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ANTONIO CASOLARI

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Foto in copertina: Cellule vegetative e spore del batterio Clostridium botulinum

62A, a 1.250 ingrandimenti, in contrasto di fase. (Eseguita dall’autore).

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CALORE

Resistenza microbica al calore…5.. Metodi di determinazione della resistenza

termica ….6.. Inoculated pack-test…9..Elementi di calcolo della resistenza

termica …11.. Significato delle curve di sopravvivenza …16..Resistenza termica

e temperatura …20.. Fattori che condizionano la resistenza termica …25..Acqua

..27..pH…32..Tabella pH alimenti…33.. Termoresistenza delle cellule batteriche

vegetative …38.. Termoresistenza delle spore batteriche …44..Trattamenti di

sterilizzazione di riferimento…53.. Valori di Fo applicati agli alimenti …53..

Considerazioni teoriche …56..Aspetti termodinamici dell’inattivazione termica

dei microrganismi …60.. Le cinetiche non-esponenziali d’inattivazione termica

…69.. Osservazioni …81..Pastorizzazione…85..Sterilizzazione uht del latte

…91.. Termoresistenza dei batteri mesofili e termofili …99.. Termoresistenza

virale …107.. Prioni e sterilizzazione …110.

Radiazioni…119

Radiazioni ultraviolette …120.. Radiazioni ionizzanti …127.. Radiazioni e

sistemi biologici …130.. Effetti letali delle radiazioni …132.. Radioresistenza

microbica …135.. Fattori che condizionano la radioresistenza …137.. Modello

dell’inattivazione da radiazioni …140.. Gamma-resistenza microbica …142..

Impiego pratico delle radiazioni …147..Cl. botulinum e raggi gamma …149..

Confronto tra resistenza microbica al calore e alle radiazioni…149.. Il problema

delle 12D …150.. Code nelle curve di radioinattivazione …153.. Dosi frazionate

…153.. Trattamenti combinati calore –radiazioni …154.. Cellule vegetative

radioresistenti …155..Gamma resistenza dei virus …156.. Gamma resistenza

delle tossine microbiche…156.. Radicidazione …157.. Radurizzazione …159..

Radurizzazione e Cl. botulinum tipo E …160.

Disinfezione…162

Pareti e pavimenti …162..Soffitti, illuminazione, ventilazione, servizi…163..

Impianti…164.. Disinfettanti…165.. Cloro…169.. Iodio…171..Bromo…173..

Acqua ossigenata…173.. Acidi…173.. Alcali…174.. Quats…174.. Glutaraldeide,

etanolo…175.. Metalli pesanti…176.. Decontaminazione degli impianti…176..

Tensione superficiale…179.. Controllo contaminazione impianti…183.. Metodi

di valutazione della decontaminazione…186.. Cinetica della decontaminazione…

186.. Fattori che condizionano la velocità di rimozione dei contaminanti…188..

Classificazione dei detergenti…190.. Sequestranti e chelanti…195.. Disperdenti e

deflocculanti…195.. Applicazione pratica di detergenti e disinfettanti…196.

ANNESSI

Pastorizzazione LHT…200.. Parametri LHT…201.. Quality sterilization…207..

Rilevazione delle curve di penetrazione del calore e calcolo del trattamento di

pastorizzazione (F72°) e di sterilizzazione (Fo).

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RESISTENZA MICROBICA AL CALORE

La maggior parte delle specie microbiche è in grado di accrescersi in ambienti

con temperature prossime a 46°C. A temperature superiori, le cellule muoiono

con velocità tanto maggiore quanto più è elevata la temperatura dell'ambiente. I

microrganismi termofili si accrescono normalmente (steno-termofili) solo a

temperature superiori a 45°C (talvolta anche a partire da temperature prossime a

30°C = euritermofili) e comunque fino a 60-75°C.

Le cellule vegetative sono le particelle microbiche più sensibili alle temperature

elevate. Le spore dei lieviti e delle muffe sono quasi altrettanto resistenti delle

cellule vegetative; fanno eccezione le ascospore, che talvolta sono dotate di una

singolare capacità di resistenza (BEUCHAT, 1986). Le spore batteriche, sono le

unità microbiche di gran lunga più resistenti a tutte le condizioni ambientali

sfavorevoli alla sopravvivenza cellulare e quindi anche al calore.

La capacità dei microrganismi di sopravvivere in ambienti con temperature

superiori a quelle di sviluppo, può essere misurata con un soddisfacente grado di

precisione.

Fondamentalmente si è osservato che il grado di contaminazione di un mezzo

qualsivoglia diminuisce con l'aumentare del tempo di permanenza a temperature

sufficientemente elevate. La velocità di morte dei microrganismi può quindi

essere valutata seguendo la diminuzione del numero di cellule vitali all'aumentare

del tempo di trattamento. A tal fine, si eleva la temperatura di un ambiente

contaminato (quale acqua, latte, carne, succo di frutta, o siringa per iniezioni), e a

tempi crescenti si eseguono prelievi di materiale per la determinazione del

numero di cellule ancora vitali per unità di volume o di peso.

Le cellule microbiche non più vitali possono essere definite morte, inattivate,

distrutte, ma sono comunque morfologicamente indistinguibili da quelle ancora

vive, se osservate al microscopio ottico in contrasto di fase o in contrasto

interferenziale.

Per definizione, i microrganismi debbono essere considerati non più vitali

quando non sono in grado di moltiplicarsi in condizioni ambientali ottimali.

Tale condizione è determinata abitualmente utilizzando le tecniche colturali

canoniche. Talvolta, l'impiego di coloranti "vitali" può consentire rapide stime

della resistenza specifica (sono detti "vitali" alcuni composti che assumono

colorazioni differenti in cellule vitali e in cellule morte; la proporzione di unità

vitali può essere stimata al microscopio, oppure determinata con precisione per

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via spettrofotometrica). Tuttavia, i meccanismi biologici che sostengono tale

differenziazione (l'attività respiratoria, ad esempio, che determina la riduzione - e

quindi il cambiamento di colore degli indicatori di ossido-riduzione (blu di

metilene, TTC, ecc.; la denaturazione degli acidi nucleici, che modifica la

fluorescenza di composti di acridina che vi si legano; ecc.) non sono direttamente

e necessariamente collegati alla caratteristica vitale che interessa primariamente

sottrarre ai microrganismi. È infatti solo la perdita della capacità di

moltiplicazione, che interessa, come unico criterio della de-vitalizzazione

cellulare, indipendentemente dallo scopo per il quale si sottopone un ambiente

definito ad un trattamento letale per i microrganismi (impedire la trasmissione di

patogeni, preservare un prodotto dall'alterazione). Infatti, la sopravvivenza di

microrganismi isolati (un virus, una salmonella, un lattobacillo, ecc.) è in tutti i

casi pressocchè priva di qualsiasi interesse clinico, o tecnologico. Solamente i

microrganismi che conservano la capacità di accrescersi numericamente

rappresentano un pericolo reale, poiché la malattia, così come la degradazione di

un substrato, costituiscono entrambe comunque l'effetto ingeneratosi con

l'accrescimento numerico delle particelle coinvolte, indipendentemente dalla loro

patogenicità specifica. Una quantità importante di particelle microbiche può

originare reazioni patologiche rilevanti, anche se le particelle stesse sono morte.

Ma si tratta appunto sempre di quantità importanti, non di pochi elementi. Ed è

impedendo che pochi elementi diventino una moltitudine, che ci si protegge

comunque dalle malattie, come dalla degradazione dei materiali utili

all'alimentazione.

METODI DI DETERMINAZIONE della RESISTENZA

TERMICA.

La termoresistenza dei microrganismi è determinata con misure effettuate ad

almeno quattro temperature (Tc) che differiscano sufficientemente tra loro. Per le

cellule vegetative (e comunque le unità poco resistenti) sospese in substrati ad aw

elevato, tali temperature potranno differire di circa tre gradi centigradi, a partire

da valori di Tc che determinino la inattivazione del 90% delle unità in circa 20-30

minuti; in tal modo, alla temperatura più elevata, il 90% delle unità potrà essere

inattivato in tempi prossimi a 0.5 min (30 sec). Per le spore, le temperature di

trattamento potranno differire, più efficacemente, di circa sei gradi, a partire da

valori di Tc che determinino l'inattivazione del 90% circa delle unità, in 30 min

circa; in tal modo, alla temperatura più elevata, il 90% delle particelle sarà

inattivato in tempi prossimi a 0.5 min.

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1 - MEZZO RISCALDANTE. Le determinazioni di resistenza termica si

possono effettuare inizialmente utilizzando un dispositivo mantenuto a

temperatura controllata, quale un bagno ad acqua o ad olio, oppure un fornetto o

termostato a circolazione d'aria, comunque portati alla temperatura Tc,

necessariamente superiore alla temperatura ambiente Ta.

La termodinamica prevede che per effetto dello scambio termico che intercorre

tra ambienti a temperature differenti (l'isolamento del dispositivo a temperatura

Tc non potrà mai essere perfetto), il valore di Tc non sia costante ma oscilli

continuamente tra i valori di Tc+x e Tc-x, con "x" inoltre non costante nel tempo.

La "costanza" della temperatura Tc è relativa a una quantità di circostanze, tra le

quali (1) la capacità degli elementi termosensibili di avvertire come scostamento

dalla temperatura Tc, un valore di temperatura che sia pari a Tc-Tc/n, oppure

Tc+Tc/n, per valori di Tc/n ragionevolmente bassi; (2) la capacità degli elementi

riscaldanti e refrigeranti di contrastare con la necessaria velocità le variazioni di

temperatura; (3) l'efficienza dell'isolamento del dispositivo a Tc.

Particolare cura deve quindi essere dedicata all'ottenimento di condizioni

termiche di massima costanza, vista la limitata differenza tra le temperature di

trattamento. In condizioni soddisfacenti, le oscillazioni della temperatura di

trattamento saranno inferiori a Tc ± 0.2°C.

2 - MEZZO RISCALDATO. Qualunque substrato con temperatura Ts

immerso in un ambiente alla temperatura Tc>Ts, impiega un certo tempo per

raggiungere una temperatura prossima a Tc. Tale tempo dipenderà dalla

differenza Tc-Ts o gradiente termico; dalle modalità di trasmissione del calore

(conduzione, convezione, irraggiamento) nel mezzo riscaldato; dal volume del

mezzo da riscaldare e dai volumi rispettivi di quello riscaldante e del riscaldato;

dall'efficienza con la quale potrà determinarsi lo scambio termico (in funzione

dell'agitazione dei mezzi riscaldante e ricaldato, ad esempio); ecc.

Analoghi problemi riguardano il raffreddamento.

È necessario quindi mettersi in condizioni sperimentali che consentano di ridurre

al minimo tollerabile questi ritardi nel riscaldamento e nel raffreddamento, in

modo che sussistano le attese corrispondenze tra temperature e tra tempi di

trattamento.

In ogni caso, poiché generalmente non è possibile misurare direttamente la

temperatura raggiunta da ogni elemento contenente i microrganismi da saggiare,

per diversi motivi (ridurre la probabilità di inquinamento con microrganismi

diversi; ridurre la probabilità di diffusione/dispersione di patogeni nell'ambiente;

difficoltà o impossibilità di apprestare dispositivi idonei, e in numero sufficiente;

ecc.), è opportuno configurare condizioni sperimentali che consentano di

prevedere, con un margine tollerabile di incertezza, che il ritardo nel

raggiungimento della temperatura di trattamento, così come quello (anche se

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meno importante) di raffreddamento, sia ridotto a frazioni trascurabili dei tempi

letali per i microrganismi impiegati.

Buoni risultati ci si possono attendere impiegando volumi di liquido riscaldante

sufficientemente grandi rispetto alla quantità di materiale contaminato da trattare.

In tal senso, potranno essere privilegiate tecniche di trattamento che prevedano

l'impiego di piccole quantità di sospensioni microbiche, quali:

A - 0.01 ml in tubi capillari con 0.8 mm Ø int, 0.9 mm Ø est, 90 mm di

lunghezza;

B - 0.1-0.2 ml in piccole provette o fiale con Ø est di 5 mm ca.;

C - 1-3 ml in bustine di plastica trasparente, di circa 7*7cm (con meno di

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1 mm di spessore); immersi a piccoli gruppi (5-10 capillari; 5 tubi piccoli; 5-10

bustine, per ogni tempo di trattamento) in 10-20 L di liquido termostatato.

Molto impiegata (ma più critiche le condizioni operative), è la tecnica che

prevede di riscaldare anzitutto il mezzo nel quale si intende saggiare la

termoresistenza, e solo quando la temperatura è stabilizzata al valore voluto, di

aggiungere la sospensione microbica (sempre in quantità minima (0.5 - 1 ml,

rispetto a 0.5-1.5 L di substrato costantemente in agitazione), che in tal modo

dovrebbe raggiungere pressoché istantaneamente la temperatura di trattamento.

Particolarmente adatta a valutazioni di termoresistenza in prodotti alimentari è la

tecnica che prevede l'impiego di bustine. Infatti, i microrganismi possono essere

inoculati direttamente nei diversi substrati, purché riducibili in strato sottile;

possono essere trattati termicamente direttamente nel prodotto; dopo trattamento

le bustine sono raffreddate agevolmente e poste direttamente ad incubare in cella

termostatica. Le modificazioni indotte nel substrato dallo sviluppo microbico

(produzione di gas, con rigonfiamento delle bustine; accrescimento localizzato;

ecc.), sono agevolmente verificabili dall'esterno, data la trasparenza

dell’involucro. In sostanza, ci si può attendere una elevata verosimiglianza, in tali

condizioni, con quanto si verifica nella pratica industriale.

INOCULATED PACK-TEST

La termoresistenza può essere determinata anche in condizioni quasi del tutto

corrispondenti a quelle di pastorizzazione o sterilizzazione industriale. Una

valutazione di resistenza in condizioni operative del tutto analoghe a quelle

industriali è quellla detta dell’ “inoculated pack-test”-.

La tecnica del pack-test può essere usata vantaggiosamente sia (a) per individuare

i valori di termoresistenza di microrganismi diversi, direttamente contaminanti il

prodotto che interessa; sia (b) per verificare che un trattamento prescelto possa

rivelarsi soddisfacente, in relazione alle attese. Il pack-test può essere considerato

la miglior tecnica di determinazione della resistenza microbica – sia al calore, sia

alle radiazioni – poiché i microrganismi ‘danneggiati/inattivati ‘ sono nello stesso

ambiente che interessa trattare anche dopo il trattamento termico applicato. Sono

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particolarmente attendibili, poiché i valori di sopravvivenza che si ricavano dopo

magazzinaggio alle temperature previste, rappresentano le condizioni ‘reali’ nelle

quali verranno applicati i trattamenti di conservazione (pastorizzazione,

sterilizzazione) e magazzinaggio previsti per i singoli prodotti.

Nell’allestimento del pack-test si può prevedere di impiegare lotti di prodotto con

livelli diversi di contaminazione, ed esporli contemporaneamente ad ogni

temperatura di trattamento che si intende sperimentare.

Dopo il tempo di magazzinaggio previsto – almeno tre mesi a temperatura

ambiente, se si tratta di sperimentare un processo di sterilizzazione dei

microrganismi mesofili, oppure sette giorni a 55°C per valutare l’effetto del

trattamento nei confronti dei microrganismi termofili; oppure per una o poche

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settimane a temperatura di refrigerazione, se si tratta di un processo di

pastorizzazione – si rileva la frazione di contenitori ‘stabili’ e si valuta l’idoneità

dei trattamenti termici applicati. Il valore di Nt si calcola applicando la relazione

di Halvorson & Ziegler:

NË = - Ln (S%) (HZ)

In cui NË è la migliore stima del numero atteso di organismi vitali per ogni

singola unità (provetta, bustina, bottiglia, vasetto, scatola, ecc.), dopo il tempo di

trattamento Ë applicato.

Il valore di NË si ottiene direttamente anche dalla distribuzione di Poisson .

in cui [1-Po] corrisponde alla frazione di unità sperimentali che hanno ancora il

carattere (biologico, chimico) che interessa non sia più presente (inattivato dal

trattamento applicato) sul numero totale delle unità sperimentali assogettate al

trattamento, ossia la percentuale di unità ‘non pastorizzate’, ‘non sterilizzate’, e

quindi la frazione di unità sperimentali contenenti ancora microrganismi vivi, in

definitiva, è la percentuale di organismi sopravviventi al trattamento applicato.

Mentre il valore di Po rappresenta il n umero di unità sperimentali SENZA il

carattere che interessa (senza microrganismi sopravvissuti al trattamento

applicato) , sul totale delle unità sperimentali impiegate; e poiché Po è la

percentuale di campioni che non contengono mirorganismi vivi, Po equivale alla

percentuale di sterilità raggiunta col trattamento.

ELEMENTI DI CALCOLO DELLA RESISTENZA TERMICA.

Con la rappresentazione grafica dei risultati sperimentali che si ottengono

generalmente per esposizione dei microrganismi ad una temperatura letale, si è

osservato che disponendo in ordinata la concentrazione dei microrganismi ancora

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vitali dopo i tempi di trattamento riportati corrispondentemente in ascissa, si

ottengono delle curve a concavità verso l'alto, tipiche degli andamenti

esponenziali. In effetti, disponendo in ordinata non più il numero ma il logaritmo

del numero dei microrganismi ancora vitali dopo i tempi di trattamento indicati in

ascissa, si ottiene una retta.

Vale a dire che la relazione tra logaritmo dei sopravviventi e tempo di

trattamento, è lineare; o, con lo stesso significato, che la relazione tra

sopravviventi e tempo di trattamento, è logaritmica (o esponenziale; le due

definizioni non differiscono nella sostanza).

Tali curve sono denominate spesso indifferentemente curve di sopravvivenza o

curve di inattivazione, o curve di morte.

Come risultato di una valutazione della resistenza al calore per un

microrganismo qualsiasi, avremo che inizialmente, ossia prima del trattamento e

quindi al tempo to (t zero) il livello di contaminazione sarà No (N zero); dopo un

primo intervallo di tempo di trattamento alla temperatura T, che chiamiamo t1, la

contaminazione sarà scesa al valore N1. Sarà necessariamente N1<No, se la

temperatura T è una temperatura letale, ossia in grado di determinare la morte dei

microrganismi di cui si sta determinando la capacità di sopravvivenza al calore, o,

che è lo stesso, la velocità di morte termica. Dopo un secondo periodo di

permanenza alla temperatura T, che chiamiamo t2, il livello delle cellule vitali

sarà sceso ancora e avrà il valore N2, essendo quindi No>N1>N2, per to<t1<t2.

Dopo il tempo t3, il livello di cellule vitali sarà sceso ad N3, e così via.

Il valore del rapporto Nt/No (valore di N dopo il tempo t di trattamento), e quindi

N1/No, N2/No, N3/No, ecc., tende ovviamente a diminuire, visto che il numero di

cellule vitali Nt tende a diminuire con l'aumentare del tempo di trattamento t ad

una temperatura letale.

Dall’equazione generale della retta:

Yt/Yo = - k * t (1)

Deriva che:

Yt = Yo - k * t (2)

che rappresenterà i risultati che si ottengono in esperimenti del tipo indicato,

quando, tenuto conto che si ottiene una retta quando si mette in relazione con i

tempi di trattamento non il numero di cellule sopravviventi, ma il logaritmo del

numero di cellule, la (2) diventerà:

Log Nt = Log No - k' * t (3)

La relazione (3) potrà rappresentare ad esempio risultati di questo tipo:

6.5 = 7 - 0.1 * 5

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6.0 = 7 - 0.1 * 10

5.5 = 7 - 0.1 * 15

5.0 = 7 - 0.1 * 20

.................

10 = 7 - 0.1 * 60

in cui i valori del logaritmo decimale di Nt (6.5, 6, 5.5, 5, 4.5, etc.) sono ottenuti

dal logaritmo della contaminazione iniziale No = 107, meno il prodotto del tempo

di trattamento (5,10,15,20..) per la costante di velocità dell' inattivazione k' = 0.1 .

In realtà, i valori sperimentali di Nt non saranno mai così corrispondenti come

nell'esempio sopra, in cui sono stati ottenuti semplicemente per calcolo

dall'equazione:

Nt = 7 - 0.1 * t

che rappresenta la curva ipotetica di sopravvivenza di un microrganismo trattato

ad una temperatura Tc. Ma in condizioni sperimentali adeguate, i valori

sperimentali di Nt saranno distribuiti a caso attorno (circa per metà saranno

maggiori, e per metà minori) ai valori di Nt ottenuti con un'equazione del tipo (3).

Avendo a disposizione un numero adeguato di valori di sopravvivenza a tempi

crescenti di trattamento ad una temperatura Tc (ossia coppie di valori: ti, Ni), si

puo calcolare il valore dei due parametri che consentono di definire l'equazione

del tipo (3) che rappresenti tali dati (nti, nNi), mediante la tecnica di calcolo

statistico detta dei minimi quadrati (che rende minimo il quadrato della differenza

tra i valori previsti dall'equazione e quelli sperimentali).

In forma esponenziale, la (3) equivale a:

Nt = No * 10 k’ – t

(4)

Avremo così che al tempo t1, sarà:

N1 = No * 10- k’ * t1

(5)

e al tempo t2:

N2 = No * 10 – k’ * t2

(6)

cosicché, facendo il rapporto tra la (6) e la (5) si avrà:

N2 / N1 = No*10 –k’*t2

/No*10 –k’*t1

(7)

da cui:

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N2/N1 = 10 [-k’*(t2-t1)]

(8)

che in forma logaritmica equivale alla:

Log (N2/N1) = - k' *(t2-t1) (9)

ed alla:

Log (N1/N2) = k' * (t2-t1) (10)

da cui:

1/k' = (t2-t1) / (Log N1 - Log N2) (11)

Dalla (11) si ricava che quando N2 sarà 10 volte inferiore a N1, Log N1 - Log N2

sarà uguale a 1, cosicché:

1/k' = t2 - t1 = DT (12)

ed anche, combinando la (11) con la (12):

DT = (t2 - t1) / (Log N1 - Log N2) (13)

Il parametro DT è detto Tempo di Riduzione Decimale alla temperatura T, e

rappresenta infatti il tempo (t2-t1) di esposizione alla temperatura letale T

necessario per ridurre di 10 volte la concentrazione delle cellule vitali; o, se si

vuole, il tempo necessario per l'inattivazione del 90% delle cellule.

Come si ottiene dalla (12), il valore di DT è il reciproco della costante di velocità

k', quando la relazione tra t ed Nt è espressa mediante i logaritmi decimali.

La (13) consente di stimare DT da solo due valori di concentrazione cellulare.

Ad esempio:

D65°C = (24 - 0) / (Log 6*106 - Log 2*10

5)

= 24 / (6.78 - 5.3)

= 16.23

dove dopo 24 minuti di trattamento a 65°C la concentrazione cellulare iniziale di

6 milioni di cellule / g si riduce a 200000 unità per g di substrato, poiché il tempo

di riduzione decimale è di 16.23 minuti.

Nell'esempio seguente, sono presentati valori di sopravvivenza ipotetici, dopo

tempi crescenti di trattamento di un microrganismo non sporificato, ad una

temperatura letale prossima a 63°C, con usuale elaborazione per ricavare DT.

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Valori sperimentali Valori teorici

t Nt Log Nt Nt Log Nt

--min-----N/g----------------------N/g-------------

8 6.000.000 6.78 5.780.000 6.76

15 800.000 5.90 1.047.000 6.02

22 200.000 5.30 189.670 5.28

31 30.000 4.48 21.086 4.32

39 3.000 3.48 2.992 3.48

44 700 2.85 883 2.95

---------------------------------------------------

I valori teorici sono stati ottenuti impiegando l'equazione seguente

(calcolata mediante la tecnica dei minimi quadrati), per i valori sperimentali

riportati sopra:

Log Nt = 7.61 - 0.106 * t (coeff. di correlaz.: 0.996)

Il tempo di riduzione decimale risulta, come dalla (12), pari a:

1/0.106 = 9.42 minuti.

Una stima approssimata del valore di DT si può ottenere anche direttamente dal

grafico (invece che dall'equazione), che rappresenta la curva di sopravvivenza in

funzione del tempo di trattamento.

A tal fine si riportano in coordinate semilogaritmiche i valori di sopravvivenza

dopo i tempi di trattamento saggiati; quindi si traccia la retta che meglio interpreta

i punti sperimentali (i punti sperimentali debbono essere distribuiti pressocché

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equamente al disopra e al disotto della retta) (Fig. H1). Si scelgono due valori (S

e 0.1S) di sopravvivenza, sull'ordinata, che differiscano di dieci volte (una unità

logaritmica) e si tracciano, a partire da questi due punti, le due parallele

all'ascissa. Le due rette intercetteranno la curva di sopravvivenza nei punti tS e

t0.1S. Le due parallele all'ordinata, tracciate a partire dai punti S e 0.1S,

intercetteranno l'ascissa dei tempi di trattamento, nei punti tS e t0.1S,

rispettivamente. Il tempo di riduzione decimale sarà, ovviamente:

D(T) = t0.1S - tS

per t0.1S >tS.

SIGNIFICATO delle CURVE di SOPRAVVIVENZA

Dalle curve di sopravvivenza si ricava il primo dei due parametri fondamentali

che definiscono la resistenza microbica al calore: il tempo di riduzione decimale,

appunto. L'analisi del significato di questo parametro consente di definire meglio

il significato anche delle curve di sopravvivenza in generale (si assume per

semplificazione che le curve di sopravvivenza microbica a qualsiasi fattore

ambientale ostile, si possano considerare tutte, almeno agli effetti pratici

immediati, come esponenziali. Come si vedrà in seguito, la realtà è diversa. Ma il

riferimento all'esponenzialità è utile, almeno come pa-radigma).

La Tabella II è la rappresentazione di quanto ci si aspetta necessariamente da una

curva di inattivazione esponenziale, con tempo di riduzione decimale di D minuti

alla temperatura Tc:

Tabella II.

--------------------------------------------------

nD Nt Log Nt % S. % I.

--------------------------------------------------

0 100 000 5.0 100 0

1D 10 000 4.0 10 90

2D 1 000 3.0 1 99

3D 100 2.0 0.1 99.9

4D 10 1.0 0.01 99.99

5D 1 0.0 0.001 99.999

6D 0.1 -1.0 0.0001 99.9999

7D 0.01 -2.0 0.00001 99.99999

.. ..... .... ....... ........

10D 0.00001 -5.0 0.00000001 99.99999999

----------------------------------------------------

% S. = % Sopravviventi; % I. = % Inattivati.

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17

Si può osservare anzitutto che tale rappresentazione è corretta, indipendentemente

dal valore di D, di temperatura, di N, ecc.

Come si può rilevare, per ogni aumento del numero di D (= D minuti) nel tempo

di trattamento:

- la concentrazione di cellule vitali (N) diventa 10 volte minore (e

quindi il Logaritmo di N diminuisce di una unità);

- viene inattivato il 90% della popolazione delle cellule ancora vitali e

quindi la percentuale di inattivazione (%I) aumenta del 90% e quella dei

sopravviventi (%S) si riduce ad un decimo;

- sopravvive il 10 % della popolazione cellulare vitale prima del

trattamento.

Nella Tabella II, il numero N delle cellule vitali al tempo t diventa inferiore a uno

a cominciare da dopo 6D. Il significato di un valore di sopravvivenza inferiore a

uno è dibattuto. È fuori dubbio, che una cellula non può essere morta per il 90%

(N = 0.1), o per il 99.9999% (N = 0.000001), e vitale per la frazione restante. Si

potrebbe tuttalpiù immaginare un danno termico indotto su una frazione più o

meno estesa della popolazione di un tipo di molecole protoplasmatiche (le

proteine, ad es.). Ma il risultato che interessa, come indicato in precedenza, è di

carattere globale, unitario. Ossia una cellula o è in grado di riprodursi, o non la è.

Poco importerebbe che una cellula fosse ancora in grado di respirare, per ipotesi,

e quindi "parzialmente viva", se non fosse più in grado di moltiplicarsi. Perché

una cellula non più in grado di moltiplicarsi, è morta, agli effetti della

sterilizzazione.

L'interpretazione più accreditata, del significato da attribuire ai valori

frazionari di sopravvivenza, è di tipo probabilistico. Vale a dire che 0.1 cellula

sopravvivente per unità di riferimento (di peso o di volume), significherà

sopravvivenza di una cellula su 10 unità di riferimento (0.1 = 1/10); 0.001

sopravviventi, significherà una cellula sopravvivente ogni 1000 unità di

riferimento (0.001 = 1/1000); e così via; cosicché 10-6

sopravviventi (pari a Nt =

0.000001) significherà una cellula sopravvivente ogni milione di unità di

riferimento.

Per quanto riguarda le unità cui riferire il numero di cellule sopravviventi Nt, in

modo da tener conto di concentrazioni cellulari e non di numeri in assoluto, non

ci sono regole fisse. Si può esprimere il valore di Nt in numero di cellule per

grammo di substrato (Nt/g), o per ml (Nt/ml), o per litro, Kg, scatola, bottiglia,

gruppo di 24 scatole o bottiglie, per tonnellata, ecc.

Ciò che è importante, ovviamente, è che le unità impiegate nei calcoli, siano

consistenti.

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Si riporta di seguito un esempio di calcolo del tempo di trattamento necessario ad

una temperatura ipotetica Tc per pastorizzare latte contaminato con un

microrganismo che ha in latte un DTc = 2 minuti.

Si supponga che No/g, ossia il numero di microrganismi da distruggere

presenti in 1 ml di latte sia di No = 10.000/ml. Si supponga altresì che il latte in

questione sia confezionato in bottiglie da 2 litri; ne deriverà che sarà No =

10.000*2*1000 /bottiglia, vale a dire sarà No = 20.000.000/bottiglia. Per

calcolare il valore Tc del tempo necessario alla temperatura Tc per sterilizzare il

prodotto, occorre fare riferimento all'equazione (13), dalla quale si ottiene:

Tc = (t2-t1)= DTc * (Log N1 - Log N2) (14)

Considerando che prima del trattamento termico il valore di t1 zero, e che quindi

la concentrazione cellulare al tempo di trattamento zero (ossia prima del

trattamento termico) sarà No; e che dopo il trattamento termico di entità t, sarà Nt

la concentrazione di cellule sopravvissute; ne deriva che la (14) può essere più

vantaggiosamente convertita nella seguente:

Tc = t = DTc * (Log No - Log Nt) (15)

Inserendo nella (15) i parametri noti, si ottiene:

Tc = 2 * (7.3 - Log Nt) (16)

essendo DTc = 8 minuti e Log No = Log(20.000.000) = 7.3.

Il valore di Nt può essere scelto sulla base di considerazioni di diverso tipo. Il

minimo valore di Nt può essere considerato 0.9, oppure 0.999, o comunque un

numero immediatamente inferiore a 1, significando che il numero dei

sopravviventi deve comunque essere inferiore a 1 nella bottiglia considerata. In

tal caso la (16) diverrà:

Tc,0.9 = 2 *(7.3 -(-0.05))

= 2 *(7.3+0.05)

= 14.7

oppure:

Tc,0.999 = 2*(7.3 -(-.0004))

= 2*(7.3+0.0004)

= 14.6

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La sterilizzazione dell'unica bottiglia potrà essere ottenuta quindi in 15 minuti alla

temperatura Tc.

Tuttavia, nella pratica si producono (si intendono sterilizzare) abitualmente molte

unità.

Se, ad esempio, vengono prodotte soltanto 100 bottiglie, può bastare un tempo di

sterilizzazione (Tc) sufficiente a ridurre Nt = 0.001, ossia al valo-re di un

microrganismo sopravvivente ogni 1000 bottiglie (0.001= 1/1000).

La (16) diventerebbe quindi:

Tc,0.001 = 2*(7.3 -(-3))

= 2*(7.3+3)

= 20.6

Se vengono commercializzate 100.000 bottiglie, tale valore di Nt non baste-rà

più, poiché un Nt di 0.001 ci si aspetta che lasci in media 100 bottiglie non sterili,

su centomila, e quindi 100 bottiglie potenzialmente pericolose per il consumatore

(oltre che rappresentare un fallimento della affidabilità produttiva del produttore).

In tal caso quindi occorrerà comunque tenere in considerazione un valore di Nt

almeno di 0.00001 =1/100.000, cosicché si otterrà che il tempo di sterilizzazione

necessario sarà di:

Tc,0.00001 = 2*(7.3-(-5))

= 2*(7.3+5)

= 24.6 minuti.

Tuttavia, le incertezze connesse all'interpretazione del significato da attribuire a

valori di sopravvivenza inferiori all'unità, consigliano di abbondare un poco nel

rimpicciolire Nt, anche se nessuna indicazione precisa può sortire direttamente

dagli aspetti matematici della trattazione proposta dalla termobatteriologia

ortodossa.

Tra le soluzioni possibili, si può considerare ad esempio che in un anno si

producano poniamo 10.000 confezioni per 300 giorni lavorativi, pari a 3.000.000

di confezioni. Si può scegliere come riferimento appunto nessun sopravvivente

nei tre milioni di confezioni, ossia Nt = 1/3.000.000 = 0.0000003, cosicché si

otterrà, sempre dalla (16):

Tc,0000003 = 2*(7.3-(-6.5))

= 2*(7.3+6.5)

= 27.6 min.

In generale si ha che, per la pastorizzazione:

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- se i microrganismi che si intende distruggere non sono patogeni, è

sufficiente considerare valori di Nt pari a 0.00001 = 10-5

;

- se si richiede una buona protezione nei confronti di microrganismi

patogeni, si può fare riferimento alla produzione annua, cosicché Log Nt

diventa prossimo almeno a -7.

La “sterilizzazione” è un processo che comporta trattamenti termici più energici.

La sterilizzazione dei prodotti non acidi richiede infatti (come verrà specificato

successivamente) che il prodotto sia assogettato ad un trattamento termico in

grado di determinare almeno 12 riduzioni decimali delle spore del microrganismo

patogeno più resistente in assoluto, ossia il batterio Clostridium botulinum.

La conseguenza più rilevante, sotto il profilo teorico, che discende direttamente

dalla natura esponenziale delle cinetiche d'inattivazione termica dei

microrganismi, è strettamente connessa al problema della definizione del valore

più idoneo di Nt. Come si è visto, infatti, la probabilità di sopravvivenza si può

ridurre a valori molto piccoli, semplicemente aumentando il tempo di trattamento

(e quindi il numero di D). Ciò significa altresì, che se si accetta l'interpretazione

ortodossa della cinetica esponenziale dell'inattivazione termica dei microrganismi

tutti (virus, batteri, lieviti, muffe, ecc.), il valore di Nt può diventare infinitamente

piccolo, aumentando infinitamente il valore di t, qualunque sia il valore di No e di

k'; che sarà comunque, sempre diverso da zero, come risulta chiaramente

dall'equazione (4). Quindi la probabilità che una cellula sopravviva ad un

trattamento (termico, in questo caso) di durata grande quanto si vuole, ha pur

sempre un valore reale. Ne deriva immediatamente, che non ha senso il concetto,

spesso proclamato o accettato, di "sterilità". La sterilità è un concetto astratto,

nel senso che fa riferimento ad un fenomeno fisico-chimico (la distruzione dei

microrganismi), la cui descrizione compete esclusivamente all'ambito scientifico;

e quindi la sterilità può essere definita esclusivamente in termini probabilistici,

del tipo: la percentuale di campioni non contenenti cellule vegetative di patogeni

deve essere inferiore a 1/107 ; i campioni non sterili debbono essere in numero

inferiore a 1 su 1012

(ossia Nt = 10-12

), ma che in termini scientifici appunto non

trova alcuna corrispondenza con il significato convenzionale, non probabilistico,

del termine sterile.

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RESISTENZA TERMICA e TEMPERATURA

La velocità di inattivazione dei microrganismi (k') aumenta sempre

all'aumentare della temperatura; il tempo di riduzione decimale (DT = 1/k')

quindi, diminuisce all'aumentare della temperatura.

Si è rilevato sperimentalmente che la relazione tra il tempo di riduzione

decimale e la temperatura è usualmente logaritmica e del tipo:

Log DT = Log a - b * T (17)

dove "b" esprime la rapidità con la quale aumenta la velocità d'inattivazione

all'aumentare della temperatura.

La temperatura è generalmente espressa in gradi Centigradi; ma ancora molta

parte della letteratura, soprattutto anglosassone, fa riferimento ai gradi Fahrenheit

(°F = 1.8*°C + 32).

In forma esponenziale, la (17) diventa:

DT = 10a * 10

-b*T (18)

Dalla (18) si ha che alla temperatura T1 sarà:

DT1 = 10a * 10

-b*T1 (19)

e alla temperatura T2:

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DT2 = 10a * 10

-b*T2 (20)

Dal rapporto tra la (20) e la (19) si ottiene:

DT2/DT1 = 10a * 10

-b*T2 / 10

a * 10

-b*T1 (21)

da cui:

DT2/DT1 = 10[-b*(T2-T1)]

(22)

La (22) può essere espressa nella forma logaritmica:

Log DT2 - Log DT1 = -b * (T2-T1) (23)

dalla quale si isola facilmente "b":

b = ( Log DT1 - Log DT2 /(T2-T1) (24)

da cui:

1/b = (T2-T1) / (Log DT1 - Log DT2) (25)

Alle temperature alle quali Log DT2 è dieci volte inferiore a Log DT1, la

differenza dei due logaritmi sarà pari a 1, e quindi sarà:

z = 1/b = T2 - T1 (26)

cosicché:

"z" indica di quanti gradi deve variare la temperatura perché il tempo di

riduzione decimale sia 10 volte maggiore o minore.

Si può quindi porre la relazione:

0.1*D (T-z) = DT = 10*D (T+z) (27)

La conoscenza del valore di z completa, assieme a D, la definizione delle

caratteristiche di resistenza al calore dei singoli microrganismi.

Infatti, conoscendo almeno un valore di D(T) e lo z di un microrganismo sospeso

nel mezzo che interessa, si può calcolare molto semplicemente il tempo di

sterilizzazione per questo microrganismo, a qualunque temperatura.

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Posto, ad esempio, che valgano i seguenti valori:

No = 25.000; Nt = 0.00001; D90°C = 14; z = 10°C

si avrà che il tempo di sterilizzazione a 90°C, 90°C, sarà:

90°C = 14 * (4.4 + 5) = 131.57 minuti,

e poiché a temperature superiori di z °C il tempo di riduzione decimale

diminuisce di 10 volte, si avrà:

100°C = 1.4 * 9.4 = 13.157 min

ed anche, naturalmente:

110°C = 0.14 * 9.4 = 1.3157

120°C = 0.13157

130°C = 0.013157 min

come pure:

80°C = 140 * 9.4 = 1316 min

ossia circa 22 ore.

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24

Conoscendo quindi un valore di DT e lo z per i microrganismi che interessano, si

ottiene il tempo di sterilizzazione in modo immediato, per qualunque temperatura

differisca esattamente di z°C dalla temperatura alla quale è noto il D.

Se invece la temperatura per la quale si intende conoscere il tempo di steri-

lizzazione non è un multiplo intero di z, è necessario fare riferimento

all'equazione (22), dalla quale:

DTx = DTr * 10[(Tr-Tx)/z]

(28)

in cui DTx è il tempo di riduzione decimale incognito alla temperatura Tx

appunto; DTr invece è il tempo di riduzione decimale noto, a una qualsiasi

temperatura di riferimento Tr.

Dalla (28) si ottiene la relazione che intercorre tra tempi di sterilizzazione a

differenti temperature:

Tx = Tr * 10[(Tr-Tx)/z]

(29)

dove Tx e Tr sono sempre, rispettivamente, la temperatura per la quale si desidera

conoscere il tempo di sterilizzazione Tx, e quella di riferimento Tr, per la quale

già si conosce il tempo di sterilizzazione Tr.

Quindi, con riferimento all'esempio di cui sopra:

Tx = 131.57 * 10[(90-Tx)/10]

(30)

da cui si può ottenere il tempo di sterilizzazione a qualunque temperatura, come,

ad esempio:

121.1°C = 131.6 *10[(90-121.1)/10]

= 131.6 * 10(-31.1/10)

= 131.6 * 10-3.11

= 131.6 * 0.00078

= 0.1 minuti

oppure a 115°C:

115°C = 131.6 * 10[(90-115)/10]

= 131.6 * 10-2.5

= 131.6 * 0.0032

= 0.42 min

La relazione più generale che collega le diverse variabili che interessano, si

ottiene dalla (15) con la (29):

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Tx = DTr*(Log No - Log Nt)*10[(Tr-Tx)/z]

(31)

FATTORI che CONDIZIONANO la RESISTENZA

MICROBICA al CALORE

La capacità di resistere all'azione letale esercitata dal calore, è una proprietà

specifica. Le diverse specie microbiche hanno diversa resistenza termica. Si

ritiene abitualmente (ma non è stato sufficientemente dimostrato) che anche il

carattere termoresistenza sia distribuito normalmente tra i ceppi, all'interno quindi

della specie.

Differenze di maggiore rilevanza si possono riscontrare all'interno dei singoli

Generi e delle Famiglie di microrganismi.

