feno-meno ne Il Capitale, non limitandosi a descrivere la spaccatura dell’umanità nelle due classi degli oppressi e degli oppressori, ma descrivendo anche le conseguenze di questo fenomeno sulle merci prodotte, sempre più adulterate:

Non succede solo da Mc Donald’s. Succede da Walmart, succede nei magazzini di Amazon, suc-

cede un po’ in tutta la retail industry, il settore che oggi negli Stati Uniti d’Ame-rica offre il maggior numero di posti di lavoro: negli anni ‘70 c’era la General Motor, oggi ci sono i grandi magazzini.

Cosa succede? Lo sfruttamento dei lavoratori e la spinta al ribasso dei loro diritti e del loro costo, allo scopo di mettere sul mercato un prodotto di scarsissima qualità, ma dal prezzo in-credibilmente basso. Un cane che si morde la coda, dato che quel prodotto è destinato proprio a quelle classi che hanno a disposizione salari limitati. Classi il cui diritto alla salute è negato, sia nel momento in cui lavorano sia in quello in cui consumano.

Sul piano del lavoro infatti in questi settori il part time è la forma contrat-tuale dominante, e a ciò si aggiungono turni variabili, la cui comunicazione av-viene all’ultimo momento, pause lavo-ro praticamente assenti a fronte di un ritmo produttivo da fabbrica dicken-siana. E poi il sistematico sabotaggio di qualsiasi forma di organizzazione sindacale, realizzato con licenziamenti, ma anche con trasferimenti da uno sto-re all’altro, con l’assegnazione di turni

“Il valore della forza-lavoro inclu-de il valore delle merci necessarie per la riproduzione del lavoratore e per la perpetuazione della classe operaia. Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco im-pulso, nella sua voracità da lupo manna-ro di pluslavoro, usurpa il tempo neces-sario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora dove è possibile nel processo produttivo stesso, cosicché al

«Un’ampia fetta di popolazione, che comprende i lavoratori della retail industry (ma non si limita a quelli), sopravvive con stipendi al di sotto del livello dipovertà e per farlo compra merci scadenti che rendono la qualità della vita molto bassa»

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lavoratore vien dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapo-re, come si dà sego e olio alle macchine. Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita del lavo-ratore, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società. (...) Al lamento per il rattrappimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura del sopralavoro, il capitale risponde: do-vrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro piacere (profitto)?”

E Marx prosegue descrivendo al-cuni casi di adulterazione studiati da Chevallier, un chimico francese a lui contemporaneo, quali quella dello zucchero, del sale, del latte, del pane, dell’acquavite, del vino, della ciocco-lata e della farina. Chissà quante ne conterebbe oggi Chevallier nei pani-ni di Mc Donald’s, nelle patatine e nel pollo fritto. Cibo prodotto all’interno di una catena di montaggio globale, che schiaccia verso il basso il costo di produzione: alcune “spie” interne alle aziende sostengono che un singolo panino con hamburger costa a Mc Do-

nald’s circa 42 centesimi. Tuttavia non è questa la sede per un approfondi-mento di tipo igienico-sanitario sul re dei fast food, basterà accontentarsi del costo del prodotto per farsi un’idea del-la qualità dello stesso. E d’altronde bi-sogna riconoscere che il cliente del Mc Donald’s è generalmente consapevole di ingerire un cibo non sano: ciò che lo ha convinto nella sua scelta d’acquisto sono piuttosto il prezzo basso e il sapo-re. Peccato che la fragranza della carne non sia tanto opera di pascoli montani, quanto dell’inserimento di “profumi” e aromi artificiali prodotti da un’apposi-ta sezione ricerca dell’azienda, sempre all’avanguardia in questo ramo. Così come all’avanguardia è la sezione mar-keting, che studia il packaging del pro-dotto e l’arredamento degli store: i con-tenitori “aderenti” per i panini mirano a farli sembrare più grandi, quelli piccoli delle patatine a farle strabordare e dare un senso di “urgenza” al consumo. Il concept Mc Donald’s è indubbiamente ben studiato e ripreso da molte altre catene di fast food. E la conseguenza è che oggi la parte della popolazione più povera dei paesi occidentali è quella che soffre di obesità, di malattie car-

diovascolari, di diabete. Ed è la stessa parte che sopravvive grazie al “debito al consumo”, ossia all’utilizzo di pre-stiti contratti allo scopo di sostenere le spese di vita quotidiane, non sempre affrontabili con il solo stipendio.

Eppur qualcosa si muove tra i la-voratori di queste grandi catene. Cosa più importante sembra si sia giunti alla consapevolezza che una lotta dei lavo-ratori contro un’azienda multinaziona-le, non può che avvenire attraverso una serie di proteste globali convergenti. Le prime sono partite negli Stati Uniti, a New York nell’estate 2012. Qui c’è stato un walk out, ossia una interruzione del servizio concordata tra i lavoratori, che hanno abbandonato il posto di lavoro e sono scesi nelle strade in presidio. A novembre nuove proteste e poi l’anno successivo nasce la campagna Fight for fifteen che focalizza la protesta non solo sul generico miglioramento delle con-dizioni di lavoro, ma anche sull’aumen-to della retribuzione: negli Stati Uniti la paga di un “McJob” si aggira intorno agli 8 $ l’ora, e la protesta vorrebbe portarla a 15. Potrebbe sembrare fin troppo am-biziosa la richiesta del quasi raddoppio del costo della forza lavoro, ma bisogna ricordare che negli Stati Uniti il welfa-re è più ridotto rispetto all’Europa, in particolare la sanità non è pubblica, e sebbene oggi la riforma realizzata da Barack Obama obblighi i datori di la-voro a pagarla ai propri impiegati full time, questo ha solo generato la proli-ferazione di contratti part time. Negli

FAST FOOD | Clienti (Foto da Flickr di Lynn Friedman)

«La campagnaFight for fifteenche focalizza la protesta non solo sul generico miglioramento dellecondizioni di lavoro, ma anche sull’aumento della retribuzione»

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Usa la paga minima federale è di 7,25$ l’ora, mentre secondo il Bureau of La-bour Statistics quella media è di 12,71. Quindi gli impiegati dei fast food sono tra le categorie di lavoratori peggio re-tribuite.

Ma non è così dappertutto. Il movi-mento Fight For Fifteen parla ad esem-pio di come la situazione in Australia sia ben diversa. Nella terra dei canguri gli impiegati dei fast food ricevono in media 17,98$ australiani all’ora, che corrispondono a 16,38 $ americani. Inoltre hanno malattie e ferie pagate, nonché la sanità pubblica. Forse non è un caso che l’Australia sia il Paese oc-cidentale che ha avvertito in maniera minore la crisi, ma comunque non è l’unico che riesca ad offrire condizioni

di lavoro migliori di quelle statunitensi.

Per quel che riguarda il lavoro nei fast food si potrebbero delineare tre diversi standard nel mondo: al primo posto per la qualità ci sono Paesi come la Danimarca, la Norvegia, la Svezia e la stessa Australia nelle quali i lavora-tori sono organizzati attraverso gran-di “Unions”, ossia strutture sindacali. Le paghe arrivano ai 20 $ all’ora e le condizioni di lavoro sono abbastanza buone. Recentemente anche in questi Paesi si sono tenute proteste contro il colosso delle patatine, ma sono state indette per solidarietà verso i lavora-tori di altre parti del mondo. A seguire vengono gli altri Paesi europei e dell’A-merica Latina più ricchi, dove le condi-zioni di lavoro peggiorano e persiste un

alto livello di turn over dei lavoratori, nonostante per molti quello al Mc Do-nald’s non rappresenti più un impiego di passaggio. Infine ci sono i Paesi più poveri dell’Asia, dell’Africa e dell’Ameri-ca Latina. Gli Stati Uniti rientrano nella seconda categoria, ma a quanto pare ad un livello basso della stessa, dato che lo stipendio degli impiegati deve essere in grado di pagare l’assicurazione sanita-ria. Inoltre la massiccia presenza nella filiera di immigrati, spesso clandestini, rende i lavoratori ulteriormente ricat-tabili dalle compagnie.

La protesta sviluppatasi negli Stati Uniti si è propagata nel resto del mon-do, producendo iniziative in più di 100 città. La mobilitazione è stata precedu-ta dall’incontro internazionale 1st Iuf

USA | Proteste a Delaware del 23 Maggio 2014 (da Flickr tcd123usa)

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International Fast Food Workers Mee-ting tenutosi il 5 e il 6 maggio a New York, e organizzato dallo IUF (Inter-national Union of Food, Agricultural, Hotel, Restaurant, Catering, Tobacco and Allied Workers’ Associationism) ossia il sindacato mondiale della filiera alimentare. In questa occasione varie delegazioni internazionali hanno avuto l’opportunità di confrontarsi e decide-re delle linee comuni per la protesta. Il primo appuntamento fissato è stato per il 15 maggio scorso: in questa occa-sione si sono tenute mobilitazioni, pre-sidi, proteste e cortei in circa 100 città in tutto il mondo. 33 paesi tra cui Paki-stan, Marocco, Brasile, Nigeria, Sudafri-ca, Belgio, Giappone, India, Indonesia, Irlanda, Argentina, Thailandia, Malawi e Corea del Sud.

Anche in Italia ci sono state prote-ste: a Roma, Milano, Torino, Firenze, Venezia, Bologna e altre ancora. Nel nostro Paese la paga oraria per il livello più diffuso della catena, il quarto, è di 7,6 € l’ora, e nonostante sia più bassa di quella statunitense, al netto dei servizi sociali pubblici, è comunque migliore. Tuttavia questa categoria di lavoratori si trova ad affrontare in questo periodo il problema del venir meno del CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di La-voro) Turismo, comunicato da Fipe, la Federazione nazionale delle aziende dei pubblici esercizi di cui fa parte an-che McDonald’s. Inizialmente il recesso

sembrava previsto per l’1 maggio 2014, ma poi è stato rimandato al 31 dicem-bre 2014. Se le aziende del settore dei pubblici esercizi non saranno più vin-colate a tale modello, si aprirà la pos-sibilità di una nuova contrattazione al ribasso dei diritti dei lavoratori, se non della creazione di una sorta di regola-mento aziendale a cui attenersi.

Inoltre nel corso del 2014 in Cam-pania si sono tenute alcune vertenze legate alle specifiche problematiche dei punti Mc Donald’s locali ed in par-ticolare in opposizione all’italiana Na-poli Futura. Questa azienda è partner al 50% di Mc Donald’s Italia nella ge-stione di 9 ristoranti campani: due ad Afragola, due a Pompei, due a Napoli, uno a Casoria, uno a Salerno e uno a Nocera. In teoria la partnership per-metterebbe a Mc Donald’s Italia di la-varsi le mani riguardo la gestione del personale, così come delle proteste che questa genera, scaricate totalmente su Napoli Futura. In questo caso le conte-stazioni nel napoletano sono partite a seguito dell’annullamento unilaterale da parte dell’azienda degli accordi sot-toscritti precedentemente col sindaca-to UILTuCS. Senza tale tutela sarebbero diventati più semplici i trasferimenti dei lavoratori da un ristorante all’altro. Dal momento che in questo territorio la maggior parte degli impiegati Mc Do-nald’s sono donne con figli e non più studenti, il trasferimento molto spesso si traduce nelle automatiche dimissioni del lavoratore ed è quindi un potenzia-

le strumento di ricatto, se non un modo per ridurre il personale senza addos-sarsene il licenziamento. Sono gli stes-si lavoratori a sospettarlo: in questo modo si possono eliminare in maniera “pulita” gli impiegati con maggiori scat-ti di livello ed anzianità di servizio, per sostituirli con giovani meno pretenzio-si e dal contratto breve, permettendo così un notevole risparmio nei costi della forza lavoro. A questa prospetti-va parte del personale è però insorta: il 7 febbraio passato per tre giorni c’è stato lo sciopero dei lavoratori della Napoli Futura a cui ne sono seguiti altri due il 23 e il 30 marzo. L’assenza di una parte del personale ha messo in crisi l’azienda, che nel corso delle giornate di protesta è stata costretta a chiudere il Mc Drive ed ha suscitato solidarietà tra molti clienti. Alla fine il quarto scio-pero programmato per l’1 aprile è sta-to annullato: l’azienda Napoli Futura ha accettato di sedersi al tavolo delle trattative insieme ai sindacati e all’As-sessorato al Lavoro della Regione Cam-pania. Mc Donald’s invece era assente e invisibile come solo una multinaziona-le esperta sa essere in questi casi. L’ac-cordo ha prodotto la garanzia di tutela rispetto ai livelli occupazionali nei 6 tra quei 9 ristoranti in cui i dipendenti era-no a rischio licenziamento. Una vittoria che dovrebbe portare speranza tra i la-voratori costretti a subire: se c’è unità e tenacia è ancora possibile difendere i propri diritti e le proprie posizioni. Anche se voglioni farci credere il con-trario. �

FAST FOOD | (Foto da Flickr di A_minor)

«Negli Usa la paga minima federale è di 7,25$ l’ora, mentre secondo il Bureau of Labour Statistics quella media è di 12,71. Gli impiegati dei fast food sonotra le categorie di lavoratori peggio retribuite»

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Lavorare per resistere

PAESI BASCHI

Quando il lavoro diventa uno strumento per affermare una identità sociale, politica e nazionale. La storia di un insegnante della propria lingua: il basco.

Giuseppe Ranieri

Al giorno d’oggi, spesso e volen-tieri, lavoro è sinonimo di sfrut-tamento, alienazione, mancanza

di garanzie e di diritti, oppure in alter-nativa, di spasmodico inseguimento della sola sussistenza, ma alle condi-zioni appena elencate.

Fortunatamente, non tutto il mondo è paese e ci sono ancora delle eccezioni. Come ad esempio quella di Carlos, un uomo sulla quarantina dai tratti soma-tici straordinariamente somiglianti a quelli di Lenin. Scambiandoci quattro chiacchiere, oltre all’aspetto fisico, mi accorgo ben presto che anche nelle idee politiche e sociali è simile al rivo-

luzionario russo. Carlos è un basco di Donostìa, nome basco di San Sebastian e come ogni basco che si rispetti è dota-to di una determinazione e di una tena-cia fuori dal comune. Ho avuto la fortu-na di conoscerlo tramite amici comuni durante il mio primo viaggio in Euskal Herrìa. È stato il primo basco con cui mi sono rapportato direttamente e mi ha fatto capire la tempra del suo popo-lo, che, sebbene inizialmente “ruvido”, una volta fatta breccia nel loro cuore, sarai sempre uno di famiglia. Le sue grandi passioni sono la politica, la Real Sociedad (la squadra di calcio locale) e l’indipendenza del suo popolo.

«Per me è un atto d’amore verso la mia lingua, il mio paese, Euskal Herria, e verso la miafamiglia»

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«D’altro canto, non possiamo costruire una nazione basca senza il suo tratto distintivo, identitario, che è la lingua basca»

E’ proprio in nome di quest’ultimo che si sviluppa la sua attività lavora-tiva: Carlos insegna la lingua basca, l’euskera, agli adulti presso l’Istituto AEK (Alfabetatze Euskalduntze Ko-ordinakundea); una scuola popolare che “si occupa della normalizzazione dell’euskera” come ama ripetere Car-los, perché il mantenimento in vita di quest’idioma è una delle principali bat-taglie condotte dal popolo basco per affermare la propria diversità, la pro-pria autodeterminazione e la propria ostinazione a lottare fino alla fine per la

loro causa; proprio come quegli scogli su cui si infrangono le onde dell’oceano nella Baia di San Sebastian, che resisto-no a millenni di corrosione. Nello stes-so modo il popolo basco ha resistito nel corso degli anni alla messa al bando dell’euskera da parte del regime fran-chista, durato ininterrottamente alme-no fino alla metà degli anni’60. Popolo che resiste alle ondate di violenza e repressione che ciclicamente si abbat-tono sulle organizzazioni indipendenti-ste e sulla popolazione in generale, così come riesce a resistere e a protrarre il suo spirito indomito resistendo a tutte le tendenze della globalizzazione.

Da quanti anni insegni Euskera?

«Sono già 20 anni che insegno agli adulti. La mia organizzazione, AEK – Insegnamento di Euskera agli adulti – è attiva circa da 40 anni, sotto diverse forme».

Cosa significa, per te, insegnare Euskera?

«Per me è un atto d’amore verso la mia lingua, il mio paese, Euskal Herria, e verso la mia famiglia. I miei nonni co-noscevano l’Euskera ma non lo parla-vano con i figli, quindi andò perdendosi negli anni. Mio fratello e io lo abbiamo imparato e reintrodotto in famiglia. È una cosa della quale andiamo molto fieri. D’altra parte questo è un impe-gno serio nei confronti del mio Paese, che ti dà anche la possibilità di aprirti al mondo, di vivere un’altra realtà: la nostra.

Pensi che il lavoro che stai svolgen-do sia più importante per la conser-vazione di una memoria storica, del passato, o come impulso verso il fu-turo?

«Come dicevo prima, la lingua per me ha un legame forte con il passato, con la mia famiglia, con l’ambito sen-timentale. Però l’Euskera è una lingua viva, che è andata modernizzandosi e che oggi guarda al futuro. D’altro can-to, non possiamo costruire una nazio-ne senza il suo tratto distintivo, iden-titario, che è la lingua basca. Gli stessi baschi si riferiscono a se stessi come euskaldunak, che letteralmente signi-fica “coloro che possiedono l’Euske-ra” e quando parlano della loro terra la chiamano Euskal Herria, “il paese dell’Euskera”. Tutto gira attorno alla lingua, la ultima pre-indoeuropea che resta in Europa, la più antica».

Credi che fare un lavoro nel quale credi e che ti piace, ti conferisca un privilegio, considerando la situazio-ne che viviamo oggi, con un costante aumento della disoccupazione?

«Ovviamente sono un privilegiato. Sono molto orgoglioso e considero il mio come un “lavoro militante” anche se la paga è davvero bassa».

Quante persone partecipano ai cor-si? C’è ancora molta gente che parla Euskera? Anche i giovani mantengo-no viva la tradizione?

«Per darti un’idea concreta, con ci-fre reali, dovrei avere sottomano i dati.

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Sono già tanti anni che lavoriamo per recuperare la lingua. Oggi, il 35 per cento della popolazione conosce la lin-gua. Quelli che poi la usano sono meno. Uno dei nostri obiettivi è proprio que-sto: chi conosce la lingua, inizi ad uti-lizzarla. In ogni caso, il cammino verso una situazione normalizzata è ancora lungo. C’è stato un genocidio culturale e ancora oggi Spagna e Francia si op-pongono all’uso dell’Euskera. Dobbia-mo continuare nella nostra lotta».

Qual è la relazione che hanno o che hanno avuto istituti simili con le isti-tuzioni locali e nazionali? Il governo di Madrid ha mai creato problemi?

«Come dicevo, continua a ostacolar-ci».

Come vedi la situazione attuale nel Paese Basco? Quali credi che siano le prospettive per il futuro?

«Personalmente, come indipenden-tista della sinistra rivoluzionaria, vedo che la società basca non crede in un fu-turo all’interno della Spagna. Per que-sto motivo vuole ottenere il suo diritto a decidere. È un principio democratico: l’autodeterminazione. Abbiamo imboc-cato la strada giusta e sono ottimista».

In un mondo nel quale si vogliono abbattere le barriere tra gli Stati e creare organismi sovranazionali, quale può essere il motivo della lotta per l’affermazione e la indipenden-za di Euskal Herria?

«Non vogliamo l’Europa del capita-le. Vogliamo una Europa della gente e dei lavoratori. Il capitale vuole tenere tutto sotto controllo e sottomettere i cittadini. Vogliamo avere una nostra dimensione come popolazione e non sottometterci al capitale e alle multina-zionali».

Facci un saluto in Euskera per i no-stri lettori:

«Besarkada iraultzaile bat. Gora herriak! (Un abbraccio rivoluzionario. W Il popolo!)» �

«C’è stato un genocidio culturale e ancora oggi Spagna e Francia si oppongono all’uso dell’Euskera.Dobbiamo continuare nella nostra lotta»

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DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE/1

Viaggio nell’Interporto di Bologna

Lorenzo Giroffi

Caporalato: non è solo affare di campagne e sud Italia. Il settore della logistica, sempre più fon-

damentale nel capitalismo decentra-lizzato, ha vissuto e vive pezzi di sfrut-tamento. Abusi che cozzano con i con-tratti nazionali e con i diritti del lavoro. La resistenza a tutto ciò trova un posto simbolo nell’Interporto di Bologna, as-semblaggio di magazzini e rotaie per trasporto merci. Un luogo che è snodo per tante aziende che imballano e pre-

parano le ramificazioni di merci di ogni genere. Entrando in questo immenso e grigio posto si leggono le insegne delle più grandi compagnie italiane ed in-ternazionali: ARTONI; SDA; DHL; TNT; BARTOLINI; FERCAM.

In questi enormi magazzini, al cui esterno si alternano container e gros-si tir, lavorano centinaia di operai che preparano consegne, gestendo il com-mercio su gomme e rotaie.

Lo sfruttamento da queste parti si traduce anche nel risveglio delle co-scienze dei lavoratori, dunque rischia-re un vero e proprio blocco, dato che questo settore riguarda la mobilità di merci che necessitano di un trasporto a volte celere per deperimento, altre per date strette di viaggi. Dunque se i lavoratori della logistica scioperano, si spezza un anello fondamentale della catena economica contemporanea.

Percorro l’Interporto di Bologna in compagnia di Karim Baklou, facchi-no di una delle aziende che opera qui. Lui è stato protagonista della lotta che, partita dal 2008, ha portato ad un grosso riscatto in termini contrattua-li e di dignità. Forse un paradosso nel

famoso tempo della crisi, in cui sinda-cati, aziende e governi si accordano sempre più per abbassare le garanzie per i lavoratori. Tuttavia una felice con-trotendenza. Karim mi mostra i singoli magazzini e per ognuno ci sono storie di abusi che tiene nei suoi ricordi, affin-ché non si torni più indietro. Le violen-ze viaggiavano su binari multipli: fisici, psicologici, lavorativi.

«I capi settore utilizzavano anche i bastoni per costringere a ritmi più serrati e minacciare. Le buste paga non erano veritiere e molte volte non rispettavano l’orario effettivo. Si era costretti a lavorare ventiquattro ore su ventiquattro. Molti dormivano nei camion. Prima del 2008 c’erano anche

Regno della logistica italiana e fortezza dei diritti conquistati da un nuovo soggetto lavorativo

«Se i lavoratori della logistica scioperano, si spezza un anello fondamentale della catena economicacontemporanea»

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molti lavoratori in nero, ai quali era ri-servato solo cibo».