La resistenza varia comunque in funzione delle condizioni fisiologiche delle

cellule e delle caratteristiche fisico-chimiche dell'ambiente.

Quando si intendono quindi definire dei parametri di sterilizzazione, si debbono

individuare le specie più resistenti, tra quelle che possono contaminare - e

soprattutto tra quelle che possono alterare - il substrato che interessa.

Il confronto della termoresistenza tra ceppi, specie, generi, famiglie, ecc.,

differenti è abitualmente effettuato sulla base del tempo di riduzione decimale

alla stessa temperatura. Non esiste, come rilevato più sopra, un parametro

attendibile che inglobi entrambi i tipi di informazione più importanti, D e z.

Ovviamente, in funzione del tipo di acquisizione che interessa raggiungere, si

dovrà tenere maggiore o minor conto del valore di z. Vale a dire che se interessa

valutare il tempo di pastorizzazione a 70°C, ad esempio, e sono noti i valori di

D70°C per i microrganismi che interessano, il confronto è presto fatto, e sarà

agevole individuare il microrganismo più resistente e quindi quello cui fare

riferimento nella definizione del parametro 70°C. Mentre qualora si intenda

pervenire alla definizione di a temperature piuttosto differenti da quelle alle

quali si conosce DTr, ossia il D ad una temperatura di riferimento, si dovrà

necessariamente tener conto dello z dei diversi microrganismi.

SPORE BATTERICHE. Le spore batteriche sono le particelle microbiche

provviste della maggiore capacità di resistenza all'inattivazione termica. Le

cellule vegetative sono molto più sensibili. Alla stessa temperatura, il tempo di

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riduzione decimale può differire di 100 milioni di volte, a favore delle spore

batteriche.

Le spore batteriche più termoresistenti sono circa 100 mila volte più resistenti

delle spore più sensibili.

I batteri che formano le spore dotate della maggiore resistenza appartengono alle

specie Bacillus subtilis, Bacillus stearothermophilus, Clostridium sporogenes

(spesso identificato con la specie prototipica denominata Putrefattivo Anaerobio

3679), Clostridium thermosaccharolyticum, Desulfotomaculum nigrificans.

Generalmente, le cellule vegetative hanno valori di z compresi tra 3 e 10°C. Le

spore batteriche, valori compresi tra 7 e 11°C. Nella pratica tecnologica, si

considera un valore di z = 5°C per le cellule vegetative (e quindi per la

pastorizzazione) e z = 10°C per le spore batteriche (in relazione alla

sterilizzazione). Le distribuzioni dei valori di z per i due gruppi di microrganismi

si approssimano infatti a quella normale, con gli z indicati, come valori medi

(CASOLARI, 1986).

Corrispondentemente, i valori di Q10 sono pari in media a 100 per le cellule

vegetative e Q10 = 10 per le spore.

(Per le reazioni chimiche, Q10 = 2-3).

I diversi microrganismi possono avere una termoresistenza molto diversa, in

funzione delle condizioni ambientali in cui si trovano.

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I fattori fisico-chimici che influenzano maggiormente la resistenza termica sono il

grado di idratazione del mezzo, il pH, e le caratteristiche specifiche.

ACQUA. La resistenza dei microrganismi al calore aumenta all'aumentare

della forza di legame cui sono assogettate le molecole d'acqua presenti

nell'ambiente.

Non è infatti la quantità d'acqua in assoluto a condizionare la termoresistenza.

Infatti, mentre in olio privo d'acqua la resistenza è elevata praticamente al

massimo grado, basta l'aggiunta dello 0.1-0.3 % di acqua per ricondurre i livelli di

termoresistenza ai valori che si osservano in acqua pura. Infatti, olio e acqua non

essendo miscibili, anche se in concentrazione molto bassa nella miscela, l’acqua è

praticamente del tutto ‘libera’, senza legami con le molecole dell’altro

componente della miscela. Si esprime correntemente questo concetto affermando

che la termoresistenza aumenta al diminuire dell'attività dell'acqua nell'ambiente.

ACQUA. L'attività di una sostanza è stata definita da Lewis e Randell (1961)

come il rapporto tra la sua fugacità in una condizione definita e la fugacità in

condizioni standard:

attività = f/fo

La fugacità dell'acqua, fw, può essere sostituita, a tutti i fini pratici, dalla

pressione parziale di vapore, visto che a temperatura ambiente il rapporto tra

fugacità e pressione (o coefficiente di fugacità: f/p) è poco diverso da uno. Ne

deriva così che l'attività dell'acqua, indicata con “aw”, può essere espressa dalla

relazione:

aw = fw /fwo = pw /pwo

in cui pw è la tensione di vapore della soluzione e pwo è la tensione di vapore

dell'acqua pura, nelle stesse condizioni di temperatura e pressione.

Poiché anche l'umidità relativa d'equilibrio ERH è data dal rapporto tra le due

tensioni di vapore (nel mezzo, e nell'acqua pura), ne deriva che i due valori sono

numericamente equivalenti:

ERH % = aw * 100

La legge di Raoult, applicabile alle soluzioni ideali, stabilisce la relazione che

intercorre tra le tensioni di vapore e la frazione molare dell'acqua:

pw / pwo = Wf

cosicchè l'aw sarebbe numericamente equivalente alla frazione molare dell'acqua:

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pw /pwo = Nw / (Nw + Ns) = aw

dove Nw e Ns sono ovviamente il numero di moli (o molecole) di acqua e di

soluto, rispettivamente. Quindi il valore di aw di un substrato qualsivoglia è

compreso tra uno e zero (1>aw>0);ossia, in assenza di soluto, quindi in acqua

pura, essendo Ns =0, l’aw (aw=Ns/Ns) è pari a uno; mentre in assenza di acqua

(aw=0/Ns), l’aw =0.

Nella pratica, peraltro, il valore di aw di una soluzione si discosta in diversa

misura dalla relazione di Raoult, sia perché il coefficiente di fugacità è

generalmente diverso da 1, per cui:

aw = ϑ * Wf

sia perché in soluzioni contenenti diversi tipi di soluti, le interazioni tra soluti non

sono trascurabili.

In soluzioni relativamente semplici, il valore di attività dell'acqua può essere

soddisfacentemente approssimato da diverse equazioni. Particolarmente utili sono

quella di Norrish (1966), applicabile a soluzioni di uno o pochi

non-elettroliti :

aw = Xa * exp(-K*Xs2 )

dove Xa e Xs sono le frazioni molari dell'acqua e del soluto, rispettivamente e K

una costante dipendente dal tipo di soluto; e l'equazione di Ross (1975):

aw = aw1 * aw2 * aw3 * ...* awn

applicabile a soluzioni contenenti n soluti, e dalla quale si ottiene che l'aw della

soluzione è pari al prodotto dei valori di aw di soluzioni contenenti ognuna i

componenti singoli della miscela. I valori di aw per soluzioni di diversi elettroliti

e non-elettroliti, in funzione della concentrazione, sono riportati nella letteratura.

Per i sistemi complessi quali gli alimenti, tali relazioni forniscono valori di aw

non molto dissimili dalla realtà quando uno o più soluti (sale, carboidrati) sono

contenuti a concentrazioni sufficientemente elevate da soverchiare l'effetto degli

altri componenti. Diversamente, il valore di aw deve essere determinato

strumentalmente.

Si può anche fare ricorso utilmente alle cosiddette isoterme di assorbimento. Per

ogni prodotto, è possibile infatti ricavare sperimentalmente la relazione

intercorrente tra aw e contenuto percentuale di acqua, a temperatura costante

(generalmente 25°C). Si ottengono curve sigmoidi, costituite caratteristicamente

(anche se non sempre) da tre parti, corrispondenti a diversi strati di idratazione:

1 - Ai minori contenuti di acqua e di aw, una prima parte, detta dello "strato

monomolecolare", è rappresentata dalle molecole d'acqua così strettamente

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vincolate ai gruppi polari da non poter essere allontanate nè con l'essiccamento,

nè con il congelamento.

2 - Una parte intermedia, nella quale di contro a modeste variazioni del

contenuto acquoso, si riscontrano importanti aumenti dell'attività dell'acqua, e che

corrisponde allo strato intermedio del guscio di idratazione, nel quale le molecole

d'acqua non sono più fortemente vincolate ai gruppi polari, ma ancora non sono

così libere da potersi aggregare a formare le strutture tipiche dell'acqua pura.

3 - Una terza parte, corrispondente ai valori più elevati di aw e di contenuto

acquoso, in cui l'aw aumenta di poco malgrado il notevole aumento del contenuto

acquoso. Tale comportamento è giustificato dal fatto che questa parte

dell'isoterma corrisponde agli strati di acqua che si allontanano progressivamente

sempre di più dai gruppi polari, e quindi a quelli che tendono sempre più ad

assumere una struttura che meno si discosta da quella dell'acqua pura. Si è in

presenza della cosiddetta "acqua libera", che è infine quella più disponibile per

tutti i fenomeni fisico-chimici e biologici.

Conoscere l'isoterma di assorbimento di un alimento - e di qualsiasi substrato - è

di pregiudiziale rilievo per ogni considerazione sulla sua stabilità chimica e

biologica.

L'acqua ha una straordinaria influenza nel condizionare la probabilità di

funzionamento dei sistemi biologici. Molte cellule sono costituite per più del 90%

da acqua; una cellula batterica tipica (E. coli, 70% circa di acqua) è costituita da

3-4*1010

molecole d'acqua e circa 109 molecole diverse (per gran parte - su base

molare - polari). Potendosi quindi considerare già una soluzione piuttosto

concentrata, la cellula batterica non può che essere particolarmente sensibile

all'alterazione della disponibilità acquosa dell'ambiente.

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L'aumento di termoresistenza che si determina con l’abbassarsi del valore di

aw può essere rilevantissimo.

Le cellule vegetative, che risentono ovviamente in misura maggiore dell'effetto

della disidratazione, possono acquisire, in ambienti ad aw basso, una

termoresistenza 100.000 volte superiore a quella posseduta in substrati con aw

elevato (quali acqua, latte, carne, ecc.). Il Saccharomyces cerevisiae, ad esempio,

che in ambiente umido ha una termoresistenza misurabile a 60°C, in ambiente

secco può mostrare valori di D126.7°C pari a 4-5 minuti, quindi circa 100 milioni di

volte superiore a quella in ambiente umido. Tale aumento di resistenza si riflette

sia sui valori del tempo di riduzione decimale che sullo z. Vale a dire che con la

disidratazione aumenta anche il valore di z, che può raggiungere i 20-50°C.

Anche la resistenza sporale aumenta al diminuire dell'aw e raggiunge valori

massimi intorno ad aw=0.3. In ambienti con aw inferiore a 0.3, la termoresistenza

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tende a diminuire. In linea generale si può ritenere che il DT aumenti di circa 10

volte per un abbassamento di aw di 0.2-0.3 unità. Le spore batteriche sono già di

per se stesse molto resistenti, e forse proprio perché - o forse anche perché - il

processo di sporificazione ha comportato una parziale disidratazione del

protoplasma. Ne consegue, che la resistenza in ambiente disidratato o comunque

a bassi valori di attività dell'acqua aumenta in misura importante per le spore

meno resistenti e di poco per quelle più resistenti. Infatti, la termoresistenza delle

spore del Cl. botulinum tipo E (D70°C=2-10 minuti) aumenta di più di 10.000 volte

con la disidratazione; mentre quella del B. megatherium (D100°C= ...) aumenta di

solo 3.000 volte e quella del B. stearothermophilus (D100°C intorno a 3.000 minuti)

di solo 10 volte circa.

In ambiente disidratato, acquista molta rilevanza il supporto sul quale si trovano

le spore. Si è osservato, infatti, che il D125°C delle spore di B. subtilis var. niger (in

ambiente ad aw= 0.2-0.4) varia da 8.6 a 102, 198, 318 minuti, a seconda che le

spore siano su acciaio inossidabile, carta, metilmetacrilato, resina epossidica,

rispettivamente. Ne risente anche il valore di z, che varia tra 12.9 e 21.4°C.

Particolarmente interessanti sono le variazioni osservate nella termoresistenza a

secco, in funzione della velocità dell'aria: valori di D124°C di 383 minuti in aria

ferma, si riducono a 216 minuti ad una velocità dell'aria di 0.04 m3/min, e a 169

min ad una velocità di 0.1 m3/min. Il valore di z diminuisce, nelle stesse

condizioni, da 55.5 a 28.4, a 17.5 °C.

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Termoresistenza delle spore di B. subtlis in aria ferma)

Termoresistenza delle spore di B. subtlis in flusso d’aria a 112 litri/min)

pH. Generalmente i massimi valori di termoresistenza si riscontrano nei

substrati con pH prossimo alla neutralità, almeno per i batteri. Lieviti e muffe

hanno la massima resistenza a valori di pH inferiori alla neutralità, e prossimi a

5.5 . Per i batteri – e in generale per ogni microrganismo - la resistenza

diminuisce sia a pH inferiori che a pH superiori a quello di massima resistenza,

anche se in modo asimmetrico. Con riferimento ai pH inferiori a quelli di

massima resistenza, si indica come regola generale (e quindi molto approssimata)

che il tempo di riduzione decimale delle cellule vegetative diminuisce di circa 10

volte per ogni diminuzione di 2 unità di pH. Per le spore batteriche vale la

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seguente relazione approssimata tra pH e tempo di riduzione decimale, per valori

di pH inferiori a 7:

DpH = DpH=7 *(.95 - 0.22*(7 - pH))

dove DpH è il valore di D al pH che interessa, e DpH=7 è il D a pH=7. Ne deriva che

D varia di dieci volte per una diminuzione di circa 3.8 unità di pH.

Le esperienze di XEZONES e HUTCHINGS (1965) con spore di Cl. botulinum

62A indicano che lo z non è influenzato in modo inequivocabile dal pH ambiente,

e comunque in misura modesta.

Nella tabella di seguito sonpo riportati i valori usuali di pH dei diversi alimenti,

come riportati nel software ‘Microbiofood’ (Casolari, 2000).

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ALIMENTI. La maggior parte degli alimenti ha aw prossimo ad 1, quindi

le differenze che si riscontrano nella termoresistenza microbica sono dovute

pressochè esclusivamente al diverso pH. Possono influire sulla termoresistenza i

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componenti lipidici, gli oli e i grassi animali, che in qualche modo possono

simulare le condizioni di disidratazione. Ma in ambienti a due fasi, i

microrganismi tendono comunque ad occupare quella acquosa; solo pratiche

tecnologiche di triturazione, omogenizzazione, possono indurre l'inglobamento

dei microrganismi nelle fasi grasse. Tuttavia, lo stato di normale idratazione dei

prodotti alimentari, non consente alla termoresistenza in oli o grassi di assumere

valori particolarmente elevati.

ALTRI

Particolarmente interessante il moltiplicarsi delle osservazioni sull’influenza di

brevi permanenze – shock di circa 30 minuti – a temperature immediatamente

superiori a quelle massime di sviluppo, sulla termoresistenza. Questi shock

termici possono aumentare la resistenza delle cellule vegetative di 2 – 20 volte.

Si è visto altresì che a base velocità di salita della temperatura verso i valori letali

della pastorizzazione, la termoresistenza aumenta in misura rilevante.

Osserevazioni di questo tipo sono finora state condotte con un numero poco

rilevante di microrganismi, ma rivestono certamente un interesse particolare,

anche se il fenomeno non fosse generalizzabile.

Nella Tabella seguente sono riportati gran parte dei valori di termoresistenza delle

cellule vegetative, in funzione dell’ambiente di trattamento – e quindi anche di

pH e aw - riportati nella letteratura. Nella Tabella successiva, sono riportati quelli

relativi alle spore batteriche.

Termoresistenza delle cellule microbiche vegetative.

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La Tabella è stata ottenuta mediante il software MicroBioFood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

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Resistenza termica delle spore batteriche.

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…………………………………………………………………………………… La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

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La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

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…………………………………………………….. La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

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CONSIDERAZIONI TEORICHE

La cinetica d'inattivazione termica delle particelle microbiche è più correttamente

espressa dalla relazione:

- dC/dt = k*C (32)

equivalente a:

- dC/C = k*dt (33)

che, integrata tra Co e Ct, che rappresentano rispettivamente le concentrazioni

cellulari iniziale e dopo il tempo di trattamento t, porta a :

Ct / Co = exp (- k*t) (34)

In forma logaritmica, la (34) diventa:

Ln (Ct/Co) = - k * t (35)

e siccome:

Ln (Ct/Co) = 2.303 * Log(Ct/Co)

si avrà, dalla (35):

Log (Ct/Co) = - (k / 2.303) * t (36)

da cui si ottiene la corrispondenza con il valore di D ottenuto precedentemente,

per via empirica, impiegando i logaritmi decimali:

DT = 2.303 / k (37)

Anche la velocità delle reazioni chimiche, generalmente aumenta all'aumentare

della temperatura. Il parametro che definisce la rapidità con cui avviene tale

variazione, detto coefficiente di temperatura, e indicato con Q10, e corrisponde a:

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Q10 = k(T+10) / kT (38)

La relazione che intercorre tra il valore di Q10 e lo z è la seguente:

z = 10 / Log Q10 (39)

e quindi anche:

Q10 = 1010/z

(40)

La relazione tra velocità di reazione k e temperatura è data, nella cinetica

chimica, dalla equazione di Arrhenius:

K = A * exp(-Ea/R*T) (41)

in cui A è detto fattore di frequenza o pre-esponenziale, Ea rappresenta l'energia

d'attivazione, R è la costante universale dei gas e T è la temperatura assoluta

(°K).

Dalla (41) ci si aspetta, che alla temperatura T1, sia:

k1 = A * exp(-Ea/R*T1) (42)

e alla temperatura T2:

k2 = A * exp(-Ea/R*T2) (43)

con k2>k1, ovviamente.

Facendo il rapporto tra la (42) e la (43):

k1/k2 = A*exp(-Ea/R*T1)/A*exp(-Ea/R*T2) (44)

da cui:

k1/k2 = exp(-Ea * (1/T1 -1/T2)/R) (45)

e in forma logaritmica:

Ln(k1/k2) = -(Ea/R)*(T2-T1)/(T2*T1) (46)

Poiché dalla (37) si ha che:

k = 2.303/DT (47)

dalla (46) si ottiene:

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Ln(DT2/DT1) = -(Ea/R)*(T2-T1)/(T1*T2) (48)

da cui:

Log(DT2/DT1) = -(Ea/2.303*R)*(T2-T1)/(T1*T2) (49)

Ponendo:

z = 2.303*R*T2*T1/Ea (50)

e cambiando di segno alla (49), si ottiene:

Log (DT1/DT2) = (T2-T1) / z (51)

vale a dire:

z = (T2-T1) / (Log DT1 - Log DT2) (52)

come dalla (24).

La (50) rivela che, dalla cinetica chimica, il valore di z si può considerare

pressoché costante solamente in un ristretto intervallo di temperatura. Ai fini

pratici si può ritenere che z aumenti di circa un grado per un aumento di

temperatura di circa 20°C, almeno per le temperature che interessano nella

pastorizzazione e nella sterilizzazione dei prodotti alimentari, e quindi per

temperature comprese tra 60 e 150 °C.

Anche il valore di A nella relazione di Arrhenius (41) varia con la temperatura.

Dalla teoria delle velocità assolute di reazione (Eyring), di ha:

k = k" * (K*T/h)*Kc (53)

dove k è la costante di velocità della reazione (di inattivazione microbica, nel ns.

caso) alla temperatura T (°K); k" è il coefficiente di trasmissione (abitualmente

posto pari a 1); K è la costante di Boltzmann e vale

1.38*10-16 erg/grado

; h è la costante di Planck: 6.624*10-27

erg.sec; kc è la costante

di equilibrio.

La costante kc può essere espressa in termini di energia standard di attivazione

¤G:

kc = exp (-¤G / R*T) (54)

e poiché:

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¤G = ¤H - T *¤S (55)

in cui ¤H è l'entalpia di attivazione e ¤S è l'entropia di attivazione, la (53)

diventa:

k = (K*T/h) * exp(¤S/R) * exp(-¤H/R*T) (56)

che è analoga alla relazione di Arrhenius, se si tien conto che:

exp(-¤H/R*T) ÷ exp(-Ea/R*T) (57)

quando Ea >> R*T, visto che:

¤H = Ea - R*T (58)

Quindi, dalla (41) e dalla (56) si ha:

A = (K*T/h) * exp(¤S/R) (59)

Ne deriva così che A varia direttamente con la temperatura T.

Il valore dell'energia di attivazione Ea di Arrhenius può essere ottenuta dalla

(49):

Ea = Log(DT1/DT2)* 2.303*R*T1*T2/(T2-T1) (60)

oppure dalla (46):

Ea = Ln (k*T2/k*T1)*R*T1*T2/(T2-T1) (61)

Dalla (58) si può così ottenere il valore di ¤H, quindi dalla (56) il valore di ¤S:

¤S = R*( Ln(2.3/DTc)-Ln(K*T/h) )+¤H/T (62)

e dalla (55), quello di ¤G.

Malgrado si riscontrino nella letteratura analisi delle cinetiche d'inattivazione

microbica che si spingono fino ad individuare i valori di Ea, ¤G, ¤H e ¤S per le

singole specie, si può ritenere tale presunto approfondimento del tutto inutile,

vista la mancanza di qualsiasi relazione ragionevole tra il valore di tali parametri

e il significato che si vorrebbe loro attribuire (CASOLARI, 1986).

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60

ASPETTI TERMODINAMICI DELL'INATTIVAZIONE

TERMICA DEI MICRORGANISMI.

La distribuzione dei valori di zeta per le spore batteriche si può considerare

simmetrica attorno ad un valore medio di circa 10, con il 60% dei valori

compreso all'incirca tra 5 e 15°C.

Per le cellule vegetative e le particelle comunque meno resistenti al calore, i

valori di zeta si concentrano attorno a circa 5°C; ma sono distribuiti

asimmetricamente attorno a tale valore, con estensione verso zeta più elevati, che

possono raggiungere i 16°C.

Apparentemente, i Bacillus hanno zeta leggermente inferiori ai Clostridium (z

medio di 9.7 per i Bacillus, rispetto ad uno zeta medio di 10.45 per i Clostridium).

Ma tale differenza è con ogni probabilità connessa, piuttosto che al Genere, alle

caratteristiche termiche. Si può riscontrare infatti che più del 75% dei valori di

zeta riportati nella letteratura sulla termoresistenza degli sporigeni, riguarda

organismi mesofili, e lo zeta medio risultante è di 10.61; mentre il restante 25%

circa di valori di zeta è dovuto ai termofili, sia Bacillus che Clostridium o

Desulfotomaculum, con zeta medio di 8.17. In effetti, le osservazioni di Warth

(1978) testimoniano che la termoresistenza aumenta all'aumentare della

temperatura di sviluppo, e quindi dalla mesofilia alla termofilia.

Come è noto, nella cinetica chimica il coefficiente di temperatura usuale è il Q10,

che indica di quanto aumenta la velocità di reazione KT per un aumento di 10°C:

Q10 = KT+10 / KT (63)

Generalmente il valore di Q10 è prossimo a 2-3; vale a

dire che alla temperatura T+10°C la velocità delle reazioni chimiche è

generalmente 2-3 volte superiore alla velocità che si osserva alla temperatura T.

La relazione tra Q10 e z è la seguente:

z = 10 / Log Q10 (64)

e quindi anche:

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61

Q10 = 1010/z

(65)

Ne deriva che ai valori di riferimento dello z per la distruzione delle cellule

vegetative e delle spore, corrispondono valori di Q10 pari a :

per z = 5, Q10 = 100

per z = 10, Q10 = 10

Entrambi i valori di Q10 sono nettamente superiori a quelli usuali in cinetica

chimica.

Verrebbe forse da pensare che all'origine di una tale differenza vi possa essere un

maggiore contenuto entropico nelle particelle biologiche e comunque nei

materiali biologici, più in generale. Tuttavia, se si definiscono meglio le

caratteristiche termodinamiche della distruzione termica dei microrganismi, ci si

scontra con tutta una serie di evidenze apparentemente inconcigliabili con il buon

senso.

Energia d'attivazione di Arrhenius, Ea. Come si è visto precedentemente

dalla relazione (50), il valore di Ea si può ottenere direttamente dal valore di z:

Ea = 2.303*R*T1*T2 / z (66)

Considerato che la termoresistenza delle cellule vegetative è misurabile

correttamente a temperature comprese tra circa 50 e 80°C, e che gli zeta riportati

nella letteratura sono infatti ottenuti per la quasi totalità nello stesso intervallo di

temperatura, si possono calcolare i valori limite attesi dalla (66) per temperature

di 50-55°C, e 75-80°C (ricordando che T1 e T2 sono temperature in °K),

ottenendo, per un valore medio di z = 5°C:

per T1=323.15 e T2=328.15°K :

Ea = 97 050.6 cal/mole

= 406 205.4 J/mole

per T1=348.15 e T2=353.15°K:

Ea =112 524.6 cal/mole

= 470 971.6 J/mole

La termoresistenza delle spore batteriche è misurabile correttamente in un

intervallo di temperatura più ampio e a temperature comprese generalmente tra 90

e 130°C.

Ne deriva che, facendo lo stesso calcolo per le coppie di temperature di 90-100°C

e 120-130°C, ed utilizzando uno zeta di 10°C, si otterranno i valori:

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62

per T1=363.15 e T2=373.15°K:

Ea = 62 009.9 cal/mole

= 259 542.6 J/mole

per T1=393.15 e T2=403.15°K:

Ea = 72 529.8 cal/mole

= 303 573.7 J/mole

Quindi i valori di Ea per le cellule vegetative (particelle più sensibili al calore)

sono comunque superiori a quelli delle spore batteriche (elementi più resistenti al

calore). Questa è una prima apparente anomalia. Ci si aspetterebbe infatti che le

spore, essendo più resistenti al calore, debbano richiedere maggiori valori di Ea,

per la distruzione. Se non altro perché dalla distribuzione di Boltzmann

dell’energia, semplificata:

nEa/n = exp(-Ea/RT) (67)

ci si aspetta che maggiori densità di molecole con energia elevata si riscontrino ad

alte temperature piuttosto che alle temperature (minori) di inattivazione delle

cellule vegetative; e quindi le molecole coinvolte primariamente nel fenomeno

dell'inattivazione sporale richiedano maggiore energia per degradarsi. Il che non

sarebbe poi illogico, infatti. Invece, la termodinamica classica ci indicherebbe che

occorre maggiore energia per la distruzione degli organismi più sensibili al

calore.

Ma di illogicità ce n'è un certo numero.

Si consideri il valore di Ea = 97 050.6 cal/mole per le cellule vegetative.

Applicando la (67) al valore di T2 considerato nel calcolo precedente, ne deriva

che la frazione di molecole con tale energia è pari a:

nEa/n = exp (-97050/652)

= 2.3 *10- 65

vale a dire che ci si deve attendere una molecola con tale energia ogni 1040

moli

all'incirca, pari a circa 1051

g di cellule (una mole di cellule batteriche pesa

all'incirca 1011

g).

Le molecole essenziali alla vitalità cellulare sono presenti nel singolo

microrganismo alla concentrazione all’incirca di 10-23

(DNA) e 10-17

(proteine)

moli. Nel primo caso ci si potrà aspettare quindi una molecola di DNA con

energia letale Ea = 97 Kcal/mole ogni 1040

moli di cellule, vale a dire ogni 1023

*

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63

10-12

* 1040

= 1051

g circa di cellule; nel secondo caso, una molecola di proteina

con energia Ea ogni 1034

moli di cellule, ossia ogni 1045

g di cellule, ossia una

massa dieci volte superiore a quella stimata per la nostra galassia.

Alla maggiore temperatura T2=353.15°K, si ottiene, essendo R*T =

1.987*353.15 = 702:

nEa / n = exp(-112 525/702)

= 2.4 * 10-70

Anche se si considera il valore meno elevato di Ea = 62 kcal/mole, ottenibile per

le spore, la frazione di molecole con tale energia risulta:

nEa/n = exp (-62000/742)

= 5 * 10-37

e quindi una molecola con tale energia ogni circa 1013

moli, pari a circa 1013

*

1011

= 1024

g di spore.

Si consideri, che con la sterilizzazione di 100 mila scatole, al giorno, da 100 g di

prodotto contenente 100.000 spore per g, si ha a che fare con solo 1 g di spore

batteriche. Quindi, solo sterilizzando ogni giorno 100 mila scatole da 1kg, con

una contaminazione di un miliardo di spore/g – ossia costituite solamente da

spore batteriche - ininterrottamente dall'inizio del tempo, posto a 13.7 miliardi di

anni fa, si sarebbe agitata una sola molecola con tale valore Ea, una volta ogni

diecimila bigbang.

Valori ancora più ridotti della probabilità nEa/n = 4.8*10-40

si ottengono con il

più elevato valore di Ea e di T2 proposto per le spore batteriche.

L'assurdità di tali risultati è esageratamente evidente.

Ib - Entropia d'attivazione e Legge di compensazione.

Dalla relazione (56), che deriva direttamente dalla teoria assoluta di reazione, si

può ottenere:

¤S# = R(Ln k - Ln(R*T/N*h) + Ea/R’ *T) (68)

dove ¤S è l'entropia di attivazione, R = 8.3*1017

erg/mole/°K , N è il numero di

Avogadro, h è la costante di Plank (6.624*10-27

erg/sec), k è la costante di

velocità dell'inattivazione, R’ = 1.987 cal/mole.

Ne deriva che il valore di ¤S si approssima a 200 cal/mole/°K (circa 880

J/mole/°K) per i microrganismi sensibili al calore, mentre rimane su valori

intorno 90 cal/mole/°K (circa 380 J/mole/°K) per le spore batteriche

termoresistenti.

La struttura della (68) è tale da corrispondere in pratica alla seguente:

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¤S = B + Ea/T (69)

che è la cosiddetta Legge di compensazione, in cui il valore di:

B = R(Ln k - Ln(R*T/Nh)).

Poiché la diversa temperatura di inattivazione è ininfluente sul valore di "¹" (dove

T compare come logaritmo), si può senz'altro ritenere che il valore di ¤S sia

sostanzialmente condizionato solo da Ea, e in particolare sia tanto più elevato,

quanto maggiore è il valore di Ea.

Si può rilevare quindi anzitutto che la "legge di compensazione" non è altro

che la relazione fondamentale (68) della teoria assoluta di reazione, in forma

differente, e quindi non ha significati aggiuntivi.

(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, Physiological models in Microbiology, Vol. II,

CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

Inoltre, se sono richiesti più elevati valori di Energia d'attivazione, per

determinare più rilevanti variazioni di entropia, allora ci si dovrebbe aspettare un

minore livello di entropia nelle particelle termosensibili, piuttosto che nelle più

resistenti. Ma come ci si può aspettare un maggiore contenuto entropico nelle

spore, che sono cellule meno idratate e ad un livello di organizzazione molecolare

più complesso? In ogni caso, posto che l'insieme delle reazioni che portano alla

morte termica delle cellule siano dello stesso tipo, sia nelle cellule termosensibili

sia nelle termoresistenti, i minori valori di Ea che richiederebbe l'inattivazione

delle spore - e la minore variazione di entropia che ne conseguirebbe - dovrebbero

comportare una maggiore "distruttibilità" delle particelle termoresistenti, rispetto

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a quelle termosensibili. Dalla equazione di distribuzione dell'energia (67), infatti,

ci aspettiamo che minore è il valore di Ea, minore è la temperatura alla quale è

più probabile che le molecole possiedano tale energia. Ma è proprio il contrario di

quanto accade con le particelle termoresistenti, che sono distrutte "solamente" a

temperature elevate e comunque superiori a quelle sufficienti all'inattivazione

delle particelle termolabili. L'opposto vale ovviamente per le particelle sensibili

al calore, che sono distrutte a bassa temperatura, mentre le loro molecole

coinvolte nel processo dovrebbero possedere valori talmente elevati di energia

d'attivazione, che la probabilità che siano raggiunti tali livelli alle relativamente

basse temperature di inattivazione, è pressoché nulla.

In effetti, la relazione (67):

nEa/n = exp (-Ea/R*T)

indica in modo preciso che minore è il valore di Ea, maggiore sarà la probabilità

nEa/n che una molecola possieda tale energia Ea. Indipendentemente dalla

temperatura. E la velocità di reazione è ovviamente in relazione con tale

probabilità. In effetti, a minori valori di Ea ci si aspetta che corrispondano

maggiori valori della costante di velocità delle reazioni, come si ha

dall'Arrhenius:

k = A * exp (- Ea/R*T)

Vale a dire che alla temperatura qualsiasi T, è tanto più probabile che avvengano

quelle reazioni che richiedono valori di Ea meno elevati.

A minore valore di Ea, farà riscontro anche una minore variazione di entropia ¤S,

senza che si invertano i riferimenti logici. Purché i minori valori di Ea e di ¤S

corrispondano pur sempre a velocità di reazione k misurabili a temperature

relativamente basse.

Ma così invece non è.

Dalla relazione (66) ci si aspetta che il valore di Ea diminuisca all'aumentare del

valore di z. Come si è visto precedentemente, la termoresistenza microbica tende

regolarmente ad aumentare con il diminuire della quantità d'acqua nell'ambiente

e/o con il diminuire del valore di attività dell'acqua; e comunque in ambiente

disidratato. Tale aumento di resistenza si manifesta con un innalzamento del

tempo di riduzione decimale alle temperature usuali per le diverse specie

microbiche, ed anche con un aumento, talvolta sorprendente, del valore di zeta.

Mentre, infatti, lo z dei batteri sporigeni è prossimo a 10°C, come s'è visto, in

ambienti ad aw elevato (aw > 0.90), in ambienti disidratati può raggiungere valori

di 20-40°C. Si ripresenta quindi l'ambiguità, analizzata precedentemente nel

confronto fra valori di Ea e ¤S per le particelle termolabili e per quelle

termoresistenti: a maggiore termoresistenza (sia spore batteriche che cellule

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66

vegetative, ma in ambienti disidratati, rispetto ad ambienti umidi) fanno riscontro

valori minori sia di Ea, sia di ¤S.

Quindi, si ripresenta l'apparentemente illogica evenienza di una minore

probabilità di inattivazione (maggiore resistenza termica) combinata tuttavia con

valori dell'energia richiesta dal processo, che sono minori di quelli attesi in

condizioni più favorevoli all'inattivazione (ambiente umido).

Infatti, per la distruzione delle spore del PA 3679 in ambiente secco bisogna

raggiungere temperature intorno ai 160°C (D160=3; z = 20°C). Ne deriva che il

valore di Ea sarà di circa 40 945.7 cal/mole (171 378.2 J/mole), e quello di ¤S=

42 cal/mole/°C circa.

Dunque i valori più bassi di Ea e ¤S, sono per le particelle più termoresistenti.

Ma di quanto i valori usuali di Q10, z ed Ea sono inconciliabili con la funzione di

distribuzione dell'energia, che rimane pur sempre un punto fermo irrinunciabile?

Massimo valore accettabile di Q10.

Dalle relazioni precedenti si ottiene che:

Ea = a * Ln Q10 (70)

Posta la probabilità che alla temperatura T vi siano molecole con energia

superiore ad Ea, pari a PEa, si può collegare la (70) con la (67), ottenendo:

PEa = exp (a * Ln Q10/R*T) (71)

Perché una reazione avvenga alla temperatura T2 ci si può aspettare

ragionevolmente che debba esservi una molecola con l'energia necessaria, nella

quantità totale di molecole (iN) presenti nell’ambiente che si considera, quindi il

valore minimo di PEA = mPEa dovrà essere:

mPEa = 1 / iN (72)

dove "i" è il numero di moli di reagente nella soluzione ed N è il numero di

Avogadro.

Poiché il valore di mPEa sarà maggiore alla maggiore temperatura T2 considerata,

si avrà:

mPEa = (1/iN) = exp(-a*Ln Q10 / (R*T2) ) (73)

e siccome:

a = 0.1 * R + T1 * T2

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67

si avrà:

Ln (1/iN) = - 0.1*T1*Ln Q10 (74)

cosicché il valore massimo di Q10 = MQ10 sarà:

MQ10 = (iN)10/T1

(75)

Poniamo che in ognuna delle particelle considerate vi siano in media 1011

legami

chimici che possono essere

coinvolti nell'inattivazione cellulare, e che si operi con una quantità di cellule pari

a 1 Kg. Si otterrà un numero di legami chimici critici pari a circa 1026

, ossia di

circa mille moli. Alle temperature di 50 °C (per le particelle termolabili) e di

100°C (per quelle termoresistenti) si otterrà, che a 50°C (323.15°K):

MQ10 = (6*1026

)(10/323.15)

= 6.74

e a 100°C (373.15°K):

MQ10 = (6*1026

)(10/373.15)

= 5.22

(i valori corrispondenti di zeta sono 12.1 e 13.9, rispettivamente).

Quindi circa il 98% dei valori di Q10 riportati per l'inattivazione termica dei

microrganismi, sono superiori a quelli massimi ragionevolmente tollerabili.

Si può calcolare che i valori di Q10 pari a 2-3, che sono più tipici delle cinetiche

chimiche, si possano ottenere in soluzioni contenenti circa 10-6

, 10-12

moli di

reagente (i = MQ10 (T1/10))/N

).

(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical models in Microbiology.Vol. II,

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68

Physiological models in Microbiology, Vol. II, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

Minimo valore accettabile di “z”

Si può calcolare anche il valore minimo di zeta (zm)giustificabile. Si ha dalla

(75):

(iN)(10/T1)

= 1010/zm

e quindi:

zm = T1 / Log(iN) (76)

poste le stesse condizioni (iN=6*1026

) adottate per il (Q10), si ottengono valori

minimi tollerabili di z = 13.93 °C per T1 = 100°C e z = 15.06°C per T1=130°C.

Anche in questo caso, la quasi totalità dei valori di z per l'inattivazione delle

spore batteriche sono inferiori ai valori minimi che sarebbero tollerabili secondo

la teoria assoluta della velocità di rezione.

Massimo valore accettabile di Ea.

Si può calcolare anche qual'è il massimo valore di Ea=MEa, al disopra del quale

la probabilità PEa è troppo bassa per essere accettabile.

Dalla (71) si ha:

P(Mea) = exp (-MEa / R*T2) (77)

dove con P(Mea) è indicata la probabilità che il valore di Ea sia massimo.

Dalla (77) si ottiene:

MEa = R*T2*(-Ln P(MEa)

e quindi:

MEa = R*T2*(-Ln (1/(iN)))

MEa = R*T2*Ln(iN) (78)

Dalla (78), sempre assumendo iN = 6*1026

, si ottiene che a 50°C il valore di MEa

= 39 591 cal/mole (165 708 J/mole). A 130°C, MEa = 49 715.6 cal/mole (208

084.8 J/mole). Quindi sia per le particelle termolabili sia per quelle

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69

termoresistenti, i valori dell'energia d'attivazione sono sempre irragionevolmente

superiori a quelli massimi tollerabili secondo la teoria assoluta di reazione.

Si consideri inoltre che i valori di iN = 1026

sono enormemente superiori a quelli

impiegati nella pratica. Si può infatti ritenere che la totalità dei risultati

sperimentali descritti in letteratura, siano stati ottenuti impiegando una quantità

massima di particelle 100-1000 volte inferiore almeno.

Apparentemente, quindi, la discordanza tra ciò che si ottiene con l'analisi

convenzionale delle cinetiche d'inattivazione delle particelle microbiche, e ciò che

ci si può attendere ragionevolmente, è totale.

Ritengo che almeno in parte ciò sia dovuto alla specifica circostanza che le

cinetiche d'inattivazione non sono esponenziali.

Le cinetiche non-esponenziali d'inattivazione

microbica.

E’ dalle prime osservazioni sulla cinetica di inattivazione dei microrganismi

da agenti chimici (disinfettanti) e fisici (calore soprattutto), che si continua a far

riferimento alle cinetiche di primo ordine. Seguendo le indicazioni di Madsen e

Nyman (1907) e della Chick (1908), si è adottata la teoria dell'urto singolo come

espressione fondamentale del meccanismo di morte dei microrganismi: è

sufficiente che sia modificata una sola molecola o struttura cellulare, perché la

particella biologica sia inattivata. Rhan (1910) ha addotto argomentazioni

contrarie alla cinetica del primo ordine; ma solo in un primo tempo. In seguito,

ha sostenuto che le curve di inattivazione sono sostanzialmente esponenziali.

La teoria del bersaglio è stata sviluppata per giustificare le curve d'inattivazione

da radiazioni, che con particolare evidenza non sono riconducibili alla forma

esponenziale.

Due sono le formulazioni fondamentali:

(1) il bersaglio (la cellula o una particolare struttura cellulare) deve essere

colpito N volte dalla radiazione perché si abbia l'inattivazione;

(2) vi sono N bersagli cellulari che debbono essere colpiti prima che la

cellula sia inattivata.

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70

Entrambe le interpretazioni possono descrivere le curve di inattivazione.

La limitata accuratezza dei risultati sperimentali non consente di discriminare tra

le due ipotesi.