Karim mi racconta della lotta, ma anche della sua terra, il Marocco, perché i lavoratori dei magazzini in quest’In-terporto al 90% provengono dal Nord Africa: Marocco Tunisia ed Egitto, ma anche Pakistan e Bangladesh. Migranti e sfruttamento lavorativo vanno di pari passo per Karim. Un criterio per le as-sunzioni è stato sicuramente inglobare personale non in grado di decifrare i diritti da reclamare.

«Agli operai non è stato mai garan-tito un corso d’italiano e ciò ha sicura-mente costretto le persone straniere all’isolamento. Non si dispone della dimestichezza necessaria con leggi e lingue locali».

Il contratto nazionale prevede otto ore di lavoro, poi il singolo lavoratore può decidere o meno se andare oltre il proprio turno e fare gli straordinari. Qui all’Interporto, e non solo, in mol-

ti magazzini facevano lavorare fino a diciotto ore. Altra opzione di sfrutta-mento era quella che se dopo tre ore di lavoro la merce era terminata si ri-spedivano i lavoratori a casa, per poi richiamarli se eventualmente fosse subentrato un nuovo carico, chieden-do in tale maniera una disponibilità di ventiquattro ore su ventiquattro. Ritor-nando ai postulati del contratto, questo non è a chiamata, ma si tratta di fissi, quindi inerenti solo ai turni di lavoro e non a disponibilità, altrimenti il salario sarebbe diverso. Invece, nonostante il contratto nazionale, i facchini lavorava-no anche il sabato e la domenica, senza alcun supplemento nella busta paga. Quando c’era una maggiorazione del-lo stipendio non era reale rispetto alle ore lavorative in più, ma si utilizzavano escamotage utili ad aggirare i controlli di Guardia di Finanza ed Ispettorato al Lavoro. Sulla busta paga venivano in-serite voci non di straordinario, ma di “trasferta Italia” o “mensa”. Questo per i più fortunati, ma, mediamente, tutti gli straordinari semplicemente non erano

pagati. Non si trattava solo di umilia-zione da salario. Alla SDA sono state realizzate riprese nascoste che ritra-evano il capo settore, con un bastone tra le mani, che minacciava i lavoratori: insulti e maltrattamenti erano routine. Una violenza che non trovava ripari

BOLOGNA | Uno scorcio su alcuni magazzini dell’Interporto (Foto Lorenzo Giroffi)

«Agli operai non è stato mai garantito un corso d’italiano e ciò ha sicuramente costretto le personestraniere all’isolamento. Non si dispone della dimestichezza necessaria con leggi e lingue locali»

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società appaltante? Questo grosso lim-bo crea le famose scatole cinesi, che in-castrano molti diritti degli operatori in questo settore. Inoltre i sindacati gioca-no al ribasso ed il contratto nazionale vale sempre meno, perché non più uti-lizzato come faro per molte assunzioni. Infatti molti lavoratori sono costretti a firmare accordi lontani dai diktat del contratto di riferimento: appalti, su-bappalti, contratti, subcontratti.

L’Interporto di Bologna è però un bel controcanto a tutto ciò, perché, con la spinta di questo nuovo soggetto la-vorativo (migranti qualificati e consa-pevoli dei propri diritti-doveri), si sono trovati gli strumenti per aggregare ed esigere le più naturali legittimazioni di dignità. �

nelle voci sindacali.

«All’Ispettorato del Lavoro non ci rispondevano, mentre le più grosse si-gle sindacali ci consigliavano di custo-dire un lavoro che comunque ci garan-tiva anche cinquecento euro mensili. Noi però uniti iniziammo ad organiz-zarci in sciopero, bloccando la merce, piazzandoci sui binari, fermando i mez-zi, facendo danni per molte migliaia di euro. Compatti poi abbiamo continuato a richiedere i nostri diritti, a volere il rispetto del contratto nazionale. Sia-mo riusciti a far sì che i capi logisti, colpevoli di abusi, venissero cacciati e ad oggi tutti i magazzini rispettano il contratto nazionale: dalla Fercam alla Dhl. Dal 2008 al 2013 siamo riusciti a conquistare i nostri diritti e soprattutto la nostra dignità».

L’Interporto si riempie della notte che cala e dei lampioni che tengono viva la nebbia. Karim ripensa al suo Maroc-co ed agli inganni subiti da tanti suoi connazionali, arrivati qui speranzosi. Mi parla del fratello e del suo tentativo di non farlo partire per l’Italia, anche se conscio che le sirene attrattive del sogno lavorativo sono troppo suadenti.

«Più volte gli ho spiegato di lasciar stare, perché qui la crisi è profonda e le proposte che arrivano nel nostro Paese per far lavorare in Italia sono fasulle. In Marocco girano molti contratti la-vorativi italiani. Naturalmente sono a

pagamento e le persone son disposte a sborsare anche diecimila euro per un contratto di lavoro, visto che vengono garantiti 1200 euro mensili, con tre-dicesima e quattordicesima. Facendo due conti, sono tutti abbagliati dalla possibilità di ripagare il debito in 3-4 anni e poi iniziare a guadagnare. Nella realtà dei fatti poi non è così e ci si ri-trova incastrati in una realtà da sfrutta-ti. Questa dinamica fa comodo a questo settore, che vuole assoldare sempre più persone poco esperte di leggi e soprat-tutto estranee al tessuto sociale italia-no, perché più deboli».

La logistica ha il proprio vertice nelle cooperative, che si diramano dal-la grossa compagnia fino alle piccole società che hanno ricevuto le conces-sioni. Così i lavoratori, in questo caso i facchini, si ritrovano a trattare ma-teriale di un grosso marchio, come ad esempio Ikea, ma nella sostanza sono dipendenti di società appaltanti che ge-stiscono la logistica. Ciò vuol dire una centrifugazione dei referenti. Se manca lo stipendio o se la busta paga è errata, a chi rivolgersi? Alla casa madre o alla

«Alla SDA sono state realizzate riprese nascoste che ritraevano il capo settore con un bastone tra le maniche minacciava i lavoratori: insulti e maltrattamenti erano routine»

BOLOGNA | Karim, protagonista delle lotte dei facchini (Foto Lorenzo Giroffi)

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DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE/2

Cooperazione allo sfruttamento

Domenico Musella

Cooperativa dovrebbe essere una bella parola. Richiama valori universalmente condivisibili: il

mettersi insieme per lavorare al bene comune, una maniera alternativa e più egualitaria di pensare l’economia e la società. Nel passaggio dalla teoria alla pratica, tuttavia, come sempre, qualco-sa cambia. E così in Italia da un po’ di anni esiste un vero e proprio “sistema delle cooperative”: un meccanismo che si adatta perfettamente alla scelta poli-tica ed economica di rendere il lavoro sempre più instabile e precario e i lavo-ratori sempre più deboli e inermi.

Con Gigi Roggero del laboratorio dei saperi comuni Hobo, che incontria-mo a Bologna con parte della redazione di First Line Press, proviamo a capirci qualcosa di più. «Si può individuare nel sistema delle cooperative uno dei nodi centrali delle forme di abbassamento del costo della forza lavoro, di sman-tellamento del welfare, di riduzione dei diritti, di precarizzazione selvaggia del

lavoro». A società che hanno la forma di cooperative, spesso riunite in con-sorzi, si affidano multinazionali come l’Ikea, grandi aziende della logistica, ma anche enti pubblici come le univer-sità, per i loro servizi, o i comuni, per esempio per l’assistenza alle fasce più deboli.

Con la scusa di non essere grandi enti o aziende, tali cooperative impon-gono contratti con paghe più basse di quanto i contratti nazionali prevedono; non garantiscono diversi diritti quali il pagamento totale di infortunio, malat-tia, festività, permessi, Tfr, tredicesima e quattordicesima; non consentono la libertà di scegliere il sindacato; obbli-gano ad orari e turni di lavoro massa-cranti, non pagando gli straordinari. Il tutto, non di rado, accompagnato da buste paga che non corrispondono al vero. Si tratta del cosiddetto dumping contrattuale: un abuso di accordi e norme che porta ad uno sfruttamento della manodopera sempre più sistema-

tico, per contenere al massimo il costo del lavoro ed essere slealmente compe-titivi sul mercato.

Grazie al meccanismo dell’appalto o del subappalto, l’affidamento della gestione del personale ad una coopera-

Dalla logistica all’università, da Bologna al resto d’Italia, il «sistema delle cooperative» spinge al ribasso salari e diritti. Ma i lavoratori sviluppano un nuovo modello di lotta.

«Il sistema delle cooperative in Italia è centrale per l’abbassamento del costo della forza lavoro, losmantellamento del welfare, la riduzione dei diritti, la precarizzazione selvaggia del lavoro»

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tiva fa sì che per i lavoratori sia anche più complicato ribellarsi, a causa della conseguente «smateralizzazione della controparte», ricorda Roggero. «L’altro personaggio del conflitto non è chiaro, non sono chiari i responsabili contro i quali rivendicare i propri diritti. Le cooperative iniziano un appalto con un committente, poi magari cambiano nome e scaricano le responsabilità l’u-na sull’altra. Quando determinate coo-perative diventano scomode, vengono scaricate dall’azienda principale e ne vengono fatte entrare altre, con nomi diversi ma che in realtà appartengono sempre alla stessa “famiglia”, allo stes-so giro di persone».

La questione diventa ancora più complessa quando all’abuso della for-

ma cooperativa e alle “scatole cinesi” si aggiunge la commistione con partiti politici, istituzioni, sindacati e relativi circuiti sociali e mediatici: è così che questo dispositivo di sfruttamento as-sume i contorni di un “sistema” aggres-sivo, che ha come principale bersaglio, di fatto, il lavoratore.

A seconda del contesto regionale cambiano solo i colori e gli attori, ma il dispositivo è lo stesso. In Lombardia, ad esempio, le “coop” gravitano attorno a Comunione e Liberazione ed ai loro referenti politici e sindacali, ovvero quello che fino a poco fa era il centro-destra berlusconiano e che ora appare diviso in due parti, non si sa quanto in conflitto. In Emilia-Romagna le “coop” sono invece storicamente lega-

te al triangolo costituito sul versante economico dalla Legacoop (Lega delle Cooperative, che ha come affiliati prin-cipali la Coop Adriatica nella grande distribuzione, il consorzio Granarolo nel ramo alimentare e la Camst nella ri-storazione); sul versante sindacale dal-la Cgil e su quello politico dal Partito Democratico.

In poche decine di anni, in queste terre, gli “eredi” dello schieramento politico chiamato a difendere gli inte-ressi di quel lavoro simboleggiato dalla falce e dal martello sono passati a rap-presentare il capitalismo più becero. Quello che insegue ciecamente il pro-fitto, sacrificando i lavoratori e i loro diritti; quello che è al governo, che fa parte del “potere costituito” e controlla

ALL COOPS ARE BASTARDS | Un’illustrazione della campagna contro Legacoop (Foto di Hobo Bologna)

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un sindacato, in larga parte asservito, e dei media accondiscendenti.

Bologna, che una volta era “la ros-sa”, è oggi un po’ il quartier generale di un sistema ormai generalizzato in tutta Italia, orientato a quell’istituzionalizza-zione della precarietà e dello smantel-lamento dei diritti del lavoro che sono diventati la linea politica generale del governo da tempo. L’esecutivo Renzi lo mostra in maniera evidente: Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop, è oggi il ministro del Lavoro. Ma anche Maurizio Lupi, esponente lombardo di Comunione e Liberazione, ha il suo po-sto nel governo, nell’altrettanto strate-gico dicastero delle Infrastrutture. Il si-stema delle cooperative, in tutte le sue sfumature, guida anche politicamente il Paese.

Non mancano però dei punti debo-li in questo sistema, e lo sa bene chi da qualche anno sta portando avanti delle lotte molto dure contro le cooperative. Uno di questi è il palesarsi così netto del “fronte comune” formato dai membri di questo sistema, ovvero le cooperati-ve, le istituzioni, i sindacati confedera-li, il governo nazionale. Ogni volta che i lavoratori hanno provato a ribellarsi, tutte queste componenti hanno remato compattamente nella stessa direzione, a difesa di questo modello di sfrutta-mento: Cgil-Cisl-Uil non hanno mosso un dito rispetto ad accordi che esse stesse hanno firmato con le “contro-parti”, né si sono opposte quando sono stati licenziati i lavoratori che protesta-

vano; comuni, prefetti e governi hanno criminalizzato le proteste, cercando di ostacolarle puntando a spostare l’at-tenzione sul piano dell’ordine pubbli-co, con denunce strumentali, fogli di via etc. Così facendo, è stato più facile per i lavoratori “unire i puntini” e individua-re le molteplici facce di un avversario che è però unico. Ed è stato possibile portare il conflitto dal contesto locale a quello nazionale, e dal piano della sin-gola vertenza sindacale a quello della lotta propriamente politica contro un blocco di potere più generale.

Per comprendere nel dettaglio le falle del meccanismo, possiamo pren-dere in considerazione due esempi concreti di lotte “No Coop”, che han-no tra i loro teatri principali Bologna e l’Emilia-Romagna: da un lato quella dei facchini della logistica e dall’altro quella dei lavoratori dell’Università di Bologna.

In entrambi i casi, una strategia vin-cente è stata quella di bloccare la mo-bilità, delle merci come delle perso-ne. Il capitalismo post-fordista vive sul movimento di quello che si produce tra grandi “poli” che smistano e poi ven-dono. E così la protesta dei lavoratori delle cooperative della logistica, in con-testi come la Granarolo, l’IKEA o l’Inter-porto di Bologna, è diventata efficace e

vincente quando si è deciso di blocca-re fisicamente l’entrata e l’uscita delle merci dai magazzini. Arrecando danni molto pesanti alle cooperative come alle più grandi aziende committenti: il blocco della distribuzione di una sola giornata ai magazzini Esselunga è arri-vato a far perdere anche 300 mila euro all’azienda, mentre nel caso dell’IKEA di Piacenza, che smista mobili anche verso il Medio Oriente, le braccia in-crociate e i picchetti dei facchini hanno ritardato a catena la partenza di treni e navi verso est. Nell’ateneo bolognese bloccare l’ingresso alle sedi universita-rie, concentrate perlopiù in via Zambo-ni, ha causato una vera paralisi dell’Uni-versità. Grazie ad essa i lavoratori della Coopservice, appaltatrice di molteplici servizi (dall’assistenza informatica, al supporto alla didattica, al servizio bi-blioteche), hanno potuto farsi sentire e aprire un tavolo di trattativa.

Altro punto sensibile del sistema delle cooperative, come del capitalismo contemporaneo, è il danno di immagi-ne al marchio. Il picchettaggio ai ma-gazzini e poi ai punti vendita IKEA, per sensibilizzare anche i clienti della mul-tinazionale svedese, ha allarmato a tal punto i vertici da inviare direttamente dalla Svezia un dirigente a trattare con lavoratori e cooperative. La campagna di boicottaggio dei prodotti Granaro-

«A seconda del contesto regionale cambiano solo i colori e gli attori, dalla galassia del centrodestra-Comunione e Liberazione a quella PD, ma il dispositivo è lo stesso»

NO COOP | Infografica a cura dell’Assemblea studenti/esse lavoratori/rici precari/e Bologna

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lo è stata altrettanto importante nella strategia di lotta dei facchini. Situazio-ne analoga si è verificata ancora una volta nell’università felsinea, che con la mentalità dell’ateneo-azienda ha vi-sto nella mobilitazione permanente di studenti, precari e lavoratori forti ri-schi per il “brand” Alma Mater, e quindi una potenziale diminuzione di “utenti” ed ha quindi aperto un tavolo di discus-sione.

Il parallelo tra le lotte della logistica e quelle dell’università non è casuale: il loro trait d’union è proprio il comune avversario, ovvero il blocco di potere omogeneo che ruota attorno alle coo-perative. «La lotta in UniBo si è imme-diatamente collegata con le lotte della logistica, che sono diventate il model-lo di una lotta più complessiva contro il sistema delle cooperative», sottoli-nea ancora Gigi Roggero. «Strategico è stato riconoscere uno spazio comune, dato dalla materialità delle condizioni di sfruttamento e delle lotte».

Si può arrivare a dire che il luogo del conflitto capitale-lavoro, che una volta era la fabbrica, oggi sta diven-

tando il magazzino. Il settore della lo-gistica è infatti centrale per il capitali-smo contemporaneo, che si fonda sulla distribuzione delle merci. Con Aldo Milani, coordinatore nazionale del sindacato SI Cobas, sigla protagonista delle rivendicazioni nel settore della logistica, proviamo a contestualizzare queste condizioni di sfruttamento e questo modello efficace di azione dei lavoratori.

«Nel comparto della logistica il meccanismo delle cooperative è stato finora il modo migliore per rendere più flessibile la forza lavoro, al costo più basso possibile. In Italia infrastrutture e trasporti sono molto più ridimensio-nati rispetto ad altri Paesi, quindi l’uni-co modo per le aziende italiane di esse-re concorrenziali sul mercato è quello di ridurre al minimo il costo della forza lavoro». La manodopera impiegata in questo settore, in Italia, ha poi la carat-teristica di essere prevalentemente im-migrata: avere a disposizione migliaia di persone in cerca di lavoro arrivate massivamente e in un breve periodo nelle metropoli significa per le aziende poterle sfruttare senza problemi. «Fuo-

ri uno, dentro un altro. Questi lavorato-ri sono stati trattati come limoni – af-ferma Milani –: spremuti il più possibile e poi buttati via». Da non sottovalutare sono poi altri due aspetti. Uno è la pre-senza della criminalità organizzata: «I più grandi consorzi di cooperative han-no chiaramente rapporti con la mafia, lo vediamo. Tramite il controllo delle cooperative della logistica si ripulisco-no capitali sporchi mafiosi, mettendo a disposizione ingenti somme anche per le grandi aziende committenti, che non riescono più ad ottenere facilmente li-quidità dalle banche». L’altro aspetto riguarda i sindacati confederali che, pur avendo essi stessi firmato con la controparte il Contratto Collettivo Na-zionale di Lavoro (CCNL) del settore, «prendono i soldi dai padroni, dalle cooperative», rappresentando un osta-colo più che un supporto alle rivendica-zioni dei lavoratori.

Venendo alle condizioni di sfrutta-mento, queste sono le stesse di molti altri ambiti lavorativi. Vale a dire: sala-ri dimezzati rispetto a quanto previsto dal CCNL; buste paga false; orari, turni e ambienti di lavoro poco umani; man-

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cato riconoscimento di un’ampia serie di diritti e precarietà assoluta, possibi-le soprattutto grazie alle “scatole cine-si” delle coop. Si aggiunga a questo un rapporto di caporalato simile a quello delle campagne o dell’edilizia in altre parti della penisola, che spesso sfocia in violenze di vario tipo e nei molteplici ricatti cui sono sottoponibili in genera-le i migranti in Italia, soggetti ai docu-menti di soggiorno e a leggi e pratiche discriminatorie.

Dal 2008 ad oggi, i facchini del-la logistica in molte periferie delle grandi città italiane (nel centro-nord ma non solo) sono i protago-nisti di un vero e proprio “ciclo di lotte” contro questo dispositivo di sfruttamento. Dal nord-est (Verona e Padova), all’area metropolitana di Milano, ai poli di Bologna e Piacenza, questi lavoratori hanno alzato forte la voce. Si è trattato dei dipendenti di quelle cooperative alle quali big della logistica (come Tnt, Dhl, Gls, Bartolini, Artoni) e della grande distribuzione (come Bennet, Esselunga, IKEA) hanno affidato i servizi di circolazione delle merci, esternalizzandoli. Una lotta or-ganizzata dal basso, fatta di assemblee, scioperi, picchetti, che ha conosciuto momenti di alterne vicende e livelli molto duri di scontro con la contro-parte, ovvero il blocco compatto fatto da aziende, cooperative, sindacati con-federali, istituzioni e forze dell’ordine. Un processo lungo e faticoso, costato

determinazione e sacrificio, provvedi-menti disciplinari e attacchi personali, ma che in molti casi ha ottenuto ottimi risultati: salari adeguati alle normative, migliori condizioni di lavoro, lavoratori reintegrati, caporali licenziati. In alcune situazioni i rapporti di forza sono cam-biati a tal punto che i delegati SI Cobas, esclusi pregiudizialmente dal tavolo delle trattative sul Contratto Nazionale, lo hanno addirittura superato in me-glio. Hanno raggiunto accordi diretti con le aziende committenti più vantag-giosi per i lavoratori, successivamente fatti valere anche nei confronti delle cooperative. Aldo Milani, prendendo come esempio una delle prime lotte, quella ad Origgio (Varese) nel 2008, sottolinea: «L’elemento più importante è stata la partecipazione alla lotta di la-voratori di 17 diverse nazionalità, che precedentemente erano invece gli uni contro gli altri, spesso anche in manie-ra razzista. Si è sviluppato un coinvol-gimento di “classe” di centinaia di fac-chini, insieme al SI Cobas e ad attivisti di varie esperienze, anch’essi prima di-visi, e si è creato un coordinamento. Poi il conflitto si è ampliato a raggiera nel settore, attraverso conoscenze dirette di altri facchini e passaparola». Altro nodo essenziale, «per mantenere alto il livello di rivendicazione e di scontro, è stata la volontà, fin dall’inizio, di non li-mitare l’azione alla singola lotta azien-dale, ma di allargare il discorso al siste-ma economico, allo Stato, al governo». Con parole d’ordine come lotta, unità e solidarietà, un pezzo importante della forza lavoro di questo Paese è riuscito a uscire dall’invisibilità.

In questo momento a Bologna l’im-portante lotta della Granarolo sembra stia per concludersi positivamente per i facchini e il tentativo in atto è quello della generalizzazione e dell’allarga-mento di queste mobilitazioni. In una sorta di “circolo virtuoso”, i facchini della logistica stanno condividendo sa-peri, esperienze e pratiche con i lavora-tori dell’università. A loro volta questi ultimi stanno supportando la mobilita-zione dei dipendenti delle cooperative sociali, sempre legate a Legacoop, che fanno da supporto alle scuole. Chissà

che non siano i primi passi di un’op-posizione su scala nazionale all’intero sistema delle cooperative e al suo mo-dello di sfruttamento. Da quelle parti si comincia già a leggere uno slogan em-blematico: All Coops Are Bastards. �

per approfondire |

La rivoLuzione nei poLi deLLa Logistica di AnnA CurCio e GiGi roGGero, uninomAde http://www.uninomade.org/La-rivoLuzio-ne-nei-poLi-deLLa-Logistica/

no coop – daLLa Logistica aLL’università di AnnA CurCio e GiGi roGGero, CommonwA-re http://commonware.org/index.php/cartografia/325-no-coop

La Lotta ai tempi deLL’ikea di ClAsh City workers http://cLashcityworkers.org/ima-ges/pdf/downLoad/Lotta-tempi-ikea-ccw.pdf

intervista aL si cobas, berLino 2014, youtube www.youtube.com/watch?v=8ycv90cungg

«Il luogo del conflitto capitale-lavoro, che una volta era la fabbrica, oggi è il magazzino. Le lottedella logistica sono diventate il modello di una lotta complessiva contro il sistema delle coop»

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DOSSIER LOGISTICA E COOPERATIVE/3

IKEA: istruzioni per l’uso

Francesca Ioannilli e Giulia Page

[In questi giorni si stanno svolgen-do in tutta Italia e non solo iniziative di boicottaggio al colosso svedese IKEA, in solidarietà ai 33 lavoratori del deposito di Piacenza sospesi (di cui 21 successi-vamente licenziati) per la loro attività sindacale. Questo è un primo testo di in-chiesta, dal vivo della settimana che ha aperto la nuova fase di lotta all’IKEA di Piacenza.]