Con l'accumularsi delle osservazioni sperimentali è sempre più evidente che la

cinetica di primo ordine non può essere considerata di validità generale. Tre tipi

di osservazioni vi si oppongono:

(A) le curve concave di sopravvivenza, in coordinate semilogaritmiche, che

sono così spesso riscontrate nella pratica;

(B) le prolungate "code" alle dosi maggiori di applicazione degli agenti

letali;

(C) la incerta distinguibilità tra particelle vitali e non vitali, sostenuta

dall'evidenza di danni metabolici parziali.

Le curve concave di sopravvivenza possono essere giustificate, almeno in prima

approssimazione, sulla base delle caratteristiche della distribuzione di frequenza

del carattere resistenza in una popolazione di particelle. Il terzo tipo di

osservazioni sperimentali rivela invece senza possibilità apparente di dubbio la

realtà di un danno parziale alla funzionalità cellulare.

La prima interpretazione può essere conciliata invece con la visione

esponenziale: tutte le frazioni con diversa resistenza, presenti nella popolazione

trattata, possono essere inattivate con una cinetica di primo ordine; essendo

ogni frazione provvista di una propria velocità di morte, la curva di sopravvivenza

dell'intera popolazione deve necessariamente essere un riflesso, prima delle

frazioni a più elevato k di morte, poi di quelle più resistenti.

Resta da dimostrare che il carattere resistenza segue una distribuzione statistica

nota.

Al contrario, l'ipotesi di un danno parziale, riparabile, è assolutamente

inconciliabile con la teoria dell'urto singolo, secondo la quale il bersaglio colpito

è per definizione inattivato.

Inutile dire che le code non hanno trovato altra spiegazione possibile che la

ipotizzata presenza, in una popolazione di particelle, di individui provvisti di una

resistenza eccezionalmente superiore a quella della maggioranza degli individui.

La generalità degli autori ha accettato senza esitazione l'ipotesi della presenza

di una particolare distribuzione statistica della resistenza in una popolazione

naturale di particelle biologiche. Alla prova dei fatti, tale ipotesi si è rivelata

inconsistente. Due ordini di osservazioni la contraddicono:

(a) non è stato dimostrato che gli individui che sopravvivono ai

trattamenti letali più energici (siano virus, cellule batteriche vegetative o

sporificate) abbiano una resistenza talmente più elevata di quella che si riscontra

nella generalità della popolazione, da giustificare la formazione delle code;

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71

quindi, o il carattere resistenza non è geneticamente stabile, oppure la

distribuzione statistica di tale carattere nella popolazione non è tale da influire

sulla cinetica d'inattivazione.

(b) Decine di osservazioni sperimentali testimoniano che la

velocità di morte, in una popolazione di individui, è tanto minore quanto minore è

la concentrazione di particelle trattate. Tale osservazione è particolarmente

rilevante, poiché:

(1) indica che è tanto più difficile inattivare le unità biologiche, quanto

minore è il loro numero; e ciò sia che si impieghino agenti letali chimici

(disinfettanti) che fisici (calore, radiazioni ionizzanti, UV, ecc.);

(2) è in grado di fornire una giustificazione alle curve concave di

sopravvivenza, come dovute appunto alla difficoltà crescente di inattivare

concentrazioni progressivamente decrescenti di particelle di una popolazione.

E’ proprio sulla base di quest'ultimo tipo di osservazioni, che si è sviluppata la

teoria generale della cinetica di morte dei microrganismi (Casolari,1981; Casolari,

1988).

Già BALL e OLSON (1957), riflettendo sul possibile meccanismo

dell'inattivazione termica dei microrganismi, giudicavano che a livello

microscopico (quando si oss ervano i moti Browniani) i concetti di temperatura e

trasferimento del calore non hanno più senso e debbono essere sostituiti da

considerazioni energetiche che coinvolgano le molecole come unità discrete e non

come insiemi statistici. Pur non formulando alcun modello preciso di morte

termica, BALL e OLSON (1957) suggerivano che la morte dei microrganismi

deve essere provocata da una o più molecole esterne alla cellula, presenti

nell'ambiente, e provviste di elevata energia cinetica, in accordo con la curva di

distribuzione Boltzmanniana dell’energia.

Le basi del modello generale contengono il suggerimento di BALL e OLSON

(1957). Le molecole attive nel processo d'urto letale sono quelle dell'acqua

presente nell'ambiente e provviste di energia sufficiente (energia letale), in

accordo con la distribuzione dell’energia di Boltzmann.

La relazione fondamentale è la seguente:

Ct = Co exp(1/(1 + t * exp(94.52 + 2 Ln W - 2 Ed/RT))) (79)

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72

dove Ct e Co sono le concentrazioni cellulari (N/ml, N/g; etc.) dopo il tempo t

(min) di trattamento e quella iniziale, rispettivamente; W sono i gr di acqua

presenti in100 gr di substrato; 94.52 è il Ln del quadrato della quantità di

molecole d'acqua contenute in 1 g; Ed è l'energia letale; R è la costante universale

dei gas (1.987 cal/mole) e T è la temperatura assoluta (gradi Kelvin).

Tale Modello è detto generale, poiché è in grado di descrivere praticamente

tutti i tipi di curve di sopravvivenza ottenute sperimentalmente, sia per azione di

agenti letali chimici che fisici (attiene anche alla generalità della teoria, la

capacità di descrivere le curve di accrescimento dei microrganismi, dell'embrione

umano e dei tumori umani e animali, sulle stesse semplici basi).

Il risultato più rilevante del modello generale dell'inattivazione è il seguente:

“ le curve d'inattivazione delle particelle biologiche sono fondamentalmente

concave in coordinate semilogaritmiche, indipendentemente dall'agente

chimico-fisico letale considerato.

In condizioni ambientali particolari (in funzione della resistenza specifica delle

unità considerate, della concentrazione cellulare, della quantità di acqua

nell'ambiente, ecc.), le curve di inattivazione non si discostano in misura

statisticamente significativa dall'esponenzialità.”

Per quanto riguarda l'effetto del calore nei confronti dei microrganismi, si può

rilevare:

1 - Un unico parametro fondamentale caratterizza la resistenza dei singoli

microrganismi: l'energia E che debbono possedere le molecole d'acqua per essere

letali.

2 - La probabilità d'inattivazione è tanto minore quanto minore è la

concentrazione cellulare nel mezzo (quindi le code sono fenomeni che la teoria

considera reali).

3 - La velocità d'inattivazione a qualsiasi temperatura è tanto minore quanto

minore è il contenuto d'acqua nell'ambiente.

4 - La velocità di morte è proporzionale al quadrato della concentrazione delle

molecole d'acqua provviste di

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energia letale, presenti nell'ambiente.

5 - La velocità d'inattivazione è tanto maggiore quanto più è elevata la

temperatura; in particolare tale velocità cambia di Q10 volte ogni 10 gradi C

poiché il quadrato della concentrazione delle molecole con energia letale

cambia di Q10 volte ogni 10 gradi C, cosi' come cambia di 10 volte ogni z

gradi C. Viene così attribuito un significato preciso ai parametri Q10 e “z”.

Per applicare il modello generale nella pratica, basta conoscere la concentrazione

iniziale delle particelle biologiche, quella dopo il tempo t, la temperatura di

trattamento e il contenuto d'acqua nel mezzo. Noti tali parametri, si può prevedere

la curva di sopravvivenza a qualsiasi temperatura, a qualunque concentrazione

cellulare, in ambienti a qualsiasi contenuto d'acqua, ecc.

Dalla (79) semplificata, si può ottenere che la probabilità di sopravvivenza

microbica Ct/Co dopo ‘t’ minuti di esposizione ad una temperatura letale è:

Ct/Co = Ct -M*t

(80)

da cui, dividendo per Ct:

Co = Ct (1+M*t)

Ossia:

Ct = Co 1/(1+M*t)

(81)

dalla quale si ottiene la (83), tenendo in considerazione che il valore di M è dato

dal quadrato del numero (nEd) di molecole d’acqua ambiente con energia

superiore al valore letale, Ed (come dall’equazione di Boltzman: nEd /no= Ed/RT):

M = (6.02295*1023

/18) exp (- Ed/RT)

Da cui:

M = exp (103.7293 – 2 Ed/R*T) (82)

dove 103.7293 è il logaritmo naturale del quadrato del numero di molecole

d’acqua contenute in un grammo d’acqua, Ed è l’energia letale, R = 1.987

cal/mole e T la temperatura assoluta (°K). Si ottiene così dall’(81) e dalla (82):

Ct = Co 1/(1+ M t)

(83)

che per esteso equivale a:

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Ct = Co [(1+t) exp(103.7293 – 2Ed/R*T)]-1

(83bis)

Conoscendo i valori di Co e Ct dopo il tempo t di trattamento alla temperatura T,

si ottiene dalla (81):

M = ((Ln Co / Ln Ct) – 1)/t (84)

Da cui si può stimare il valore dell’energia letale Ed, per il microrganismo

considerato:

Ed = 0.5 R * T (103.7293 – Ln M) (85)

E così pure l’andamento delle curve di inattivazione a qualsiasi temperatura e

stato di idratazione del mezzo.

I diversi microrganismi sono inattivati dall’urto con molecole d’acqua provviste

di differente energia letale Ed.

(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.

Vol II. ,Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

Nella figura rappresentata sopra, sono riportate le curve d’inattivazione di

microrganismi aventi una resistenza termica decrescente – ad una temperatura T -

ossia con valori di Ed decrescenti da 36 (batteri più resistenti) a 34 (meno

resistenti) kcal/mole.

Il valore del coefficiente di correlazione, calcolato per la regressione lineare tra

valori di Log Ct e tempo di trattamento termico, è abbastanza elevato per le prime

tre curve d’inattivazione rappresentate nel grafico soprariportato (ad es., per

valori di Ed pari a 36, 35.4 e 35 kcal/mole); ma ha già valori critici per la quinta

curva rappresentata sopra (per Ed pari a 35 kcal/moli), indicandone la già di per

sé evidente deviazione dalla linearità, che aumenta al diminuire del valore di Ed.

Tale rappresentazione è quella tipicamente attesa dal modello generale

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dell’inattivazione microbica; vale a dire che le curve d’inattivazione a

qualunque temperatura T possono risultare poco discoste dalla linearità per

i microrganismi più resistenti a tale temperatura (e in genere a tali

condizioni di esposizione al calore); mentre deviano dalla linearità

progressivamente sempre di più, al diminuire della resistenza alla stessa

temperatura.

Allo stesso modo, le curve d’inattivazione di qualunque microrganismo possono

essere rappresentate da curve statisticamente indistinguibili dalla linearità (il

coefficiente di correlazione della regressione lineare calcolata sulla base dei

valori sperimentali, è sufficientemente elevato) per temperature sufficientemente

ridotte; ma da curve progressivamente sempre meno lineari (coefficienti di

correlazione lineare sempre più ridotti) e sempre più concave, all’aumentare della

temperatura.

(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.

Vol. II. Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

Come riportato nella figura sopra, per un microrganismo che abbia un valore di

Ed = 35 kcal/mole, le curve d’inattivazione si discostano poco dalla linearità per

temperature di trattamento comprese all’incirca tra 53 e 57°C; ma per temperature

superiori, la deviazione dalla linearità è sempre più evidente, all’aumentare della

temperatura.

Tuttavia, come risulta anche da entrambe le ultime due figure riportate sopra, le

deviazioni dalla linearità delle curve d’inattivazione sono tanto più evidenti in

generale, quanto più estesamente ampi sono i tempi di esposizione al calore; così

come le curve sono tanto meno indistinguibili dalla linearità quanto più i

trattamenti sono brevi, o quanto più sono estesi.

Da entrambe le rappresentazioni soprariportate, si può rilevare come le maggiori

deviazioni dalla linearità delle curve d’inattivazione – ossia le cosiddette ‘code’ –

si manifestino soprattutto ai minori valori di Ct. Ossia, quando la contaminazione

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di particelle vitali è particolarmente ridotta – perché il tempo di trattamento è

sufficientemente esteso, in relazione alla letalità della temperatura di esposizione

– e la distruzione delle cellule risulta sempre meno probabile; la velocità di morte,

è sempre minore all’aumentare del tempo di esposizione al trattamento letale.

Addirittura, secondo il teoria del modello generale, l’ultima particella microbica è

distrutta con sempre minore probabilità, per quanto esteso possa essere il tempo

di trattamento.

Secondo tale modello quindi, le ‘code’ delle curve d’inattivazioni – che si

manifestano sempre alle minori concemntrazioni di particelle vitali - sono un

fenomeno reale, non un artificio dovuto ad inaccuratezze nelle operazioni

sperimentali di esecuzione delle prove di termoresistenza microbica. Vale a dire

quindi, che secondo il modello presentato, la velocità di morte diminuisce al

diminuire della concentrazione delle cellule vitali; e che tale fenomeno dà

origine alle ‘code’.

Questo comportamento è apparentemente giustificato dalle premesse che hanno

portato alla formulazione del modello – ossia che la probabilità di collisione tra

particelle microbiche e molecole d’acqua provviste di energia letale (Ed), è tanto

minore quanto minore è la concentrazione di tali molecole energetiche nel mezzo

di trattamento, ossia quanto minore è la letalità della temperatura per ogni

specifico microrganismo; o quanto minore è la concentrazione di cellule vitali, sia

che si tratti di contaminazione iniziale (Co) o di sopravviventi al tempo di

trattamento ‘t’ (Ct).

Attribuendo al Q10 il significato indicato precedentemente, di rapporto tra velocità

di reazione a due temperature che differiscono di 10° (Q10 = KT+10/KT), il

modello prevede che sia:

Q10 = exp ((2*Ed/R)(10/(T+10)T) (85)

Dalla (80) si può ottenere un parametro analogo al tempo di riduzione decimale,

indicato di seguito con P10 , in quanto il tempo di trattamento richiesto perché sia

Ct = 0.1 Co:

Log Ct – Log Co = - M * P10 *Log Ct

da cui:

-1 = - M * P10 *Log Ct

1 = M * P10 * Log Ct

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(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology.

Vol. II. Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

E quindi :

P10 = 1 / M Log Ct (86)

Ne deriva, in accordo con la (63), essendo la costante di velocità di reazione K =

1 / D10, sarà anche K = 1/P10 , cosicché:

Q10 = P10(T+10) / P10(T)

= MT+10 *Log Ct / MT *Log Ct

Da cui:

Q10 = MT+10 / MT (87)

E dalla (82):

Q10 = exp((2 Ed/R)(10/(T+10)T)) (88)

Ed anche:

Ln Q10 = (2 Ed/R)(10/(T+10)T (89)

Dalla quale si può ottenere il valore di:

Ed = Ln Q10 /10)(R/2)((T+10)T (90)

E poiché :

z = 10 / Log Q10 (91)

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sarà:

Q10 = exp (23.03/z) (92)

da cui:

Ln Q10 = 23.03 / z

Cosicché:

Ed = (Ln 10) R T (T+10)/2z (93)

ed anche :

Ed = RT(T+10) Ln Q10 / 20 (94)

Ciò comporta anzitutto che, secondo il modello generale, si può attribuire un

significato molto preciso ai due parametri caratterizzanti le cinetiche

d’inattivazione termica, in relazione alla temperatura di trattamento: il Q10 e lo

‘z’. Infatti, mentre dalla cinetica convenzionale i due parametri hanno un valore

decisamente astratto, corrispondente all’entità della variazione – Q10 volte - della

K di reazione per una variazione di 10°C; e lo zeta, rappresenta di quanti gradi

deve variare la temperatura perché la velocità di reazione cambi di dieci volte; nel

modello generale entrambi i valori di Q10 e di z sono direttamente collegati alla

concentrazione delle molecole attive nell’inattivazione cellulare, in quanto al

variare di dieci gradi di temperatura, la velocità di reazione cambia di Q10 volte

perché la concentrazione delle molecole con energia Ed cambia proprio di Q10

volte; e allo stesso modo, la velocità di reazione cambia di dieci volte per una

variazione di z gradi, perché a tale variazione di temperatura corrisponde una

variazione di dieci volte della concentrazione delle molecole con energia letale

Ed.

Quindi, se poniamo Q10 =10 nella (90), oppure z = 10 nella (93), si ottiene

comunque – nell’intervallo di temperatura di 110 – 120 °C - che il valore di Ed =

34459.6348 cal/mole. Ne deriva che – dalla (82) – a 110°C il valore di M – ossia

del quadrato del numero di molecole con energia Ed – che è M110°C =

5.4208*105, sarà di z = Q10 = 10 volte inferiore al valore di M a 120°C: M120°C =

5.4208*106 .

Allo stesso modo, posto ad esempio Q10 = 22 (da cui z = 7.4449) alle temperature

60°≤T≤70°C si avrà – dalla (90) come dalla (93) - che Ed = 3507.2379 cal/mole,

per cui il valore di M70°C = 2.1196 è Q10 = 22 volte maggiore di M60°C = 0.096.

Oppure, posto Q10 = 16 (e quindi z = 8.305) nell’intervallo di temperatura 110°≤

T ≤ 120°C si ottiene, sempre dalla (90) e (93), che Ed = 41493.5348 cal/mole;

quindi si avrà che M120°C = 0.082, che è esattamente Q10 = 16 volte il valore di

M110°C = 5.1178*10-3

.

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79

Si può verificare parimenti che – nel primo caso - alla temperatura di 60°C + z =

60 + 7.4449 = 67.449°C la concentrazione attesa di M = 0.963 è 10 volte

maggiore di M60°C. Nel secondo caso (Ed=41493.5348 cal/mole), alla temperatura

T = 120 - z = 111.695°C il valore di M111.695°C = 0.0082 è 10 volte inferiore al

valore di M120-z .

Il v alore di z cambia in funzione di Ed e della temperatura, secondo la relazione:

z = (Ln 10)(T+10)*T*R/(2*Ed) (95)

Inoltre:

Dall’applicazione del modello generale si ricava che il valore dell’energia Ed

delle molecole d’acqua in grado di inattivare i microrganismi sensibili, è

inferiore al valore dell’energia Ed richiesto per l’inattivazione dei microrganismi

più resistenti. I microrganismi termosensibili – le cellule vegetative batteriche,

lieviti, muffe – che sono inattivati a temperature 60°≤T≤70°C hanno valori di

energia letale 33≤ Ed ≤ 37 kcal/mole; mentre le spore batteriche, che sono i

microrganismi più resistenti al calore, e che sono distrutte a temperature

110°≤T≤120°C, richiedono valori di energia più elevati, 38≤Ed≤44 kcal / mole.

Questo risultato è completamente opposto a quello che si ottiene analizzando le

cinetiche d’inattivazione microbica secondo la cinetica chimica convenzionale,

che – come esaminato precedentemente – prevede al contrario – e in evidente

contrasto con la logica più immediata - che occorra più energia per inattivare le

cellule meno resistenti, e meno energia per inattivare le spore batteriche.

Quindi tale risultanza del modello generale meglio si accorda con le attese più

ragionevoli.

Velocità dell’inattivazione termica e contenuto d’acqua nel mezzo di trattamento.

La velocità d’inattivazione dei microrganismi diminuisce al diminuire del

contenuto acquoso del mezzo di trattamento.

Anche secondo il modello proposto, la velocità d’inattivazione diminuisce al

diminuire della temperatura, perché al diminuire della temperatura, diminuisce il

valore di M (83). Siccome il valore di M dipende dalla quantità d’acqua presente

nell’ambiente di trattamento (82), va da sé che una diminuzione della quantità

d’acqua nel mezzo avrà come conseguenza diretta una diminuzione del valore di

M, ciò che equi vale necessariamente ad una diminuzione di temperatura.

Infatti, la (82) è più esattamente equivalente alla:

M = exp (A – 2 Ed/RT) (96)

In cui:

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A = 94.5190 + 2 Ln W (97)

dove 94.519 è il logaritmo naturale del quadrato del numero di molecole d’acqua

per gr di substrato contenente 1 gr d’acqua e W = gr di acqua contenuti in 100g di

substrato.

Mediante la (96) e la (97) si può calcolare il valore di M per qualunque valore di

W≤100. Unendo la (96) e la (97) si ottiene come varia il valore di M in funzione

dell’energia Ed e della temperatura, in mezzi a differente contenuto acquoso:

Ln Mw = = 54.519 + 2 Ln W – 2 Ed/RT (98)

in cui Mw è appunto il diverso valore che assume M in funzione del valore di W.

Visto che la diminuzione del valore di M corrisponde nella pratica ad un

abbasssamento della temperatura, si può calcolare qual è il valore di temperatura

Tc equivalente ad un abbassamento di M per effetto della diminuzione del

contenuto acquoso del mezzo:

Tc = 2 Ed / R(103.7293 – LnMw) (99)

Come risulta dalla Figure seguente, ad una temperatura di, ad esempio,120°C in

ambiente completamente idratato, corrisponde una temperatura Tc = 87.6 nello

stesso tipo di substrato, contenente solamente 1gr d’acqua / 100 gr di substrato.

Ne consegue con la massima evidenza, che mentre alla temperatura di 120°C

sono distrutte in tempi brevi una quantità di spore batteriche, alla temperatura di

87.6 non si avrà alcuna distruzione termica, se non in tempi di trattamento

esageratamente elevati.

Come evidenziato in precedenza, il contenuto acquoso del mezzo è il fattore che

influenza con la massima rilevanza la termoresistenza microbica – e non solo

quella microbica; quindi, il fatto che il modello generale individui con tanta

precisione anche tale fondamentale caratteristica del fenomeno d’inattivazione,

gli conferisce un livello d’attendibilità del tutto singolare.

Con riferimento alle variazioni indotte sui valori di Q10 e z, da un abbasamento

del contenuto acquoso da 100 a 1gr/100 gr di substrato alla temperatura T, si

ottiene che la velocità di inattivazione per le cellule sensibili come per quelle

resistenti, diminuisce di circa 1.000 volte.

Per calcolare la temperatura T’ che occorre raggiungere per ottenere un tempo di

inattivazione P10 pari a quello ottenibile alla temperatura T in un substrato

completamente idratato, si può utilizzare la relazione seguente:

T’ = 2 Ed (R(54.519 + 2 Ln W – Ln MT)) (100)

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dove MT è ovviamente il valore di M alla temperatura T. Come si ottiene dalla

Figura successiva, per un valore di Ed pari a 40 kcal/mole, una variazione di 100

volte nel valore di W, comporta una variazione di circa 40°C. La corrispondenza

con i risultati sperimentali è pressocché totale (Casolari, 1988).

(Casolari, A.,”Microbial death”, 1988, in Mathematical Models in Microbiology. Vol. II.

Physiological models in Microbiology, CRC Press Inc., Boca Raton, FL)

OSSERVAZIONI

Sul piano teorico, la tesi dell'esponenzialità non è in grado di giustificare una

quantità di osservazioni sperimentali (relazione tra concentrazione microbica e

velocità d'inattivazione, code alle curve d'inattivazione, fenomeni di danno

parziale, relazione tra contenuto d'acqua e letalità dei trattamenti applicati, ecc.);

conduce a risultanze termodinamiche assolutamente inaccettabili (Vedere Nota

sugli aspetti termodinamici dell'inattivazione termica dei microrganismi); non è in

grado di suggerire un possibile meccanismo di morte dei microrganismi.

Il modello generale, che basa su un processo di collisioni casuali tra unità

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discrete (le molecole d'acqua provviste di energia sufficiente) e i microrganismi,

il meccanismo fondamentale d'interazione cellula-ambiente, è in grado

apparentemente di giustificare tutte le osservazioni sperimentali più rilevanti;

configura l' inattivazione come lo stadio conclusivo di un processo di

accumulazione di danni parziali; è applicabile alle cinetiche d'inattivazione da

agenti letali sia chimici che fisici; prevede la relazione tra contenuto ambientale

d'acqua e velocità di morte termica; giustifica la relazione tra coefficienti di

temperatura e velocità d'inattivazione; suggerisce il tipo di gruppi molecolari più

direttamente coinvolti nei fenomeni di radio-inattivazione; si presta ad ulteriori

miglioramenti.

Poiché il modello generale prevede che solamente a temperature

sufficientemente basse o sufficientemente elevate, in relazione alla resistenza

specifica dei microrganismi tratta, la cinetica di inattivazione non si discosti in

misura statisticamente significativa dall'esponenzialita, pur essendo comunque

caratterizzata da velocità di morte decrescente al diminuire della concentrazione

cellulare, ne deriva che l'efficienza dei trattamenti termici di sterilizzazione è

tanto maggiore quanto maggiore è la temperatura applicata.

Generalmente, sia la stabilizzazione dei prodotti acidi, sia la sterilizzazione di

quelli non acidi, vengono ottenute con l'applicazione di temperature

sufficientemente elevate, relativamente ai microrganismi che si debbono

inattivare, e per tempi sufficientemente lunghi, perché le cinetiche di

inattivazione si possano considerare sostanzialmente esponenziali, almeno ai fini

pratici. Tale scelta è imposta dal minore valore del Q10 ( e quindi maggiore

valore corrispondente di z) per i composti a maggiore contenuto nutrizionale e

qualitativo in generale, rispetto al coefficiente di temperatura che compete

all'inattivazione microbica.

Ciò che differenzia in modo fondamentale, sia sul piano teorico che pratico, i

portati del modello generale rispetto a quelli del trattamento teorico

convenzionale (inattivazione esponenziale) (Stumbo, 1973) dei processi di

sterilizzazione, è il problema dell'equivalenza dei trattamenti.

La teoria convenzionale, assumendo che l'inattivazione sia esponenziale e la

relazione tra tempo di trattamento e temperatura sia regolata dallo z (poco

importa alla fine che tale dogma sia errato sulla stessa base termodinamica),

impone comunque il concetto di trattamento equivalente: a tempi brevi di

trattamento ad alta temperatura si possono sempre far corrispondere tempi più

lunghi a temperature inferiori, assolutamente equivalenti – in accordo con

l’ortodossia della cimnetia esponenziale - sotto il profilo dell'effetto letale nei

confronti dei microrganismi.

Secondo il modello generale, invece, non vi sono trattamenti termici equivalenti,

se non in misura limitata e in un ristretto intervallo di temperature

sufficientemente elevate, relativamente ai microrganismi che si debbono

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distruggere.

Qualora esigenze produttive particolari inducano ad alterare imprudentemente i

parametri di sterilizzazione o stabilizzazione consolidati (sulla base - errata -

dell'equivalenza dei trattamenti, in accordo con la teoria convenzionale

dell'inattivazione esponenziale), le conseguenze possono essere inattese.

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85

PARTE SECONDA.

Aspetti pratici connessi alla termoresistenza

microbica.

PASTORIZZAZIONE

Abitualmente il processo di pastorizzazione viene identificato con trattamenti

termici di limitata entità, sufficienti (almeno nelle attese) a ridurre il livello di

contaminazione di prodotti "freschi" (tipicamente il latte) e quindi ad aumentarne

la durata soprattutto a temperature di refrigerazione. Ci si aspetta altresì che la

pastorizzazione riduca a livelli tollerabili il contenuto possibile di microrganismi

patogeni, e soprattutto Salmonella, Listeria, virus, etc.

……….………………………………………………………..

……………………………………………………………………..

La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

Trattamenti termici di limitata entità possono essere applicati con maggiore

vantaggio ai prodotti cosiddetti "acidi" [con pH < 4.5] o ai prodotti con attivita'

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dell'acqua sufficientemente ridotta [Aw < 0.93]. Infatti, entrambi i tipi di prodotti

(oltre naturalmente tutti quelli con caratteristiche intermedie, di pH e di aw, ma

equivalenti sotto il profilo microbiologico), possono essere alterati solamente da

microrganismi non sporificati, quindi poco resistenti al calore. Ne deriva che la

pastorizzazione può inattivare tutti i tipi dei microrganismi di alterazione usuali

per tali prodotti e determinare una condizione di "stabilita'" indipendente dalla

temperatura di magazzinaggio. Abitualmente invece, anche a questo tipo di

prodotti vengono spesso applicati trattamenti termici inutilmente molto più

elevati del necessario.

Malgrado gli obbiettivi della pastorizzazione siano quindi di non trascurabile

rilevanza, manca una teoria appropriata della pastorizzazione, paragonabile a

quella della sterilizzazione.

I tempi e le temperature di trattamento sono tratti dalla tradizione, nella maggior

parte dei casi. Anche le codificazioni di riferimento con maggiore richiamo,

La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

inserite nella normativa internazionale, per latte e derivati, uova, ecc. non sono

prive di apparenti contraddizioni, e denunciano un'origine altrettanto

"tradizionale". Infatti, i parametri adottati si possono con difficoltà raccogliere in

poche relazioni, come indicato di seguito. Nella Tabella (P1) successiva sono

riportati i tempi richiesti per la pastorizzazione del latte, ottenuti dalla relazione:

Log Psec = 15.21 - 0.1724 * °C (P1)

z = 5.8

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che descrive i parametri autorizzati da FDA e USDA ("Recommended

Guidelines...", 1987), per temperature comprese tra 88.33 e 100°C. Per

trattamenti di pastorizzazione a temperature inferiori, i tempi consigliati (FDA e

USDA) possono essere descritti da questa seconda relazione:

Log Psec = 17.95 - 0.234 * C (P2)

z = 4.3

dalla quale si ottengono tempi di trattamento molto inferiori a quelli previsti

dalla prima relazione.

Tale situazione è del tutto ingiustificata, visto che in ogni caso alle minori

temperature di trattamento, è comunque opportuno impiegare valori di zeta

inferiori (che portano quindi, per temperature inferiori a quelle di riferimen-

to, a tempi superiori).

In realtà, i valori impiegati più frequentemente sono di 63°C per 30 min, 72°C

per 15 sec e 88°C per 1 sec. Nella Tabella P1 sono confrontati i tempi di

trattamento necessari per determinare 8D dei patogeni di maggiore rilievo, con

entrambe le relazioni P1 e P2. Come si può rilevare, i tempi di pastorizzazione

indicati per le temperature superiori a 80°C sono molto bassi.

Tenendo conto delle tecniche di determinazione della termoresistenza, si può

ritenere senz'altro che nella definizione di tali valori ci si sia basati su indicazioni

sperimentali ottenute a temperature inferiori a 80°C.

Sarebbe stato quindi più prudente adottare un valore di z più elevato, per

definire i tempi di trattamento a temperature superiori a quelle sperimentate. In

effetti, tutti i microrganismi presi in considerazione nella Tabella P1 hanno

valori di zeta superiori a 5.8, eccetto il Mycobacterium tuberculosis (che peraltro

è sensibilissimo al calore). I batteri non sporigeni capaci di resistere a temperature

superiori a 70°C hanno necessariamente valori di z più elevati che per la

maggioranza delle cellule vegetative, normalmente dotate di una scarsissima

resistenza termica, associata appunto a bassi valori di zeta.

Ma è appunto dei microrganismi più resistenti, che ci si deve occupare nella

definizione di parametri di stabilizzazione- sanificazione; e soprattutto dei più

resistenti tra i patogeni. In tal senso, visto che la S. senftenberg risulta il più

resistente dei batteri non sporigeni patogeni, si dovrebbe tener conto in misura

preponderante dei parametri di termoresistenza più elevati, riscontrati con ceppi

di questa specie. In tal senso, la resistenza del ceppo di S. senftenberg meno

termolabile in diversi substrati (latte, brodo, carne di pollo) è descritta dalla

seguente relazione:

Log (8D,sec) = 9.1345 - 0.09091 * °C (P3)

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Ciò significa, che per temperature superiori a 74.55°C i tempi di pastorizzazione

previsti dalla relazione (P1) sono insufficienti per ottenere 8D di questo batterio

patogeno.

A temperature inferiori a 74.55°C, i tempi di pastorizzazione previsti dalla

relazione (P1) sono superiori a quelli attesi per la distruzione della S. senftenberg

e quindi potrebbero essere adottati con maggiore vantaggio, ma solo

apparentemente. I batteri non sporigeni più resistenti (Streptococcus faecalis, ad.

es.) tendono ad avere cinetiche d'inattivazione non-esponenziali (caratterizzate

da lunghe "code" nelle curve di sopravvivenza) soprattutto a basse temperature di

trattamento. E i maggiori tempi di trattamento non sono di alcuna utilità in tali

condizioni. Diventa anzi imperativo orientarsi verso soluzioni che possano

aumentare la probabilità di riscontrare cinetiche esponenziali, e a tal fine quindi

prevedere temperature di pastorizzazione più elevate.

Si possono anzitutto prevedere quattro tipi di pastorizzazione: CHILL-Past

treatment, PATH-Past, ACID-Past e HARD-Past treatment.

Tab. P1. Tempi di pastorizzazione (Psec ) previsti dalle relazioni P1 e P2 e tempi necessari per

determinare 8D dei microrganismi che interessano la pastorizzazione convenzionale.

------------------------------------------------------------------------------------------------

Temperatura P1 Salm. E.coli Lysteria FMDV M.tuberc. P2

°C Psec ---------------------8 D ----------------------------- Psec

------------------------------------------------------------------------------------------------

65 10059 1682 891 226 173 31 552

70 1382 590 211 54 48 3.4 37

75 190 207 50 13 13 0.4 2.5

80 26 73 12 3 4 0.04 0.17

85 3.6 26 3 0.7 1 0.004 0.01

90 0.5 9 0.7 0.17 0.3 0.0005 ……

95 0.07 3 0.16 0.04 0.08 …….. …….

_______________________________________________________________

z = 5.8 11 8 8 9 5.2 4.27

--------------------------------------------------------------------------------------------------

* Salm.= Salmonella senftenberg 775 w; E.coli = Escherichia coli; Lysteria = Listeria

monocytogenes; FMVD = Foot-Mouth-Disease-Virus; M.tuberc. = Mycobacterium

tuberculosis.

Il trattamento CHILL Past è di entità tale da assicurare la distruzione dei batteri

patogeni non sporificati e consentire due settimane di stabilità a temperature di

refrigerazione. Il patogeno più resistente alle temperature di pastorizzazione

meno elevate (60-90°C) è lo Staphylococcus aureus: D60°C = 27 min, z = 5.1°C

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(Evans et alt., 1970). Alle temperature più elevate, il patogeno più resistente è la

Listeria monocytogenes: D90°C = 0.56 sec, z = 10°C (Schoeni et al., 1991).

Unendo questi due valori estremi di termoresistenza, si ottiene la relazione :

Log Dsec = 10.1 – 0.115*T (P4)

Poiché si ritiene generalmente che bastino 7D per ottenere una pastorizzazione

efficiente, dalla (P4) si ha la relazione (P5):

Log CHILL.Past, min = 9.16 – 0.115 *T (P5)

dalla quale si ottengono i seguenti valori del tempo di pastorizzazione CHILL-

Past:

Il trattamento di pastorizzazione ondicato come PATH-Past è configurato in

modo da assicurare la distruzione di tutti i batteri patogeni, comprese le spore del

Clostridium botulinum dei tipi non proteolitici B, E ed F (Casolari, 1998), in

modo da poter ottenere almeno 2-3 mesi di stabilità microbiologica a temperature

di refrigerazione. Le spore più termoresistenti delle specie di Cl. botulinum capaci

di svilupparsi a temperature di refrigerazione, sono quelle del Cl. botulinum non

proteolitici di tipo B: D90°C = 20.3 min, z = 7.4 (Peck et al., 1993). Cosicché si

ottiene la (P6):

Log D,min = 13.46 – 0.135 *T (P7)

E tenedo conto delle necessarie 7D, si ha la relazione (P8):

Log PATH-Past, min = 14.3- 0.135 *T (P8)

Dalla quale si ottengono i seguenti tempi di pastorizzazione PATH Past:

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La pastorizzazione ACID-Past è in grado di ridurre a livelli talmente bassi la

probabilità di sopravvivenza dei microrganismi più termoresistenti, in grado di

alterare i prodotti acidi, con pH < 3.8, che consente di ottenere la stabilità al

magazzinaggio a temperatura ambiente. Il trattamento ACID-Past si basa sul fatto

che i due microrganismi più termoresistenti capaci di accrescersi in ambienti con

pH<3.8 sono le due muffe Neosartoria fischeri e il Talaromyces flavus. Le

ascospore di N. fischeri sono più resistenti a 85°C: D85°C = 112 min, z = 3.6

(Beuchat, 1986); le ascospore di T. flavus, a temperatura più elevata: D97.5°C = 0.4

min, z = 5.4°C (Scott e Bernard, 1987). Unendo i due valori di termoresistenza,

si ottiene la (P9):

Log D, min = 18.69 – 0.196 *T (P9)

Da cui, per ottenere le 7D consigliate come sufficiente livello di inattivazione, si

ottiene la (P10):

Log ACID-Past, min = 19.54 – 0.1956 *T (P10)

E i seguenti trattamenti equivalenti:

Il trattamento di pastorizzazione HARD-Past consente di distruggere tutti i

microrganismi di alterazione dei prodotti con pH < 4.7, in modo che sia ottenuta

la stabilità indefinita a temperatura ambiente. Il trattamento si basa sulla

termoresistenza dei due sporigeni più termoresistenti: il Bacillus coagulans

(D100°C = 5 min, z = 6.4 (Kosker et al., 1951)) e il Clostridium pasteurianum

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(D100°C = 1 min, z = 10 (Casolari 6 Giannone, 1966)). Si ottiene così la relazione

(P11):

Log Dmin = 14.81 – 0.14 *T (P11)

Dalla quale si ottiene, per le 7D prescritte, la (P12):

Log ACID-Past, min = 15.66 – 0.14 *T (P12)

Da cui si hanno i seguenti tempi equivalenti di HARD-Past:

………………………………………………………………………………….

STERILIZZAZIONE UHT del LATTE

I parametri di sterilizzazione del latte con il procedimento UHT, sono definibili

sulla base delle considerazioni riportate di seguito.

Le particelle microbiche più resistenti all'inattivazione termica e che

contaminano con maggiore frequenza

il latte sono le spore del Bacillus stearothermophilus: il ceppo più termoresistente

è denominato TH24 (Franklin, 1970).

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Si ritiene che il Cl. thermosaccharolyticum – batterio anaerobio molto più

termoresistente - contamini cosi' raramente il latte (una spora ogni circa 10

milioni di L) da poter essere trascurato.

Tali batteri sono comunque entrambi termofili e non patogeni. La loro

sopravvivenza ai processi di sterilizzazione può compromettere esclusivamente la

stabilità del prodotto (danno commerciale) immagazzinato ad elevate

temperature.

Nella Tabella 1 sono riportati i valori di D e di z ottenuti da diversi autori con il

trattamento termico delle spore del B. stearothermophilus. I valori riportati nelle

colonne 1, 2, 3 ed 5 sono stati ottenuti sospendendo le spore in latte; quelli in 4,

sono valori standard di riferimento.

I trattamenti UHT sono più spesso effettuati alla temperatura di 138°C

(McGarrahan, 1982).

Come si può rilevare dalla Tabella M1 i valori di D138°C ottenuti dai diversi autori

sono simili, e compresi tra 2.5 e 5.5 secondi, fatta eccezione per il valore di 15.8

ottenuto da Burton et al.(1977) riportato in colonna 3. I valori di D riportati nelle

colonne 2, 3 e 5 sono stati ottenuti direttamente trattando le spore in impianti

UHT e quindi hanno una particolare rilevanza.

Per ragioni di sicurezza si dovrebbe scartare il valore più basso (D = 2.5 sec) e

scegliere quello più elevato: D138°C = 15.8 sec. In alternativa, si può scegliere il

valore medio dei cinque D138°C = 6.54 sec, tempo che è superiore, anche se di

poco, a quello di riferimento (B. stearothermophilus NCA 1518), a quello dello

stesso ceppo trattato in impianto UHT (Busta, 1967) e a quello del ceppo più

termoresistente (TH24) trattato in capillari. Come si può riscontrare dalla Tab.

M1, i valori di z ottenuti sperimentalmente nell'intervallo di temperature di

maggiore interesse per il trattamento UHT sono compresi tra 5.6 e 10.75 C.

L'ampiezza di tale intervallo di valori è rilevante e può influire notevolmente

nella definizione di FT , soprattutto per temperature inferiori al range termico

entro il quale è stato determinato sperimentalmente lo z. È opinione diffusa,

comunque, che anche per valori di temperatura compresi tra circa 135°C e 150°C

si debba considerare un valore di z = 10°C (McGarrahan, 1982).

Il livello di contaminazione del latte tende ad essere più elevato nel periodo

invernale, con punte di massima contaminazione da spore termoresistenti

prossime a 1/ml di latte (Franklin et al., 1956). Si ritiene accettabile (Franklin,

1970; Reuter, 1980) un livello di sopravvivenza inferiore a 1 spora ogni 1000

confezioni da 1 L e quindi prossimo a 1 spora sopravvivente ogni 10.000 L.

Si tenga conto comunque:

A - In ogni caso il trattamento di sterilizzazione deve comportare almeno 12

riduzioni decimali per le spore più termoresistenti del Cl. botulinum, che hanno

D121°C = 0.25 minuti e z = 10°C.

Il valore minimo di Fo ( = F121.1°C = F250°F) deve quindi essere superiore o

uguale a 3 (Fo = D121°C * 12 ).