Quando ci si ritrova – almeno una volta nella vita – a montare i mobili IKEA si pongono, in genere, due proble-mi: le istruzioni in svedese (che, se non fosse per le immagini e per l’intuito, uno penserebbe di aver scambiato uno sgabello per una lampada) e qualche vite mancante. Le informazioni riguar-do la vertenza apertasi nei giorni scorsi all’IKEA di Piacenza sono, per certi ver-si, molto simili: le parole non aiutano e qualche pezzo manca.

Durante le 48 ore di “tregua arma-ta” – come la definisce il quotidiano “La Libertà” di Piacenza – della settimana seguita a quella dei picchetti, abbiamo deciso di sentire direttamente la voce della protesta davanti ai cancelli del più grande deposito IKEA del Sud Europa, durante i continui blocchi, cortei e pre-sidi.

La mattina del 6 maggio il primo picchetto; lavoratori del magazzino si trovano, insieme a studenti e militanti di collettivi e centri sociali arrivati an-che da Bologna e Modena, di fronte ai cancelli per bloccare il flusso delle mer-ci perché 33 di loro sono stati sospesi per aver attuato un blocco interno (20 giorni prima).

La protesta era iniziata come forma di solidarietà ad uno dei lavoratori del magazzino, “declassato” dalla sua man-sione di carrellista a quella di facchino. Più complessivamente, nel magazzino, la cooperativa che gestisce in subappal-to il lavoro per IKEA agisce al di fuori della legalità: non rispetta il contratto di lavoro, impedisce le assemblee in-terne, non paga straordinari e giorni di

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malattia, solo per riportare le più gravi inadempienze, dunque la protesta è in-nanzitutto contro lo sfruttamento e per la dignità.

Non è davvero la prima volta che ci troviamo all’alba per un picchetto, ep-pure sembra esserlo: quando si arriva al polo logistico di Piacenza la sensa-zione è sempre quella di un luogo po-polato solo da macchine, dove gli edifici sono enormi e brutti, dove per gli esseri umani non c’è posto, o forse si spera sia così. Invece no: di esseri umani ce ne sono, e anche tantissimi, chiusi nei ma-gazzini chilometrici e squadrati. Quello dell’IKEA è il primo a comparire, con il colore tipico della multinazionale, gial-lo su blu: a spezzare la normalità, i co-lori delle tantissime bandiere piazzate lungo il percorso che porta al presidio. Il bianco su rosso del Si Cobas, il rosso su bianco del No Coop.

Siamo in tanti, più di 50 tra studen-ti, precari e lavoratori con i 33 sospesi. Ci si passa il tè e le brioche; si ride e si chiacchiera in un’atmosfera gioiosa, che sembrerebbe quasi paradossale, se non si sapesse che la serenità deriva da quell’unione di chi condivide da tempo la stessa condizione di sfruttamento e fino ad oggi non ne ha mai potuto par-lare, di chi si è reso conto che lottando

«La protesta era iniziata come forma di solidarietà ad uno dei lavoratori del magazzino, “declassato” dalla sua mansione di carrellista a quella di facchino»

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uniti si può vincere e cambiare le cose.

Incontriamo subito uno dei tessera-ti Si Cobas che prende parte alla lotta: lui non è fra i 33 sospesi, ma lavora per la stessa cooperativa, la San Martino, che ha emesso i provvedimenti disci-plinari. Il magazzino IKEA, ci spiega, è diviso in due reparti: DC1 e DC2. Le mansioni svolte nei due reparti sono identiche: carrellisti, facchini, retrattili-sti. La differenza fondamentale sta però nella gestione: il DC1, infatti, è gestito dalla cooperativa Sigest, il DC2 dalla San Martino. Cooperative diverse, quin-di, ma stesse mansioni, e, soprattutto, stesso committente, l’IKEA: i lavoratori del magazzino DC1, quello della Sigest, però sembrano essere soddisfatti delle loro condizioni di lavoro. Retribuzione, malattia, carichi di lavoro; tutto sembra essere tranquillo, all’altro capo dello stesso edificio. Nel DC2, invece, a pochi mesi dal rinnovo dell’appalto vinto dal-la cooperativa San Martino, esplode la protesta.

Il nuovo appalto, per entrambi i reparti è dell’ottobre 2013. La Sigest entra nel reparto DC1, la San Marti-no prosegue l’attività già avviata negli anni precedenti nel DC2. Al momento dell’ingresso, ad entrambe le coope-rative viene presentata dal sindacato Si Cobas una piattaforma di rivendica-zioni. Il Si Cobas ad IKEA vanta un forte radicamento. È l’esito della lotta e della vittoria tra il 2012 e il 2013 per il rein-tegro dei facchini sospesi per attività sindacale, una lotta durata diversi mesi contro il Consorzio CGS e le cooperati-ve San Martino, Cristal ed Euroservizi, che all’epoca gestivano il magazzino.

Nell’ottobre del 2012, infatti, 107 la-

voratori erano stati licenziati per uno sciope-ro effettuato nel mese di giugno. Uno sciopero che denunciava l’iniquità delle retribuzioni, i continui atti in-timidatori e le vere e proprie “liste di proscri-zione” stilate dai responsabili del magazzino. E i lavoratori, stanchi di dover sempre abbassare la testa, avevano invertito la rotta, lot-tando insieme contro tali condizioni di lavoro. La richiesta, sopra tutte, era (e resta) il rispetto del contratto collettivo nazionale che, per quanto non piena-mente soddisfacente, resta comunque uno strumento di garanzia e tutela del lavoro. Dopo la vittoria conseguita nel gennaio del 2013, il contratto, secon-do quanto stabilito dall’accordo tra le parti, doveva essere applicato gradual-mente a tutti i lavoratori, fino alla co-pertura del 100%. Ad oggi, il contrat-to nazionale è applicato solo ad una minima parte dei lavoratori; e questa, in gran parte, costituisce la differenza tra le condizioni dei lavoratori Sigest e quelli di San Martino.

Il secondo punto nelle rivendicazio-ni è quello più “politico” e delicato: vie-ne chiesta “agibilità e libertà di associa-zione sindacale, la consultazione con i lavoratori prima della firma (da parte di qualsiasi sindacato) di qualunque accordo, e la sottoscrizione degli accor-di soltanto previa approvazione della maggioranza dei lavoratori”. Verrebbe da sorridere di fronte a queste riven-dicazioni, se non fosse che i lavoratori raccontano di aver chiesto di poter con-vocare un’assemblea per confrontarsi e chiedere chiarimenti alla cooperativa riguardo alla mancata applicazione del contratto: l’assemblea non gli è stata concessa. E poi il Tfr (che non è calcola-to sul monte ore effettivamente svolto dai lavoratori, straordinari inclusi, ma

solo sulla base delle ore previste per contratto), i giorni di malattia retribu-iti (una malattia che inizia di venerdì è ben diversa da una che inizia di lunedì), e gli stessi provvedimenti disciplina-ri emanati dalla cooperativa nei primi giorni di maggio.

Così, quando ad uno dei lavoratori, carrellista tesserato Si Cobas, quel lu-nedì viene impedito di svolgere le sue normali mansioni, parte immediata-mente la protesta dei colleghi che, in solidarietà, interrompono l’attività di un intero settore. Il trascorrere dei 20 giorni tra l’accaduto e la sospensione, comunicata o con un sms o con una telefonata da un numero privato alle 5 del mattino del giorno stesso, fa pensa-re ad una scelta più politica che neces-saria.

E poi c’è il lavoro in sé: stancante, stressante, totalizzante. Parliamo con dei facchini: hanno tutti tra i 24 e i 30 anni e una pettorina blu con scritto “Cooperativa San Martino”. Sono spes-so costretti da necessità a fare due, tre o addirittura quattro ore di straor-dinario, oltre alle 8 ore giornaliere da contratto: solo così riescono a superare la soglia dei circa mille euro al mese. “Come faccio ad avere una vita fuori dal lavoro? Torno a casa, sono stanco, la schiena a pezzi, e voglio solo dormire”. E le possibilità di socialità, di distrazio-ne, non sono nemmeno semplici sul po-sto di lavoro: le pause sono due, quella breve da 10 minuti per il caffè a metà

«Di esseri umani ce ne sono, e anche tantissimi, chiusi nei magazzini chilometrici e squadrati»

PROTESTA | Facchini davanti ad un punto vendita IKEA(Foto sicobas.org)

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turno e la pausa pranzo di 30 minuti. E nelle restanti 6-7 ore si corre, si la-vora ininterrottamente per rispettare i ritmi di produzione: ognuno ha il suo, a seconda della mansione, e uno dei lavo-ratori, con fare misterioso, ci dice che “i modi per farti correre ce li hanno”.

Tutti questi racconti ci fanno capi-re che la vicenda all’origine delle so-spensioni è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A rendere l’episo-dio ancora più calzante per il “teatrino dell’assurdo” che ha luogo all’interno dei magazzini della logistica è quello che succede nei giorni immediatamen-te successivi. I lavoratori attuano il blocco delle merci, con l’aiuto dei fac-chini che lavorano in altri magazzini del piacentino, del Network Antagoni-sta Piacentino e delegazioni da Bologna del collettivo Hobo e dei centri sociali Crash e Guernica di Modena. La moda-lità della controffensiva è nota, è quel-la che i facchini in mezzo Nord Italia hanno mostrato nel corso degli ultimi anni: bloccare i cancelli è l’unico modo che si ha per uscire dall’invisibilità. Ma è la risposta delle forze dell’ordine che lascia perplessi. Ancora una volta quel-lo che è stato il tentativo di rimozione di un picchetto operaio viene riportato come uno scontro causato da “violenti” e non si parla delle manganellate, dei gas lacrimogeni (ne sono stati lanciati almeno una decina) e degli insulti. Alla controparte i “facinorosi” hanno ri-sposto con del jogging per i campi che circondano il magazzino, seminando la celere e tornando davanti al cancel-lo del modulo 9, dove erano partite le cariche.

Il giorno dopo sui giornali si descri-ve come guerriglia armata il tentativo di chi voleva solo farsi ascoltare e gri-dava “non ho paura che mi picchiate, non ho più nulla da perdere”. L’allar-mismo della procura piacentina è stato confermato dalle identificazioni e per-quisizioni subite da chi si era presenta-to da altre città: dal verbale rilasciato (a malincuore...) emerge che quello che si cercava nelle auto e negli zaini erano “armi e strumenti di effrazione”.

Mantenere l’opinione pubblica lon-tana dalla questione è l’obiettivo, con-fermato anche dalla scelta di percorso autorizzato della procura che costringe il corteo di domenica 11 maggio, che denuncia le violenze della polizia da-vanti i cancelli del deposito IKEA, con oltre 1000 persone, a passare ai confini della città. La vicenda non deve attra-versare il centro.