Nella Tabella di seguito sono riportati i tempi di trattamento FT a diverse

temperature, equivalenti a Fo=3.

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Tab.M1 - Tempo di riduzione decimale DT delle spore di

B. stearothermophilus sospese in latte.

……………………………………………………

T D (sec)

……………………………………………………

°C A B C D E

________________________________________

120 550.0 1943.7 - 309.2 117.4

122 329.7 977.5 - 195.1 76.5

124 197.7 491.6 - 123.1 49.8

126 118.5 247.2 - 77.7 32.4

128 71.0 124.3 - 49.0 21.1

130 42.6 62.5 - 30.9 13.8

132 25.5 31.5 - 19.5 9.0

134 15.3 15.8 - 12.3 5.8

136 9.2 8.0 - 7.8 3.8

138 5.5 4.0 15.8 4.9 2.5

140 3.3 2.0 6.9 3.1 1.6

142 2.0 1.0 3.1 2.0 1.1

144 (1.2) - 1.3 1.2 0.7

146 (0.7) - 0.6 0.8 0.5

148 (0.4) - 0.3 0.5 0.3

150 (0.3) - 0.1 0.3 0.2

___________________________________________

z = 9.0 6.7 5.6 10 10.75

___________________________________________

A = Davies et al.,1977 (capillaries)

B = Busta, 1967 (UHT)

C = Burton et al., 1977 (UHT)

D = Conventional data (D121.1°C=4 min, z=10°C).

E = Konietzko & Reuter, 1986 (direct UHT).

_______________________________

FT FT

__°C__ min _______°C___ sec ___

118 6.13 136 5.83

120 3.87 138 3.68

122 2.44 140 2.32

124 1.54 142 1.46

126 0.97 144 0.92

128 0.61 146 0.58

130 0.39 148 0.37

132 0.24 150 0.23

134 0.15 152 0.15

_______________________________

FT equivalenti a Fo=3.

B - Per quanto riguarda le considerazioni svolte sopra in merito alle spore del B.

stearothermophilus, la relazione tra FT e tempo di riduzione decimale alla

temperatura T (FT) potrebbe essere così impostata:

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FT = DT * Log (103 /10

-4)

corrispondente a:

FT = DT * 7 (101)

Considerando quindi un valore di D138°C = 6.54 sec e uno z di 10°C, dalla (101) si

ha:

F138°C = 6.54 * 7

= 45.78 secondi

= 0.76 minuti

Poiché dalla ( ) si ha:

Fo = FT /10 (121.1- T)/z

Si avrà che il trattamento di 0.76 minuti a 138°C equivarrà ad un trattamento a

121.1°C pari a:

Fo = 0.76 / 10(121.1 -138)/10

Fo = 37.37 minuti

Tale valore di Fo è molto elevato.

Si consideri infatti che le seguenti circostanze lo confermano:

a - nella sterilizzazione degli alimenti non si superano mai, in pratica, valori di

Fo superiori a 20. Generalmente si impiegano valori di Fo compresi tra 5 e 18,

con massima frequenza intorno a 7.5-8 (Stumbo e al., 1975; 1983).

b - Valori di Fo prossimi a 8 offrono garanzie già eccezionali nei confronti del

microrganismo patogeno più difficilmente sterilizzabile (Cl. botulinum). Basti

considerare che con tali valori di Fo si determinano circa 32 riduzioni decimali

delle spore più termoresistenti di Cl. botulinum, vale a dire che la probabilità di

sopravvivenza è pressoche di una spora in una massa di prodotto (1032

gr)

all'incirca pari a quella del sole.

c - Con un Fo = 8 si determinano circa 8 riduzioni decimali delle spore più

termoresistenti del microrganismo mesofilo (e quindi in grado eventualmente di

alterare il prodotto a temperatura ambiente) più resistente al calore, il Cl.

sporogenes.

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d - Con un Fo di 8 si determinano solo 2 riduzioni decimali delle spore

termoresistenti (D121.1°C = 4 ) di Bacillus stearothermophilus, ma che si possono

predisporre interventi idonei a ridurre in misura determinante la contaminazione

del latte, eseguendo tutte le operazioni - dalla mungitura alla raccolta, al

magazzinaggio, al trasporto - in condizioni di massima igiene e protezione

ambientale, e impiegando temperature di refrigerazione in tutte le fasi che lo

consentono.

Rimane comunque di rilevante interesse stabilire trattamenti sterilizzanti che

preservino al massimo grado le caratteristiche nutrizionali e organolettiche del

prodotto.

Come è noto, infatti, anche la degradazione termica dei componenti nutritivi e

le modificazioni delle caratteristiche organolettiche (colore, odore, sapore, ecc.) si

assume che avvengano con andamento esponenziale e siano descritti con

parametri corrispondenti a D e z.

Come si può rilevare dalla Tabella 2, i valori dei principali parametri di

sterilizzazione possono essere molto simili a quelli richiesti per la distruzione dei

microrganismi.

Tali circostanze impongono l'individuazione di trattamenti sterilizzanti di entità

tale che, fatte salve le condizioni di carattere sanitario irrinunciabili (12 D per le

spore termoresistenti del Cl. botulinum), consentano di preservare ai livelli

opportuni le qualità nutrizionali e organolettiche del prodotto e garantiscano un

accettabile livello di sterilità commerciale (distruzione dei microrganismi non

patogeni, ma in grado di alterare il prodotto).

Tab. 2 - Resistenza termica dei principali componenti alimentari.

_________________________________________________________

Composti e reazioni D121°C z

_________________________________________________________

Vitamine 10 - 1000 24 - 37

Acido ascorbico 246 50.5

Tiamina 158 31

Carotene 43.6 25.5

Caratteri organolettici 5 - 500 24 - 74

Clorofilla 13.2 38.8

Imbrunimento (latte) 12.5 26.0

Denaturazione proteica 1 - 10 7 - 60

_________________________________________________________

Generalmente si procede in tre fasi:

(1) si definisce il valore minimo accettabile di Fo;

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96

(2) si stima il valore di FT corrispondente; e quindi

(3) si inizia la fase di sperimentazione che conduce alla scelta definitiva del

trattamento di sterilizzazione.

1 - Per definire il valore del trattamento termico atto a garantire il richiesto

livello di sterilità commerciale, si fa riferimento a considerazioni del tipo

riportato nella Tabella 3, e si individua, sulla base di accurati controlli analitici

delle condizioni microbiologiche di lavorazione, l'Fo in grado di offrire le

richieste garanzie di sterilità.

Generalmente, a tale valore di Fo si aggiunge qualche minuto per tener conto di

imprevedibili scostamenti delle condizioni operative (di origine strumentale,

impiantistica, microbiologica, umana) da quelle standard di processo.

2 - La temperatura di trattamento T e il valore di FT corrispondente al prescelto

valore di Fo, vengono definiti sulla base di informazioni del tipo riportato nelle

Tabelle 4-6, che consentono di stimare l'entità della degradazione dei componenti

nutrizionali e organolettici (colore, odore, sapore, ecc.) di maggiore rilevanza, al

variare delle possibili combinazioni tempo/temperatura corrispondenti al valore di

Fo prescelto.

Tale operazione è resa possibile dalla circostanza che i valori di z per la

distruzione dei più importanti componenti nutrizionali sono nettamente superiori

(come risulta anche dalla Tab. 2) a quelli dei microrganismi. È così possibile

ottenere, in brevi trattamenti ad alta temperatura, una pari inattivazione microbica

percentuale e una minore degradazione chimica in generale.

Tab. 3 - Distruzione delle spore batteriche e valore di Fo.

____________________________________________________

Fo nD nD nD

Cl. botulinum. B. stearothermophilus Cl. sporogenes

_____________________________________________________

3 12 0.75 3

5 20 1.25 5

7 28 1.75 7

9 36 2.25 9

11 44 2.75 11

13 52 3.25 13

15 60 3.75 15

17 68 4.25 17

19 76 4.75 19

21 84 5.25 21

_____________________________________________________

nD = numero di riduzioni decimali.

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97

Il processo di sterilizzazione denominato UHT si basa proprio su tale circostanza:

ad elevata temperatura la probabilità di inattivazione dei microrganismi è molto

superiore a quella di degradazione dei componenti nutrizionali e quantitativi.

3 - La fase di cosiddetta sperimentazione è di notevole complessità; coinvolge

competenze di carattere impiantistico, tecnologico, statistico, microbiologico,

chimico- analitico, ecc., e tende a valutare con la massima attenzione l'influenza

determinata da tutte le variabili di processo sulla qualità del prodotto; l'affidabilità

degli impianti e della strumentazione; le implicazioni microbiologiche e chimiche

connesse alle singole operazioni; ecc.

Attraverso approssimazioni successive si perviene alla caratterizzazione finale

della tecnologia di trasformazione, e quindi di sterilizzazione, e alla sua

implementazione.

È spesso presente, nei valori di Fo e di FT adottati dalle singole Aziende (e nella

tecnologia di trasformazione nel suo complesso) una componente qualificante,

che è un riflesso dell'ambiente culturale in cui ne è avvenuta la definizione (oltre

che di circostanze contingenti). Ed è così che in pratica vengono impiegati valori

di Fo che vanno da 6 a 18, e non è adottato da tutte le aziende un analogo valore

di Fo.

Tab.4 - Trattamenti termici FT equivalenti (per z=10°C) a

diversi valori di Fo.

………………………………………………………………

Temperature, °C

Fo 120 125 130 135 140 145 150

_________________________________________________

5 6.4 2.0 0.6 0.2 0.06 0.02 0.006

7 9.0 2.9 0.9 0.3 0.09 0.03 0.009

9 11.6 3.7 1.2 0.4 0.12 0.04 0.012

11 14.2 4.5 1.4 0.5 0.14 0.05 0.014

13 16.8 5.3 1.7 0.53 0.17 0.053 0.017

15 19.3 6.1 1.9 0.61 0.19 0.061 0.019

17 21.9 6.9 2.2 0.69 0.22 0.069 0.022

19 24.5 7.7 2.5 0.77 0.24 0.077 0.024

21 27.1 8.6 2.7 0.86 0.27 0.086 0.027

_____________________________________________

D121.1°C = 4; z = 10°C.

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Tab. 5 - Frazioni del tempo di riduzione decimale della tiamina

che si ottengono con i valori di FT riportati nella Tab. 4 .

_________________________________________________________

Temperatura, °C

Fo 120 125 130 135 140 145 150 _________________________________________________________

5 0.06 0.03 0.01 0.006 0.003 0.001 0.0007

9 0.11 0.05 0.025 0.013 0.006 0.003 0.0013

13 0.15 0.07 0.035 0.017 0.008 0.004 0.0019

17 0.20 0.10 0.046 0.022 0.011 0.005 0.0024

21 0.25 0.12 0.056 0.027 0.013 0.006 0.0030

_________________________________________________________

D121°C =100; z = 28.

Tab. 6 - Multipli e frazioni del tempo di riduzione decimale

per la degradazione dei caratteri organolettici (colore,

odore, sapore), che si ottengono con i valori di FT riportati

nella Tab. 4 .

_______________________________________________________

__

Temperatura, °C

Fo 120 125 130 135 140 145 150

_______________________________________________________

__

5 1.18 0.54 0.24 0.12 0.051 0.025 0.011

9 2.13 1.00 0.48 0.23 0.103 0.050 0.022

13 3.09 1.43 0.68 0.31 0.145 0.066 0.032

17 4.03 1.86 0.88 0.40 0.188 0.086 0.041

21 4.98 2.32 1.08 0.50 0.231 0.108 0.050

_______________________________________________

D121°C = 5; z = 30.

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99

CONSIDERAZIONI sulla Diversa

TERMORESISTENZA dei Microrganismi

MESOFILI e di quelli TERMOFILI.

Sono detti Mesofili i batteri che si accrescono a temperature comprese tra circa 10

e 46 gradi Centigradi. Sono detti termofili, quelli che possono accrescersi anche a

temperature prossime a 75°C.

La termoresistenza sporale aumenta all'aumentare della temperatura massima alla

quale il batterio è in grado di accrescersi (WART, 1978), e quindi è maggiore nei

termofili che nei mesofili.

Il batterio mesofilo più termoresistente può senz'altro essere considerato il

Clostridium sporogenes. Il ceppo di riferimento nei riguardi della sterilizzazione

termica degli alimenti è denominato Putrefattivo Anaerobio 3679 (o più

semplicemente PA 3679). Il tempo di riduzione decimale a 121.1°C (D121.1) al

quale si fa riferimento, e che riguarda ovviamente le spore di tale ceppo, è di 1.5

minuti, con il valore usuale di riferimento di z = 10°C = 18°F.

Si considera sufficientemente stabile o commercialmente sterile, un prodotto che

abbia subito un trattamento termico tale d'aver indotto 5-7 riduzioni decimali (nD

= 5-7) delle spore del PA 3679. Tale tempo corrisponde quindi a 7.5 - 10.5 minuti

effettivi a 121.1, ossia 7.5 < Fo < 10.5 .

I batteri termofili che possono contaminare con una certa frequenza i prodotti

alimentari, hanno generalmente una termoresistenza superiore a quella del PA

3679. Possono avere una resistenza cento volte superiore.

Le specie più termoresistenti sono indicate di seguito:

Desulfotomaculum nigrificans 2.0<D121.1<3.0

Clostridium thermosaccharolyticum 3.0<D121.1<4.0

Bacillus stearothermophilus 4.0<D121.1<5.0

I valori di Fo che determinano 5-7 D delle spore del PA 3679, possono dunque

determinare solamente da 1.5 D a 2.1 D delle spore dei termofili più resistenti .

In considerazione del fatto che non sono mai stati riportati eventi di tossinfezione

imputabili a batteri termofili, esiste una diffusa tendenza (concettuale, ma anche

da parte delle Istituzioni di Controllo) alla tol=

leranza di sopravvivenze percentuali di termofili superiori a quelle dei mesofili.

Si ritiene generalmente che il massimo livello di contaminazione da spore

termoresistenti di mesofili sia di una per grammo. Quindi trattamenti termici di

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100

Fo = 5-7 determinano probabilità di sopravvivenza prossime a 0.1 - 0.001 per

cento:

Log Ct = Log Co - nD

= Log 100 - 5

= 2 - 5

= -3

da cui:

Ct = 10-3

= 0.001

ed essendo le concentrazioni sporali espresse in numero di spore / campione, Ct=

0.001 equivale a una spora sopravvivente ogni mille campioni (= 0.1 % ).

Ma trattamenti termici della stessa entità non modificano in misura altrettanto

rilevante la probabilità di sopravvivenza dei termofili. Infatti, considerato della

stessa entità il livello massimo di contaminazione iniziale dei prodotti, la

sopravvivenza percentuale ad un Fo di 7.5 sarà ininfluente sulla percentuale di

campioni potenzialmente instabili (visto che ci si attende la sopravvivenza di più

di 3 spore per unità da 100 g, e con più di una spora per campione ci si aspetta

che tutti i campioni si alterino), infatti:

Log Ct = Log 100 - Fo/D

= 2 - 7.5/5

= 0.5

da cui:

Ct = 100.5

= 3.16

oppure, nel caso di Fo=10.5, sarà di Ct = 0.8 spore per campione:

Ct = 102-2.1

= 10-0.1

= .794

con una frequenza attesa di alterazione (ESF) prossima al 55 per cento:

ESF = 1- e-Ct

Tale situazione sarebbe accettabile, almeno nelle zone temperate del globo se i

batteri termofili si accrescessero (e quindi alterassero i prodotti) solamente nel

corso del magazzinaggio a temperature superiori a quelle usuali appunto nei climi

temperati, e che sono più spesso nell'ambito delle temperature di sviluppo dei

mesofili.

Malauguratamente, una frazione non trascurabile delle specie termofile può

accrescersi da temperature prossime a 70°C, fino a 28-30°C. Ciò significa che un

prodotto trattato termicamente con Fo sufficiente a ridurre ragionevolmente la

probabilità che sia alterato da batteri mesofili (e comunque assolutamente sicuro

per quanto concerne la pericolosità potenziale per la sopravvivenza di batteri

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101

patogeni), può tuttavia essere alterato dai termofili "facoltativi", vale a dire capaci

di accrescersi anche a temperature più adatte ai batteri mesofili.

Apparentemente, non ci sono alternative: per stabilizzare un prodotto anche nei

confronti dei termofili, è necessario aumentare l'entità del trattamento termico.

Per determinare un numero di D analogo a quello previsto per il PA 3679, e

quindi per nD compreso tra 5 e 7, il valore di Fo dovrebbe essere elevato a 25 -

35 minuti, rispettivamente. Tali valori di Fo non sarebbero nemmeno

impraticabili, visto che la maggior parte dei prodotti può sopportare (sotto il

profilo chimico-fisico e organolettico) trattamenti di tale entità. Purchè si

raggiungessero effettivamente i livelli di stabilizazione attesi. In realtà, alcuni

batteri termofili appartenenti alle specie Desulfotomaculum nigrificans e

Clostridium thermosaccharolyticum, hanno mostrato di poter formare spore

provviste di resistenza termica enormemente elevata. In più di un'occasione

sospensioni sporali di tali specie batteriche hanno mostrato valori di tempo di

riduzione decimale pari a 10 - 15 minuti a 127 - 129 °C (XEZONES et. al., 1965;

DEIS, 1979; DONNELLY e BUSTA, 1980). Si consideri che sulla base di uno

"z" = 10, tali resistenze corrispondono a D121°C di 60 minuti e oltre, e quindi anche

solo 5 D richiederebbero più di 5 ore di trattamento sterilizzante a 121°C.

Prodotti contenenti spore così resistenti, sarebbero quindi in-sterilizzabili. Si

tenga conto, inoltre, che gran parte dei ceppi appartenenti a queste due specie,

sono in grado di svilupparsi a 28-30°C e di alterare un prodotto immagazzinato a

temperatura ambiente in climi temperati.

Fortunatamente, le osservazioni dei diversi autori sembrano concordare su una

circostanza del massimo interesse. I valori più elevati di D delle spore dei batteri

termofili più resistenti tendono ad essere associati a valori di "z" particolarmente

bassi e prossimi a 4°C.

Il valore di "z" indica, come è noto, di quanto deve variare la temperatura di

trattamento perché il tempo di riduzione decimale D cambi di 10 volte (…).

Nella Tab. 7 sono riportati i valori dei trattamenti termici di uguale entità, alle

differenti temperature, sulla base del valore di "z". Come si può rilevare, un

tempo utile di 12 minuti a 121°C (Fo = 12; oppure D=12 minuti, oppure 12

secondi, ecc.) è esattamente equivalente ad un trattamento di 3 minuti a 127°C,

1.2 minuti a 131°C, 0.76 minuti a 133°C, e cosi' via, se si considera uno z = 10,

come è la norma nella sterilizzazione termica. Ma se si considera uno z = 4, ad

esempio, i trattamenti termici richiesti a temperature superiori a quella di

riferimento, e comunque equivalenti ad un trattamento di 12 (min, sec, h, etc.),

sono pari a 0.378, 0.038 e 0.012 per le temperature di 127°C, 131°C e 133°C,

rispettivamente.

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102

Tabella 7. Influenza dello "z" sulla letalità a diverse

temperature.

……………………………………………………..

TEMPERATURA °C

"z" 119 121 123 125 127 129 131 133

…………………………………………………….

4 38 12 3.8 1.2 .38 .12 .04 .012

10 19 12 7.6 4.8 3 1.9 1.2 .76

-------------------------------------------------------------

nD= z=10/ z=4

0.5 1 2 4 7.9 15.8 30 63

……………………………………………………

Due microrganismi, entrambi con D121 = 12 , ma uno con z di 4 e l'altro con z di

10, sono inattivati con diversa facilità a temperature diverse da questa di

riferimento. Con uno z minore, il valore di D aumenterà molto più rapidamente

abbassando la temperatura (e quindi il microrganismo sarà distrutto con sempre

maggiore difficoltà) e diminuirà invece molto rapidamente innalzando la

temperatura. Si verifica dunque la condizione che, tenendo conto dell'ortodossia

termo-batteriologica e quindi confrontando i tempi di sterilizzazione equivalenti

sempre sulla base di z=10,

la probabilità di sterilizzazione dei microrganismi con z=10 sarà sempre

equivalente a tutte le temperature, ma la probabilità di sterilizzazione dei

microrganismi con z diversi da 10 sarà differente. In particolare, sarà minore

all'abbassarsi della temperatura, e maggiore all'innalzarsi della temperatura.

Nell'ultima riga della Tabella 1, è indicato appunto un set di tali corrispondenze,

per un Fo = 12, a titolo illustrativo. Come si può rilevare, ad una temperatura di

131°C, superiore di z = 10°C a quella di riferimento, con un tempo di

sterilizzazione di 1.2, esattamente corrispondente a 12 minuti a 121°C (Fo=12), si

possono ottenere 30 D di un microrganismo che abbia una elevata resistenza a

121°C ( D121=12, ad esempio) e che quindi possa subire solo una D, se il

trattamento di sterilizzazione è effettuato a 121°C, anche se il tempo è

esattamente equivalente (su base convenzionale di z=10°C).

Come si riscontra dalla Tabella 8, per determinare una riduzione decimale di un

microrganismo con D127=15 minuti, o si aumenta in misura intollerabile (circa 8

ore) il tempo di trattamento a 121 (Fo=474), oppure, con procedura enormemente

più efficace e razionale, si aumenta la temperatura di trattamento. Come si può

rilevare infatti dalla Tabella 2, con un F(133)=3.8 si ottengono ben 8 D del

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103

presunto termofilo con z=4. Un trattamento equivalente sarebbe assolutamente

inefficace se applicato a 121°C, come si vede (Fo=60, determina solo .12 D), per

effetto del valore estremamente diverso del tempo di riduzione decimale alle due

temperature.

Tabella 8 - Trattamenti termici corrispondenti

a 15 minuti a 127°C, sulla base di z differenti.

………………………………………………………

TEMPERATURA = °C

" z " 121 123 125 127 129 131 133 135

………………………………………………………

4 474 150 47 15 4.7 1.5 .47 .15

10 60 38 24 15 9.5 6 3.8 2.4

---------------------------------------------------------

nD = z=10/ z=4

.12 .25 .51 1 2 4 8 16

……………………………………………………….

Un Fo = 60 potrebbe rivelarsi comunque troppo elevato, indipendentemente dalla

temperatura di applicazione.

A questo punto ci si chiede allora a quale temperatura, superiore a quella usuale

di riferimento, si può applicare il valore di Fo che si intende comunque applicare

in ossequio alle note considerazioni riguardanti i mesofili patogeni, affinché

anche la percentuale di inattivazione dei termofili raggiunga i livelli più

soddisfacenti.

Tenendo conto della cinetica esponenziale d'inattivazione, si ha che il tempo q

di trattamento ad una temperatura qualsiasi Tq, che sia equivalente ad un tempo

fissato r ad una temperatura di riferimento Tr, è dato, dalla (…):

q = r * 10((Tr-Tq)/z)

Si può calcolare il valore di temperatura alla quale, applicando il valore di Fo

desiderato, si ottenga una distruzione almeno pari a quella che si ottiene per i

mesofili, e comunque la temperatura di trattamento che consente di ottenere il

valore desiderato, ottimale, o possibile (in base alle apparecchiature disponibili

per effettuare la sterilizzazione) del rapporto:

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104

mes/ term

tra letalità per i mesofili e letalità per i termofili, alla temperatura Tq ricercata.

Posto:

mes/ term = " (102)

ed anche :

R(mes) / R(term) = º (103)

dove :

R(mes) e R(term) rappresentano il valore dello stesso rapporto ma alla

temperatura Tr di riferimento, cosicchè:

" = º * 10(Tr-Tq)/z(mes)

*10(-(Tr-Tq)/z(term))

(104)

equivalente a:

Log " = Log º + (Tr-Tq)*ϑ (105)

dove :

ϑ = (zRmes - zRterm) / (zmes*zterm) (106)

si ottiene, scelti i valori di z e di Tr, che la temperatura richiesta Tq è pari a:

Tq = Tr - (Log " - Log º) / ϑ (107)

Posto quindi, in accordo con quanto detto sopra e a titolo esemplificativo:

zmes = 10°C

zterm = 4 °C

Tr = 121.1 °C

cosicchè:

R(mes) e R(term) sono i trattamenti termici di riferimento a 121.1°C e

quindi:

R(mes) = Fo e R(term)=474

ne deriva che:

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105

Tq = 121.1 - (Log ¹ + 1.6)/(-0.15) (108)

da cui:

Tq = 131.7 + 6.67*Log " (109)

dalla quale si ottiene subito che tempi uguali di trattamento (sulla base sia di z=10

che di z=4), si potranno praticare alla temperatura Tq = 131.7°C, poiché in questo

caso il valore di ¹ = 1, ossia i due valori di sono uguali. Tale temperatura è

quella che consente di ottenere una inattivazione pari a quella che si sarebbe

ottenuta a 121°C, ossia a Tr, con un trattamento pari a term. E’ chiaro quindi che

pur mantenendo costante il valore di Fo, a 121°C non si sarebbe ottenuta alcuna

distruzione dei termofili, mentre a Tq si ottiene 1D, visto che si è considerato

Rterm= 1 D = 474 min.

Ovviamente, poiché il valore di z=10/ z=4 aumenta all'aumentare della

temperatura, sempre più rapidamente a temperature superiori a Tq, aumenterà

anche sempre di più il numero di riduzioni decimali dei termofili che si

otterranno, a parità di Fo.

Dalla (E9) si può ottenere la seguente tabella di corrispondenze tra tempi e

temperature di trattamento equivalenti in base ad uno z=10 (e quindi in accordo

con le vigenti convenzioni), ma che consentono, a parità di Fo, di ottenere diversi

livelli di distruzione dei termofili termoresistenti con z=4, a temperature

differenti.

In (109) Tq è la temperatura di un qualunque trattamento termico (D, nD, , ecc.)

al quale la letalità per i termofili è ¹ volte quella per i mesofili. Come dalla

Tabella 1, si è assunto Rterm= 474, sulla base di un valore di D127°C =15 minuti,

cosicchè, dalla (105):

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106

" = (12/474) * 10((Tr-Tq)/ϑ)

A questo punto, ci si rende conto di come possa essere di determinante interesse

l'applicabilità pratica di trattamenti di sterilizzazione anche di usuale entità (su

base Fo) ma a temperature molto elevate.

Poiché i tempi di trattamento diminuiscono all'aumentare della temperatura, la

produttività degli sterilizzatori non potrebbe che aumentare. Di fatto, le

temperature Tq che si ottengono dall'equazione E9, sono piuttosto elevate. Ma gli

sporigeni termofili che si possono inattivare a tali temperature, sono anche i più

termoresistenti che si conoscano.

Se si fa riferimento invece ai termofili di più normale termoresistenza, e si

considera ad esempio un D

massimo a 121°C pari a 5 minuti, allora si avrà, come risulta anche dalla Tabella

3, che mentre un Fo=12 determina solamente 2.4D se applicato a 121°C, ne

determinerà un numero sempre maggiore all'aumentare della temperatura di

trattamento, e viceversa, al diminuire della temperatura di trattamento.

Tabella 3 - Trattamenti termici equivalenti sulla base

di z=10 e z=4, per Fo=12 e D121°C =5 minuti.

…………………………………………………….

"z" temperatura °C

117 119 121 123 125 127 129 131

…………………………………………………….

4 50 16 5 1.6 .5 .16 .05 .02

10 30 19 12 7.6 4.8 3 1.9 1.2

--------------------------------------------------------

" 0.6 1.2 2.4 4.8 9.6 18.8 38 60

Malauguratamente, peraltro, lo zeta dei termofili tende verso valori tanto più bassi

quanto più è elevata la termoresistenza, e si approssima invece al valore 10 tanto

di più quanto minore è la termoresistenza. Rimanendo tuttavia la suddetta una

tendenza consolidata, conviene in ogni caso aumentare quanto possibile non

tanto lo Fo, e quindi l'entità del trattamento termico, quanto invece la

temperatura di applicazione del valore prescelto di Fo.

Queste, perlomeno, sono le conclusioni suggerite dal rapporto tra termoresistenza

dei mesofili (z più spesso prossimo a 10) e termoresistenza dei termofili (z tanto

minore quanto maggiore è la termoresistenza).

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107

TERMORESISTENZA VIRALE

Le indicazioni fornite dalla letteratura sulla termoresistenza delle particelle virali

sono apparentemente contraddittorie. Di contro a numerose testimonianze di

scarsa, scarsissima resistenza,ve ne sono altre di inquietante evidenza opposta.

I virus più resistenti appartengono più spesso alle famiglie dei Parvoviridae

(ssDNA), Papoviridae (dsDNA), Picornaviridae (ssRNA), Adenoviridae

(dsDNA) e Reoviridae (dsRNA). Appartengono a tali gruppi anche quelli più

importanti per la salute pubblica. Le prove di termoresistenza sono state eseguite

più spesso adottando le tecniche convenzionali impiegate in bateriologia:

sospensioni in acqua, siero, latte, ecc. in capillari, provette, o recipienti di

maggiori dimensioni, sono stati esposti per tempi crescenti a temperature letali,

quindi si è proceduto a rilevare la infettività residua delle particelle. Date

dimensioni e densità delle particelle virali, le concentrazioni impiegata più spesso

sono molto più elevate di quelle impiegabili in batteriologia. Raramente si

riscontrano nella letteratura descrizioni di cinetiche d'inattivazione (esemplari

quelle di Kaplan sul virus vaccinico) sullo schema e con le proposizioni abituali

in batteriologia. Più spesso si riportano tempi di sopravvivenza, o di distruzione,

semplicemente, senza un'indicazione della concentrazione iniziale delle particelle

virali.

Talvolta, sospensioni che apparentemente non contengono virus sopravviventi ai

saggi colturali con sistemi di cellule, si rivelano ancora infettanti per inoculazione

diretta negli animali. Eventi di questo tipo sono stati riscontrati più spesso con

virus ascrivibili alle cinque famiglie indicate sopra, aventi appunto acidi nucleici

infettanti.

Le temperature usualmente impiegate nelle prove di resistenza termica sono

comprese tra 40 e 60°C e i tempi di riduzione decimale e i valori di z

(generalmente ricavabili con difficoltà dai documenti pubblicati) sono dello stesso

ordine di grandezza che si è visto per le cellule batteriche vegetative. Come si può

rilevare peraltro anche dalla Tabella TRV 1, i valori di D sono molto dispersi.

Accanto a D50°C di 4 minuti (Herpes simplex, Poliovirus 1), si trovano valori di

D60°C compresi tra 2 e 30 minuti e D80°C di 5 min (Poliovirus 1); di solito comunque

non si superano valori di D a 100°C pari a 10 minuti.

Si ottengono valori rappresentativi di DT per gran parte dei gruppi virali, in

relazione alla sopravvivenza determinata in colture cellulari, mediante le

seguenti relazioni, in alimenti fluidi:

Log DT = 19.2 - .3 * T

z = 3.3

in alimenti solidi:

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108

Log DT = 24.1 - .34 * T

z = 2.9

dove T è la temperatura in °C.

Dall'infettività degli acidi nucleici si ottengono invece equazioni generali che

descrivono resistenze più elevate:

per DNA virale:

Log DT = 6.96 - 0.059 * T

z = 17

per RNA virale:

Log DT = 5.1 - 0.042 * T

z = 24

Dalle prime due relazioni si ricava che il trattamento necessario per ottenere 12D

a 71°C è di circa 3 secondi nei mezzi fluidi, e di circa 12 minuti nei substrati che

si riscaldano prevalentemente per conduzione.

Le relazioni per DNA e RNA virale portano ai valori di D100°C intorno a 10 minuti

(2 ore per 12D) e D121°C di .6-1 minuto, con tempi di 7.5-12.5 per 12D.

Tale diversità è dovuta sia ai valori di D estremamente elevati per i DNA e gli

RNA infettanti, sia ai valori di zeta.

Ne deriva che i tempi di pastorizzazione comunemente impiegati si possono

considerare sufficienti, in relazione alla resistenza virale (e soprattutto se applicati

alle temperature più alte previste), ma nettamente inadeguati in relazione

all'infettività virale. I valori di Fo applicati normalmente nella sterilizzazione

degli alimenti invece, prossimi appunto, o superiori, a Fo= 7 - 12, sono invece del

tutto soddisfacenti, in quanto tali da determinare almeno 12D anche per gli acidi

nucleici infettanti.

I valori eccezionalmente elevati ( D138°C di alcuni minuti) che si riscontrano per

particelle sub-virali di tipo Scrapie, richiedono considerazioni particolari.

(Vedere Nota sulla distruzione termica dei virus-non-convenzionali).

È certamente documentato che in diversi prodotti alimentari la resistenza virale

all'inattivazione aumenta apparentemente in misura vistosa rispetto agli ambienti

modello (tamponi, substrati colturali). Si può ritenere ragionevolmente infatti che

tutta una serie di condizioni fisico-chimiche che possono interferire con la

probabilità d'inattivazione cellulare in generale, esercitino in misura più evidente

tali loro caratteristiche nei confronti di particelle di cosi' ridotte dimensioni.

Ma si può ritenere che il fenomeno più rilevante riguardante la termoinattivazione

virale sia rappresentato dalle deviazioni delle cinetiche d'inattivazione

dall'esponenzialità. (Vedere Nota sul tailing-off)

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109

Tali deviazioni sono rappresentate massimamente da curve d'inattivazione

caratterizzate da rapide decrescite delle concentrazioni di particelle virali infettive

già ai trattamenti di minore entità, seguite da bassi livelli di sopravvivenza che

apparentemente non sono più sensibili all'aumentare dei tempi di esposizione a

temperature "letali". Le prolungate sopravvivenze che si osservano quando la

concentrazione virale è sufficientemente bassa, sono comunemente dette "code".

Le "code" si presentano a concentrazioni virali tanto più elevate (anche a 105

particelle/ml o gr) quanto meno letale è la temperatura di trattamento. Con

l'aumentare della temperatura di trattamento, le curve d'inattivazione tendono a

divenire esponenziali e comunque le code si presentano a concentrazioni molto

inferiori di particelle.

Tale fenomeno di tailing, noto anche in batteriologia (Casolari, 1981), è stato

osservato, anche con i virus, nelle cinetiche d'inattivazione sia da agenti fisici

(radiazioni ionizzanti e ultraviolette; ultrasuoni, ecc.), che chimici (disinfettanti,

ecc.), ed è connesso al meccanismo dell'inattivazione termica.

Due considerazioni sono di particolare rilievo in relazione ai fenomeni di tailing.

Tab. VHR - Termoresistenza virale.

___________________________________________

V I R U S Substrato T°C Dmin

____________________________________________

Herpes simplex Tris Buf. 50 4

Cytomegalovirus Tris Buf. 50 16

Influenza A Biol.fluids 45 2.3

Measles Culture 56 7.2

Vaccinia Citr.buff. 60 1.3

Vaccinia Citr.buff. 60 45

Herpes simplex Ice cream 65 0.007

Newcastle dis. V. Whole egg 64.4 .3

Leukemia Ice cream 55 .028

Rous sarcoma Ice cream 55 .008

Swine fever Ham 65 4.4

Tickborne enceph. Milk 72 .045

Adenovirus Icecream 65 .008

Swine vesic. dis. Milk 56 .12

Poliovirus I Beef ground 80 .9

Coxsackievirus A9 Sausage 49 120

Poliovirus 1 Sausage 60 30

Echovirus Sausage 60 30

Poliovirus Milk 61.7 8.6

Coxsackievirus Milk 71.6 .07

FMDV Milk 72 .07

FMDV Tissue 80 40

Echovirus 6 Egg White 56.7 .9

Poliovirus 1 Egg White 57.8 .29

Echovirus Egg Yolk 56.7 4.55

Poliovirus 1 Egg Yolk 60 .48

FMDV Milk 72 .06

Reovirus 1 Ice Cream 65 .06

__________________________________________

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110

1 - Generalmente, il livello di contaminazione residua di un prodotto alimentare

deve essere piuttosto elevato perché gli organismi sopravvissuti alle pratiche della

pastorizzazione e della sterilizzazione siano in grado di provocare la malattia

nell'individuo che li ingerisce.

Tale circostanza tende ad attenuare gli effetti dovuti normalmente al tailing-off.

2 - In ogni caso, come per i batteri, cosi' anche per i virus si riscontra la tendenza

generale alla scomparsa delle code all'aumentare della temperatura di trattamento

(esponenzializzazione delle cinetiche). Da quì ancora una conferma

dell'importanza prevalente della temperatura di trattamento, sull'entità

complessiva del trattamento stesso. Vale a dire, che saranno comunque da

privilegiare i trattamenti termici alle temperature più elevate, indipendentemente

dal valore di F71 o Fo.

PRIONI.

ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI

E STERILIZZAZIONE TERMICA.

Sono meglio note tre malattie degenerative del sistema nervoso centrale: il

kuru, la malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e la scrapie; sono note anche

l'encefalopatia trasmissibile del visone (TME) e la malattia devastante dei cervi

(CWD). A queste si è aggiunta recentemente l'encefalopatia spongiforme dei

bovini (BSE)(Wells et al., 1985). Le preminenti caratteristiche comuni sono:

(i) lungo periodo d'incubazione (4-10 mesi, 20-30 anni);

(ii) degenerazione spongiforme del sistema nervoso centrale, con

manifestazioni neurologiche diverse;

(iii) esito invariabilmente fatale in tempi brevi (generalmente 4 mesi - 2 anni);

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111

Le encefalopatie spongiformi (ES) sono provocate da agenti trasmissibili

molto simili tra loro, spesso definiti virus lenti non-convenzionali, e più

recentemente ‘prioni’ (Prusiner, 1994), una classe di particelle infettive capaci di

autoriprodursi, prive di DNA, resistenti alle proteasi.

Apparentemente i prioni sono così resistenti ai comuni agenti fisico-chimici letali,

da rendere le usuali tecniche di sterilizzazione del tutto inefficaci.

RESISTENZA TERMICA DEI PRIONI.

Le osservazioni sulla resistenza termica degli agenti dell' ES hanno indotto il

Department of Health and Social Security (DHSS) UK a raccomandare (1984)

trattamenti sterilizzanti pari a:

18 minuti a 134°C,

oppure:

6 cicli di 3 minuti a 134°C

In precedenza (1981) la stessa DHSS aveva proposto quattro trattamenti dichiarati

"equivalenti":

121-124°C * 90 min

126-129°C * 60 min

136-138°C * 18 min

136-138°C * 3 min * 6 volte

per oggetti e materiali contaminati da CJD, o sospetti.

L'American Neurological Association (ANA) ha proposto invece 132°C per

un'ora e, come procedura parzialmente efficace, 15-30 minuti a 121°C (1986).

Si può rilevare che non sono proprio la stessa cosa 121 o 124 gradi, ecc., tanto

è vero che 90 minuti a 121°C corrispondono a un Fo di 89, mentre 90 minuti a

124°C corrispondono ad un Fo di 125.6, tenendo conto di un valore di z pari a 20

circa, come deriva dai due tempi di 90 e 18 minuti.

Tali Fo sono comunque molto superiori a quelli attualmente applicati (intorno a

15 minuti) ai ns. prodotti. Non solo, ma sono molto superiori a tutti i valori di Fo

attualmente applicati agli alimenti, in tutto il mondo.

Le raccomandazioni del DHSS e dell'ANA furono originate da una serie di

osservazioni sperimentali secondo le quali in un'ora a 121°C l'infettività (LD50)

dello scrapie sospeso in cervello si riduce da 1010.11

a 102.56

(≈7.55 D) (Brown et

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112

al., 1982). Altri autori hanno rilevato l'insufficienza di trattamenti di 10 minuti a

118°C (Hunter e Millson, 1964), o di un'ora a 124°C (Mould e Dawson, 1970).

Una-due ore di autoclave a 126°C riducono l'infettività di 3-7 cicli logaritmici, a

seconda del ceppo, pur rimanendo sempre un'infettività residua. Dopo 4-32

minuti a 136°C non si ottiene ancora la completa sterilità(Kimberlin et al.,

1983).

Finalmente nel 1984, Rohwer presenta dei risultati di termoresistenza dello

scrapie, nei quali si riconosce chiaramente la presenza di fenomeni di "coda" nelle

cinetiche d'inattivazione: in un minuto di trattamento a 121°C si determinano più

di sei riduzioni decimali, e praticamente nessuna inattivazione nei successivi 10

minuti.

Pochi mesi dopo, lo stesso autore mostra curve concave di inattivazione da

disinfettanti (ipoclorito, metaperiodato, iodio, formaldeide) per lo stesso scrapie.

Rohwer si esprime chiaramente in entrambi i casi: "...the majority of scrapie

infectivity is inactivated by brief exposure to temperatures of 100°C or greater..",

"...scrapies resistance to many inactivants "(disinfettanti)" is limited to small

subpopulations ...the majority population being highly sensitive to inactivation."

I virus sono abitualmente inattivati a temperature di pastorizzazione (60-90°C) in

tempi brevi (vedi Tabella sulla termoresistenza virale). Fenomeni di "coda" nella

curva di inattivazione dei virus sono considerati peraltro piuttosto frequenti

(Ginoza, 1968; Filppi et al., 1974; DiGirolamo et al., 1970).