Arrivati all’inizio del “corso”, una delle due principali vie della città, la celere si schiera, i manifestanti per non alimentare ulteriori sproloqui dei giornali semplicemente cambiano stra-da, consapevoli che i loro cori possono comunque superare il muro di scudi che sempre viene messo di fronte alla richiesta di diritti. Data la crisi, IKEA come tutte le imprese low cost ha pro-fitti crescenti, ma quello che non si vuol far sapere ai possibili acquirenti è la vera condizione all’interno dei magaz-zini, dove vengono prodotte le merci fonte di guadagno. Il sistema delle co-operative già messo a nudo all’interno di altri magazzini della logistica vuole mantenere quella parvenza di mutua-lismo, di sostegno per i lavoratori per cui è nato e che di fatto è oggi diventato solo sfruttamento legalizzato. La con-troparte in questione è caratterizzata come le altre da contratti al ribasso, orari e ritmi di lavoro inaccettabili, totale indifferenza nei confronti delle richieste dei soci, che da questo appel-lativo ottengono solo il dimezzamento della busta paga.

Le rivendicazioni dei lavoratori IKEA sono le stesse di quelle dei lavo-ratori di Coopservice (che a Bologna

hanno aperto un percorso di lotta per migliorare le condizioni salariali e del lavoro) e dei consorzi legati a Legaco-op, come il consorzio SGB, quello coin-volto nella lotta contro il colosso Gra-narolo: sono le richieste di chi non vuo-le sottostare alle regole di un sistema che chiede di lavorare di più per essere pagati sempre meno: lavori per vivere, ma poi una vita non ti è possibile.

La controparte è IKEA, affianca-ta dalla cooperativa San Martino, che gestisce in subappalto il reparto DC2. Complici ne sono anche la procura, che per fermare i blocchi e mantenere l’or-dine pubblico di fronte alle richieste dei lavoratori dispiega “l’esercito”; ge-stire il problema equivale a manganel-lare, sfruttare l’apparato burocratico con denunce e minacce di “fogli di via” a chi partecipa alla lotta. Come sempre accade ė spalleggiata dai media, che at-tenti solo al ricavato non si preoccupa-no di riportare mezze verità, con titoli accattivanti, si sono soffermati sulle conseguenze dei blocchi e solo velata-mente sulle cause; del resto, come ri-portato più volte sui giornali “Piacenza ha bisogno di IKEA”.

Questi sono i responsabili diretti, ma indirettamente, anche chi sceglie di non informarsi ed è indifferente a quel-lo che gli succede intorno deve sentirsi chiamato in causa. Quella nata come vertenza specifica ė lo specchio di una condizione di precarietà, che se già non stiamo vivendo presto ci caratterizze-rà, quindi partecipare al tentativo di cambiare il presente coincide con il ri-appropriarsi del proprio futuro.

«L’onda prima o poi colpirà anche te, ma devi tentare di fermarla prima altrimenti hai già perso». Così ci ri-sponde un lavoratore IKEA, dopo aver-gli spiegato perché ci trovavamo anco-ra davanti ai cancelli. �

L’articoLo è onLine anche suL sito di commonware http://commonware.org/in-dex.php/cartografia/386-ikea-istruzioni-per-uso

«Come faccio ad avere una vita fuori dal lavoro? Torno a casa, sono stanco, la schiena a pezzi e voglio solo dormire»

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FOTOGALLERY

Migranti nell’agricoltura italianaAndrea Polzoni

In Italia il lavoro bracciantile del comparto agricolo è ormai quasi in-tegralmente prodotto dai migranti

che vengono sfruttati e cooptati nei giri di caporalato, a volte mediato dai loro stessi connazionali.

I proprietari terrieri italiani vedono i prodotti agricoli sottopagati e vengo-no strozzati dalla grande distribuzione rifacendosi con lo sfruttamento della manodopera.

Nell’Agro Pontino c’è una presenza massiccia e consolidata di lavorato-ri sikh immigrati dal Punjab, nel nord dell’India. Sono circa 30 mila, prendo-no 5 euro l’ora e lavorano anche 12 ore al giorno.

Ci sono stati diversi casi di mancato pagamento e aggressioni contro questi lavoratori, notoriamente pacifici affida-bili e dignitosi.

In altre parti d’Italia sono i giovani africani a portare avanti l’agricoltura in tante regioni, come la Calabria per gli agrumi, Basilicata e Puglia per i pomo-dori, ma anche in Campania Sicilia e centro-nord.

Sono stati spesso vittime di raz-zismo oltre che di sfruttamento, ma hanno anche saputo lottare e ribellarsi come a Rosarno nel 2009. �

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NELLA PAGINA PRECEDENTE | Puglia: la raccolta dei meloni

IN QUESTA PAGINA, IN ALTO | Sabaudia: le prolungate posizioni chine producono problemi alla schiena e all’addome

IN QUESTA PAGINA, IN BASSO | Sabaudia: un caporale sovrintende al lavoro dei braccianti

NELLA PAGINA ACCANTO, IN ALTO | Sabaudia: un capo operaio sikh controlla il lavoro dei braccianti

NELLA PAGINA ACCANTO, IN BASSO | Sabaudia: la raccolta delle rape

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IN ALTO | Puglia: la raccolta dei meloni

IN BASSO | Basilicata: dopo una giornata di lavoro un giovane si raccoglie in preghiera

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IN ALTO | Rosarno

IN BASSO | Sabaudia

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CULTURA/MEDIO ORIENTE

Dal Maghreb alla Siria, passando per Egitto e Iraq: qual è lo stato del patrimonio storico-artistico a seguito delle rivolte? Intervista all’archeologo Paolo Brusasco

Giovanni Andriolo

Professor Brusasco, una prima domanda astratta dal contesto: ritiene possibile che un popolo

sia danneggiato dalla distruzione o la mercificazione del suo patrimonio culturale?

«Certamente sì. Proprio questo è il punto: bisogna abbandonare la visione obsoleta che i beni culturali rappresen-tino semplici oggetti, “pietre prive di vita”, la cui distruzione non interessa il presente e gli eredi attuali del passato. Al contrario, presente e passato sono le-gati in maniera inscindibile: come spie-go nel mio libro, i beni culturali sono l’espressione diretta dell’animo umano, delle passioni e della vita di quegli uo-mini che li hanno creati. Quindi forgiano le coscienze delle odierne popolazioni che continuano a fruirne. Si pensi, per esempio, al valore sociale, aggregativo, delle antiche moschee o delle chiese bizantine che vengono tuttora “vissute” dai popoli mediorientali. La loro distru-zione è una perdita incalcolabile per il tessuto sociale moderno. Di più: salva-re i beni culturali dei popoli minacciati da guerre e rivolte equivale non solo a

I beni culturali arabi alla prova delle presunte “primavere”

metterne al sicuro il retaggio culturale, ma la loro stessa esistenza, dal momen-to che purtroppo spesso le guerre sono finanziate in maniera significativa dal contrabbando delle antichità trafugate. Emergenza umanitaria e salvaguardia culturale quindi coincidono, sono due aspetti della stessa realtà. Sarebbe un grave e imperdonabile errore scindere i due problemi».

Nel suo libro Tesori Rubati un capitolo è dedicato ai danni che hanno subito i beni archeologici dei paesi coinvol-ti nelle cosiddette primavere arabe a partire dal 2011. Il titolo è emble-matico, “Primavera araba e autunno dei beni culturali”: ce lo spiega?

«Il processo di democratizzazione cui miravano i rivolgimenti politico-sociali che definiamo “primavere arabe” ha toccato un nervo scoperto delle varie società del Medio Oriente: il rapporto conflittuale, e in molti casi dettato da motivi di propaganda ideologica, che esiste tra patrimonio culturale e identi-tà nazionale. Le distruzioni e i saccheggi occorsi dalla Tunisia alla Libia, dall’E-

gitto alla Siria, per tacere dell’Iraq, sono espressione tangibile di questa imposi-zione ideologica del retaggio nazionale da parte di regimi che facevano un uso sin troppo spregiudicato dell’archeolo-gia. In molti casi, il filtro del regime si è imposto tra i cittadini e il loro passato come una lente deformante. Tuttavia, senza un sincero anelito di identifica-zione col passato, la primavera, il “rina-scimento del pensiero”, si è trasformata in un “autunno della cultura” dove le antiche icone vengono percepite dalle masse come simboli di regime da deco-struire e razziare».

Partiamo dal primo paese coinvolto nelle rivolte, la Tunisia: in che modo è stato danneggiato il patrimonio ar-tistico locale?

«Accanto alle mafie e ai comuni sac-cheggiatori, troviamo in Tunisia la mer-cificazione del patrimonio culturale da parte del deposto regime di Ben-Ali e dei suoi notabili: tesori sottratti a siti ar-cheologici e musei – come un centinaio di reperti di epoca romana mancanti dal museo del Bardo, una delle più antiche

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istituzioni museali africane e ricchissi-mo di mosaici romani e cristiani. Tut-tavia, per merito del funzionario Fathi Bejaoui dell’INP (Istituto Nazionale del Patrimonio), la Commissione nazionale di indagine, diretta dal noto archeologo Azedine Beschaouch - nuovo ministro dei Beni culturali e della Salvaguardia del patrimonio - ha sequestrato una collezione di oltre 200 reperti, tra i quali si contano splendide colonne e super-bi fregi marmorei di età romana, reim-piegati nell’arredo della lussuosa villa al mare della figlia dell’ex presidente. Purtroppo, anche a Cartagine – la “de-lenda Carthago” di Catone il Censore –il celeberrimo sito punico, ricostruito dai romani nel 146, dopo la terza guerra pu-nica, si è assistito a un dissesto dell’ar-cheologia: la città è stata interessata da un piano di sviluppo urbanistico del tut-to incontrollato, che ha visto la fioritura nella sua area perimetrale di sontuosi quartieri residenziali, abusivamente edificati nel ventennio di governo dai massimi dirigenti del Paese. Vanifican-do quindi gli sforzi di archeologi come Azedine Beschaouch, che con uno scavo decennale negli anni settanta del Nove-cento ne aveva permesso l’inserimento nella lista dei siti Patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1979».

Poco dopo inizia la rivolta in Egitto, uno dei paesi più famosi al mondo per il suo patrimonio archeologico: quali i danni principali?

«In Egitto, dopo un periodo iniziale di transizione in cui le distruzioni era-no decisamente più limitate, si deve purtroppo registrare un’ accelerazione esponenziale dei saccheggi in questo ul-timo anno, parallelamente al deteriorar-si delle condizioni di stabilità politica. L’UNESCO è recentemente intervenuta lanciando un appello, di concerto con le dogane internazionali e l’Interpol, per intercettare centinaia di reperti depredati da siti archeologici e musei. In particolare, di estrema gravità sono le razzie avvenute al Mallawi National Museum di Minya, 300 chilometri a sud del Cairo, distrutto e derubato da ban-de criminali il 14 agosto 2013. I danni sono catastrofici: sottratti oltre mille reperti archeologici che datano dall’An-tico Regno al periodo islamico. Il peg-giore assalto a una istituzione museale dopo il saccheggio dell’Iraq Museum di Baghdad nell’aprile 2003, dove spariro-no oltre 15000 preziosi oggetti. Inoltre mafie specializzate nel contrabbando di antichità operano impune-mente in siti dell’importanza di Saqqara, Abusir, Abu Rawash, Beni Suef, e molti altri ancora, con tonnellate di tesori egizi depredati e trasferiti temporaneamente in nascon-digli sicuri, in attesa di essere messi in commercio. Secondo Carol Redmount, la direttrice della missione dell’Univer-sità californiana di Berkeley, nell’impor-tante sito di El Hibeh, del Terzo Periodo Intermedio, è attiva una banda crimina-le armata di stampo mafioso (in conni-venza con la polizia locale) che impiega bulldozer e dinamite alla ricerca dei preziosi corredi d’oro della necropoli dell’ XI secolo a.C., distruggendo anche il tempio cittadino e i principali insedia-menti urbani. Né è risparmiata dai sac-cheggi da parte degli abitanti del vicino villaggio di Sheikh Abada anche la cele-bre Antinoe, edificata nel 130 d.C. nel Medio Egitto dall’imperatore romano Adriano in onore del suo favorito Anti-noo, sul Nilo, in prossimità del luogo in cui il giovane trovò la morte».