In microbiologia il fenomeno delle "code", o tailing off della letteratura

anglosassone, è caratterizzato da curve di inattivazione (da qualsiasi agente fisico

o chimico letale) che si discostano dall'esponenzialità. Generalmente si

manifesta appunto con rapida inattivazione di una frazione importante della

popolazione microbica nelle prime fasi del trattamento, seguita da una fase in cui

la velocità di morte si riduce progressivamente all'aumentare del tempo di

trattamento, fino a raggiungere velocità prossima a zero.

Comportamenti di questo tipo sono stati riscontrati con tutti i microrganismi

(Casolari, 1988). In tutti i casi esaminati, le cinetiche di inattivazione termica dei

batteri divengono di nuovo esponenziali a temperature sufficientemente elevate.

È molto probabile che ciò possa verificarsi anche con gli agenti patogeni delle

encefalopatie spongiformi. In effetti, dai risultati ottenuti da Rohwer a 100°C e

121°C, si ottiene un valore di z = 44°C; dalle prime tre serie di trattamenti

proposti dal DHSS (che sono stati suggeriti dalle osservazioni sperimentali di

diversi autori) si può calcolare che tra la prima coppia di temperature (121-

124°C) e la seconda (126.129°C), z sia pari a 28 °C, mentre tra la seconda e la

terza (136-138°C), lo z sia di circa 10 gradi inferiore. È proprio, quindi, come se

l'inattivazione divenisse più probabile (la velocità di morte, maggiore = le "code"

si accorciassero) all'aumentare della temperatura di trattamento.

Malauguratamente, occorrerebbero anni per verificarlo sperimentalmente.

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113

Le stesse considerazioni, sul fenomeno del tailing off, si possono fare per

quanto concerne le cinetiche d'inattivazione da disinfettanti o comunque agenti

chimici letali. La maggior parte della popolazione infettante è distrutta

rapidamente in condizioni paragonabili a quelle attive nei confronti dei virus; una

ridotta frazione resiste invece a condizioni più drastiche (Rohwer, 1984).

È molto probabile che le stesse considerazioni valgano anche per le cinetiche

d'inattivazione da radiazioni ultraviolette (Rohwer, 1984) e radiazioni ionizzanti

(Gibbs et al., 1978), ma le esperienze non sono descritte con sufficienti dettagli.

Con il termine di ipersterilizzazione (Laurita, com. pers.), impiegato di seguito,

si intende un trattamento termico (da applicare al cervello - ed eventualmente alle

carni in generale - prima dell'immissione alla lavorazione) di Fo così elevato da

offrire le necessarie garanzie nei confronti degli prioni responsabili delle

encefalopatie spongiformi (ES).

La distruzione degli agenti delle ES può essere programmata sulla base delle

combinazioni tempo / temperatura raccomandate dal Departement of Health and

Social Security (DHSS) del Regno Unito o dall'American Neurological

Association (ANA), oppure direttamente sulla base dei risultati sperimentali

pubblicati.

Comunque, le indicazioni disponibili sono tutt'altro che univoche. Nel 1984, il

DHSS raccomandava, per la decontaminazione di materiali infetti da CJD, un

trattamento di 18 minuti a 134 °C; l'ANA proponeva, nel 1986:

60 minuti a 132 °C .

Si può scegliere un trattamento che soddisfi le raccomandazioni sia del DHSS, sia

dell'ANA. In tal caso, si ottengono trattamenti equivalenti ad entrambe,

impiegando l'equazione (110):

Log IPST = 36.288 - 0.26 * T (110)

Dove IPST sta per "tempo di ipersterilizzazione", in minuti.

Nella Tabella seguente sono indicati i valori di IPST a temperature comprese tra

100 e 150°C. Si potrebbe scegliere qualunque tempo ottenuto dalla (110), per

essere in accordo con ANA e DHSS.

In realtà il trattamento Raccomandato dal DHSS non è basato su alcun dato

sperimentale inequivocabile. Si fa riferimento infatti al lavoro di Kimberlin et al.

(1983), che però hanno sperimentato trattamenti a 126 e a 136°C, osservando che

anche dopo il tempo più breve di trattamento a 136°C (4 minuti) non c'erano

sopravviventi. Ci si chiede quindi, su quali basi sia stato raccomandato il

trattamento di "18 minuti" a 134°C, da nessuno sperimentato.

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114

z = 3.82498 °C; Fo = 42446.36 min .

Il trattamento proposto dall'ANA (60 minuti a 132°C) si basa sulle osservazioni

di BROWN et al. (1986), che hanno rilevato come dopo un'ora a 132°C si

ottengano più di 5D per il CJD e più di 8.8 D per lo scrapie (ceppo 263K); ma

identico risultato è stato ottenuto anche a 121°C, come riportato nello stesso

lavoro.

Precedentemente (1981), le raccomandazioni del DHSS proponevano le

alternative:

90 minuti a 121 - 124 °C

60 minuti a 126 - 129 °C

18 minuti a 136 - 138 °C

Da questi parametri è possibile ottenere un valore di z pari a 21.09 dalle tre

temperature inferiori e uno z = 19.65°C, dalle tre temperature maggiori. Ciò

significa anzitutto che i trattamenti raccomandati non sono equivalenti.

Comunque, prescelte le due temperature intermedie come riferimento (126 e

129°C rispettivamente), si possono calcolare le coppie tempo/temperatura

equivalenti, utilizzando le due equazioni:

Log IPST = 7.715 - 0.04741 * °C (111)

e

Log IPST = 8.297 - 0.05899 * °C (112)

ottenute dalle tre temperature inferiori delle coppie, e dalle tre maggiori,

rispettivamente.

Nella Tabelle (ES3 e ES4) sono riportati i valori ottenibili a temperature

comprese tra 100 e 150°C.

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115

Poiché i tre trattamenti raccomandati non sono equivalenti, ne deriva che un

tempo qualunque tra quelli ottenuti dalla (112) ), o dalla (111), non è

necessariamente equivalente a tutti e tre quelli raccomandati dal DHSS.

Le scelte possibili (cautelative, in relazione ad eventuali confronti con Organi di

controllo) sono limitate ai valori ottenibili dalla equazione (112), che

praticamente sono tutti superiori ai valori raccomandati.

Dagli stessi parametri proposti nel 1981 dal DHSS, si possono ottenere valori di z

compresi tra circa 28°C (tra 121°C e 126°C; tra 124°C e 129°C) e circa 18°C (tra

le temperature più elevate). È così possibile calcolare il valore dei trattamenti

equivalenti sulla base di almeno due valori di z, uno per ogni serie di valori delle

coppie. Tuttavia, in situazioni di relativa incertezza (come questa), conviene fare

le necessarie interpolazioni impiegando valori di z maggiori per le temperature

maggiori e valori di z inferiori alle temperature inferiori a quella di riferimento.

Tale operazione ha condotto alle seguenti due equazioni, ottenute appunto dalla

serie di temperature inferiori e superiori, rispettivamente:

Log IPST = 7.059 - 0.04119 * °C (113)

e

Log IPST = 7.565 - 0.04408 * °C (114)

I valori di Fo corrispondenti ai trattamenti termici previsti dalle quattro equazioni

(111),(112),(113),(114) sono pari a 94.1, 14.2, 117.7 e 168.6, rispettivamente.

Delle sette combinazioni tempo/temperatura raccomandate da DHSS e ANA,

l'equazione (114) le soddisfa praticamente tutte, le equazioni (112) e (113) ne

soddisfano cinque e la (111) solo due.

Le combinazioni meno soddisfatte dalle equazioni ottenute, sono 132°C*60

minuti (ANA) e 129°C*60 minuti (DHSS).

Le combinazioni tempo/temperatura ottenibili dalle equazioni (111)-(114),

rappresentano COMUNQUE parametri ritenuti sufficienti per la

decontaminazione delle quantità relativamente modeste di cervello impiegate

nelle esperienze dei diversi Autori.

Tenendo conto che il cervello impiegato conteneva all'incirca 1011

particelle ES

infettanti /gr e che solitamente sono state impiegate una decina di sospensioni di

10 ml di omogenizzato al 10%, le combinazioni tempo / temperatura

raccomandate sono sufficenti per circa 12D. Volendo applicare altre 12D, per

"analogia" con il discorso "minimum botulinum cook", basta raddoppiare i tempi

ottenibili dalle quattro equazioni indicate sopra.

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116

IN TAL MODO, ANCHE I TEMPI MINIMI DI IPST, CHE SI OTTENGONO

appunto RADDOPPIANDO QUELLI OTTENIBILI CON L'EQUAZIONE (101)

(quella cioè che determina l'Fo minimo di 94.2), SONO pur SEMPRE

SUPERIORI A TUTTE LE SETTE COMBINAZIONI DI PARAMETRI

"RACCOMANDATI" in UK e USA.

Tra i parametri attesi da quest'ultima relazione (115) potrebbe essere fatta la

scelta più opportuna, in relazione alla "ipersterilizzabilità" del cervello in

particolare e delle carni in generale.

Di seguito è riportata l’equazione (115), corrispondente alla (101), che fornisce

direttamente i parametri tempo/temperatura per 24D:

Log IPST = 8.0163 – 0.04741 * T (115)

Valori di IPST ottenibili dalla (115) a diverse temperature, sono riportati nella

Tabella seguente:

CURVE D’INATTIVAZIONE NON ESPONENZIALI

Anche le curve d’inattivazione degli agenti delle ES non sono esponenziali. Per

applicare il modello che consente di analizzare anche le cinetiche non

esponenziali (Casolari, 1981, 1988) occorre conoscere almeno il valore della

concentrazione iniziale e finale del fenomeno in esame, dopo un tempo t di

trattamento ad una temperatura nota.

I valori che ritengo più attendibili, sia per le indicazioni riportate nella descrizione

delle modalità sperimentali, sia per le conferme ottenute direttamente dal Prof.

Brown (com. pers.), sono che in 60 minuti di autoclave a 121°C il titolo infettante

dello scrapie scende da 1011

a 10 2.56

(Brown et al., 1986). Se ne può ottenere, in

relazione al modella generale, il valore di energia letale Ed = 41797.54 cal/

mole, e che per ottenere 12D occorre applicare la relazione (116):

IPST = 12/ exp (103.7293 – 42071/T) (116)

Nella Tabella successiva sono riportati i valori di IPST ottenibili dalla (116).

Come si può rilevare, a 126°C e temperature inferiori i tempi di IPST sono

superiori a quelli raccomandati da DHSS e ANA; mentre a temperature superiori ,

sono inferiori.

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117

Da notare che la (116) prevede che a 136°C bastino poco più di 4 minuti di IPST,

in accordo con quanto riscontrato sperimentalmente da Kimberlin et al., (1983).

…………………………………..

Temperatura IPST, min

°C

…………………………………..

110 5211.17

112 2946.51

114 1675.87

116 958.71

118 551.59

120 319.15

122 185.68

124 108.62

126 63.89

128 37.77

130 22.45

132 13.41

134 8.05

136 4.86

138 2.95

140 1.80

142 1.10

144 0.68

146 0.42

148 0.26

150 0.16

…………………………………..

Ed = 41797.54 cal/mole

CONCLUSIONI.

Ritengo che i trattamenti di IPST attesi dalla relazione (115) (Tab. ES5) possano

ritenersi soddisfacenti, poiché (a) sono comunque superiori a tutti quelli

raccomandati (UK e USA), (b) sono ottenuti attraverso un' elaborazione di

tutte le informazioni disponibili (alle quali si è acceduto anche direttamente -

Gajdusek, Brown, com. pers.), (c) assolvono anche ad un imperativo tipico della

termobatteriologia, quello delle 12D.

In seconda istanza, si dovrebbe operare una scelta tra i valori di IPST attesi dalla

relazione (114) (Tab. ES4), che più delle altre offre protezione nei confronti delle

raccomandazioni UK e USA.

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118

Entrambe le relazioni comportano valori di Fo elevati, poco dissimili.

I valori di Fo che la IPST imporrebbe, sono più elevati in misura così rilevante,

rispetto a quelli attualmente adottati, da suscitare sconcerto o comunque attivare

perplessità.

Tuttavia dobbiamo riconoscere che nel corso degli ultimi decenni si sono

determinati approfondimenti rilevanti nell'ambitodella sterilizzazione termica. Il

livello di conoscenza che è stato raggiunto ci pone quasi improvvisamente davanti

ad una situazione nuova. Abbiamo davvero raggiunto il livello molecolare. Le

dimensioni delle particelle che dobbiamo distruggere, sono dello stesso ordine di

grandezza delle molecole alimentari che intendiamo proteggere. Entrambe le

categorie di oggetti possono essere descritte con gli stessi termini, che usiamo per

descrivere le molecole, appunto. La termoresistenza di entrambe le categorie di

oggetti, è del tutto paragonabile.

Considerata tale identità, forse, non è più tempo di distinguere Fo da Co. Forse

non è più tempo di fare riferimento al primo come misura della letalità nei

confronti dei microrganismi, e al secondo come misura del danno indotto sui

componenti non microbici, nutrizionali.

Oggi sappiamo che le strutture che dobbiamo proteggere hanno necessariamente

gli stessi valori di zeta delle strutture-particelle che dobbiamo distruggere. Forse

è tempo di ricercare una base nuova sulla quale rifondare

la teoria e la pratica della sterilizzazione.

Le indicazioni che emergono da diverse parti (IPST, termofili anaerobi,

composti nutrizionali) sembrano orientare decisamente verso una maggiore

opportunità dei trattamenti sterilizzanti effettuati a temperature molto

elevate, per tempi relativamente brevi.

La praticabilità di trattamenti equivalenti sarebbe molto contenuta.

Cambiamenti nella tecnologia sarebbero, ad un primo esame, indispensabili.

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119

R A D I A Z I O N I

I sistemi biologici convivono da sempre con un ampio spettro di radiazioni

elettromagnetiche che li investono dallo spazio e dall'ambiente. La radiazione

elettromagnetica è caratterizzata da una frequenza ν e da una lunghezza d'onda λ:

λ = C * ν (117)

in cui c = velocità di propagazione della radiazione = velocita' di propagazione

della luce (più comunemente) = 2.998 * 1010

cm/sec. La frequenza è

generalmente espressa in cicli/sec. La lunghezza d'onda λ, in cm (0.01 m),

Angstrom (10-10

m, 10-8

cm), nm (10-9

m).

Ad ogni radiazione e' associata anche un'energia E, piu' specificamente riferita ad

una unita', un "quanto" di radiazione:

E = h * ν (118)

e quindi anche:

E = h * c / λ (119)

in cui l'energia E /quanto, è espressa in erg; h è la costante di Plank = 6.62 * 10-27

erg-sec e λ è espressa in cm .

La radiazione elettromagnetica si propaga liberamente nello spazio vuoto ed è

assorbita in misura diversa dalla materia.

Ci si aspetta comunemente che la radiazione sia assorbita in accordo con una

legge esponenziale del tipo di Lambert-Beer. Ma nella pratica se ne discosta per

effetto di diversi fattori, tra i quali piu' spesso la mancanza di monocromaticità, la

diversa energia della radiazione, la capacità di riflessione del materiale, ecc. Le

radiazioni che vanno dal visibile verso lunghezze d'onda maggiori, sono assorbite

con produzione di calore ma senza che si determinino modificazioni chimiche

permanenti.

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120

Le radiazioni ultraviolette sono assorbite dal materiale proteico e soprattutto dagli

acidi nucleici (lunghezza d'onda di massimo asorbimento = 260 nm), nei quali

dimerizzano la timina. Sono radiazioni poco energetiche (5 ev), e non ci si puo'

aspettare che determinino danni chimici particolarmente rilevanti. Tuttavia, gli

UV possono danneggiare gli acidi nucleici dei microrganismi, quanto basta

perché questi perdano la capacità di riprodursi. L'energia delle radiazioni con più

di 1.02 Mev (raggi X duri, raggi gamma) viene assorbita da un gran numero di

atomi e di molecole, attraversando la materia, con la formazione di un gran

numero di atomi e molecole eccitate e ionizzate (per assorbimento o perdita di

elettroni), particolarmente adatte a determinare trasformazioni chimiche

permanenti. Solo le radiazioni con energia superiore a 10 Mev possono indurre

radioattività nel materiale attraversato.

Nella Tabella di seguito sono riportate alcune caratteristiche delle radiazioni di

maggiore interesse.

…………………………………………………………………………………….

Tipo di Frequenza Lunghezza d'onda Energia

Radiazione ν cicli/sec λAngstrom Eev ……………………………………………………………………………………

Onde Sonore 102 3*10

16 -

Onde Radio, Lunghe 104 3*10

14 -

Onde Radio, Corte 107 3*10

11 -

Microonde 108 3*10

10 -

Radar 109 3*10

9 -

Infrarosso 1013

-1014

105 - 10

4 1

Visibile

rosso 4.6*1014

6.500 1.9

giallo 5.1*1014

5. 800 2.2

verde 5.8*1014

5.200 2

blu 6.4*1014

4.700 2.7

violetto 7.3*1014

4.100 3.1

Ultravioletto 4.000-1.500 3.1 - 8.3

microbicida 1.2*1015

2.537 5

Raggi X , molli 1017

30 1 kev

medi 1018

3 10 kev

duri < 1019

< 0.3 > 100 kev

Raggi γ, X 1020

-1021

0.03 - 0.003 1 - 10 Mev

……………………………………………………………………………………

1 kev = 1.000 ev; 1 Mev = 106 ev.

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121

RADIAZIONE U L T R A V I O L E T T A

La radiazione ultravioletta più efficace nel danneggiamento dei sistemi biologici

ha una lunghezza d'onda pari a 253.7 nm. Tale valore, peraltro, non va

considerato in assoluto, ma in relazione alle sorgenti di radiazione UV. Le

sorgenti sono costituite da lampade in quarzo o vetro di speciale formulazione

(trasparente alle lunghezze d'onda alle quali si è interessati), contenenti

generalmente vapori di mercurio a bassa pressione (0.004 - 0.02 torr), o gas inerti

ad elevata pressione (0.5 - 75 atm). Lo spettro di emissione di tali lampade è

discontinuo.

L'energia di risonanza dell'atomo di mercurio a 254 nm è emessa con elevata

efficienza (≈ 85 %). Di seguito sono riportate le unità utili per la definizione

delle caratteristiche della radiazione UV.

P = P O T E N Z A = erg sec-1 = 10-7

watts

1 erg = 10-7

joules ; 1 mW = 104 erg sec

-1 ;

1 watt= 1J/sec

I = INTENSITÀ = P * cm-2

= erg sec-1

cm-2

= mWatt cm-2

D = DOSE = I * sec = erg sec-1

cm-2

sec = erg cm-2

Nella Tabella successiva sono riportate le dosi di riduzione decimale per diversi

microrganismi. Quasi costantemente tali valori rappresentano generalmente le

dosi richieste per la prima inattivazione del 90% delle cellule. L'azione letale

degli UV infatti non si attua generalmente secondo la classica legge di

decadimento esponenziale:

Nd / No = exp ( - k * doseUV ) (117)

da cui si può ottenere appunto la dose di riduzione decimale DUV :

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122

Log10 Nd - Log10 No = - k' * doseUV (118)

Log10 No - Log10 Nd = k' * doseUV (119)

1/k' = doseUV / [Log10 No - Log10 Nd) (120)

= DUV

L'inattivazione esponenziale (117) si riscontra con una certa frequenza quasi

esclusivamente con i batteri più sensibili.

Generalmente, infatti, le curve di sopravvivenza alla radiazione UV sono bi- o

poli- fasiche; vale a dire che anzicchè lineari in coordinate semilogaritmiche,

sono più spesso concave. Manca un'interpretazione attendibile di tale tipo di

cinetica d'inattivazione da UV. Il Modello Casolari (Casolari, 1981-1988)

prevede, per le curve di sopravvivenza alle radiazioni, la relazione:

Cd = Co (1/( 1 + S * d2 )) (121)

in cui Cd è la concentrazione cellulare che sopravvive alla dose d di radiazione.

S è un parametro specifico della resistenza di ogni microrganismo, e ci si può

attendere – nel caso delle tradiazioni ultraviolette microbicide - che sia in

rapporto alla concentrazione microbica di timina nel DNA, e in particolare sia

pari al rapporto:

S = THYcell/THYmax (122)

tra la concentrazione di timina (THYcell = numero di molecole di timina /cellula)

dei singoli organismi e la concentrazione massima di timina (THYmax = massimo

numero di molecole di timina / cellula ÷ 108 ) che si può prevedere possa essere

presente in una cellula microbica.

Generalmente il valore di S è compreso tra 0.1 e 10-8

. I microrganismi più

resistenti hanno ovviamente valori inferiori di S, essendo meno vulnerabili dalla

radiazione UV, e soprattutto, essendo:

S = 1 / (Log Cd * dUV 2 ) (123)

La (121) equivale anche a:

Log Cd = Log Co /( 1 + S * dUV2 ) (124)

Dalla (121) non si ottiene un'unica dose di riduzione decimale (DUV) ma tante

DUV , una per ogni concentrazione cellulare Cn che interessa:

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123

DUV = f(Cn)

cosicchè:

DUV (Cn) = Q * DUV (Cn ±i)

con Q diverso da zero.

La prima riduzione decimale si otterrebbe comunque dalla seguente relazione:

P(DUV) = [(Log Co / Log (Co/10)) - 1] / S (125)

e le successive dosi di riduzione decimale, dalla relazione più generale:

DUV = 1 / (S*Log Cd) 0.5

(126)

La sensibilità microbica alla radiazione UV aumenta al diminuire della umidità

relativa dell'ambiente, e quindi dell'attività dell'acqua, fino a raggiungere valori

minimi intorno a RH = 50 %, (aw = 0.5), con:

DUV (aw ≤ 0.5) ÷ 0.1 * DUV (aw=.99) (127)

La radiazione ultravioletta ha un'energia di solo 5 ev, come si è visto, e non può

quindi attraversare se non limitati spessori di materia. Non attraversa il vetro

comune, fogli di plastica spessi, carta, fogli di metallo. Attraversa diversi metri

di aria e sottili strati di acqua o altri fluidi.

Potere di Penetrazione della radiazione UV.

SUBSTRATO PENETRAZIONE (spessore in cm)

……………………………………………………………………..

A R I A 300 -500

A C Q U A 30

V E T R O < 0.1

P L A S T I C A, fogli < 0.01

F R U T T A, succo < 0.1

L A T T E, fluido 0.01

……………………………………………………………….

Essendo quindi efficaci nell'inattivazione dei microrganismi "nudi", non

schermati da polveri, liquidi, ecc., gli UV trovano utilmente impiego quasi

esclusivamente nel trattamento delle superfici, dell'aria e dell'acqua.

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124

Resistenza microbica agli ultravioletti.

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125

…………………………………………………………………………………… La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

Le applicazioni industriali più diffuse possono essere considerate:

- gli impianti di potabilizzazione delle acque industriali e comunali (400 m3

/h);

- la sanificazione delle acque effluenti dagli impianti di depurazione;

- la creazione e il mantenimento di ambienti a basso-bassissimo livello di

contaminazione aerea e superficiale:

nei laboratori di virologia e batteriologia;

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126

nell'industria farmaceutica;

nell'industria dietetica e per l'infanzia;

nelle sale operatori

- la sanificazione superficiale dei contenitori di plastica, metallo, o vetro,

indifferentemente, utilizzati nelle tecnologie di confezionamento asettico;

- nella sterilizzazione dell'aria degli impianti di condizionamento, o

direttamente dell'aria ambiente nei locali delle produzioni alimentari e

industriali in genere; nelle cabine sterili a flusso d'aria laminare;

- per scopi meno generali, nell'industria cosmetica e chimica.

Tutte le superfici che riflettono la luce, riflettono anche la Radiazione

ultravioletta; alcune superfici, con maggiore efficienza, come riportato di seguito.

Potere riflettente gli UV con lunghezza d'onda di 253.7 nm:

MATERIALE % UV RIFLESSO

………………………………………………

Alluminio 50 - 80

Superficie cromata 50

Acciaio inox 25

V e t r o 5

Pittura murale (4)

………………………………………………

Essendo dannosa per tutti i sistemi biologici, la Radiazione UV microbicida non

deve raggiungere il derma (nel quale può provocare infiammazioni-ustioni

fastidiose) e soprattutto le mucose e gli occhi, nei quali provocherebbe

congiuntiviti acute, fastidiosissime (anche se si risolvono generalmente senza

postumi, in pochi giorni).

La radiazione ultravioletta che determina l'abbronzatura ha lunghezze d'onda

superiori a quelle battericide (e quindi è meno energetica), e sono comprese tra

320 e 400 nm, circa.

La radiazione UV con lunghezza d'onda inferiore a 250 nm circa, determina la

formazione di ozono.

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127

R A D I A Z I O N I I O N I Z Z A N T I

Il potenziale di ionizzazione molecolare è in media di 10 ev, con valori compresi

tra 6 e 13 ev. Tutte le radiazioni con energia superiore a 10 ev (per convenzione)

sono in grado quindi di produrre ionizzazioni nel materiale attraversato, e perciò

dette radiazioni ionizzanti.

Nella pratica, si considera che la radiazione produca una frazione importante di

ionizzazioni quando ha un'energia superiore a 1 Kev.

L'energia di un quanto o fotone di radiazione elettromagnetica si ottiene dalla

relazione (119):

E = h * c / λ

ed essendo la costante di Planck:

h = 6.62 * 10-27 erg-sec

il valore di E in erg sarà:

E = [(6.62 * 10-27) * (2.998 * 1010

)] / λ (128)

= 1.985 * 10-16 / λ (129)

Cosicchè, se λ = 30 Angstrom, l'energia del fotone sarà Eerg = 6.53 * 10-10

ergs.

L'energia della radiazione è più spesso espressa in elettron volt. Poiché:

1 ev = 1.59 * 10-12

ergs

il valore di E in elettron volt sarà:

Eev = 1.248 * 10-4

/ λ (130)

cosicchè il valore dell'energia dei fotoni con λ =30 diverrà Eev = 416 ev.

Se l'energia del fotone è modesta, un elettrone del guscio più esterno di un atomo

l'assorbe e si allontana dal nucleo (effetto fotoelettrico). La collisione tra elettroni

e fotoni con eneregia intermedia determina una deviazione di entrambi dal loro

percorso, e l'emersione di un fotone con maggiore lunghezza d'onda

¤λ = (1 - cos φ) * h /(m*c) (131)

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128

e minore energia (effetto Compton). A livelli energetici superiori a 1.02 Mev

(raggi X duri, raggi gamma) i fotoni possono scomparire con la collisione e sono

sostituiti da due particelle, un elettrone e un positrone, a vita breve, che si

annichilano con emissione di due raggi gamma da 0.51 Mev (produzione di

coppia). Fotoni con energia superiore a 10 Mev possono espellere un protone o un

neutrone dal nucleo, e rendere l'atomo radioattivo.

Le sorgenti più comuni di radiazioni ionizzanti sono i Raggi X, i raggi catodici,

gli acceleratori di particelle e i radionuclidi.

Applicando una differenza di potenziale a due elettrodi in un tubo di vetro con

alto vuoto, il catodo emette elettroni che si dirigono verso l'anodo con velocità

proporzionale alla tensione applicata. Se tale sciame di elettroni colpisce una

lastra di metallo, molta energia è dispersa con vari meccanismi, ma una frazione

dell'energia è emessa sotto forma di radiazione non corpuscolata, con energia

uguale o inferiore a quella degli elettroni incidenti, e comunque contenuta in un

ampio spettro. La relazione tra lunghezza d'onda minima di tale radiazione e il

voltaggio V applicato è dato da:

λmin = 12.400 / V (132)

per cui una tensione di accelerazione di 100 KV produrrà:

λmin = 12.400 / 100.000

= 0.124

Nella (132), la lunghezza d'onda è espressa in Angstrom.

Dalla (130), si può poi descrivere lo spettro di energia della radiazione X.

Dall'esempio precedente, l'energia minima della radiazione X ottenuta sara:

Eev = 1.248-4 / 0.124-8

= 100.645 ev

= 100 kev

quindi, il valore in Kev è praticamente equivalente numericamente alla tensione

di accelerazione in KV.

Gli acceleratori di particelle sono stati impiegati negli anni '40, ma attualmente si

ritiene poco vantaggioso il loro impiego.

I raggi catodici sono fasci di elettroni emessi dal catodo affacciato ad un anodo,

entrambi inseriti in un tubo ad alto vuoto; sono alquanto manovrabili, e con

energia modulabile, come per i raggi X, in relazione alla tensione di accelerazione

applicata.

Più adatti all'irraggiamento dei prodotti alimentari sono i radionuclidi, tra i quali

hanno trovato largo impiego sperimentale e pratico il Co-60 e il Cesio-137.

Con la disintegrazione del nucleo atomico si producono diversi tipi di radiazioni,

tra i quali i raggi alfa e beta, neutroni e raggi gamma. I raggi alfa sono nuclei di

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129

elio con energia di diversi Mev; la grande massa e la relativamente bassa velocità

ne limitano molto il potere di penetrazione e quindi la loro utilizzabilità pratica. I

raggi beta, sono elettroni veloci, come i raggi catodici, con energia massima

compresa tra 0.5 e 3 Mev. Sono poco penetranti.

I neutroni sono particelle pesanti, non cariche e veloci. Possono colpire solo il

nucleo atomico, provocandone l'espulsione di un protone o di un neutrone, sì da

rendere l'atomo colpito, radioattivo. Il cobalto-60 è ottenuto infatti in poche

settimane di permanenza di bacchette di metallo puro, entro una pila atomica.

L'attività aumenta all'aumentare del periodo di permanenza all'interno della pila

(2 mcurie/g dopo 1 settimana, 8 mcurie dopo 4, ecc.). Il Co-60 emette raggi

gamma, con energia di 1.17 e 1.33 Mev, ma anche raggi beta con 0.31 Mev, in

conseguenza della ridistribuzione dei livelli energetici all'interno del nucleo, che

fa seguito all'emissione di particelle beta.

I raggi gamma, che possono essere considerati raggi X di cortissima lunghezza

d'onda, hanno un notevole potere di penetrazione nella materia.

La vita media del cobalto-60 (il tempo richiesto perché si dimezzi la

trasformazione radioattiva) è di 5.27 anni (30 anni per il cesio-137).

U N I T A ' impiegate con le R A D I A Z I O N I I O N I Z Z A N T I:

Becquerel = Bq = Quantità di radionuclide che produce 1 disintegrazione / sec

Curie = Ci = 3.7 * 1010

Bq

Roentgen = R = Quantità di Radiazione X o Gamma che produce in 1 cm3 di aria

secca a 0°C e 760 mm Hg, ioni di entrambi i segni con 1 unità

elettrostatica di carica.

= Quantità di radiazione che produce in 1 cm3 di aria secca

2.083*109 coppie di ioni.

R E P = Roentgen Equivalent Physical

= Quantità di Radiazione ionizzante che determina l'assorbimento di

93 erg / g di tessuto molle.

= 1 R di Raggi X da 200 KV.

R B E = Relative Biological Effectiveness

= Capacità della Radiazione Ionizzante di qualunque tipo, di produrre

danni biologici specifici (leucemia, sterilità, carcinigenesi, etc.).

R E M = Roentgen Equivalent Man

= 1 REP / 1 RBE

= 1 rad / RBE

rad = dose assorbita dal materiale irraggiato.

= 100 erg / g

gray = dose assorbita

= 100 rad

= 10 000 erg / g

= 1 J / Kg

……………………………………………………………………………

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130

LE RADIAZIONI E I SISTEMI BIOLOGICI

In un sistema biologico attraversato da radiazioni ad elevata energia si produce un

gran numero di atomi e molecole eccitate e ionizzate, capaci di determinare, se un

mutamento nello stato fisico-chimico del sistema è possibile, trasformazioni

chimiche permanenti.

L'effetto osservato può derivare da un urto diretto della radiazione con il bersaglio

biologico; ma è più spesso dovuto completamente o in gran parte ad un effetto

indiretto. L'irraggiamento dell'acqua provoca la formazione di radicali liberi H● e

OH●:

HOH → H● + OH

con radiazioni beta e gamma molti radicali si producono localmente a basse

concentrazioni e la diffusione favorisce la ricombinazione:

H● + OH

● → H2O

Se nell'acqua è disciolto ossigeno molecolare, la reazione più probabile:

H● + O2 →

●HO2

lascia liberi i radicali OH●, che formano perossido d'idrogeno ad una velocità

proporzionale alla concentrazione dell'ossigeno:

OH● + OH

● → H2O2

ma anche i radicali perossidici, formano perossido:

●HO2 +

●HO2 → H2O2 + O2

Quando nell'acqua è sospeso materiale biologico, il perossido reagisce con le

molecole più prossime del sistema inattivandone la funzione.

I radicali OH● sono energici ossidanti e probabilmente le specie chimiche più

efficaci nell'inattivare i sistemi biologici.

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131

Le cellule batteriche sono costituite per circa l'89% in peso da acqua il cui

spessore medio tra le molecole è di circa 30 Å . Poichè in una soluzione diluita il

solvente è il sistema colpito con la maggiore probabilità dai fotoni, e l'effetto

rilevato sul soluto non può che derivare da quello prodotto sul solvente, si può

prevedere che i radicali H● e OH

● che si liberano, molto reattivi anche se di

brevissima durata (10-6

-10-5

secondi), diffondano rapidamente all'interno della

cellula fino a raggiungere i componenti con i quali reagiscono. In ogni caso

l'effetto indiretto che si produce all'interno della compagine cellulare, dove la

ionizzazione è sostanzialmente localizzata, di breve durata e dotata di un raggio

d'azione di poche decine di Å, si attua con meccanismi diversi da quelli dovuti

alle soluzioni in cui sono sospese le cellule.

Le osservazioni di ZIRKLE e di altri AA sull'aumento dell'efficacia della

radiazione con l'aumentare della densità di ionizzazione nel substrato, condotte su

spore di B. mesentericus e di Aspergillus, e la relazione inversa ottenuta operando

su E. coli sembrano confermare che almeno una parte degli eventi che

determinano l'effetto finale dell'irraggiamento si verifichi quando la ionizzazione

lungo il percorso delle particelle possiede ancora la sua configurazione (10-6

– 10-

5 secondi ), prima cioè che gli ioni e le molecole coinvolte diffondano nel mezzo.

Peraltro, mentre questo effetto diretto sembra confermato dalle curve

esponenziali dose-effetto ottenute con radiazioni ad elevato LET (trasferimento

lineare d'energia), le tesi su un modo d'azione unitario delle radiazioni sembrano

compromesse dalle curve di sopravvivenza sigmoidi ricavate con irraggiamento a

basso LET (Linear Energy Transfer) dello stesso microrganismo.

Apparentemente solo gli effetti prodotti dall'irraggiamento in condizioni asfittiche

di cellule disidratate possono essere riferiti a un effetto diretto. ALPER sostiene

che nelle cellule il passaggio di radiazioni ionizzanti attraverso una molecola

determina in questa un particolare stato di reattività, che la coinvolge direttamente

in una reazione detta reazione metionica, che può evolvere in diverse direzioni,

determinare un cambiamento irreversibile della molecola e compromettere la

sopravvivenza cellulare, qualora detta molecola sia un componente essenziale. La

natura delle molecole coinvolte nelle manifestazioni letali di materiale biologico

irradiato non è ancora definita. L'attenzione di diversi AA è stata rivolta ai

complessi molecolari notoriamente essenziali alle manifestazioni vitali delle

cellule (DNA, enzimi, coenzimi, molecole che regolano la selettività delle

membrane cellulari,ecc.), senza che sia stata prodotta peraltro una formulazione

generale.

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132

Fin dalle prime osservazioni sugli effetti indotti dallo irraggiamento di cellule

batteriche, sono stati messi in evidenza danni parziali come: persistenza della

mobilità in Pseudomonas incapaci di riprodursi; accrescimento senza

moltiplicazione; induzione del batteriofago in ceppi lisogenici; capacità dell'E.

coli irraggiato con dosi di raggi X sufficienti a bloccare la sintesi del DNA

(160.000 r) di sostenere lo sviluppo del batteriofago non irradiato, con DNA

danneggiato; reversibilità dell'inibizione nella sintesi del DNA; sensibilità dei

sistemi enzimatici coinvolti nel metabolismo fosfatidico; stimolazione di

determinate attività fisiologiche come la fermentazione, la respirazione,

l'induzione di permeasi e riparazione parziale al danno subito, che hanno favorito

l'affermarsi della teoria del bersaglio multiplo.

Il diverso tipo di curve dose-effetto ottenuto per irraggiamento di E. coli B/r

nella fase stazionaria dello accrescimento (curve esponenziali) e nella fase

logaritmica (curve sigmoidi); la concordanza rilevata tra numero di corpi nucleari

osservabili nelle diverse fasi dell'accrescimento e numero dei bersagli stimabili

alla luce della teoria del bersaglio multiplo, potrebbero ricondurre l'effetto letale

delle radiazioni a un danneggiamento primario del DNA. Peraltro

l'irraggiamento di cellule multinucleate può esitare curve di sopravvivenza

esponenziali. È ben noto del resto che nelle cellule si possono riconoscere diversi

complessi molecolari, che sottoposti a irraggiamento, possono determinare gli

effetti letali osservabili.

EFFETTI LETALI della radiazione

L'esposizione dei risultati conseguiti con l'irraggiamento di meteriale biologico

è compiuta abitualmente mediante la rappresentazione grafica di curve di

sopravvivenza, nelle quali le frazioni del materiale non danneggiato dai singoli

trattamenti sono riportate in ordine semi-logaritmiche in funzione delle dosi di

radiazioni applicate.

Sono stati descritti tre tipi principali di curve di sopravvivenza: esponenziale,

sigmoidali e composite.

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133

Curve esponenziali sono state ottenute per irraggiamento di B. mesentericus, E.

coli e Staphylococcus aureus [sottoposti a particelle alfa emesse da polonio e

raggi beta emessi da radon, raggi gamma da radium), neutroni, raggi X penetranti

(h = 0,15 A) e raggi X poco penetranti (h = 1.5, 4.1, 8.3 A); con Serratia

marcescens, Sarcina lutea, Achromobacter fischeri, Salmonella typhimurium,

Pseudomonas fluorescens, Phytomonas stewartii, Saccharomyces cerevisiae,

Aspergillus terreus irradiati con protoni e raggi alfa e altri microrganismi.

Curve sigmoidali sono state ottenute per irraggiamento di S. aureus con particelle

beta, Aspergillus terreus con raggi X, Azotobacter agile e S. cerevisiae, E. coli e

altri microrganismi, sottoposti generalmente a raggi X di grande lunghezza d'onda

(h > 0.7 Å) e a raggi gamma.

Curve composite sono state ottenute con E. coli W-1484 e con diversi altri

microrganismi.

Le curve di sopravvivenza esponenziali, linee rette quali risultano dai grafici

costruiti come detto in precedenza, indicano che ogni unità biologica necessita di

un solo urto con un'unità radiante per essere inattivata. Le curve di sopravvivenza

composite possono essere ricondotte a due curve esponenziali intersecantesi;

generalmente si ottengono in substrati biologici non omogenei nei confronti della

radiazione.

Le curve sigmoidi sono ritenute indicative della necessità di più di un urto della

radiazione con il materiale biologico perché si manifesti l'attesa inattivazione; in

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generale sono fornite dai batteri più radioresistenti. ATWOOD e NORMAN (11)

hanno indicato nell'intercetta sull'ordinata, ottenuta per estrapolazione della parte

esponenziale della curva, a dose zero (figura 2), il numero di urti necessari per

l'inattivazione di ogni singolo elemento irraggiato. Questo comporta l'esistenza,

per ogni microrganismo, di bersagli, zone morfologicamente distinte o entità,

individuate con i termini ‘hit number’, ‘target number’, ‘multiplicity’.

Tale rappresentazione non si accorda peraltro con gran parte delle osservazioni

sperimentali, mostranti chiaramente come tale numero vari entro limiti piuttosto

ampi, in funzione dei fattori che condizionano la sensibilità delle cellule sia

prima, durante, sia dopo l'applicazione delle radiazioni. ALPER e GILLIES (4)

propongono di usare il termine ‘numero di estrapolazione’ quando ci si riferisce

all'intercetta sulle ordinate a dose zero.

La sensibilità dei diversi organismi alle radiazioni è definita con il valore D, che

esprime la dose necessaria per ridurre a un decimo il numero originario di

elementi vitali. Generalmente i valori di D riportati in letteratura sono ricavati da

curve esponenziali o dalla porzione esponenziale delle curve sigmoidi di

sopravvivenza.

Considerazioni spesso di carattere applicativo inducono diversi autori a non tener

conto della soluzione di esponenzialità alle dosi minori e riferiscono

impropriamente D ricavati dalla totalità della curva d'inattivazione.

I valori di D sono in relazione con l'inclinazione della curva esponenziale e

quelli di ɛ (numero di estrapolazione) o Do (numero d'intercetta), con l'entità

della porzione non esponenziale della curva di sopravvivenza.