Situazione più complessa in Libia, dove più che di rivolte si è trattato di guerriglia con successivo bombarda-mento della NATO: brevemente, quali sono i danni?

«Il rapporto dell’UNESCO, unita-mente a informazioni pervenutemi dal collega, archeologo libico, Hafed Walda - consigliere del Dipartimento di Antichi-tà della Libia - registrano un incremento considerevole dei saccheggi dei siti ar-cheologi e quindi del traffico illegale di opere d’arte, soprattutto a opera di ban-de armate provenienti dai confini con il vicino Egitto. Per arginare il fenomeno Walda prospetta un programma di coo-perazione internazionale e di addestra-mento dei quadri del Dipartimento di Antichità della Libia. Meno drammatica la situazione invece per quanto riguarda i danni militari diretti dovuti al bombar-damento della NATO e la supposta co-struzione di una base mi-litare da parte del regime di Gheddafi nell’antica Leptis Magna e Sabratha, fiorentissimi centri punico-romani».

Nel caso egiziano e libico ci sono stati esempi di azioni popolari rivolte alla protezione del patrimonio? Quali?

«Il processo di democratizzazione cui miravano i rivolgimenti politico-sociali ha toccato un nervo scoperto: il rapporto conflittuale, e in molti casi dettato da motivi di propaganda ideologica, che esiste tra patrimonio culturale e identità nazionale»

BEIRUT | Monumento ai martiri (Foto di Adrián Carreras Rabasco)

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«Sì, in situazioni sporadiche ciò è av-venuto. Caso emblematico è il cordone umano di oltre duemila persone che si era formato in piazza Tahrir nelle prime ore dopo il saccheggio del Museo del Cairo, la notte del 28 gennaio 2011, du-rante le iniziali insurrezioni popolari in Egitto. Un immenso scudo umano a pro-tezione del santuario dell’archeologia egiziana, segno di fermo e sincero attac-camento popolare al retaggio faraonico rappresentato dall’istituzione. Ma an-che in Libia ci sono segnali che la popo-lazione collabora con gli specialisti del Dipartimento nella difesa del patrimo-nio culturale. Del resto, testimonianze in questo senso, anche se meno palesi, sono manifeste anche in Iraq e in Siria».

Questo conferma che le popolazioni stesse sono consapevoli dell‘impor-tanza del patrimonio culturale?

«Sì. Soprattutto in quei villaggi ubi-cati in prossimità dei siti archeologici, dove la popolazione ha servito come maestranze di scavo nelle missioni in-ternazionali, abbiamo una risposta di sincera difesa del retaggio culturale, che è anche una rilevante fonte di reddito per tali popoli».

Passiamo alla Siria. Lei ci parla del caso della moschea Omayyade di Aleppo come esempio di strumenta-lizzazione del patrimonio a fini pro-pagandistici da parte di entrambe le parti, governo e antigovernativi: ci spieghi.

«Lo splendido minareto della mo-schea Omayyade di Aleppo, edificato nel 1094 d.C. dal principe selgiuchide Malik Shah e Patrimonio mondiale dell’uma-nità per l’UNESCO, è stato abbattuto nell’aprile del 2013 dai colpi di morta-io e dalla bombe dell’esercito di Assad, per snidare i cecchini ribelli che si erano asserragliati nella moschea. Un copione che si ripete in molti monumenti e siti che sono strumentalizzati ai fini della propaganda delle parti in guerra. In Si-ria, purtroppo, gli straordinari castelli crociati, le chiese bizantine, le antichis-sime moschee e i siti archeologici sono utilizzati come campi di battaglia, diven-

tano quindi scudi culturali dietro i quali l’esercito nazionale e la varie fazioni di ribelli si nascondono per sferrare l’en-nesimo attacco all’avversario in un vi-cendevole scambio di successive accuse. È un modo per delegittimare agli occhi del mondo - che ben conosce l’impor-tanza storica di questi monumenti - l’av-versario politico del momento. Questa spettacolarizzazione della guerra è cer-to stimolata dall’era digitale di Internet che permette una immissione in presa diretta delle immagini più raccapric-cianti. Non è forse questo uso strumen-tale dell’archeologia una dimostrazione tangibile della valenza attualizzante e simbolica dei beni culturali?»

Brevemente, quali gli altri danni al patrimonio dei siriani?

«Impossibile enumerarli tutti, siamo nell’ordine di migliaia di siti danneg-giati: si tratta di un disastro epocale, pari, se non superiore, a quello dell’Iraq durante e dopo la seconda guerra del Golfo del 2003. Parlano i puntualissimi rapporti e le immagini del Dipartimento di Antichità Siriano (Dgam), aggiornati all’aprile 2014, e vari blog specialisti-ci, come quello del gruppo di espatriati siriani Le patrimoine archéologique sy-rien en danger. Tutti e sei i siti dichia-rati Patrimonio Mondiale dell’Umani-tà dall’UNESCO sono stati trasformati in teatro di scontri - la città vecchia di Aleppo, Damasco, Bosra, Palmira, il Krak dei Cavalieri con il Castello di Sala-dino e gli antichi villaggi romano-bizan-tini della Siria del Nord - e in luoghi di saccheggi di tesori archeologici (Palmi-ra soprattutto). Inoltre, in aggiunta alle ormai note razzie dei mosaici romani nel sito ellenistico di Apamea, avvenu-te già nel 2011-2012, va registrato un incremento sistematico dei saccheggi a partire dal 2013-2014 - depredazioni che secondo il direttore del Dgam Abdul Karim “sarebbero perpetrate da mafie internazionali provenienti dall’Iraq, dal Libano e dalla Turchia”. In particolare, due centri di primaria importanza come Mari e Dura Europos, sul medio Eufrate siriano, sono vittime di spoliazioni ad opera di bande di terroristi armati (dai 300 ai 500 uomini)che, nel primo, han-

no razziato e obliterato gran parte delle meraviglie architettoniche del palazzo amorreo mariota del III-II millennio a.C., mentre a Dura – lo splendido snodo commerciale in cui convivono tratti elle-nistici, partici e romani – l’80% dell’area archeologica ha subito devastanti sac-cheggi che spaziano dai Templi di Bel, di Azzanathkona, di Artemide, di Adone e di al-Hamiya alla casa di Lysias all’agorà e alle terme, dalla sinagoga alla domus ecclesiae cristiana. Assai recente, inol-tre, il fenomeno iconoclastico della di-struzione sistematica da parte di grup-pi islamici estremisti come Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) degli idoli pagani: proprio come i Buddha di Bamiyan vennero fatti esplodere dai ta-lebani in Afghanistan nel lontano 2001, le icone della tradizione dell’arte figura-tiva ellenistico-romana e cristiano-bi-zantina della Siria sono annichilite con colpi di mortaio e dinamite, in nome di una intransigente, quanto non filologi-ca, revisione del Corano. Per esempio, a soffrire maggiormente sono stati i bei ri-lievi scolpiti con motivi animali che de-coravano la necropoli romana di Shash Hamdan, nella provincia di Aleppo, ma

«In Egitto si deve purtroppo registrare un’accelerazione esponenziale dei saccheggi in questo ultimo anno. L’UNESCO è recentemente intervenuta lanciando un appello, di concerto con le dogane internazionali e l’Interpol, per intercettare centinaia di reperti depredati da siti archeologici e musei»

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anche le tombe rupestri di età romana ad al-Qatora, con le statue intagliate sul fianco della valle ridotte in miseri fram-menti. Ma assai inquietante è, infine, un fenomeno nuovissimo: l’installazione di campi di addestramento terroristici all’interno di celeberrimi siti archeolo-gici come la città protosiriana e amorrea di Ebla del III-II millennio a.C. –scoper-ta da Paolo Matthiae dell’Università La Sapienza di Roma; o ancora nel Castel-lo di San Simeone stilita, un venerabile luogo di culto della cristianità siriana. E

anche la costruzione di gallerie sotter-ranee nella città vecchia di Aleppo (Pa-trimonio UNESCO) da parte di terroristi ribelli, che minacciano di far esplodere la celebre cittadella medievale minan-done le sostruzioni. Uno scenario quindi apocalittico che difficilmente potrà re-stituire ai siriani, e a tutta l’umanità, la ricchezza di uno dei patrimoni culturali più straordinari di ogni tempo e luogo».

Esistono movimenti o organizzazio-ni di sensibilizzazione al tema della protezione del patrimonio culturale siriano?

«In questo scenario di instabilità e guerra, il Dgam siriano sta facendo del suo meglio per cercare di salvare il sal-vabile. Ma non è facile. Di concerto con il piano Emergency Safeguarding of the Syrian Heritage project lanciato dall’U-NESCO lo scorso 1 marzo 2014, con una sovvenzione dell’Unione Europea di 2,5 milioni di euro, il Dgam ha promosso già a partire dal 2013 una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubbli-ca nazionale e internazionale sul tema dell’importanza di salvaguardare il pa-trimonio culturale della Siria, non solo per i siriani ma per l’intera comunità in-ternazionale. Un piano che sta già dan-do i suoi frutti, con migliaia di cittadini siriani che collaborano fattivamente con i funzionari del Dgam per la tutela di siti e musei, ma che deve necessariamente essere implementato a livello politico

«Assai recente, inoltre, il fenomeno iconoclastico della distruzione sistematica da parte di gruppi islamici estremisti come Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) degli idoli pagani: proprio come i Buddha di Bamiyan vennero fatti esplodere dai talebani in Afghanistan nel lontano 2001»

con una cessazione delle ostilità e con un monitoraggio da parte delle doga-ne e dell’Interpol per frenare il flusso di reperti archeologici che sono rego-larmente contrabbandati attraverso le frontiere del paese. A questo proposito, desidero chiudere con un appello: tutti noi possiamo contribuire a fermare lo scempio dei saccheggi, evitando di ac-quistare oggetti siriani commercializza-ti sui siti telematici o nelle case d’asta: per esempio, una stele neoassira del IX secolo a.C., scavata illegalmente a Tell Sheikh Hamad, l’antica Dur-Katlimmu, è stata sequestrata dai funzionari del Dgam e dell’Interpol in una pubblica asta tenutasi da Bonhams a Londra, lo scorso 3 aprile 2014. È questa la via da seguire». �

MOHAMED NEGM | (Foto da Flickr di AslanMedia)

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TERZA PAGINA

Monia Marchionni

Quanto è difficile per un giovane artista riuscire ad entrare nel si-stema dell’arte? La si potrebbe

definire una mission impossible... L’im-presa è rischiosa, il cammino è lungo e per la maggior parte dei casi porta ad un sicuro fallimento. Le difficoltà ini-ziano subito, da quando un ragazzo fre-sco di diploma superiore e con attitu-dini artistiche comunica alla famiglia la ferma intenzione di andarsene di casa per iscriversi all’Accademia di Belle Arti. Lui avverte già le prime diffidenze in quegli sguardi scettici che ostacola-no, contrattano e infine accettano con riserva la sua scelta, considerandola una vera perdita di tempo e sperpero di denaro, cercando di evitare al figlio delusioni e giorni frustranti pieni di silenzio e voglia di riscatto all’insegna della creatività. Perché la “vita d’ar-tista è una vita da cani, senza una lira per settimane...” come cantava in una vecchia canzone il buon Sergio Cam-mariere e se non si è assolutamente certi di avere il talento e l’ostinazione per intraprendere questa strada, allora meglio rinunciare fin da subito, perché si parte già vinti. In Italia ci sono circa cinquantamila persone che si dichiara-no artisti, ma per esserlo davvero biso-gna entrare nel sistema dell’arte e ciò implica avere una galleria potente, che ti possa rappresentare. Vuol dire lavo-rare con curatori e critici di punta, ave-

re dei collezionisti che investono sul tuo lavoro – sono loro che determinano l’andamento del mercato con le proprie scelte – partecipare alle fiere d’arte e essere pubblicati sulle riviste di settore più note. Di quei cinquantamila arti-sti arriveranno al successo una decina scarsa e purtroppo alcuni di talento ri-marranno al palo per diversi motivi, tra i più comuni la difficoltà di autofinan-ziare la propria ricerca nell’attesa della grande opportunità o semplicemente perché nonostante i successi e i premi vinti hanno smesso di crederci.