L'espressione corretta delle curve dose-effetto è rappresentata da equazioni del

tipo:

Nd/No = ɛ * e-dose/D

(133)

dove Nd e No sono le concentrazioni di cellule vitali dopo la dose "dose" di

radiazione e quella a dose zero, ɛ è il numero di estrapolazione e D la dose di

riduzione decimale. Curve di sopravvivenza del tutto particolari, costituite da una

porzione convessa verso l'altro, una logaritmica (fino a circa 2 Mrad) (figura 3) e

una porzione detta coda (da 2 a 5 Mrad e oltre), sono state ottenute da non pochi

AA in funzione della concentrazione di cellule e dell'ambiente in cui sono

irradiate. L'evento di mutanti particolarmente radioresistenti, l'influenza di

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135

particolari componenti cellulari ad azione protettiva liberati nel mezzo non hanno

trovato fino ad ora conferma sperimentale.

R A D I O R E S I S T E N Z A

Le determinazioni di sensibilità alle radiazioni ionizzanti hanno rivelato una

variabilità intragenerica e intraspecifica piuttosto ampia; la resistenza sembra

svilupparsi dai batteri gram-negativi, solitamente poco resistenti, a quelli gram-

positivi. Tra i gram-positivi si riscontrano i ceppi batterici più resistenti alle

radiazioni ionizzanti, dotati di D paragonabili a quelli ottenuti con le spore meno

sensibili alle radiazioni ionizzanti. I ceppi meno resistenti appartengono alla

specie Staphylococcus aureus; ceppi molto resistenti apPartengono al gruppo

degli streptococchi; il Deinococcus radiodurans (ex Micrococcus radiodurans) è

dotato di una resistenza eccezionale. Altri micrococchi pigmentati radioresistenti

sono stati isolati dall'aria e dal merluzzo. La resistenza di alcuni ceppi di

Streptococcus faecium, trattati a -79°C, è confrontabile (D = 2.8 - 3.1 k Gray) con

quella delle spore resistenti di Clostridium botulinum tipo A irraggiate a

temperatura ambiente; sopravvivenze di Str. faecium sono state riscontrate dopo

irraggiamento con 60 KGray.

ANDERSON e coll. hanno isolato per primi ceppi di micrococchi pigmenti da

carne trattata con 60 KGray; il D. radiodurans R1 è risultato il più resistente di

quattro ceppi saggiati. Meno sensibile in omogeneizzato di carne fresca che in

tampone, questo ceppo possiede una dose di riduzione decimale superiore a

quella di gran parte delle spore. La sua resistenza termica rientra nei limiti

normali riscontrati per le forme vegetative.

La sensibilità del D. radiodurans alle radiazioni ionizzanti è aumentata dalla

presenza, durante il trattamento, di iodoacetamide e di p-idrossimercuri-benzoato

, composti che reagiscono entrambi con il gruppo SH-, ciò che conferma la tesi di

un'azione protettiva esercitata dai composti contenenti zolfo.

L'esame al microscopio elettronico delle cellule di questo ceppo non rivela la

presenza di un numero di nuclei che giustifichi l'interpretazione della curva

sigmoidale d'inattivazione alla luce della tesi dei bersaglimultipli; frammenti di

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136

membrana rivelano subunità disposte esagonalmente, come si ritrovano

solamente in altri micrococchi che formano tetradi e in pochi altri gruppi batterici.

Tra gli sporigeni aerobi, diversi isolati di Bacillus pumilus hanno fatto

riscontrare resistenze tra le più elevate; le spore hanno valori di D compresi tra

1.72 KGray e 3.63 KGray.

Confrontando la composizione delle cellule vegetative e delle spore di cinque

ceppi di Bacillus, VINTER ha rilevato che le differenze più evidenti sono a carico

del contenuto in cistina e cisteina, molto maggiore nelle spore che nelle forme

vegetative. Osservazioni successive hanno mostrato un aumento progressivo del

contenuto in amminoacidi solforati con il procedere della trasformazione delle

cellule in spore e di pari passo un aumento della radioresistenza. VINTER

suggerisce che il legame disolfuro della cisteina presente sulla membrana

cellulare si comporti come agente protettivo contro la radiazione; studi precedenti

sull'irraggiamento di materiale proteico hanno indicato che il legame -S-S- può

fornire un elettrone sostitutivo dell'emissione provocata dalle particelle ad elevata

energia in un'altra parte della molecola. È ben nota l'importanza attribuita a

questo stesso legame in relazione ai fenomeni di sonnolenza biologica delle

spore; ma in generale non c'è correlazione tra resistenza al calore e resistenza alle

radiazioni, come riportato nella tabella Ii; tipico esempio è la scarsa resistenza

della tossina botulinica al calore e la sua elevata resistenza alle radiazioni

ionizzanti.

Già con le prime determinazioni di radioresistenza le spore del Clostridium

botulinum hanno rivelato una sensibilità pari o inferiore a quella di altri clostridi

non patogeni; ricerche successive ne hanno precisato la notevole resistenza. Le

spore molto termoresistenti del Cl. sporogenes (P.A. 3679) e del Cl. perfringens

possiedono una radioresistenza intermedia tra quella delle spore del Cl. botulinum

di tipo A e di tipo B. E' stata avanzata l'ipotesi che la maggiore radioresistenza

media delle spore rispetto alle forme vegetative sia da attribuire al minor

contenuto in acqua delle prime.

Le dosi di riduzione decimale dei clostridi sono comprese tra 0.8 e più di 5

KGray; il frazionamento delle dosi di radiazioni applicate, così•come per la

generalità dei microrganismi, è risultato senza effetto sia sulle spore del Cl.

botulinum sia sulle spore del Bacillus pumilus.

La resistenza dei lieviti e delle muffe alle radiazioni ionizzanti non è molto

elevata.

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137

FATTORI CHE CONDIZIONANO LA

RADIORESISTENZA

Le tesi che tendono a ridurre o annullare l'utilità delle formulazioni di teorie del

bersaglio, trovano nelle osservazioni condotte sugli agenti modificanti la

sensibilità alle radiazioni un valido contributo di esperienze.

THODAK e REED (158) per primi riportano esperienze sull'influenza

esercitata dall'ossigeno sulle cellule irradiate; HOLLANDER e coll. hanno

definito la relazione esistente tra effetto battericida dei raggi X in presenza e in

assenza di ossigeno, operando su E. coli B/r, una variante radioresistente separata

da WITKIN da colture di E. coli B. L'efficacia dell'irraggiamento sembra

costantemente maggiore in presenza di ossigeno, che diminuisce le dosi

d'inattivazione di tre volte per le forme vegetative e di due volte per le spore.

HOWARD-FLANDERS E ALPER hanno stabilito che l'ossigeno è un vero

fattore modificante la dose, che varia in funzione della specie batterica e del LET.

Concentrazioni molto ridotte di ossigeno (4-7 μmoli) sono in grado di

determinare il 50% dell'effetto sensibilizzante massimo; le spore risentono

anch'esse dell'effetto sensibilizzante dell'ossigeno, ma in misura minore; ALPER

(2) rigetta l'ipotesi di un'azione indiretta svolta da radicali OH. e

.HO2 o da H2O2 ,

proponendo un meccanismo d'azione basato sulla tesi dell'effetto diretto; peraltro

le osservazioni condotte sull'azione protettiva svolta da determinati componenti

organici (vedi di seguito) contrasta profondamente con un' ipotesi unica del

meccanismo d'azione delle radiazioni.

I composti chimici che determinano nelle cellule batteriche una minore

sensibilità alle radiazioni possono essere distinti in tre gruppi fondamentali, in

rapporto al loro apparente meccanismo d'azione:

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138

a _ agenti attivi in presenza di ossigeno;

b _ agenti attivi sia in presenza sia in assenza di ossigeno;

c _ agenti attivi in assenza di ossigeno nel mezzo irradiato.

Solamente questi ultimi possono essere considerati agenti protettori veri e

propri.

a _ Appartengono al primo gruppo gli acidi carbossilici, gli amminoacidi e il

glucosio, che possono essere ossidati dai batteri e che esercitano un'azione

protettiva evidente anche a basse concentrazioni, specialmente se le cellule sono

sottoposte a un periodo d'incubazione precedente l'irraggiamento.

Apparentengono a questo gruppo composti capaci di autoossidarsi, come il solfito

sodico, o di essere coinvolti in reazioni ossidative determinate dallo

irraggiamento, e che comportano sempre una riduzione della tensione d'ossigeno

nel mezzo.

b _ La glicerina (al 10%) esercita un'azione protettiva sia in presenza sia in

assenza di ossigeno, sia sulle cellule vegetative sia sulle spore, anche se l'effetto

protettivo è più evidente quando il materiale è irraggiato in presenza di ossigeno.

Altri composti di questo tipo sono il dimetilsolfossido e la tiourea .

c _ La cisteina aumenta di due volte la resistenza dell'E. coli,

indipendentemente dalla concentrazione d'ossigeno nel mezzo.

L'interesse dedicato allo studio dei composti chimici in grado di abbassare la

radioresistenza dei batteri, anche se potrebbe trovare in futuro giustificazioni

applicative, allo stato attuale delle conoscenze non è che un modo di

avvicinamento alla comprensione del meccanismo d'azione delle radiazioni. La

N-etilmaleimide , l'acido iodoacetico e l'acetato di fenilmercurio, la

iodoacetamide e la vitamina K5 sono i composti chimici meglio noti come

sensibilizzanti alle radiazioni. BRIDGES suggerisce che tali composti reagiscano

con i radicali -S, o con i gruppi solfidrilici derivanti dall'apertura del legami S-S

dei componenti proteici (forse della membrana cellulare) di modo che questi

ultimi non possono riformarsi; ne deriverebbe la compromissione dell'integrità

della proteina coinvolta.

In considerazione delle ipotesi riportate sull'azione mediatrice svolta dai

radicali liberati dall'irraggiamento dell'acqua intracellulare, ci si dovrebbe

attendere un aumento di resistenza nelle cellule disidratate. In effetti, diversi

Autori hanno riportato risultati che si accordano con tale ipotesi, ma è stato

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osservato che in condizioni asfittiche le cellule di lievito disidratate sono più

sensibili che in sospenzione acquosa. Anche le spore batteriche sembrano più

sensibili se disidratate.

La minore sensibilità dei batteri non sporigeni irradiati a base temperature è

documentata da diversi ricercatori per l'E. coli, Pseudomonas, Staphylococcus

aureus, Streptococcus, Alcaligenes, lieviti, e altri microrganismi. Le spore sono

condizionate in misura minore, o non lo sono affatto, dall'irraggiamento a bassa

temperatura.Si può ritenere in generale che l'irraggiamento abasse temperature

aumenti di 2-3 volte la resistenza delle forme vegetative; l'effetto sensibilizzante

dell'ossigeno persiste anche a - 79, - 196°C. Benché un lieve aumento della

radioresistenza delle spore trattate a temperature molto basse costituisca un

fenomeno generale, PROCTOR e coll. (134) hanno riportato valori di resistenza

inferiori operando su spore di Bacillus subtilis.

In terreni colturali ricchi di sostanza organica sono state spesso riscotrate

maggiori sopravvivenza che in terreni colturali chimicamente definiti; la

maggioranza dei reperti ottenuti sia con batteri sporigeni sia non sporigeni,

testimonia l'assenza di un effetto determinante esercitato dal terreno di subcoltura

impiegato dopo l'irraggiamento. Diversi autori hanno riferito sull'azione protettiva

svolta da sostanze proteiche in generale, talvolta con risultati contrastanti. Sembra

accertato che non tutte le sostanze alimentari agiscono nello stesso senso: talune

(e nei confronti di determinati microrganismi) si comportano da protettrici, talune

da sensibilizzanti . Non è sempre agevole distinguere tra l'effetto determinato

dall'ambiente e l'attività indiretta dei composti liberatisi nel mezzo irraggiato.

Non esistono molte informazioni sull'effetto esercitato dalla temperatura

d'icubazione dopo l'irraggiamento; con E. coli sono state ottenute maggiori

sopravvivenze per incubazioni a temperature inferiori (18-20°C) a quelle ottimali.

OKAZAWA e coll. (126, 96) hanno riscontrato un marcato effetto

sensibilizzante esercitato dal cloruro sodico (E. coli e Cl. botulinum); le forme

vegetative sono generalmente più sensibili delle spore all'azione del cloruro; le

esperienze riferite da ROBERTS e coll. (141) inducono a ritenere che elevate dosi

di radiazioni (> 1 Mrad) sensibilizzino le spore (o le spore germinate) all'azione

del cloruro sodico contenuto nel terreno di subcoltura.

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140

NUOVE ACQUISIZIONI SULLA CINETICA

D'INATTIVAZIONE DA RADIAZIONI.

I diversi maccanismi d'azione invocati, soprattutto venti anni or sono, per

chiarire gli effetti delle radiazioni ionizzanti sulle cellule microbiche hanno

perduto di rilievo con l'accentuarsi dell'attenzione sul possibile significato degli

effetti determinati dagli agenti che modificano la sensibilità delle cellule.

L'importanza rivestita dai componenti solforati delle molecole cellulari e dei

composti chimici in grado di condizionarne la stabilità, sembrano implicare, sia

per il Micrococcus radiodurans sia per le spore batteriche, meccanismi d'azione

non necessariamente legati alle strutture nucleari.

È stato proposto infatti, recentemente (Casolari, 1981, 1988), un modello

dell'interazione della radiazione con i sistemi biologici, basato sulla probabilità di

collisione dei radicali ●OH indotti dalla radiazione sull'acqua (del mezzo,

soprattutto) con i bersagli cellulari. Tale modello dell'azione "indiretta" può

rendere conto di tutti i tipi di curve di sopravvivenza osservate con

l'irraggiamento dei microrganismi, attraverso la relazione:

Cd = Co1/(1+S*d*d)

(134)

da cui:

Log Cd = Log Co /(1 + S * d2 ) (135)

dove Cd e Co sono le concentrazioni di cellule vitali dopo la dose "d" e iniziale,

rispettivamente, e S è un parametro legato alla radioresistenza specifica, dato dal

rapporto:

S = 105 / SHS

in cui 105 è il contenuto minimo di gruppi SH in una cellula microbica, e SHS è il

contenuto superficiale in SH, specifico alla cellula che si considera. Il valore di S

è compreso, per la maggior parte dei microrganismi, tra 0.001 (microrganismi più

resistenti) e 1.00, all'incirca.

La dose, è espressa convenientemente in J/g, oppure in K Grey (1 Mrad = 10 J /

gr = 10 KGy).

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La dose di riduzione decimale, R10 , è un parametro di minore significato,

nel modello generale, visto che non ha un valore costante, ma varia con la

concentrazione cellulare; essa infatti è ottenibile da:

R10 = 1 / (S * Log Cd)0.5

(136)

Più utile è la conoscenza della dose richiesta per ottenere una definita

inattivazione Rn, data da:

Rn = (n/S)0.5

(138)

cosicché per ottenere 12*R10 :

R12 = (12/S)0.5

(139)

Per il Clostridium botulinum, ad esempio, il valore di S è prossimo a 0.02,

cosicche' la (139) diventa:

R12 = (12/0.02)0.5

= 24.5 kGy

Ma il problema non è così semplice, poiché una quantità di fattori ambientali è in

grado di modificare la vulnerabilità dei gruppi SH endocellulari e quindi il valore

apparente di S. La relazione (134) consente di ottenere tutte le forme delle curve

di radio ninattivazione.

(A. Casolari,

1988, ‘Microbial death’,in Physiological models in microbiology. Vol. II.

Mathematical models., CRC Press, Boca Raton, FL.)

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GAMMA RESISTENZA MICROBICA

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………………………………………………………………………………La Tabella è stata ottenuta mediante il software Microbiofood (Casolari, 2012), scaricabile

gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html, alla voce .

I M P I E G O P R A T I C O

DELLE R A D I A Z I O N I

I O N I Z Z A N T I

Sono indicate di seguito le principli applicazioni delle radiazioni ionizzanti.

La stabilizzazione dei prodotti alimentari mediante l'impiego delle radiazioni

ionizzanti è connessa, per quanto concerne l'aspetto microbiologico, in primo

luogo all'elevata radioresistenza del Cl. botulinum (il più resistente dei batteri

sporigeni) e in secondo luogo dalla resistenza, risultata talvolta abnorme, sia di

microrganismi non patogeni molto diffusi (Deinococcus radiodurans,

enterococchi, Moraxella) e di incerta pericolosità (virus), sia delle tossine

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microbiche. La relazione tra resistenza microbica alle radiazioni e al calore è

infatti alquanto dissimile.

Impieghi pratici più frequenti delle radiazioni ionizzanti:

Trattamento Dose (KGy)

………………………………………………………

Sterilizzazione degli alimenti 10 - 60

Sterilizzazione del catgut 25

Sterilizzazione delle ossa 19

Sterilizzazione dei vaccini 13

Inattivazione enzimatica 30 - 200

Trattamento superficiale pollame 5

Eliminazione Salmonella da uova 5

Sterilizzazione sessuale Insetti 0.1 - 0.2

Uccisione Insetti 1 - 2

Sterilizz. sessuale Trichinella 0.1

Uccisione Trichinella 2

Inibizione germogliazione patate 0.05 - 0.15

" " cipolle 0.05 - 0.15

" " aglio 0.07 - 0.15

Control. maturaz. mango, banana 0.25 - 0.35

Ritardo maturazione funghi 2.5

Aumento shelf-life aranci, fragole 0.75 - 2.5

Controllo infestazione da Insetti

negli insilati (grano, riso, semi di

cacao) 1

Radicidazione spezie 8 - 10

Radicidazione pollo 7

Radurizzazione asparagi 2

Radurizzazione gamberetti 0.5 - 2

Sterilizzazione prosciutto 35 - 56

Sterilizzazione bacon 45 - 56

Pastorizzazione alimenti 0.2 - 5

…………………………………………………………

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Confronto tra resistenza microbica al calore e alle radiazioni

ionizzanti.

Caratteristiche CALORE RADIAZIONI

……………………………………………………………………………………

Spore più resistenti B. stearothermoph. Cl. botulinum A/B

D121° = 2-8 min. D10 = 3.36 KGy

Spore pi sensibili Cl. botulinum E Cl. botulinum 51B

D121° = 0,0003' D10 = 1.29 KGy

Vegetative più resistenti D71° = 40’’ D10 = 16 KGy

Dvres / Dvsens 100 80

Dspore /Dveget 1.000.000 0.3 - 30

Enzimi cellulari inattivati alla non inattivati

morte delle spore

Tossina botulinica A D90°C = 0.009' D10 = 40 KGy

Effetto del pH importante trascurabile

Effetto dell'O2 indipendente molto importante

……………………………………………………………………………………

Cl. botulinum e RAGGI GAMMA.

Il D e il D10 rappresentano (i diversi Autori preferiscono l'una o l'altra

indicazione), in analogia col tempo di riduzione decimale, la dose necessaria alla

inattivazione del 90% delle cellule; il D37 indica la dose necessaria alla

inattivazione del 63% delle cellule (o sopravvivenza del 37%, 0.37 = e-1 ) ed è

usato più correttamente nelle considerazioni teoriche di biofisica delle radiazioni.

Il valore D può essere ricavato dalla porzione logaritmica della curva di

radioinattivazione del microrganismo, oppure da tutta la curva (ma non-

correttamente), senza teneer conto delle soluzioni di logaritmicità che precedono

e/o seguono la porzione esponenziale centrale.

Le curve di radioinattivazione del Clostridium botulinum hanno generalmente

carattere sigmoidale e sono quindi costituite da 3 parti:

a) una spalla (shoulder) iniziale (alle dosi minori) che può rappresentare più dei

3/4 del primo ciclo logaritmico e può estendersi fin oltre i 6 KGy;

b) una porzione esponenziale che può estendersi fin oltre i 20 KGy;

c) una coda (tail), che può prolungarsi oltre i 90 KGy.

L'entità della prima parte della curva sigmoide è indicata con gli indici "Dq" o

"L", generalmente, che sono una misura della dose necessaria perché abbia inizio

la fase esponenziale d'inattivazione; formalmente è ottenuta dall'intersezione del

prolungamento della curva esponenziale di inattivazione con il 100% di

sopravvivenza, a dose zero.

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150

Le prime due porzioni iniziali della curva (la spalla e la fase esponenziale) sono

comprese nella seguente relazione:

Dose(S,E) = D*(Log No - Log Nd ) + Dq (140)

dove No e Nd sono rispettivamente le concentrazioni delle spore iniziali e dopo la

dose d; il D è ricavato dalla porzione esponenziale, e Dose (S,E) comprensiva di

spalla e coda, necessaria per ottenere Log Nd.

La porzione finale o coda, della curva di inattivazione non è abitualmente

interpretata matematicamente.

Nella pratica, la valutazione della D è ottenuta col metodo di SCHMIDT e

NANK (1), in cui si applica la relazione:

D = dose / (Log Tot - Log Surv) (141)

dove Tot rappresenta il numero Totale di spore (numero di spore contenute

nell'unità campione, moltiplicato per il numero di unità assoggettate alla dose

considerata) e Surv rappresenta un valore connesso alla sopravvivenza. Surv può

essere ricavato:

(a) dal numero di campioni che si gonfiano o:

(b) dal numero di campioni tossici (contenenti concentrazioni letali di tossina

botulinica)- e in questi due casi si assume che ogni campione rigonfiatosi o

contenente tossina (dopo un periodo adeguato - abitualmente 6 mesi - di

incubazione a temperatura idonea - di solito a 30°C) racchiudesse almeno una

spora -; oppure :

(c) dal numero di campioni contenenti spore sopravviventi.

I valori di D ricavati col metodo di SCHMIDT e NANK (DPS = D from Partial

Spoilage data; DVS = D from Viable Spores; DTox = from fraction of Toxic

Samples), tengono conto quindi delle soluzioni di logaritmicità (shoulder e tail)

della curva d' inattivazione e si possono considerare i più adeguati alla

rappresentazione della dose necessaria alla inattivazione del Cl. botulinum.

Il Problema delle 12D

Gli studi di ESTY e MEYER (2) sulla resistenza termica delle spore di Cl.

botulinum in tampone fosfato, hanno indicato che per ridurre 1012

spore di Cl.

botulinum a meno di una spora sopravvivente, è necessario un trattamento di

2,78 min a 121°C = 250°F; successivamente tale tempo è stato portato da

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151

TOWNSEND a 2,45, tenendo conto del contributo termico dovuto al

raggiungimento di 121°C, trascurato nei calcoli originari. Un margine addizionale

di sicurezza del 22% ha indotto ad assumere 3 min a 121.1°C come il tempo

minimo di Fo che è necessario/imperativo applicare nella sterilizzazione degli

alimenti non acidi (pH > 4.5), per tener conto dell'eventuale effetto protettivo di

componenti particolari degli alimenti. Tale tempo minimo è detto: "minimum-

botulinum-cook".

In analogia con tale norma arbitraria, SCHMIDT suggeriva nel 1957 di adottare

anche per la radio-sterilizzazione il principio delle 12D, che veniva ufficialmente

proposto nel 1960 alla "European meeting on the microbiology of irradiated

foods".

Poiché il massimo D ricavato sperimentalmente in substrati animali e vegetali era

pari a 3.7 KGy, si assumeva come accettabile un valore di 12D pari a 44.5 (o 45)

KGy.

Le osservazioni di ANELLIS e KOCH sulla radioresistenza del Cl. botulinum in

tampone fosfato (in analogia con le esperienze di ESTY e Mayer), hanno indicato

che 12D si ottengono con 40 KGy; ma ufficialmente sono stati assunti i 45 KGy

proposti da SCHMIDT.

Radioresistenza del Cl. botulinum in tampone fosfato (M/16):

Ceppi D (KGy) 12D (KGy)

……………………………………………………………………

36 A, 33 A, 40 B, 41 B, 53 B 3.36-3.17 40.32 - 38.04

77 A, 12885 A, 9 B, 62 A 2.53-2.24 30.36 - 26.88

E, 51 B 1.34-1.29 16.08 - 15.48

…………………………………………………………..………..

In pratica, sono state ottenute in alcuni alimenti dosi di riduzione decimali

nettamente superiori (come sarà riportato di seguito) o inferiori, in funzione del

substrato alimentare inoculato; ciò comporta necessariamente (e utilmente), per

quanto concerne la radio-sterilizzazione, che per ogni alimento debbano essere

determinati sperimentalmente i parametri indicati (D e/o 12D).

I sostenitori del dogma "12D" sono forti della circostanza che 40 anni di pratica

applicazione (?) di tale concetto ha dato ottimi risultati nella sterilizzazione

termica degli alimenti. A tale posizione si possono opporre alcune

argomentazioni:

1 - Se nella pratica si applicasse esclusivamente tale concetto (12 D), la

sicurezza ottenibile non sarebbe poi tanto soddisfacente o comunque eccessiva :

una industria produce, poniamo, 107 scatole da 100 g/anno; l'applicazione di 12D

ridurrà la probabilità di contaminazione a 1 contenitore su 10.000, quando la

contaminazione iniziale sarà di 10 spore / contenitore (una spora ogni 10 g),

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152

oppure a 1 contenitore su 10, quando la contaminazione iniziale sarà di 10.000

spore /contenitore (100 spore / g).

Si può ricordare a tal fine che la contaminazione dei prodotti carnei freschi da

Clostridi putrefattivi di tipo PA 3679 (sono quasi inesistenti i valori per le spore

di Cl. botulinum) è mediamente di 2 - 5 spore/g, con intervalli compresi tra 0.1 e

100 spore/g. Ci si aspetta che la concentrazione "normale" di spore

termoresistenti di Cl. botulinum sia all'incirca un centesimo di quella da clostridi.

2 - In realtà l'industria applica da 5D a 7D per le spore dei clostridi e dei bacilli

più termoresistenti (Cl.sporogenes, P.A. 3679, B. stearothermophilus,

Cl.thermosaccharolyticum), che sempre presenti (gli uni o gli altri) nei prodotti

freschi, sopravviverebbero tutti a trattamenti termici che determinassero

solamente 12D = Fo = 3 min, per le spore del Cl. botulinum, provocando quindi

l'alterazione del prodotto.

Tali valori di Fo= 5 - 7, determinano da 30 a più di 50D per le spore di Cl.

botulinum.

3 - La pratica applicazione di trattamenti termici sub-12D (Fo = 0,05 - 1,5) alle

carni contenenti NaCl, nitrati e nitriti (prosciutti cotti), ha mostrato in 50 anni di

esperienza, di essere più che adeguata. E ciò perché, si è visto, il trattamento

termico sensibilizza le spore (danno metabolico) alle condizioni ambientali limite

(aw, NaCL, nitrato e nitrito), cosicchè una frazione delle spore, pur

sopravvivendo al trattamento termico, non è in grado di accrescersi, alterare il

prodotto e renderlo tossico.

4 - Alcuni Autori infine esprimono seri dubbi sulla correttezza scientifica

dell'interpretazione dell'esponente negativo dell'ordinata delle curve di

sopravvivenza, in termini di "livello della probabilità di sopravvivenza". La

constatata inapplicabilità del dogma 12D alla radiosterilizzazione di diversi

prodotti alimentari, motivata dal deterioramento indotto da 45 KGy sulle

caratteristiche organolettiche, ha suggerito il ricorso ad un concetto analogo, per

certi aspetti, a quello del tempo di morte termica (thermal death time), che si può

esprimere come la dose necessaria "per ridurre a zero il livello di pericolosità".

Ma un discorso realistico in tal senso, potrà farsi quando saranno conosciuti con

la sufficiente precisione:

(a) - la contaminazione specifica delle singole materie prime e l'entità di

tale contaminazione;

(b) - la radioresistenza della flora microbica tipica di ogni prodotto, in

ognuno dei prodotti;

(c) - le interazioni possibili tra ambiente e sopravviventi possibili, oltre che

tra i sopravviventi, dopo l'irraggiamento;

(d) - l'evoluzione della radioresistenza nel corso dell'irraggiamento;

(e) - il volume produttivo complessivo.

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153

C O D E (Tails) nelle Curve di Radioinattivazione.

ANELLIS e altri (12) hanno osservato che 30 KGy riducono una sospensione di

9*108 spore di Cl. botulinum 33-A a meno di una spora sopravvivente; ma da 30 a

90 KGy, la sopravvivenza varia tra 0,7 e 7 spore/ml di tampone fosfato M/15 (pH

= 7,0). Le curve di sopravvivenza ottenute con spore pretrattate termicamente, di

solito non hanno la coda.

Esempi di sopravvivenza delle spore di Cl. botulinum B-40 alle dosi maggiori di

raggi gamma:

D o s e Numero di spore vitali / campione

(KGy) media di 25 test R a n g e ……………………………………………………

18 2 3,6 - 10,2

20 0,1 0,0 - 0,5

22 0,14 0,0 - 0,7

24 0,04 0,0 - 0,2

26 0,60 0,0 - 3,0

28 0,06 0,0 - 0,3

30 0,12 0,0 - 0,6

……………………………………………………

La concentrazione delle spore non modifica la D (le opinioni in verità, sono

contrastanti) ma modifica significativamente l’estensione della coda: impiegando

37,000 spore in PB, la coda si osserva già dopo 4D + Dq = 10 KGy; impiegando

37 * 109 spore, la coda si rileva dopo 8D + Dq = 20 KGy.

D O S I F R A Z I O N A T E

I diversi Autori non sono concordi sull'effetto delle dosi frazionate. Nella tabella

successiva sono riportate le variazioni del D in funzione del tempo intercorso tra

applicazioni successive di 5 KGy, per spore di Cl. botulinum B-27, in tampone

fosfato.

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Tempo (h) trascorso D

tra dosi successive (KGy)

…………………………………………

0,0 2.3

5,0 2.9

15,0 3.8

28,0 5.5

…………………………………………

I valori di D aumentano in media di 1 KGy ogni 8 ore di intervallo tra dosi

successive. Quindi, l’impiego di dosi frazionate successive, non è vantaggioso.

TRATTAMENTI COMBINATI CALORE - RADIAZIONI

La resistenza termica delle spore pre-irraggiate, diminuisce, se

l’irraggiamento è applicato a temperatura ambiente.

Nella Tabella di seguito sono indicate le variazioni di resistenza termica in spore

di Cl. botulinum 33A in PB (pH = 7,0), per effetto dell'irraggiamento allo stato

liquido (0°C - 25°C) e solido (da -25°C a - 196°C).

D o s e D99°C D99°C

( KGy ) (spore irraggiate a 0°C-25°C) (spore irraggiate a -25, - 196°C)

…………………………………………………………………………………….

0 23,0 23,0

6 5,5 17,4

8 3,0 13,5

10 2,3 11,5

……………………………………………………………………………………. D99°C = ≈1 min / 1 KGy; D99°C = D99°C (liquido) - D99°C (solido) = ≈12 min.

La D diminuisce per trattamento contemporaneo a temperature letali o

prossime a quelle letali : D diminuisce di 0.59 KGy ogni 10°C tra 65°C e 95°C

per le spore di CL. botulinum 33A; per temperature comprese tra 25°C e - 196°C,

il valore di D aumenta di 0.14 KGy ogni 10°C (esperienze effettuate in carne di

manzo macinata). Va notato, che i valori di D ottenuti a 95°C e a -196°C, sono

maggiori, minori è la concentrazione di spore impiegata. Comunque, 17 KGy

sono in grado di sterilizzare, se applicati a +95°C, sia carne inquinata

sperimentalmente con 105 spore, sia con 10

9 spore per contenitore.

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Cellule Vegetative Radioresistenti.

Isolato la prima volta da carne trattata con 60 KGy ma molto diffuso nei prodotti

carnei (10 - 100/g) e nell'ambiente in generale, il Deinococcus radiodurans è un

tetracocco pigmentato in rosa-rosso, non patogeno, non gasogeno, mesofilo. Sette

KGy inattivano solo il 50% circa delle cellule in tampone fosfato; la tecnica

abitualmente impiegata per isolarlo dai prodotti alimentari è di irraggiarli con 20

KGy: sopravvive, della flora normale, solo il D. radiodurans. In brodo di carne

congelato, possiede un D = 10 KGy. Nella carne di manzo cruda, 7D si ottengono

con 35 KGy, 9D con 40 KGy, 12D con 47 KGy; nella tabella successiva sono

riportati i valori di D calcolati dalla porzione logaritmica della curva di

inattivazione ottenuta in alcuni alimenti.

Valori di D per il D. radiodurans in diversi substrati:

S U B S T R A T O D (K Gy)

……………………………………..

Tampone fosfato 1.92

Manzo crudo 2.50

Manzo cotto 2.34

Pollo 2.36

Pesce 3.39

……………………….……………

Tali valori, apparentemente inconciliabili con quanto detto precedentemente, non

tengono conto della spalla o shoulder, che può essere di 20 KGy (abitualmente è

di 10 - 15 KGy).

La termoresistenza del D. radiodurans è dell'ordine di grandezza delle altre

cellule vegetative ( D60°C = 0.75'; z = 5,1°C). Pretrattamenti o trattamenti

contemporanei a 40 -50°C, riducono la radioresistenza anche di tali

microrganismi. Gli enterococchi (specie Streptococcus faecium) sono provvisti di

radioresistenza analoga a quello del D. radiodurans (D compresi tra 1.70 e 3.50

KGy) ed estese shoulders (fino a 10 KGy). Pretrattamenti con ultrasuoni (20

minuti, 300 kc, 10 w), sensibilizzano sia il D. radiodurans che gli enterococchi.

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GAMMA RESISTENZA DEI VIRUS

Le regolamentazioni sulle condizioni igieniche dei prodotti alimentari e di quelli

conservati, trascurano spesso il problema della presenza e della sopravvivenza dei

virus e quindi della potenziale pericolosità derivante dal consumo di alimenti

contaminati. E ciò per diversi motivi, tra i quali, preminentemente, le difficoltà

tecniche di isolamento e conteggio di tali microrganismi (solamente pochi

laboratori sono attrezzati per tali tecniche), che non hanno condotto ad un esame

sperimentale sistematico della contaminazione dei diversi alimenti.

Fondamentalmente quindi, tale situazione deriva dalla mancanza di quelle

conoscenze precise, che una volta acquisite (e c'è da augurarsi che avvenga

presto) potrebbero incidere in maniera decisiva sul problema degli alimenti

conservati. La termolabilità di tali elementi microbici non costituisce un problema

negli alimenti che subiscono trattamenti termici anche solo pastorizzanti (fatte

pochissime eccezioni), ma la loro radioresistenza li ha imposti all'attenzione di

diversi ricercatori: la dose di riduzione decimale dei virus si approssima a 10

KGy.

BALDELLI ha determinato una dose di riduzione decimale di 5 KGy, in

ambiente acquoso, e 7 KGy in ambiente secco, per il FMDV ( foot-and-mouth

desease virus); valori analoghi sono stati ottenuti da MASSA (D = 4.81 - 6.26,

rispettivamente in ambiente acquoso e a secco).

Poiché la D dei virus è inversamente proporzionale alla loro dimensione, si può

ritenere che i D riportati rappresentino valori limite, visto che l'FMDV è tra i più

piccoli virus conosciuti. Sembra peraltro che D inferiori siano in grado di privare

i virus della loro infettività.

JOHNSON ha osservato che il peptone, la tiourea, il glutatione, proteggono i

virus nei confronti dei danni subiti con l'irraggiamento.

L'inattivazione (da 6 a 9 D) di diversi virus (Herpes, influenza A e B, Polio,

vaccinico, ecc.) richiede da 20 a 40 KGy.

GAMMA-RESISTENZA DELLE TOSSINE MICROBICHE

Nella Tabella successiva sono riportati i valori di D per le tossine che più

interessano i prodotti alimentari, sia per la frequenza con la quale possono essere

coinvolte in fenomeni tossinfettivi, sia per la radioresistenza.

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Radioresistenza delle Tossine Microbiche:

Tossina Purezza Substrato D(KGy)

……………………………………………………………..

Enterotossina B purificata tampone 27

“ " " " latte 97

Neurotossina

botulinica A " Tampone F. 0.5 - 2

" " " Brodo carne 40

" " " Formaggio 60

" E pura Tampone F. 0.4

" " cruda Brodo carne 21

………………………………………………………………

Come si può rilevare, la resistenza diminuisce con l'aumentare della purezza della

tossina. Mentre la tossina botulinica tipo E ha un D, nell'ambiente colturale in cui

si è formata, pari a 17 KGy, la tossina purificata ha D = 21 KGy, e quella pura D

= 0.4 KGy; in presenza di 600 μg/ml di albumina o cisteina (1,3 x 10-3 M), la D

passa da 0.4 a 3.50 KGy; l'irraggiamento in presenza di caseina ne potenzia la

tossicità (non se ne conosce il meccanismo). L'acido ascorbico sensibilizza la

tossina.

Le esperienze di MISURA e coll. sembrano indicare che difficilmente un

alimento può contenere più di 5 μg di enterotossina stafilococcica/g e che alcune

persone sono sensibili a 1 μg di tossina assunta col pasto; poiché si può ritenere

che in un solo pasto non si assumano più di 250 g di prodotto tossico,

l'irraggiamento dovrebbe portare la concentrazione di tossina a 0.004 μg/g. Per

ridurre 5 μg di tossina/g a 0.004 μg/g, si devono applicare da 3 a 4 D, pari a circa

400 KGy, nel latte.

Le aflatossine sono radioresistenti: non sono distrutte da 300 KGy (in alcole

metilico) e sono parzialmente inattivate (dal 40 all'80%) da 150 KGy in tampone

ftalato (pH = 4,0), fosfato (pH = 7,0) e borato (pH = 9,0).

Per quanto concerne la formazione della tossina botulinica tipo E nel pesce

irraggiato, sembra che i diversi Autori abbiano trovato un accordo: aumenta la

quantità di tossina prodotta, non la velocità di produzione.

R A D I C I D A Z I O N E o

RADIOPASTORIZZAZIONE

Con tale processo ci si propone di applicare dosi insufficienti a modificare le

caratteristiche peculari degli alimenti, ma capaci peraltro di diminuire il contenuto

totale di microrganismi e soprattutto di ridurre a livelli sufficientemente bassi la

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probabilità di sopravvivenza delle Salmonelle (e degli stafilococchi), negli

alimenti che per alcune loro caratteristiche intrinseche (aw, pH) e/o connesse alle

modalità di conservazione (congelati), non consentono la moltiplicazione dei

patogeni.

La radicidazione è prevista per quei prodotti che sono implicati con la maggior

frequenza nelle tossinfezioni da Salmonella (uova, derivati delle uova, pollame e

carni non cotte) e nella disseminazione di tali patogeni non sporigeni(mangimi

composti). Occasionalmente sono state determinate contaminazioni dell'ordine di

500 Salmonella/g; poiché tecnicamente si può assumere esente da Salmonella un

prodotto che non ne contiene in 10 kg, la contaminazione da salmonelle sarà

ridotta sufficientemente da dosi capaci di determinarne 6 - 7 D. La

contaminazione media dei mangimi (1 Salmonella/g) indica che bastano 5D per

ridurre la probabilità di sopravvivenza delle Salmonella, allo stesso livello.

Nella tabella successiva sono riportate le dosi massime equivalenti a 7D per le

Salmonella, in diversi alimenti.

Dose di Radicidazione per alcuni prodotti:

PRODOTTO DOSE * 7D

(KGy )

…………………………………………………

uova intere liquide 4.40

uova intere congelate 4.80

albume liquido 3.30

albume congelato 5.25

carne di cavallo congelata 8.90

farina di ossa 6.40

farina di pesce 12.20

crabmeat 6.00

…………………………………………………..

Con le uova intere liquide, poiché già dosi inferiori a 2.8 KGy modificano

apprezzabilmente i caratteri organoletici, la radicidazione ha scarse probabilità di

trovare applicazione. Si ritiene, in linea di massima, che per le uova e il pollame

congelati, 5 - 8 KGy rispettivamente, rappresentino dosi utili alla eliminazione

delle salmonelle; per la carne di cavallo, 6.5 KGy si sono dimostrati in pratica

sufficienti; 6 - 3 KGy, per i mangimi secchi. La presenza di "code" rilevata sia

con Salmonella che con stafilococchi (stafilococchi sono stati isolati dopo 18

KGy a cominciare da 4 KGy), non ha eccessivamente preoccupato gli autori che

si sono interessati alla radicidazione.

Tutti gli autori attribuiscono una notevole importanza alle osservazioni di

LICCIARDELLO sulla sensibilizzazione delle Salmonella irraggiate a 55°C (D =

0.75 KGy a 10°C, mentre D = 0.25 KGy a 55°C).

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159

R A D U R I Z Z A Z I O N E

La radurizzazione, è un'estensione degli obbiettivi della radicidazione verso i

microrganismi non patogeni, e quindi in relazione alla sopravvivenza dei

microrganismi non patogeni, ma capaci di alterare gli alimenti nel corso del

magazzinaggio. A ciò si aggiunge, soprattutto per il pesce, una definita

probabilità di controllo del Cl. botulinum tipo E.