Andy Warhol, visionario precur-sore dei tempi, già negli anni Sessan-ta era di questo avviso, lo si legge nel libro “Pop” in cui spiega nel modo più semplice cosa serve ad un artista per farcela: “Per avere successo come arti-sta bisogna esporre in una buona gal-

Professione artista. Gioie e miserie di un giovane talento

leria. È soprattutto una questione di marketing. Si vuole comprare qualcosa che aumenterà di valore e l’unico modo per farlo è affidarsi ad una buona gal-leria che trovi l’artista, lo promuova e faccia sì che il suo lavoro sia mostrato nel modo giusto alla gente giusta. […] Non importa quanto sei bravo, se non ti promuovono nel modo giusto, il tuo nome non sarà tra quelli che verranno ricordati”.

Le domande che ogni giovane do-vrebbe farsi per capire se l’arte è la sua strada - quella che Damien Hirst defi-nisce “la grande arte che non si può evi-tare, che ti blocca sui binari e che tocca chiunque” - dovrebbero essere: “Il mio lavoro è talmente intenso da scuotere la gente...sono interprete del mio tempo?” E ancora “Ci sono delle lacune imbaraz-zanti nella mia cultura? Ho vissuto lo zeitgeist di New York, Londra, Berlino, Parigi per assorbire quell’esplosione artistica, quella gigante bolla multicul-turale che Michelangelo Antonioni definirebbe il nuovo “blow up”?”. Non è un caso se Mark Kostabi in un’in-tervista dica che per avere successo basterebbe rispettare sei semplici re-gole: “fai grande arte; abita a New York; frequenta party; sii professionale; abbi una tua storia; trova dei bravi artisti che lavorino al posto tuo”. Dimentica-te dunque l’artista bohémien chiuso

«In Italia ci sono circa cinquantamila persone che si dichiarano artisti, ma per esserlo davvero bisogna entrare nel sistema dell’arte»

I parte

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ARTE | Un’installazione neon al Middlebury College nel Vermont, Usa (Foto di MTSOfan da flickr.com)

nel suo studio che odora di tremen-tina e olio, non è un ritratto veritiero, questo cliscé appartiene ad altri seco-li che non rispecchiano il nostro. Oggi l’artista è sì interprete sensibile che riesce a cambiare il suo modo di vede-re una linea, dunque in grado di rega-lare un’esperienza all’osservatore, ma è soprattutto promotore di se stesso. Si avvale di assistenti in studio, ha un suo ufficio stampa, non ripudia le nuo-ve tecnologie, tiene workshops e corsi universitari, è una persona di grande cultura e lui stesso collezionista. Ma cosa più importante, ha grande tenacia

e non molla mai, è all’altezza del ruolo che ha ottenuto all’interno della socie-tà e fa in modo di stringere le giuste collaborazioni. Ritornando a Damien Hirst, ad esempio, ancora studente alla Goldsmiths College incaricava gli amici di andare a prendere in moto o in taxi personalità come Norman Rosen-thal per portala alle sue prime mostre e molti secoli prima Leonardo Da Vin-ci, appena trent’enne artista affermato e alla ricerca di nuovi stimoli, inviò a Ludovico Sforza quello che oggi si po-trebbe definire un curriculum, una let-tera d’assunzione in cui elencava tutte le sue doti. Conquistò così il duca con il progetto della macchina bellica, la bombarda. Ciò che fin qui è stato scritto potrebbe far storcere il naso al lettore e mi rammarico se così fosse, perché non è un punto di vista, bensì una te-stimonianza per esperienza diretta di cosa vuol dire avere un obiettivo nella vita e perseguirlo con tutte le forze, di cosa vuol dire sentire l’arte come uni-ca necessità e non riuscire a vivere di arte, di conquistare anno dopo anno un certo riconoscimento senza però uscire ancora dall’anonimato. Le gioie e le mi-serie di un giovane talento sono amiche fidate della quotidianità. La paura di svegliarsi una mattina e capire di esse-re stati lasciati al palo per aver smesso di crederci è il peggior inganno che ci si possa infliggere.

Abbiamo chiesto a Giancarlo Po-liti, fondatore e storico direttore di Flash Art, la rivista d’arte contempora-nea più influente in Italia, di dare qual-che consiglio ai giovani che vogliono intraprendere la carriera. Nel suo stile pungente e senza retorica ci regala un ritratto disincantato dell’Italia.

Cosa deve fare un giovane artista per promuovere il proprio lavoro?

«Raggiungere la più alta qualità possibile, confrontarsi assiduamen-te con i propri colleghi e cercare una galleria che possa rappresentarlo. Ma come si fa a trovare la galleria? Occorre tanta fortuna e molta determinazione e perspicacia. Attraverso internet, ma so-prattutto grazie alle fiere: capire quale può essere la galleria affine al proprio lavoro. Quindi visitarla (mai in fiera) inviare documentazione. E Buona for-tuna».

Cos’è che invece non dovrebbe mai fare per non rischiare di “bruciarsi”?

«Partecipare a mostre o premi di basso profilo e inutili. E se si è ambizio-si, mai esporre in gallerie amatoriali».

Quante probabilità ha di farcela un’artista di talento che opera in provincia? Tu conosci degli artisti che pur vivendo lontani da Milano o Roma ce l’hanno fatta?

«A mio avviso le possibilità sono minime, quasi inesistenti. Diciamo del 5%. Personalmente non conosco al-cun artista che vivendo e operando in periferia sia riuscito ad emergere. Mi auguro ci possano sempre essere delle eccezioni».

Come può un artista non ancora en-trato pienamente nel mercato riu-scire a sopravvivere con il proprio lavoro?

«Tutti gli artisti italiani, ad ecce-zione di una ventina, non sono auto-sufficienti, dunque sono mantenuti da mamma e papà, dalla fidanzata che la-vora, oppure debbono cercarsi un lavo-

«Per avere successo come artista bisogna esporre in una buona galleria. È soprattutto una questione di marketing. Non importa quanto sei bravo, se non ti promuovono nel modo giusto, il tuo nome non sarà tra quelli che verranno ricordati (Andy Warhol)»

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ro. D’altronde Julian Schnabel faceva il lavapiatti a New York…»

Quali sono gli attori del sistema dell’arte che determinano il succes-so di un giovane artista?

«La qualità del lavoro direi. Poi i critici e curatori che lo seguono. Ma so-prattutto le gallerie e i collezionisti. E naturalmente i media che danno visibi-lità al lavoro».

Cosa pensi delle accademie italiane rispetto a quelle anglosassoni/ame-ricane?

«Le Accademie d’arte italiane sono un vero disastro. Ostaggio di artisti fru-strati e falliti, sono istituzioni obsolete, senza qualità. Gli stessi direttori, direi tutti, sono artisti inesistenti che do-vrebbero andare in pensione. Nelle Ac-cademie anglosassoni insegnano tutti gli artisti più interessanti: da Damien Hirst a Peter Halley, da John Baldessarri a Gerhard Richter, a suo tempo Joseph Beuys. E in Italia? Solo mediocri pittori in cerca di un posto di lavoro statale».

Qual è l’approccio dell’Italia nei con-fronti dell’arte contemporanea, cosa fa per favorirne la crescita e la divul-gazione?

«Io credo che le istituzioni, grazie al

«Le Accademie d’arte italiane sono un vero disastro. Ostaggio di artisti frustrati e falliti, sono istituzioni obsolete, senza qualità. Gli stessi direttori, direi tutti, sono artisti inesistenti che dovrebbero andare in pensione (Giancarlo Politi)»

livello di incultura e di clientelismo che le hanno sempre caratterizzate, non abbiano mai rappresentato un ricono-scimento. In Italia lo Stato sa fare solo danni. Dunque meglio se sta tranquil-lo».

I concorsi artistici, mi riferisco solo ai più noti, andrebbero aboliti oppu-re sono un buon trampolino di lan-cio?

«Io ritengo che alcuni premi, quelli riconosciuti come i più seri, siano una buona opportunità per mettersi in evi-denza per qualsiasi artista. Ma questi premi sono pochissimi. Gli altri sono delle vere prese in giro».

Quali pensi che siano le gallerie ita-liane più attente alla giovane arte?

«In questo momento nessuna. Per sopravvivere tutte le gallerie debbono rivolgersi al mercato, dunque tutte, chi più chi meno, si affidano al mercato se-condario. E tutte, vicino all’artista gio-vane, propongono opere di Calzolari, Bonalumi, Castellani, Dadamaino…»

Quando un artista dovrebbe render-si conto che sta vivendo solo un’illu-sione?

«Tutti gli artisti vivono un’illusione. Per qualcuno, il sogno si realizza, per altri, il 99.9%, resta una chimera».

La ii parte neL prossimo numero di fLp magazine

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First Line Press ha iniziato la sua avventura nel novembre 2012, un modo diverso di raccontare le storie dal mondo e dall’Italia. L’abbiamo fatto proponendo documentari (uno sui nuovi metodi repressivi in Europa “Repressione ai tempi della recessione” e l’altro sulla situazione dei prigionieri po-litici nei Paesi Baschi “Odissea Basca”), vari videoreportage (sul caso Veolia da Londra; sui manifestanti spagnoli per l’università pubblica; sul lavoro degli immigrati in Italia, sugli intricati scenari egiziani, sulla situazione curda, su problemi ambientali italiani), reportage fotografici (dagli scontri ad Atene a quelli di Roma, dal Kurdistan all’Egitto, fino alla Cisgiordania ed alle manifestazioni studentesche italiane) e un quotidiano approfondimento su cosa succede nel mondo.

La collana di ebook di First Line Press comprende al momento tre titoli: Latitudini dell’immaginario: memorie e conflitti tra la Jugoslavia e il Kosovo (una lettura dei conflitti nei Balcani sullo sfondo della dissoluzione della Jugoslavia, che fa della ricerca-azione il tessuto connettivo tra memoria e comunicazione); Vene Kosovare (racconti di come sia vissuto il Kosovo, un Paese sparito dai racconti mainstream ed in cui sono presenti ancora i silenzi dell’esclusione) e Idropoli (percorso per tutta la penisola di domande sui meccanismi economici che, a seguito dal referendum del giugno 2011, avrebbero dovuto intaccare il sistema idrico italiano). Gli ebook sono disponibili nell’area download del sito www.firstlinepress.org.

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