La radurizzazione determina generalmente un raddoppiamento del periodo

di stabilità al magazzinaggio a temperature di refrigerazione, e modifica le

caratteristiche organolettiche indicative dell'alterazione in atto. Le

osservazioni condotte con filetti di pesce persico (Perca flavescens) hanno

indicato che 1 - 2 KGy riducono la contaminazione iniziale di 1,4 e 3 cicli

logaritmici, rispettivamente, raddoppiando la stabilità a 1°C (da 6 a 12 giorni), ma

senza modificare sensibilmente i rapporti quantitativi tra i diversi gruppi

microbici.

Con 3 KGy tali rapporti si modificano così profondamente, che il prodotto

alterato non presenta le caratteristiche organolettiche (odore di putrido) tipiche,

ingenerate dallo sviluppo di Pseudomonas e allo stesso tempo la stabilità è

prolungata a 43 e 55 giorni, rispettivamente, da 3 e 6 KGy. Le osservazioni

condotte su filetti di sogliola (Petrale sole) confezionati sotto vuoto (in scatola) e

irraggiati con dosi crescenti da 1 a 4 KGy sono chiaramente indicative.

Relazione tra dose di Raggi Gamma e stabilità:

…………………………………………………………….

Dose I % Talteraz. Batteri Caratteri

(KGy) a 5°C responsabili Organolettici

(giorni)

…………………………………………………………….

0 0 7 Pseudomonas putrido

1 85 14 Lactobacillus

e Pseudomonas putrido

2 99 28 Lactobacillus NO putrido

3 99 49 Lactobacillus NO putrido

4 99.2 56 Lactobacillus NO putrido

…………………………………………………………….. I% = Inattivazione microbica percentuale; Talteraz = Tempo di alterazione per magazzinaggio a 5°C.

Se dopo irraggiamento sotto vuoto (635 mm Hg) i filetti sono confezionati in film

permeabili all'ossigeno, la stabilità al magazzinaggio a 0.5°C, ridotta a 16 giorni

(3 KGy) e 22 giorni (4 KGy), è condizionata da Achromobacter e lieviti

(Trichosporon), che se non conferiscono odori di putrido, modificano comunque

l'accettabilità del prodotto. La stabilità della polpa di granchio (Cancer magister)

e delle ostriche (Crassostrea gigas) è aumentata di 2 - 6 volte con rispettivamente

1- 4 KGy e magazzinaggio a 7°C; in ogni caso, anche nel prodotto non irraggiato,

non sono le Pseudomonas a determinare l'alterazione ma gli Achromobacter.

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La stabilizzazione del pollo fresco richiede dosi più elevate: a 25°C, il pollo si

altera in 1 giorno; irradiato con 7 KGy, si altera dopo 2 - 5 giorni. Risultati più

soddisfacenti si ottengono per magazzinaggio a 5°C : 5 KGy prolungano la

conservazione da 6 (senza irraggiamento) a 16 - 20 giorni; 7 KGy non aumentano

in modo importante (19 - 24 giorni) la stabilità a 5°C. Interessanti le osservazioni

condotte su pollo macinato, in relazione all'acquisizione di radioresistenza in

ceppi di patogeni, sottoposti a dosi ripetute di raggi gamma. Apparentemente, la

resistenza di Salmonella e stafilococchi ai primi 5 KGy è raddoppiata, da

trattamenti preliminari consistenti in 12 cicli di irraggiamento con 2.5 KGy.

RADURIZZAZIONE e Clostridium botulinum tipo E

La radurizzazione – detta anche rad- appertizzazione - del pesce comporta

un'analisi della potenziale pericolosità derivante dalla estesa contaminazione

(soprattutto in senso geografico) da Cl. botulinum tipo E, che è capace di

accrescersi e produrre tossina alle temperature di refrigerazione. La

contaminazione del pesce è endogena. Il Cl.botulinum può essere isolato dai

visceri dei pesci, nel 40 - 100% dei casi. I pesci possono essere quindi dei

portatori sani di Cl. botulinum E. L'origine del tipo E, come degli altri tipi, è

tellurica. La presenza di tale microrganismo può essere limitata, mediamente, a 1

spore/g.

La radioresistenza dei diversi ceppi di Cl. botulinum tipo E è compresa tra 0.75 e

1.60 KGy in tampone fosfato; valori più elevati sono stati ottenuti in subtrati

differenti, ma sono costantemente inferiori a quelli dei tipi A e B . Segner e

Schmidt hanno constatato che la "shoulder" iniziale può estendersi da 2.9 a 4.3

KGy (per magazzinaggio a 20°C) ed è pari a 2.5 KGy per incubazione a 8°C

(prove condotte in omogeneizzato di haddock); in tampone, sono stati ottenuti

valori compresi tra 1.3 e 3.0 KGy. I valori di D ricavati dalla porzione logaritmica

sono di 2.2 KGy per magazzinaggio a 20°C e 1.1 KGy per magazzinaggio a 8°C;

applicando il metodo di calcolo di Schmidt e Nank, D è uguale a 2.5 KGy; 6D si

ottengono con 15.6 e 8.10 KGy, rispettivamente, a seconda della temperatura di

magazzinaggio successiva all'irraggiamento (20°C, o 8°C).

I trattamenti applicati abitualmente ai prodotti della pesca (2 - 6 KGy) non sono

idonei quindi alla eliminazione delle spore del Cl. botulinum tipo E; le

temperature di refrigerazione (0,5 - 1°C) rivestono, in relazione con la potenziale

pericolosità di tali alimenti, una funzione pregiudiziale.

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161

Nella Tabella di seguito sono riportate le dosi ritenute indispensabili per la

stabilizzazione (radappertizzazione) di diversi prodotti.

………………………………………………………………..

Temperatura, °C D O S E

Prodotto d'irraggiamento Mrad kGy …………………………………………………………

manzo -30 4.7 47

manzo salato -30 3.7 37

pollo -30 4.5 45

prosciutto -30 3.7 37

prosciutto salato -30 3.3 33

carne di maiale -30 5.1 51

gamberetti -30 3.7 37

merluzzo -30 3.2 32

corned beef -30 2.4 24

salsiccia porco -30 2.7 27

manzo -80 5.7 57

bacon 5-25 2.3 23

prosciutto 5-25 2.9 29

carne di maiale 5-25 4.6 46

……………………………………………………………….

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162

D I S I N F E Z I O N E

STRUTTURE, IMPIANTI E IGIENE DI FABBRICA

STRUTTURE ESTERNE.

Le pareti esterne debbono essere prive di cavità o sporgenza, che possano

costituire ricettacoli adatti alla colonizzazione di insetti, roditori, uccelli.

Le superfici esterne debbono essere liscie, chiare, lavabili e facilmente

accessibili.

L'area circostante lo stabilimento deve essere di cemento o altro materiale

resistente ai danneggiamenti meccanici, per almeno 15-30 metri di distanza dalle

pareti esterne, con superficie liscia, lavabile, in pendenza verso fossette per la

raccolta delle acque.

Debbono essere previsti e chiaramente indicati i percorsi obbligati ai parcheggi

dei veicoli, i punti di stazionamento delle materie prime, dei prodotti finiti, dei

pallete, dei barili, ecc.

Si debbono prevedere strutture adeguate all'isolamento dei rifiuti, protette

dall’invasione degli insetti, dei roditori e degli uccelli. I rifiuti debbono essere

rimossi con la maggiore continuità possibile.

PARETI INTERNE.

Le pareti interne debbono essere a superficie liscia, chiara, lavabile. Tutte le

pareti debbono essere trattate con vernici antimuffa.

Le piastrelle di ceramica possono soddisfare le previste esigenze igieniche,

soprattutto se ricoperte con film plastici (PVC, poliuretani, epossidiche)

e le giunzioni ben colmate.

PAVIMENTI.

I pavimenti debbono essere resistenti ai materiali, alle strutture e alle condizioni

operative dei reparti, con superficie liscia ma non sdrucciolevole (si possono

reperire in commercio vernici anti-sdrucciolo); debbono essere facilmente

drenabili, provvisti di pozzetti in ceramica per lo scolamento delle acque,

possibilmente dislocati in prossimità delle pareti laterali ma ben separati dalle

stesse.

I pavimenti debbono formare con le pareti superfici ricurve (r = 10 cm

circa). Le piastrelle di ceramica sono adatte alla pavimentazione, purché siano

resistenti alle sollecitazioni meccaniche, fisiche e chimiche prevedibili, e le

giunzioni tra le singole unità siano colmate con cementi sintetici.

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163

SOFFITTI.

I soffitti degli ambienti di lavorazione (le costruzioni ad un solo piano sono

preferibili ai fini dell'illuminazione, della ventilazione, della maggiore

flessibilità nella disposizione delle linee di lavorazione; per la mancanza di

pilastri di sostegno, ecc.) debbono possedere le stesse caratteristiche delle pareti

interne (di colore chiaro, lisci, lavabili), essere sicuramente isolati dal sottotetto

(ispezionabile e mantenuto in adeguate condizioni igieniche) o dal tetto.

ILLUMINAZIONE.

L'illuminazione è particolarmente importante per il controllo delle condizioni

igieniche delle strutture e degli impianti. Una buona illuminazione è premessa

indispensabile ad una corretta condizione igienica dello stabilimento.

L'illuminazione artificiale può accoppiarsi o sostituirsi completamente a quella

naturale, con notevoli vantaggi tra i quali prevalgono l'assenza di finestre, la

possibilità di mantenere livelli di illuminazione costante, la necessaria

installazione di impianti di termo-igro-regolazione, con aria filtrata e

sovrapressione interna.

I tubi al neon da preferire alle lampade a filamento, per la qualità della luce. La

luminosità deve essere di almeno 10-20 lumen per metro quadrato. Le sorgenti

debbono essere:

A - installate in alloggiamenti interni alle pareti e/o ai soffitti, privi di

strutture colonizzabili dagli insetti e facilmente sanificabili;

B - schermate per evitare la diffusione di vetro per rotture occasionali;

C - disposte in modo da non lasciare zone d'ombra, non abbagliare gli

operatori, non determinare contrasti eccessivi da illuminazione differenziale

localizzata.

VENTILAZIONE.

Le zone di lavorazione debbono essere confortevoli.

Le finestre e i ventilatori debbono essere schermati per evitare l'accesso degli

insetti. Le porte non debbono essere usate come aeratori e debbono operare

automaticamente; dovrebbero essere protette con lampade a luce ultravioletta

germicida e, a terra, con fossette contenenti disinfettante.

Il condizionamento di tutto lo stabilimento è la soluzione ideale. In ogni caso il

flusso dell'aria deve avere direzione opposta a quella del prodotto.

SERVIZI ACCESSORI.

In ogni reparto debbono essere dislocate attrezzature idonee al lavaggio-

disinfezione delle mani degli operatori. Il numero dei servizi igienici deve essere

di almeno 1 ogni 10-20 operatori, in ogni reparto; i servizi debbono essere

provvisti di doppie porte, massima illuminazione, lampade U.V. germicide,

dispositivi di erogazione a pedale, corredo di sapone-disinfettante e carta per

l'asciugatura (evitare dispositivi ad aria o tessuti), pareti e pavimenti di colore

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chiaro, lisci, non sdrucciolevoli, senza sovrapressione interna, ma provvisti di

aspiratori.

E' opportuno predisporre dispositivi per la cattura degli insetti (sono

particolarmente efficaci quelli elettrici).

ATTREZZATURE E IMPIANTI.

Tutte le attrezzature e gli impianti debbono essere in materiali resistenti alle

sollecitazioni fisiche e chimiche previste dalle lavorazioni e comunque,

preferibilmente, in acciaio inossidabile, alluminio o materiali plastici, con

superfici liscie e angoli arrotondati. Deve essere evitato nella misura del possibile

l'impiego di materiali di rame, legno o comunque facilmente soggetti ad usare.

Le apparecchiature debbono essere opportunamente separate, distanti dal

pavimento e dalle pareti quanto basta per un'agevole ispezione, lavaggio e

disinfezione.

Le condutture debbono essere ben separate, identificabili facilmente e

agevolmente ispezionabili (possibilmente non a soffitto) e lavabili, di colore

chiaro.

I diversi stadi delle linee di lavorazione debbono essere linearmente consecutivi.

Il contatto tra operatori e prodotti deve essere limitatissimo. Quando è

indispensabile, gli operatori debbono essere in grado di lavorare con il maggiore

confort possibile (spazio, illuminazione, temperatura, prossimità degli attrezzi

necessari e dei servizi di linea, ecc.).

La meccanizzazione di tutte le operazioni è auspicabile.

La disponibilità di acqua, vapore e disinfettante lungo le linee è da ritenersi

essenziale.

LAVAGGIO E DISINFEZIONE DEGLI IMPIANTI.

Con il lavaggio e la disinfezione degli impianti ci si deve proporre di eliminare

più del 99% della contaminazione e comunque di ottenere superfici

contaminate al massimo con 1 microrganismo per cm2.

Il lavaggio con acqua potabile ha lo scopo di rimuovere la sostanza organica

depositata sugli impianti e facilitare le successive operazioni di pulitura e

disinfezione. Poiché la maggior parte delle spore batteriche è inattivata

efficientemente solo a temperature prossime a 100°C o a temperature inferiori

solo in presenza di disinfettanti (cloro, iodio, ecc.), l'impiego di vapore deve

sempre essere preferito, quando possibile. La sterilizzazione chimica può

essere sufficiente, se condotta correttamente, e più economica.

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165

DISINFETTANTI

Si può ritenere che la totalità dei composti chimici, a concentrazione

sufficientemente elevata (>1 molare), sia in grado di esercitare un' azione letale

nei confronti delle cellule microbiche vegetative. Solo un numero relativamente

più ristretto è peraltro in grado di farlo anche a basse concentrazioni (≤ mg/L). È

a questo secondo gruppo di agenti chimici che viene affidato il processo della

disinfezione.

Tuttavia, a concentrazione sufficientemente ridotta (0.01, 0.001 mg/L), qualunque

composto chimico perde le proprietà microbicide.

La curva che descrive la probabilità di sopravvivenza Nc/No in funzione di una

concentrazione crescente di disinfettante è dunque di tipo sigmoidale, in

coordinate semilogaritmiche. È necessario infatti che si raggiunga una

determinata concentrazione - quella letale appunto - perché la probabilità di

sopravvivenza microbica cominci a diminuire (da cui la spalla alla curva

d'inattivazione); quindi, alle concentrazioni letali, la probabilità di morte aumenta

all' aumentare della concentrazione (fase esponenziale decrescente della curva);

infine, aumentando ulteriormente la concentrazione, la probabilità di morte

rimane pressoché‚ costante (coda, alla curva di sopravvivenza). Questa ultima

fase della curva di sopravvivenza ad agenti chimici letali è giustificata sulla base

dell'ipotesi che per essere attivo un composto debba comunque raggiungere il sito

sensibile (alla superficie o all'interno della cellula) e ivi raggiungere la

concentrazione efficace. La velocità di tale processo sarebbe determinata più dalla

velocità di assorbimento della sostanza al sito sensibile, piuttosto che dalla

concentrazione della sostanza attiva.

Ci si può peraltro aspettare che tali considerazioni valgano soprattutto per i

composti il cui sito attivo è situato all'interno della cellula microbica, piuttosto

che alla superficie.

Ne deriva comunque che la probabilità di inattivare i microrganismi è

strettamente connessa – ovviamente - alla concentrazione dell'agente letale

(l’aumento di concentrazione dell’agente letale ha un effetto equivalente, in una

certa misura, ad un aumento di temperatura) .

Il tempo di contatto tra agente letale e microrganismi è il secondo fattore più

rilevante del processo disinfettivo. Si può immaginare che per tempi di contatto

sufficientemente brevi nessun agente chimico possa dimostrarsi letale poiché

non ha il tempo di "accumularsi" al centro sensibile della cellula.

I tempi di contatto efficaci diminuiscono all'aumentare della concentrazione

dell'agente letale, ma non indefinitamente, come si è visto sopra. Sono

considerate efficaci efficaci quelle concentrazioni di disinfettante alle quali

l'effetto microbicida è rilevabile in tempi di contatto piuttosto brevi (secondi,

minuti).

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166

L'attività letale della maggior parte dei disinfettanti diminuisce in proporzione

alla quantità di materiale organico presente nell'ambiente. In generale, i composti

organici o inorganici impiegati per la disinfezione sono energici ossidanti, in

grado di agire direttamente con le molecole proteiche (soprattutto, ma anche con

gli acidi nucleici e altri polimeri organici) e determinarne modificazioni tali da

comprometterne la funzionalità.

Ne deriva quindi, che il meccanismo principale al quale si attribuisce l'effetto

letale della disinfezione è più spesso associato alla denaturazione proteica,

intendendo appunto con denaturazione una modificazione in senso non più

funzionale di un certo numero e tipo di molecole enzimatiche o strutturali.

La diminuzione di attività microbicida che si verifica in presenza di sostanza

organica (sporcizia), può derivare anche da fenomeni fisici di adsorbimento, che

portano ad una riduzione della concentrazione ambientale e/o locale di

disinfettante; e inoltre da inglobamento/rivestimento protettivo delle particelle

microbiche da parte del materiale organico, con conseguente riduzione della

possibilità che l'agente letale riesca a raggiungere i microrganismi, prima di

inattivarsi quanto basta, reagendo con la sostanza che li scherma, e comunque per

l'impossibilità che in prossimità della particella si raggiungano concentrazioni

efficaci di disinfettante.

Generalmente, la diminuzione dell'attività microbicida di un disinfettante è tanto

più pronunciata, quanto maggiore è la concentrazione di sostanza organica

nell'ambiente.

Si ritiene comunemente che la concentrazione dei microrganismi nel mezzo da

disinfettare non sia eccessivamente rilevante ai fini dell'efficacia del trattamento,

impiegando concentrazioni sufficientemenete elevate di disinfettante, poiché ci si

aspetta che in tali condizioni la cinetica d'inattivazione sia esponenziale.

In realtà si è riscontrato in numerose occasioni che il fenomeno della disinfezione

tende a fallire con maggiore frequenza quando la concentrazione cellulare

nell'ambiente è relativamente modesta. In tal caso si originano le code alle curve

di sopravvivenza, dovute appunto alla mancanza di inattivazione al crescere del

tempo di contatto microrganismi+disinfettante.

Una teoria della disinfezione che tenga conto adeguatamente di tutti i fenomeni

coinvolti, non è ancora stata formulata. Nella descrizione del fenomeno, si fa

costantemente riferimento alla cinetica di inattivazione esponenziale.

Secondo tale modello, la relazione tra probabilità di sopravvivenza Nt/No e

tempo t di contatto tra una determinata concentrazione di disinfettante C e la

popolazione microbica iniziale No (al tempo zero, t = 0, N = No), è data da:

Nt/No = exp (- kt * t) (142)

In cui kt è la costante di velocità del processo di disinfezione. Il valore di kt

aumenta all'aumentare della concentrazione, secondo una relazione del tipo:

kt = Bt * e(kc * C)

(143)

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Generalmente, al posto delle (142) e (143) si impiegano, facendo riferimento alle

potenze di 10, le corrispondenti:

Nt/No = 10(-kt * t)

(144)

kt = Bt * 10(kc * C)

(145)

dalle quali si ottengono direttamente i due parametri di riferimento di particolare

utilità, costituiti dal tempo di contatto :

D10 = 1/kt (146)

che rappresenta il tempo necessario perché la concentrazione C di disinfettante

determini la distruzione del 90% della popolazione microbica, e:

C10 = 1/kc (147)

che rappresenta la concentrazione di disinfettante capace di determinare una

variazione di 10 volte nella velocità di inattivazione.

Combinando le relazioni (144 - 147), si ottiene:

Nt/No = e(- t * [B*exp(kc*C)])

(148)

e quindi:

Ln(Nt/No)= - t * [B*exp(kc*C)] (149)

ed anche:

Nt/No = 10(- t * [B'*10(kc'*C)

] (150)

da cui:

Log (Nt/No) = - t * [B'*10(kc*C)

] (151)

Quando si espone una popolazione microbica No a dosi crescenti di un agente

chimico letale e si rileva il livello di sopravvivenza Nd dopo un tempo fisso di

trattamento (1, 10 min), si ottengono curve d'azione descritte da relazioni del tipo:

Nd / No = e(-kd *Dt)

(152)

in cui Dt è la dose applicata per il tempo t, e da cui si ottiene:

Nd / No = 10(-kd' * Dt)

(153)

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e quindi:

D10 = 1/kd' (154)

che rappresenta la concentrazione di disinfettante capace di determinare una

variazione di dieci volte nella probabilità di sopravvivenza dei microrganismi

trattati per t minuti con il disinfettante.

Si ritiene generalmente che kt, kc e kd aumentino tutti all'aumentare della

temperatura, secondo la relazione di Arrhenius, cosicché:

kt,c,d = F * exp (-Ea /R*T) (155)

dove il fattore di frequenza F è in relazione al tipo di k. Cosicché la (D5') diviene:

Ln(Nt/No) = -t*[B*e(C*(F*exp(-Ea/R*T)))] (156)

Più spesso, al posto della (156) si impiega la seguente relazione tra la temperatura

e il tempo di riduzione decimale ad una concentrazione definita C di disinfettante:

Log DT = Log DTr - T/z (157)

così come fra temperatura e concentrazione di riduzione decimale C10 per un

tempo di azione determinato, si impiega la seguente:

Log C10 = Log C10r - T/z (158)

o, ugualmente:

Log DT = Log DTr - 0.1*T*Log Q10 (159)

e

Log C10,T = Log C10,Tr - 0.1*T*Log Q10 (160)

dalle quali si ricavano agevolmente i valori di z e Q10.

In realtà le relazioni (157-160) dovrebbero interpretare i risultati ottenibili a

temperature T inferiori a 45°C circa nella inattivazione delle cellule vegetative, e

inferiori a circa 100°C per le spore.

A temperature superiori, l'effetto letale proprio del disinfettante si aggiungerebbe

all'effetto letale della sola temperatura.

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Vi sono comunque pochissime relazioni del tipo (157-160) in letteratura, e quindi

pochi valori di ‘z’ e/o di Q10. Sarebbe invece estremamente interessante

conoscere i valori di Ea, di z e/o di Q10 per i diversi disinfettanti, in modo da

poter scegliere il composto più adatto, in funzione delle condizioni (temperatura,

soprattutto) di impiego.

Le osservazioni condotte con cloro, iodio, acqua ossigenata, formaldeide,

glutaraldeide, º-propiolattone o ossido d'etilene, forniscono valori do Q10

compresi tra 1.6 e 3.3 (quindi valori di z compresi tra circa 20 e 50), per

temperature comprese tra - 10 e +95°C. Ne derivano energie d'attivazione di

Arrhenius comprese tra circa 10 e 27 Kcal / mole. Per trattamento dell'E. coli con

fenolo, a temperature comprese tra 30 e 42°C, sono riportati valori di Ea pari a 52

kcal/mole, corrispondenti ad uno zeta di 8.4°C (Q10 = 15.5). Valori di Q10 = 10

sono stati ottenuti con spore inattivate da acido peracetico, in un ampio intervallo

di temperatura.

Alogeni. Cloro, iodio e bromo sono gli alogeni impiegati più estesamente a

scopo microbicida.

CLORO.

Cloro gassoso (Cl2), ipoclorito di sodio o ipoclorito di calcio, in soluzione

acquosa danno:

Cl2 + H2O = HOCl + H+ + Cl

-

NaOCl + H2O = HOCl + NaOH

Ca(OCl)2 + H2O = 2 HOCl + Ca(OH)2

L'acido ipocloroso può dissociarsi:

HOCl = H+ + OCl

-

in relazione al pH, alla temperatura e alla forza ionica del mezzo. A basso pH

predomina HOCl; ad alto pH, OCl-.

L'effetto letale del cloro è maggiore a pH basso. È probabile quindi che l'acido

ipocloroso sia la molecola attiva.

Il biossido di cloro non idrolizza in soluzione acquosa.

Le cellule microbiche vegetative sono particolarmente sensibili al cloro, e

inattivate in pochi secondi di contatto con 0.5 ppm di cloro libero. Le spore

richiedono concentrazioni 10-100 volte superiori e anche tempi di contatto

maggiori.

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Per le cellule microbiche vegetative sospese in una soluzione contenente cloro

attivo (FAC), il tempo necessario per l'inattivazione del 90% delle particelle (D) è

dato approssimativamente da:

Log Dv = - 0.93 - Log (FAC) (161)

dove Dv è espresso in secondi e FAC in mg/L.

Le spore batteriche sono più resistenti. Per i Bacillus mesofili più sensibili la

velocità d'inattivazione è prossima a :

Log Dbs = 2 - Log (FAC) (162)

dove Dbs è espresso in minuti di contatto con la concentrazione FAC di cloro.

Per i Clostridi mesofili:

Log Dcs = 0.97 - Log (FAC) (163)

Il tempo di riduzione decimale delle spore di Cl. botulinum dei tipi A, B (p, np),

C, E, F (p, np) a contatto con 4.5 ppm di cloro attivo, a pH 6.5, a 25°C, è

compreso tra 0.8 e 3 minuti.

I Bacillus e i Clostridium termofili, del tipo B. stearothermophilus e Cl.

thermosaccharolyticum, non sono aggredibili efficacemente con il cloro, a

temperature inferiori a 60°C.

L'attività microbicida del cloro aumenta con la temperatura, con zeta prossimi a

25°C. Per i Bacillus mesofili, la velocità d'inattivazione tende ad aumentare con la

temperatura secondo la relazione:

Log DT = Log DTr +(Tr - T)/25 (164)

quindi Q10 = 2.5 ed Ea = 17 377 cal/mole.

In ambienti contenenti sostanza organica, soprattutto azotata, ioni ferrosi o

manganosi, nitriti, idrogeno solforato, l'attività microbicida del cloro diminuisce

significativamente. Il cloro che ha reagito con materiale inorganico (e parte di

quello che ha reagito con sostanza organica) è privo di attività microbicida.

Quindi, la semplice addizione di cloro ad un'acqua contaminata non ne assicura la

disinfezione e/o potabilizzazione.

Aggiungendo quantità crescenti di cloro ad una soluzione contenente sostanza

azotata, dapprima il cloro si lega labilmente con l'ammoniaca formando mono-

cloro-ammine. A concentrazioni maggiori si lega più stabilmente, cosicché la

concentrazione di cloro libero diminuisce all'aumentare del cloro aggiunto, e si

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formano di-cloro-ammine maleodoranti. Quindi, quando il rapporto molare tra

ammoniaca e cloro è di 1:2, vale a dire in corrispondenza del cosiddetto "break-

point", non si avvertono più l'odore di cloro o di cloro-ammine, né è rilevabile

analiticamente l'ammoniaca, né il cloro.

Solo a concentrazioni di cloro superiori al break-point, la soluzione si

comporta come acqua pura, e tutto il cloro aggiunto è libero e quindi

utilizzabile per i processi disinfettivi.

Nell'applicazione pratica della tecnica del break-point occorre tener

conto che l'ossidazione dei componenti azotati non è istantanea, ed è

quindi opportuno lasciare che trascorra qualche tempo (generalmente

almeno 30 minuti) prima di considerare concluso il processo. Va anche

ricordato che oltre il break-point agiranno da microbicide anche

alcune cloramine formatesi durante il processo. Quindi, oltre il break-

point, anche pochi ppm di cloro libero, o addirittura frazioni di ppm,

offrono garanzie sufficienti. Nel processo di clorazione dell’acqua

impiegata industrialmente (e comunque di potabilizzazione), si

dovrebbe sempre tener conto di questi fenomeni. Aggiungere

semplicemente cloro ad un'acqua, senza stabilire se si è superato il

break-point, non è di alcuna garanzia né di avvenuta potabilizzazione,

né di capacità disinfettante residua.

Il biossido di cloro è più efficace dell'ipoclorito e utilizzabile anche ad alto pH.

FATTORI CHE CONDIZIONANO L'EFFICACIA BATTERICIDA DEL

CLORO

1 - pH - Poiché la specie attiva è l'acido ipocloroso indissociato, come si è

ripetutamente costatato in soluzioni con cloro gassoso, ipocloriti e cloramine,

l'attività battericida è tanto maggiore quanto minore è il pH.

2 - Concentrazione - Si può ritenere che in generale l'attività aumenti con la

concentrazione di cloro libero; ma mentre aumentando la concentrazione di

cloro disponibile nella soluzione impiegando cloro gassoso il pH diminuisce,

Cl2 + H2O → HOCl + H+ + Cl

-

impiegando ipoclorito o cloramine alcaline, il pH della soluzione aumenta e

l'attività diminuisce:

NaOCl + H2O → Na+ + OH

- + HOCl

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3 - Temperatura - In generale, il tempo di trattamento necessario per ottenere

una definita inattivazione percentuale, in presenza di una definita concentrazione

di cloro residuo, diminuisce del 60% circa per un aumento di 10°C nella

temperatura di trattamento.

Occorre tener conto peraltro, che la solubilità del cloro gassoso in acqua decresce

all'aumentare della temperatura; cosicché, se l'acqua non ha un contenuto

sufficientemente elevato di sostanze azotate, tale da portare alla formazione di

cloramine, l'efficacia battericida delle soluzioni effettuate con cloro gassoso

diminuisce all'aumentare della temperatura. Le cloramine sono piuttosto stabili

anche a temperature elevate, come pure le soluzioni da ipoclorito.

4 - Sostanza organica - Zuccheri e amidi non modificano l'attività battericida

delle soluzioni di ipoclorito; ma residui di tessuti animali o vegetali, albumina,

amminoacidi, la riducono notevolmente. Naturalmente tale riduzione di attività è

tanto più importante quanto minore è la concentrazione di ipoclorito.

IODIO.

Lo iodio è un battericida veramente molto potente. La concentrazione attiva a

temperatura ambiente nei confronti delle spore di B. stearothermophilus è circa

40 volte inferiore a quella del cloro. Spesso si indica invece il cloro come più

sporicida dello iodio; tale discordanza è dovuta alla tecnica di valutazione

dell'attività sporicida: se dopo il trattamento con l' alogeno la sospensione è

trattata con tiosolfato, il cloro risulta più attivo.

Sia il cloro che lo iodio sono impiegati comunque soprattutto per inattivare la

flora microbica vegetativa, a temperatura ambiente: in tali condizioni,

concentrazioni paragonabili dei due alogeni, determinano un analogo grado

d'inattivazione. Attivo come iodio elementare, come soluzione acquosa (massima

concentrazione 0.03%), assieme a ioduro di potassio, o come soluzione alcolica

(21% di I2 circa) e in altre forme, lo iodio è impiegato più diffusamente, come

disinfettante industriale, in forma di iodoforo, miscela di iodio con tensioattivi

non ionici e con alchil-fenolo-poliglicol-eteri. Essendo un ossidante meno

aspecifico del cloro, lo iodio è inattivato in misura minore dalla sostanza organica

dell'ambiente di disinfezione. Le soluzioni sono tanto più colorate in bruno-viola

quanto maggiore è la concentrazione dell'alogeno, ma solo a concentrazioni

superiori a circa 6 ppm di iodio libero, ciò che ne riduce drasticamente l'interesse

pratico. Non pigmenta le sostanze amidacee, almeno alle basse concentrazioni

d'impiego.

La sensibilità dei lieviti allo iodio è circa 5 volte maggiore di quella delle cellule

vegetative batteriche, che a sua volta è circa 30 volte superiore a quella delle

spore dei Clostridium, che è circa 5 - 30 volte superiore a quella delle spore dei

Bacillus. Le dosi di iodio attivo necessarie per ottenere una riduzione decimale in

un minuto di contatto sono quindi, all'incirca: 0.5, 2.5, 80, 400-2000 ppm,

rispettivamente, per i diversi gruppi microbici indicati. Alla scarsa attività nei

confronti delle spore si può ovviare aumentando la temperatura del trattamento di

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disinfezione. Si è osservato, infatti, che le concentrazioni di riduzione decimale

cambiano con la temperatura di trattamento, con uno z = 35°C circa (Q10 = 1.9;

Ea = 12 987 cal / mole); quindi, a temperature prossime a 100°C bastano pochi

ppm di iodio attivo per inattivare il 90% delle spore più resistenti.

È vero che innalzando la temperatura delle soluzioni disinfettanti, le

concentrazioni degli alogeni diminuiscono per effetto dell'evaporazione; ma

l'aumento della attività sporicida compensa ampiamente tale fenomeno.

BROMO.

Il bromo è certamente l'alogeno provvisto della più elevata capacità

sporicida soprattutto a temperatura ambiente. Ma è pochissimo impiegato

nella pratica. La dose di riduzione decimale in un minuto nei confronti delle spore

batteriche trattate a temperatura ambiente è intorno a 125 ppm.

Aggiunto al cloro o allo iodio, ne aumenta sensibilmente l'attività disinfettante.

PEROSSIDO D'IDROGENO.

A basse concentrazioni l'acqua ossigenata (HP) è attiva nei confronti delle cellule

microbiche vegetative. Solo a concentrazioni relativamente molto elevate (intorno

al 35%) è attiva nei confronti delle spore batteriche.

Per il B. stearothermophilus vale una relazione del tipo:

Log D = 1.7 - 1.3 * Log (% HP) (165)

in cui D è il tempo di riduzione decimale in minuti, per trattamento a temperatura

ambiente.

All'aumentare della temperatura, l'attività sporicida del HP aumenta, con z

prossimo a 40°C (Q10 = 1.5-2.5).

ACIDI.

La maggior parte dei microrganismi è incapace di sopravvivere a lungo in

ambiente acido. La velocità di inattivazione aumenta al diminuire del pH

(all’aumentare della concentrazione dell’acido). In ambienti con pH inferiore a

3.8, la velocità di inattivazione delle cellule vegetative, nDv, aumenta di dieci

volte ogni circa 0.3 unità di pH:

nDv = 12.2 - 3.13 * pH (166)

e quella delle spore, nDs, ogni unità di pH all'incirca:

nDs = 4.06 - 1.04 * pH (167)

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174

La velocità di inattivazione inoltre aumenta all'aumentare del pK dell'acido

prevalente nel mezzo. Più attivi in ordine crescente sono il malico (pK 3.4), il

lattico (pK 3.86), l'acetico (pK 4.75), il propionico (pK 4.87), ecc.

L'acido citrico (pK 3.08), l'acido più diffuso nella frutta, è attivo quanto l'acido

cloridrico; per entrambi, l'attività microbicida è quasi esclusivamente dovuta alla

concentrazione di idrogenioni (quindi, al pH).

ALCALI.

È noto che anche in ambiente alcalino i microrganismi sono inattivati con

probabilità crescente all'aumentare del pH.

Gran parte delle osservazioni sono state condotte con soda. Si ritiene

generalmente che una soluzione di soda allo 0.5% abbia pressoché la stessa

attività microbicida di una soluzione di ipoclorito a 100 ppm.

Tuttavia, la letteratura sull'argomento è scarsa.

COMPOSTI DELL'AMMONIO QUATERNARIO.

La formula generale dei composti dell'ammonio quaternario o QUATS è la

seguente:

_ _

| R2 |

| | |

| R1 - N - R3 | - X

| | |

|_ R4 _|

dove R1, R2, R3 e R4 sono radicali organici di vario tipo, da -CH3 a C18H37 o

gruppi fenilici; X è un anione di tipo Cl, Br, CH3COO-, ecc.

I QUATS sono microbicidi meno potenti degli alogeni, ma sono anche meno

sensibili al pH e alla sostanza organica, e sono meno tossici.

I gram-positivi sono generalmente più sensibili degli altri microrganismi: La Dc a

25°C è prossima a 5 ppm; i gram negativi richiedono una dose circa 6 volte

superiore. I virus con involucri esterni lipofili (Herpes simplex, Vaccinico, V.

influenzale, Adenovirus) sono sensibili, mentre poco lo sono quelli con maggiori

caratteristiche idrofiliche (Enterovirus, ECHOvirus, Coxackie virus, etc.).

I Quats sono poco efficaci nei confronti delle muffe.

Particolarmente diffuso ed efficace è il benzalkonio-cloruro, alla dose di 0.001 -

0.2% .

Altri Quats sono la cetrimide, il cloruro di cetil-piridinio, il cloruro di benzetonio.

I Quats sono incompatibili con i tensioattivi non-ionici, quelli anionici e con i

fosfolipidi (lecitina, etc.).

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175

Il sodio-lauril-solfato è il più diffuso tensioattivo anionico; buon detergente,

pressoché privo di attività disinfettante, salvo nei confronti dei gram-negativi (ma

solo ad elevata concentrazione).

Sono tensioattivi non-ionici i Tweens (polisorbati), che di per se soli sono

inattivi come microbicidi.

Tra i più noti composti anfolitici con carattere misto anionico-cationico vi è il

Tego, dodecil-di(aminoetil)-glicina. Inattivo a temperatura ambiente nei

confronti delle spore (B. stearothermophilus) è rapidamente (in 5 minuti di

contatto) attivo invece a temperature più elevate:

nD = - 5.87 + 0.083 *T (168)

dove T è in °C, e da cui si ha che z=12°C (Q10=6.8; e Ea = 48 820 cal/mole).

Questo basso valore di zeta lo candida come disinfettante da usare più

vantaggiosamente ad alte temperature.

Nei confronti delle cellule vegetative, è attivo anche a temperatura ambiente.

GLUTARALDEIDE.

L'aldeide glutarica:

O O

|| ||

HC-CH2-CH2-CH2-CH

è molto reattiva nei confronti delle proteine, soprattutto con l'aumentare del pH

da 4 a 9. In soluzione alcalina la glutaraldeide (al 2%) è in grado di inattivare

anche le spore batteriche, in 10 ore di contatto a temperatura ambiente.

A concentrazioni minori (0.01-0.02%) è attiva, quasi esclusivamente in soluzioni

alcaline (pH 8) sia su cellule vegetative, sia virus, sia miceti.

Non danneggia metalli, vetri e gomme.

ETANOLO.

Soluzioni di etanolo al 60-80% sono rapidamente letali nei confronti della

generalità delle cellule vegetative.

L'attività aumenta all'aumentare del pH. L'etanolo è completamente inattivo nei

confronti delle spore batteriche.

A concentrazione inferiore al 30%, è inattivo anche nei confronti delle cellule

vegetative.

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176

METALLI PESANTI.

L'impiego di argento, rame e mercurio, metallici o in derivati organici, è

sempre meno frequente. Pare che un tempo venissero utilizzati recipienti di rame

o argento, con modalità che potrebbero essere riferite in qualche modo ad un

accreditamento del cosiddetto effetto oligodinamico, un processo di disinfezione

che sarebbe determi

nato da concentrazioni di ioni argento pari a 0.01-0.1 ppm.

Il nitrato d'argento promuove la precipitazione delle proteine (è un reattivo

specifico dei gruppi -SH) e come tale ci si può aspettare che sia provvisto di

azione microbicida, almeno nei confronti delle cellule vegetative (molti enzimi

non sono più funzionali se i loro gruppi -SH sono ossidati). È probabile che ad

alta temperatura sia attivo anche sulle spore. L'argento metallico è l'elemento

base del processo "katadin" di sanificazione di liquidi.

Il rame e suoi derivati organici e inorganici, sono considerati efficaci algicidi e

fungicidi, già a concentrazioni di 0.5 - 3 ppm.

OPERAZIONI DI DECONTAMINAZIONE

DEGLI IMPIANTI

Il controllo e la selezione di materie prime di elevata qualità e il loro

magazzinaggio in condizioni tali da preservarne quanto possibile le

caratteristiche originali, sono pratiche che possono essere completamente

vanificate da impianti di trasformazione in scadenti condizioni igieniche.

Una superficie si considera contaminata se vi aderiscono sostanze proteiche,

carboidrati, grassi o oli, frammenti di prodotto, depositi minerali, ecc. Tali

superfici sono un richiamo per gli insetti e un substrato per lo sviluppo dei

microrganismi.

Una superficie si "contamina" per un processo essenzialmente spontaneo, che

avviene con una diminuzione dell'energia libera del sistema, ¤G (e che può

essere rappresentato sostanzialmente da:particelle libere → particelle depositate

su una struttura -- energia):

¤G = (¤H – T¤S) (168)

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Per invertire il processo col quale una superficie si contamina, ossia per

"pulire" una superficie, occorre quindi fornire energia al sistema. Tale

energia Ea è solitamente meccanica (spazzole, abrasivi) e/o termica. I detergenti

sono molto utili nel processo di decontaminazione, perché modificano la quantità

di energia (lavoro) che occorre somministrare al sistema per invertire il processo

di insudiciamento.

Processo fisico-chimico della contaminazione.

Si può ragionevolmente ritenere che almeno parte dello stato di minore energia

delle particelle sedimentate possa essere attribuita all'attrazione tra particella e

substrato. I sistemi caratterizzati così da maggiori forze di attrazione (fisiche

e/o chimiche) si contaminano più facilmente.

In effetti, alla superficie di un materiale qualsiasi, gli atomi e le molecole esposte

hanno valenze e altre forze di attrazione che sono meno completamente

soddisfatte di quelle degli atomi e delle molecole situate "dentro" il materiale.

Queste forze attraggono, vincolano, in misura diversa, sostanze differenti, per

un fenomeno detto "adsorbimento", di origine fisica (forze di Van Der Waals) o

di natura chimica. Quando una particella si approssima ad un substrato, le

molecole che più vi si avvicinano (il primo strato molecolare) probabilmente sono

polarizzate dai movimenti elettronici del substrato e dal campo elettrico che va

modificandosi. La polarizzazione del primo strato molecolare induce una

polarizzazione di segno opposto, e minore, sullo strato successivo, e così di

seguito, coinvolgendo diversi strati; il primo strato comunque rimane legato più

tenacemente dei successivi, e tale tenacia dipende dal tipo di substrato e di

particella: quanto più il primo è in grado di indurre polarizzazione nelle seconde,

quanto più la particella si polarizza in risposta al campo del substrato. I bordi, gli

angoli, e comunque le zone che hanno subito abrasioni di recente, hanno

maggiore potere adsorbente, probabilmente perché relativamente più ricche di

strutture ioniche non soddisfatte.

Decontaminazione

Fondamentalmente, (Harris, 1979) "… nel processo di decontaminazione, ha

luogo la solubilizzazione delle sostanze suscettibili,segue l'emulsificazione della

contaminazione liquida, e i solidi sono sospesi di modo che il processo di

risciaquo li trascini via.”

I processi di "decontaminazione" consistono principalmente di tre fasi:

a - separazione dei contaminanti dalla superficie,

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b - dispersione dei contaminanti in un mezzo detergente,

c - prevenzione della rideposizione dei contaminanti sulla superficie.

Le tre fasi comportano fenomeni meccanici, fisici e chimici.

L'applicazione di una spazzola è un esempio di azione meccanica, ma lo è anche

l'erosione che si attua con la circolazione di un liquido alla sua superficie. La

dissoluzione operata da un solvente (solubilizzazione di residui zuccherini con

acqua) e l'azione bagnante di un tensioattivo sono esempi di azione fisica. La

formazione di ioni complessi mediante polifosfati e l'azione chelante sono esempi

di reattività chimica.

La contaminazione costituita da sostanze facilmente solubili in acqua (zuccheri,

ad es.) può essere rimossa semplicemente per solubilizzazione; quella costituita

da materiali non completamente solubili in acqua, richiede processi di rimozione

diversificati.

Generalmente le soluzioni detergenti contengono tensioattivi. Tali composti si

combinano col materiale contaminante e col substrato, determinando la

dissoluzione del deposito. In ogni caso la composizione della soluzione

detergente può favorire decisamente il processo di rimozione, ma non è

dissociabile, perché il trattamento abbia l'efficacia richiesta, dall'impiego di

energia meccanica fornita sotto forma di turbolenza attuata con la circolazione,

getti d'aria e di soluzione sotto pressione, azione pulente di spazzole, ultrasuoni,

ecc.

Il processo di detersione richiede la disintegrazione del materiale depositato sulle

strutture, con la formazione di una dispersione di particelle minute da trasportare

via con la soluzione detergente.

Jennings (1965) richiama l'attenzione sulla relazione tra volume e superficie delle

particelle, in relazione alle loro dimensioni. Una particella sferica di 1 cm di

diametro (olio, o altro materiale insolubile) ha un volume di 0,524 cm 3 e

un'area superficiale di 3,14 cm 2, con la suddivisione di tale particelle in altre con

diametro di 0,1 cm, si otterranno 1000 particelle con un volume di 0.000524 cm 3

e con un'area di 0,0314 cm 2, per una superficie totale di 31,4 cm

2, ovviamente;

se poi si ottengono particelle con diametro pari 0,01 cm, si avranno 10 6 particelle

con un'area complessiva di 314 cm 2. Suddividendo quindi una particella di

materiale si è aumentata grandemente l'interfaccia particella-acqua, cosicché

l'energia libera totale superficiale del sistema è aumentata. Tale energia deve

essere fornita al sistema, che diversamente riformerà minori aree interfacciali,

con una diminuzione della energia totale libera superficiale. Un livello

appropriato di agitazione potrà mantenere la condizione dispersa; in presenza

di un idoneo tensioattivo, l'energia necessaria per preservare la dispersione

potrà ridursi al 2-4 % di quella richiesta.

Una sospensione di materiale finemente disperso è caratterizzato dalla proprietà

di adsorbire ioni e molecole appropriate dalla soluzione. Con l'adsorbimento di

un tensioattivo ionico si ha la formazione di uno strato carico elettricamente alla

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superficie della particella. Questo strato richiama dalla soluzione ioni di carica

opposta. Una frazione di questi ultimi, quelli più prossimi allo strato superficiale

della particella, sono certamente soggetti a restrizioni elettrocinetiche e si

muovono con la particella (doppio strato di Helmholtz).

L'influenza della carica superficiale della particella si fa risentire a distanza

superiore al diametro dei controioni, cosicché in prossimità del doppio strato vi

sarà una densità di ioni superiori a quella esistente all'interno della soluzione, e

tale densità diminuirà all'aumentare della distanza dalla superficie, fino a ridursi

a zero.

Questo terzo strato è costituito da ioni mobili; il potenziale che attraversa il

secondo e terzo strato è detto potenziale zeta. Esiste una precisa correlazione tra

sospendibilità particellare e potenziale zeta. Le particelle rimarrebbero sospese in

una soluzione per effetto delle cariche repulsive dei doppi strati ugualmente

carichi.

Il meccanismo di rimozione dei grassi da una superficie può essere configurato

come costituito da un processo di bagnatura preferenziale seguito da

emulsificazione. La soluzione acquosa di detergente sarebbe attratta dalla

superficie del substrato più di quanto non lo sia il grasso, che sarebbe così

rimosso; la porzione idrofobica delle molecole di tensioattivo si orienterebbero

verso il globulo di grasso, disciogliendovisi e lasciando i gruppi polari a contratto

con l'acqua.

Questa struttura idratata e carica attirerebbe controioni dalla soluzione, si

formerebbe un maggior strato di cariche che stabilizzerebbe l'emulsione e

impedirebbe la rideposizione sul substrato.

TENSIONE SUPERFICIALE

Si consideri un solido composto da molecolare sferiche strettamente aggregate.

Le molecole sono legate da una energia di coesione E/mole e φ = E/N per

molecola.

Ogni molecola è legata poniamo ad altre dodici, e la forza di legame sarà φ/12.

Se lo strato superficiale di molecole è anch'esso strettamente aggregato ogni

molecola superficiale è legata a nove molecole adiacenti, quindi l'energia totale

di legame di ognuna è pari a 9 = φ/12 = 3/4φ. Quindi ogni molecola superficiale

si può grossolanamente ritenere che sia legata per una quantità di energia che

è solo il 75% di quella coinvolta nei legami delle molecole all’interno del solido.

L'energia di una molecola superficiale è dunque maggiore di quella delle

molecole non superficiali.

Questo eccesso di energia delle molecole superficiali non ha una gran rilevanza

nei sistemi di dimensioni ordinari, poiché il numero di molecole superficiali è

una minima frazione del numero di molecole totali.

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Si consideri un cubo con 1 cm di lato e il diametro delle molecole costitutive pari

a 10-8

cm: su uno spigolo vi saranno dunque 108 molecole. Il numero totale di

molecole del cubo considerato sarà pari a 108*3

= 1024

; su ogni faccia del cubo, vi

saranno 108*2

= 1016

molecole ed essendo sei le facce del cubo, alla superficie vi

saranno 6*1016

molecole. La frazione delle molecole superficiali è pari a 6 *1016

/ 1024

= 6 *10-8

, ossia solo 6 molecole su 100 milioni di molecole, sono alla

superficie. Se non si è particolarmente interessati all'energia superficiale, le

carateristiche di tali molecole possono essere trascurate. Ma se il rapporto

superficie/volume è molto elevato, occorrerà prendere in considerazione l'energia

superficiale.

Poniamo che l'energia totale sia:

Etot = Ev * V + Es * S (169)

in cui V e S sono rispettivamente il volume e la superficie, Ev ed Es l'energia

per unità di volume e di superficie, rispettivamente. Poiché Ev = φv + Nv, ed Es

= φs + Ns, essendo φ le energie per molecola, la relazione precedente può essere

indicata nella forma:

Etot = Ev * V ( 1+ Es*S/Ev * V) (170)

e si avrà:

Etot = Ev * V [1+ (Ns *Es *S)/(Nv * Ev *V)] (171)

Da quanto visto precedentemente, si può considerare il rapporto φs/φv ÷

1, e il rapporto Ns/Nv ÷ 6 x 10-8

, cosicché:

Etot = Ev * V [ 1 + 6*10-8

* S/V] (172)

Se ci interessa sapere quale dimensione deve avere una particella di sostanza

perché, ad esempio, l'energia superficiale sia almeno l'1% dell'energia totale, si

può porre:

0,01 = 6 * 10-8

* S/V

da cui S/V ÷ 2 * 105 . In un cubo di lato "a", la superficie totale sarà: 6* a

2, e il

volume: a3, cosicché S/V = 6 a

2 / a

3 = 6/a; se quindi 6/a = S/V = 2.10

5, si avrà

che: a ÷ 3 x 10-5

cm. Le massime dimensioni di una particella che consentono di

far emergere l'influenza dell'energia di superficie sul sistema, sono infatti di

quest'ordine di grandezza; nella pratica, gli effetti di superficie sono già rilevanti

per particelle con diametro inferiore a 10-4

cm (Castellan, G.W., Physical

chemistry, 1972, Addison-Wesley Publ. Co, MA).

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181

All'interno di un liquido, la distanza intermolecolare è sufficientemente ridotta

perché le molecole siano soggette alle forze di attrazione di Van Der Waal e solo

un numero molto limitato di unità se ne sottragga e passi allo stato di vapore. Le

molecole alla superficie di un liquido, non essendo completamente circondate

dalle molecole della fase liquida sono soggette ad un effetto attrattivo non

equilibrato, diretto verso l'interno della soluzione. Tale forza di attrazione è

tanto minore quanto minore è la superficie, ovviamente, cosicché ad una minore

superficie corrisponde una minore energia e la superficie del liquido tende a

"contrarsi". La superficie di un liquido può quindi essere assimilata (Young,

1805) ad una membrana di spessore infinitesimo, in uno stato di "tensione". La

tensione è una pressione negativa; la pressione è una forza per unità di area e

quindi la "tensione superficiale" è una forza per unità di lunghezza (unità SI =

Newton * m-1

, dine cm-1

).

Comunemente si indica la tensione superficiale con la lettera gamma, γ che,

fisicamente, è definita come la forza necessaria per generare 1cm2 di superficie.

In generale, la tensione superficiale diminuisce all'aumentare della temperatura.

In effetti, aumentando l'energia cinetica delle molecole superficiali divengono

meno vincolanti le forze di attrazione da parte delle molecole all'interno del

liquido e si potrà individuare una temperatura critica Tc alla quale le forze di

coesione fra le molecole sarà prossima a zero e così pure la tensione superficiale.

La relazione tra γ , Tc e T è data dalla relazione:

γ *(M*v) 2/3 = K (Tc - T - 6) (173)

di Ramsay - Shields - Eötvös, in cui M è il peso molecolare, v il volume

specifico, T la temperatura e K una costante che ha il valore di 2,1 per un gran

numero di liquidi. Teoricamente, quando un liquido è posto a contatto con la

superficie piana di un solido, vi sono tre interfaccie e quindi tre tensioni

superficiali o meglio interfacciali: γs, tra superficie e fase gassosa, γL tra liquidi e

fase gassosa e γSL tra liquido e superficie.

Le fasi si incontrano in un punto in cui si può difinire un "angolo di contratto" ɛ

tra liquido e solido. Se ɛ è finito, il liquido forma una goccia alla superficie del

solido; se ɛ = 0 il liquido diffonde sul solido vale a dire lo "bagna" .

All'equilibrio:

γS = γSL + γL*cos ɛ (174)

L'angolo ɛ è evidentemente un indice dell'affinità relativa del liquido per la

superficie solida, ed interessa quindi sia la deposizione di un contaminante

liquido su una superficie solida sia la bagnabilità della superficie da parte delle

soluzioni detergenti. La forza di attrazione tra superficie solida e liquida può

essere valutata misurando il lavoro necessario per separare il liquido dalla

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superficie solida. Il lavoro necessario per separare le due componenti sarà pari al

"lavoro di adesione" tra le due superfici (WLS); ossia al lavoro richiesto per

separare la fase solida dalla fase liquida, e quindi l’energia libera associata

all’adesione della fase solida e di quella liquida:

WLS = γL + γS - γSL (175)

e sostituendo γS con :

γs = γSL + γL cos ɛ (176)

si avrà:

WLS = γL (1 + cos ɛ) (177)

(Relazione di Dupré)

Tuttavia l'angolo ɛ misurato in un liquido a riposo su una superficie solida varia a

seconda che il liquido abbia raggiunto la posizione di riposo avanzando o

retrocedendo sulla superficie; nel primo caso ɛ è maggiore che nel secondo, fino

a più di 50°, e il fenomeno è detto isteresi superficiale.

Nella pratica, le discordanze dal comportamento ideale sono diversamente

importanti. Basti ricordare che non vi è completo accordo su cosa si deve

intendere per "bagnabilità" o "bagnante".

Considerando le variazioni di energia libera superficiale (¤F) del sistema, si

possono distinguere comunque (1) una "bagnabilità per adesione", quando

una superficie viene a contatto con la superficie di un liquido, con la formazione

di un'interfaccia liquido-solido; (2) una "bagnatura per estensione", quando con la

scomparsa della superficie solida si forma una superficie liquida e un'interfaccia

liquido-solido (ad es. per la salita di un liquido in un capillare); (3) "bagnatura

per immersione", quando la superficie solida scompare con la formazione di una

interfaccia liquido-solido senza che cambi la superficie liquida.

Nei tre casi, la variazione di energia libera superficiale sarà data:

(1) ¤ F = γS + γL - γLS

(2) ¤ F = γS - γLS - γL

(3) ¤ F = γS - γLS

I tre tipi di "bagnatura" possono in realtà essere coinvolti, nella successione

indicata, in un processo bagnante. Valori negativi di ¤F indicano che il

contenuto energetico del processo diminuisce e quindi è favorito per il primo tipo

da una diminuzione di γS o γL, o un aumento di γLS; per il secondo tipo da

una diminuzione di γS o un aumento di γL o γLS; nel terzo tipo da una

riduzione di γS o un aumento di γLS.

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Nella pratica raramente si ha a che fare con una superficie solida perfettamente

pulita, e le quantità indicate come γS e γSL non coinvolgono, con ogni

probabilità, la superficie solida reale, ma sono influenzati da tutto ciò che può

essere adsorbito alla superficie (strati di ossigeno o acqua, ecc.), unitamente alla

minore o maggiore levigatezza della superficie stessa. Così, mentre si può

prevedere (Wanzel, 1936) che per una superficie non levigata sia:

WLS (r) = γL (1 + r * cos ɛ) (178)

in cui "r" è una fattore connesso al grado di levigatezza, in pratica non vi è

corrispondenza con le attese.

Le forze coinvolte nel processo di bagnatura sono in buona misura assimilabili a

quelle che interessano il complesso substrato-contaminante e la soluzione

detergente, poiché la rimozione del contaminante comporta (a) stretto contatto tra

substrato, contaminante e liquido detergente, (b) penetrazione del liquido nelle

microstruttura contaminante e (c) rimozione preferenziale della contaminazione.

Peraltro, la corrispondenza tra le proprietà bagnanti e quelle detergenti non è

assoluta. I migliori agenti bagnanti non sono necessariamente buoni detergenti, e

viceversa.

Si è osservato, impiegando serie omologhe di detergenti (saponi, alchil solfati,

alchil-aril-solfonati), che i migliori agenti bagnanti hanno catena più corta dei

migliori detergenti della stessa serie.

CONTROLLO DELLA CONTAMINAZIONE

MICROBICA DEGLI IMPIANTI

La contaminazione degli impianti da parte dei microrganismi comporta (1) la

deposizione dei microrganismi sulla superficie, (2) l'adesione delle cellule alla

superficie, (3) la riduzione della contaminazione operata dai trattamenti di

sanificazione, (4) l'aumento della contaminazione tra trattamenti sucessivi di

sanificazione, (5) la contaminazione microbica del prodotto al contatto con

superfici contaminate.

Le maggiori fonti di contaminazione microbica delle superfici degli impianti

sono il prodotto stesso, l'aria, il personale e gli insetti, oltre alle soluzioni

detergenti stesse; l'importanza relativa dei tali fattori è diversa, in funzione del

tipo di struttura, di prodotto, di esposizione, ecc.

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I microrganismi aderiscono alle superfici con meccanismi differenti: ancoraggio

diretto alla superficie, ancoraggio al materiale organico o inorganico che già

contamina la superficie, inclusione in particelle di contaminanti che aderiscono

poi alla superficie.

Ovviamente il primo meccanismo di ancoraggio diretto è più probabile sulle

superfici poco o nulla contaminate.

Si è osservato che per alcuni batteri (E. aerogenes ad esempio) un ancoraggio

stabile sulle superfici (vetro, acciaio inossidabile) richiede 6-12 h di

incubazione; durante tale periodo il batterio produce polisaccaridi extracellulari

che favoriscono il processo di adesione. Per altri batteri (E.coli, Pseudomonas,

Micrococcaceae), l'ancoraggio è immediato, o richiede comunque tempi inferiori

a quelli necessari all'E.aerogenes. I microrganismi che richiedono tempi lunghi

per perfezionare il processo di adesione alle superfici, sono riscontrati più

frequentemente (i tempi di adesione sono minori) su quelle contaminate da

materiale organico.

Tra i fattori che condizionano la velocità di ancoraggio alle superfici vi sono,

oltre al tipo di organismo, la fase di accrescimento in cui si trova la cellula, il

livello di contaminazione della fonte di microrganismi, il tempo e la

temperatura di esposizione della superficie alla contaminazione, il pH e la

concentrazione di elettroliti nella sospensione, l'eventuale presenza sulla

superficie di strutture fisiche e/o sostanze chimiche che favoriscono l'ancoraggio.

Quando le condizioni ambientali sono favorevoli i microrganismi depositati sulle

superfici degli impianti, si accrescono. Nelle zone di accumulazione dei residui

di prodotto e della contaminazione in generale, la temperatura subisce

certamente delle fluttuazioni diversamente importanti, in relazione alla durata e

alla temperatura dei trattamenti di lavaggio, alla temperatura del prodotto, e a

quella ambiente, nelle soste di lavorazione. L'attività dell'acqua varierà in

funzione anche della struttura dello strato di contaminazione: nei film di materiale

organico l'aw risentirà rapidamente dell'umidità ambiente, mentre negli strati di

maggior spessore, o irregolari il rapporto superficie/volume dell'agglomerato

inglobante i microrganismi sarà minore, e l'umidità si equilibrerà meno

rapidamente con l'ambiente. Il pH delle particelle di contaminazione risentirà

particolarmente delle soluzioni finali di risciacquo, e non dovrebbe costituire un

ostacolo all'accrescimento. Il potenziale di ossido-riduzione dipenderà in gran

parte dalla struttura delle particelle di contaminazione, e consentirà più spesso

l'accrescimento di specie aerobiche o facoltative, ma nei depositi meno accessibili

(e al loro interno in particolare) potranno svilupparsi anche anaerobi.

Naturalmente, tutte le situazioni sfavorevoli in cui vengono a trovarsi i

microrganismi presenti sulle superfici degli impianti, per effetto della

lavorazione, dei trattamenti di sanificazione e delle condizioni in cui vengono

lasciati gli impianti negli intervalli tra lavorazioni successive, determina

sulle cellule danni metabolici diversamente importanti. Basti ricordare gli stress

osmotici che subiscono le cellule per effetto dei lavaggi e dei successivi

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asciugamenti delle superfici con l'interuzione dell'utilizzo degli impianti; gli

stress termici determinati dalle soluzioni calde impiegate per i lavaggi; quelli

chimici dovuti ai detergenti e ai disinfettanti; quelli nutrizionali, all'atto della

deposizione su superfici pulite.

Tuttavia, i microrganismi sono generalmente in grado di riparare gran parte dei

danni subiti in tali condizioni ambientali sfavorevoli. Comunque, spesso si

assiste alla selezione di una flora microbica particolarmente resistente alle

condizioni fisico-chimiche ambientali che si determinano abitualmente in un

impianto, quali determinate oscillazioni del grado di umidità relativa, temperatura

delle soluzioni di lavaggio, tipo di detergente e sanificante, ecc.

La decontaminazione delle superfici è ottenibile con la rimozione fisica delle

cellule microbiche operata dalle soluzioni di lavaggio e detersione; oppure con

l'inattivazione termica o chimica, e almeno in parte, per effetto delle condizioni

sfavorevoli alla sopravvivenza, che si instaurano tra cicli sucessivi di lavaggio,

disinfezione o utilizzazione degli impianti.

Si è osservato che gran parte (99.9%) della contaminazione (organica e

microbica) delle superfici può essere rimossa dal solo trattamento con detergente,

senza impiego di sanificanti (cloro, iodio,ecc.).

Naturalmente l'efficacia dei detergenti è inversamente proporzionale al livello di

contaminazione e dipende altresì dal tipo di detergente.

L'efficacia dei disinfettanti e in generale dei prodotti per la sanificazione, è

condizionata dal substrato, dal tipo e dall'entità della contaminazione, dalla

formulazione del prodotto e dalla tecnica di applicazione. Le gomme consunte,

le strutture di plastica con abrasioni, i metalli corrosi, limitano notevolmente

l'efficienza dei trattamenti con battericidi chimici.

La formulazione del prodotto, e infine della soluzione, condiziona la velocità

dell'azione battericida, la penetrazione nelle particelle contaminanti e quindi la

possibilità che i composti attivi raggiungano le cellule microbiche.

I diversi metodi di applicazione delle soluzioni disinfettanti non sono

ugualmente efficaci su tutte le superfici (immersione, spray, aereosol, flusso

continuo), né la successione dei trattamenti (pre-lavaggio, lavaggio con

detergenti, trattamento sanitizzante) è ugualmente efficace con tutti i composti

sanitizzanti.

Si è osservato ad esempio che composti a base di cloro sono molti più efficaci se

applicati prima della ripresa della lavorazione, piuttosto che alla fine delle

operazioni di decontaminazione eseguite alla sospensione della lavorazione;

mentre soluzioni a base di iodofori sono risultate molto più efficaci se applicate

dopo le operazioni di prelavaggio e lavaggio con detergenti. I trattamenti di

risciacquo con sola acqua sono particolarmente utili nel trattamento con

detergenti, per la quantità di materiale organico che asportano, ma pressocché di

nessun effetto sulla contaminazione microbica; se applicati prima della ripresa

della lavorazione, servono a diffondere l'eventuale contaminazione delle superfici

avvenuta durante la sosta della lavorazione.

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186

METODI DI VALUTAZIONE DELLA DECONTAMINAZIONE

Spesso vengono impiegate tecniche diversamente affinate, riferibili

comunque allo "swab-test". Tale test consiste nel raccogliere, con batufoli di

alginato di calcio fissati all'estremità di una bacchetta cilindrica, i microrganismi

che sono alla superficie di una struttura; l'alginato è quindi disciolto in soluzioni

di citrato sodico al 2% e il conteggio dei microrganismi è effettuato sulla

sospensione ottenuta. Tali metodi ovviamente forniscono un'indicazione

dell'efficacia dei trattamenti nella eliminazione e/o inattivazione cellulare, ma

non sul grado di decontaminazione in genere (residui alimentari, microrganismi

non vitali, soluti. ecc.). Impiegando microrganismi accresciutesi in un mezzo

contenente composti radioattivi assimilabili, inglobando le cellule in un tipo

particolare di contaminante (proteina, sale polisaccaridi, ecc.). contaminare una

struttura e seguire il decrescere della radioattività in funzione dei trattamenti di

decontaminazione applicati, è già un perfezionamento dello swab-test. Tuttavia,

irisultati che se ne ottengono possono essere generalizzati con molta cautela,

poiché occorre presumere che la cinetica di contaminazione sia indipendente dal

tipo di contaminante, ciò che non è necessariamente corrispondente alla realtà.

L'impiego di radioisotopi inglobati in contaminanti sintetici o naturali e la

valutazione della decrescita della radioattività a seguito dell'applicazione di

sistemi diversi di decontaminazione, è stato sperimentato con successo. Anche

con tale metodica, come per la precedente, si assume necessariamente che la

contaminazione e la radioattività siano rimosse con la stessa velocità dai

trattamenti applicati. Per alcuni tipi di contaminanti si è osservato che i due

fenomeni sono strettamente correlati.

CINETICA DELLA DECONTAMINAZIONE

Sono state proposte diverse espressioni matematiche per descrivere il

processo di decontaminazione; quella più generalmente accettata è stata suggerita

da Jennings (1959). Perché le molecole di detergente rimuovano una particella di

contaminante, per semplice trascinamento oppure per solubilzzazione,

degradazione chimica o altri fenomeni, è necessario comunque che vengano a

contatto con la particella o con il substrato sul quale è depositata, prima che

abbia luogo la rimozione. La probabilità che molecole di detergente raggiungano

le particelle di contaminante o la superficie sottostante, dovrebbe aumentare

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187

all'aumentare della concentrazione di detergente. Anche la velocità di rimozione

del contaminante dovrebbe essere proporzionale alla concentrazione di

quest'ultimo.

Si è verificato in pratica che la relazione tra percentuale di contaminante (c) che

rimane sulla superficie e tempo (t) di trattamento è esponenziale:

- dc/dt = k*c

così come è esponenziale la relazione tra velocità di rimozione (k) e

concentrazione di detergente (D):

Log (K/k1) = ¹ * D (179)

Ne consegue che per quanto protratto nel tempo possa essere un trattamento di

decontaminazione o elevata la concentrazione di detergente, la probabilità che la

superficie non sia completamente decontaminata avrà sempre un valore definito,

seppure molto ridotto.

Si è osservato peraltro che le curve di rimozione dei contaminanti deviano

dall'esponenzialità quando la frazione di contaminante rimasto sulle superfici è

sufficientememte ridotta. Anderson e altri (1959) suggeriscono che la frazione

di contaminante meno agevolmente asportabile dal detergente, e che determina

una diminuzione della velocità di rimozione delle particelle, sia uno strato

monomolecolare saldamente ancorato al substrato da forze di adesione. In realtà

si è calcolato che per certe combinazioni di substrato-contaminante tale strato può

avere uno spessore di oltre 10 diametri molecolari.

Osservazioni in tal senso sono state compiute impiegando tristearina, saccarosio,

latte, sia su acciaio inossidabile sia su vetro e su materiali diversi. Sopratutto le

esperienze condotte con tristearina contaminante diversi tipi di superficie, hanno

consentito di stabilire che la frazioni più difficilmente asportabili non hanno

caratteristiche fisico-chimiche distinguibili da quelle rimosse più agevolmente e

rapidamente.

In ogni caso, diverse esperienze hanno dimostrato che aumentando la

concentrazione del detergente la rimozione percentuale delle sostanze

contaminanti aumenta, ma rimane sempre inferiore al 100%.

Probabilmente il contaminante che non è rimosso dalla superficie è strutturato in

maniera ordinata e coerente, priva di siti d'attacco per il detergente.

Si ritiene infatti che il meccanismo di rimozione del contaminante ("rimozione

preferenziale") si attui attraverso la saturazione da parte del detergente dei siti di

adesione o attrazione presenti sulle particelle e sul substrato.

In diversi casi del resto, il processo di rimozione consiste essenzialmente in una

sostituzione del contaminante adeso alla superficie, con il detergente stesso, che

diventa a sua volta un contaminante.

Tale sostituzione può rivestire un interesse non trascurabile, ovviamente, quando

il detergente è provvisto di attività antimicrobica.

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I tensioattivi anionici e non-ionici sono così adsorbiti sul vetro, l'acciaio,

l'alluminio, la porcellana, con un meccanismo di scambio ionico; e tale

fenomeno è diversamente influenzato dai pretrattamenti applicati alla superficie.

FATTORI CHE CONDIZIONANO LA VELOCITA' DI

RIMOZIONE DELLA CONTAMINAZIONE

Tra i fattori predominanti che condizionano la velocità di decontaminazione di

una superficie, così come l'efficienza del processo, si possono individuare:

1) tempo di contatto fra contaminante e superficie;

2) tempo di contatto tra superficie contaminante e detergente ;

3) tipo di detergente;

4) concentrazione del detergente;

5) temperatura della soluzione detergente;

6) turbolenza provocata dal processo di lavaggio;

7) estensione del contatto con l'aria.

1 - E' nozione comunemente sperimentata che la contaminazione di un

substrato è soggetta ad un "effetto invecchiamento", che riduce la

possibilità di rimizione della contaminazione. Si è dimostrato che la stearina

depositata su superfici di acciaio inossidabile esiste in due forme chimicamente

dentiche che vengono rimosse dai detergenti con diversa velocità e che,

all'aumentare del tempo di contatto con la superficie, la forma rimossa più

rapidamente si trasforma progressivamente in quella che è rimossa più

lentamente. Poiché per molte sostanze contaminanti si possono riconoscere due

specie, rimovibili con diversa efficienza dalle superfici, si ritiene che la

trasformazione indicata per la stearina possa costituire un fenomeno generale, a

giustificazione dell""effetto invecchiamento".

2 - Si può ritenere che all'aumentare del tempo di contatto con la soluzione

decontaminante aumenti anche la quantità di sostanze estranee rimosse, almeno

per tempi relativamente brevi.

Certamente la rimozione di certe sostanze non dipende dal tempo di contatto,

sopratutto se si tratta di minime quantità e, oltre un certo tempo di trattamento, si

può prevedere che la velocità di rimozione eguagli quella di rideposizione dei

materiali estranei da parte della stessa soluzione detergente.

Tuttavia, l'efficienza dei detergenti può essere confrontata, sulla base della

relazione di BACON e SMITH (1948):

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C = K(D*F*t)n (180)

in cui C rappresenta il livello percentuale di decontaminazione, D è la

concentrazione percentuale del detergente, F la forza meccanica applicata nel

processo della durata di t minuti; k ed n variano in funzione del detergente

impiegato e della struttura trattata.

3 - Non tutti i detergenti sono ugualmente efficaci nei confronti dei differenti

inquinanti; alcuni sono più adatti alla rimozione di sostanze grasse e altri di

materiali proteici.

I tensiattivi sono ritenuti più efficaci nella rimozione dei grassi; quelli a catena

lineare, più efficaci di quelli a catena ramificata.

4 - In generale, l'azione decontaminante aumenta con la concentrazione del

detergente ma fino ad una concentrazione limite (diversa per ogni composto) oltre

la quale la percentuale di inquinamento rimossa non aumenta significativamente

con la concentrazione.

5 - I diversi autori non concordano sull'influenza positiva esercitata dalla

temperatura sul processo di decontaminazione; alcuni suggeriscono l'impiego di

basse temperature, non comunque superiori a 45°C, altri

temperature elevate. Tali discordanze derivano probabilmente anche da

osservazioni condotte con detergenti termolabili. Diverse esperienze indicano che

il potere decontaminante dell'acqua, della soda e di tensioattivi non-ionici

aumenta con la temperatura, e la relazione tra velocità di rimozione e

emperatura si accorda con la funzione di Arrhenius. Osservazioni eseguite con

stearina come contaminante hanno indicato che aumentando la temperatura

diminuisce la velocità di rimozione della frazione rimossa più facilmente e

aumenta quella della frazione più strettamente legata al substrato. Non si può

escludere quindi che in presenza di determinati contaminanti con prevalente

frazione a rimozione veloce, l'aumento della temperatura rallenti il processo di

decontaminazione.

6 - Anche l'effetto esercitato dall'aria disciolta nella soluzione detergente, sotto

forma di bolle o nella schiuma, non è definito inequivocabilmente. Diversi autori

ritengono che la schiuma non abbia alcun effetto detergente, ciò che sarebbe

confermato dall'inalterata efficienza dei tensioattivi addizionati di composti

antischiuma.

Altri, che nel lavaggio degli impianti attuato facendo circolare acqua nelle

tubazioni, la schiuma diminuisca l'efficienza del processo.

Sembra accertato comunque che lavaggi ripetuti, anche di brevissima durata,

siano più efficaci di una immersione continua in soluzione detergente: la

rimozione dei grassi contaminanti l'acciaio inossidabile è tanto maggiore quanto

maggiore è il numero di volte che la superficie viene a contatto con l'interfaccia

aria detergente (EFFETTO DUPRE').

L'effetto detergente generalmente aumenta all'aumentare della turbolenza,

probabilmente anche per un effetto DUPRE'.

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190

CLASSIFICAZIONE DEI DETERGENTI

Molti detergenti del commercio hanno una composizione complessa, evidente

riflesso della varietà di fattori da tenere in considerazione nella scelta di un

prodotto adatto alla rimozione di un certo tipo di contaminazione da un certo tipo

di substrato, oltre che dall'intenzione più o meno scoperta di fornire un preparato

adatto ad ogni situazione.

Si possono classificare i detergenti in relazione a loro caratteristiche preminenti,

quali l'alcalinità, l'acidità, le proprietà tensioattive, sequestranti o chelanti, ecc..

1 - ALCALI FORTI: Si possono comprendere in tale categoria i

composti che in soluzione all'1% hanno un pH >12, quali gli idrossidi di

sodio e di potassio, il sodio metasilicato [Na2SiO3 . 5H2O] , il sodio

ortosilicato [2Na2O.SiO2.(5.5)H2O )] e il sodio sesquisilicato [(1.5-

1.6) Na2O.SiO2.(5.5)H2O]; appartengono a tale categoria anche l'ammoniaca e

altre ammine.

Tali composti corrodono il vetro, l'alluminio, lo zinco, lo stagno e molte vernici.

Hanno un potere di dissoluzione della contaminazione, relativamente elevato;

una capacità di frammentare le particelle di contaminazione, più che accettabile.

Sono efficaci pulenti, per la rimozione di grassi, oli, materiali proteici e sostanze

organiche in generale.

Reagiscono con calcio e magnesio

Mg++

(o Ca++

) + 2 OH- → Mg (o Ca)(OH)2

intorbidando la soluzione, che deposita uno strato di precipitati insolubili, sugli

impianti; vanno quindi addizionati opportunamente di agenti seguestranti o

chelanti. Differiscono per attitudine a "bagnare" la superficie e ad essere

asportabili dai risciacqui (vedi Tabella di seguito). Debbono essere usati con

cautela.

2 - ALCALI DEBOLI: Si possono comprendere in tale categoria il carbonato di

odio (Na2CO3), il trisodio ortofosfato o TSP (Na3PO4.10H2O), il tetrasodio

pirofosfato o TSPP (Na4P2O7) e il sodio tripoli-fosfato (Na5P3O10).

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191

Sono spesso impiegati per allontanare calcio e magnesio; meno pericolosi degli

alcali forti, da maneggiare, sono anche meno efficienti.

3 - COMPOSTO ACIDI: Le incrostazioni di calcio determinate da acqua ad

elevata durezza, i precipitati di Ca++

e Mg++

che si possono formare impiegando

alcali o fosfati semplici, ossalati di calcio (spinaci, rabarbaro), debbono subire un

trattamento con sostanze chelanti o con acidi. Particolare attenzione deve essere

dedicata alla scelta dell'acido da impiegare, poiché parallelamente alla proprietà

dissolvente e detergente, gli acidi corrodono il substrato, essendo tali

caratteristiche tutte connesse agli ioni idrogeno. Basi azotate eterocicliche o

tensioattivi particolari, possono essere impiegati assieme agli acidi per ridurre

l'attività corrosiva; tali composti, pare che siano attratti preferenzialmente

all'interfaccia metallo pulito-soluzione, piuttosto che all'interfaccia contaminante-

soluzione. Gli acidi minerali forti (solforico, cloridrico, fosforico, nitrico) sono

troppo corrosivi perché possano essere impiegati, comunque additivati di "acido-

inibitori", se non da personale particolarmente competente e per rimuovere

contaminazioni particolarmente resistenti alla detersione.

Più vantaggiosamente, per il personale e per gli impianti, si possono impiegare

acidi deboli (gluconico, succinico, idrossiacetico, ecc.) aggiunti di tensioattivi

acido-resistenti e di composti "acido inibitori".

4 - TENSIOATTIVI La tensione superficiale di una soluzione acquosa di NaOH aumenta,

seppure lentamente, all'aumentare della concentrazione del soluto. Al

contrario, aggiungendo all'acqua dell'oleato sodico la tensione superficiale si

abbassa rapidamente e raggiunge valori minimi, che ulteriori aggiunte di oleato

non modificano significativamente. Le sostanze che si comportano come l'oleato

sono denominate tensioattivi.

Le molecole dei tensioattivi sono caratterizzate dal possedere gruppi idrofili e

gruppi idrofobi o lipofili. I gruppi idrofili più frequenti sono idrossili (OH),

carbossili (-COOH, COO-), ammine (-NR2), solfonati (-SO2-ONa), solfati (-O-

SO2-ONa) e catene di ossido di etilene ((CH2-O-CH2O)nH). La porzione

idrofoba della molecola è generalmente una catena idrocarburica, più spesso

lineare, che ramificata, o un idrocarburo aromatico sostituito.

La sola presenza di gruppi idrofobi e idrofili nella stessa molecola non è

sufficente per modificare la tensione superficiale; è necessario un idoneo

equilibrio tra i due tipi di gruppi.

Tale equilibrio è individuato nella letteratura anglosassone come HYDROPHILE

- LIPOPHILE BALANCE o semplicemente HLB. Attribuendo arbitrariamente

il valore HLB = 1 all'acido oleico e HLB = 20 all'oleato sodico, i detergenti hanno

valori di HLB compresi tra 13 e 18.

Si consideri un sapone, costituito dal sale sodico di un acido grasso saturo. Il

gruppo carbossilico rappresenta la porzione idrofila della molecola (o ione); la

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catena idrocarburica R è la porzione idrofoba e la idrofobicità varierà in funzione

della lunghezza della catena.

In soluzione acquosa, il gruppo idrofilo -COO- tenderà a inserirsi e solubilizzarsi

nella fase acquosa. Se la catena idrocarburica R è sufficientemente corta (C1-3),

O O

// //

R - C → R - C + Na

\ \

O Na O -

il gruppo ionizzato determinerà la solubilizzazione di tutta la molecola, che non

si comporterà quindi come un tensioattivo. Aumentando la lunghezza della

catena idrocarburica fino a valori di R = C13-15, i due caratteri (idrofobicità e

idrofilia) andranno equilibrandosi e la molecola si comporterà come tensioattiva.

Aumentando ulteriormente la lunghezza di R = C18, il carattere idrofobico

prevarrà nella molecola, che diverrà insolubile e si disporrà alla superficie

dell'acqua, in un film sottile, come un acido grasso o comunque un grasso

insolubile.

Parimenti, se il gruppo carbossilico non è ionizzato :

O

//

R - C

\

OH

la molecola considerata sopra (R = C15) non si comporterà come tensioattivo in

ambiente acido, poiché il carattere idrofilo del carbossile non ionizzato è molto

inferiore a quello dello ionizzato.

L'esclusione delle catene idrofobiche dalla soluzione acquosa non è tanto dovuta

a un effetto repulsivo dell'acqua nei confronti dei gruppi idrofobi, quanto

piuttosto dalla grande tendenza associativa tra molecole d'acqua, che porta

all'espulsione delle molecole idrofobe.

In soluzione le molecole dei tensioattivi sono quindi disposte ai margini o

interfacce tra solvente e ambiente (pareti del recipiente, e aria).

Ovviamente, le interfacce si saturano all'aumentare della concentrazione di

tensioattivo, cosicché oltre una definita concentrazione, la struttura della

soluzione cambia. Se si misura la variazione della tensione superficiale o di altra

proprietà colligativa delle soluzioni in cui vengono sciolte quantità crescenti di

tensioattivi, si riscontra che la proprietà considerata varia in modo prevedibile

fino a che non si raggiunge una ben precisa concentrazione, oltre la quale il

comportamento della soluzione cambia drasticamente. Si ritiene che a tale

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concentrazione il tensioattivo presente nella soluzione si agglomeri a formare

delle unità strutturali dette "micelle". La concentrazione di tensioattivo alla quale

si produce la formazione di micelle, è detta "CMC = concentrazione micellare

critica".

A concentrazioni inferiori il tensioattivo si troverebbe in forma di ioni o molecole

o agglomerati submicellari. Le aggregazioni submicellari consistono di

associazioni di molecole di tensioattivo attraverso le loro porzioni idrofobiche;

la superficie delle molecole idrocarburiche diminuisce e i gruppi idrofili riescono

a controbilanciare la tendenza ad associarsi tra molecole di solvente. Tali strutture

inoltre costituiscono nuove interfacce col solvente, alle quali possono associarsi

altre molecole di tensioattivo con le loro porzioni idrofobe.

La micella è una struttura che si può considerare sferica, costituita

dall'aggregazione della porzione idrofobica delle molecole di tensioattivi, con i

gruppi polari alla superficie, a contatto con l'acqua. Il numero N di molecole

coinvolte in una micella, posto il raggio della micella inferiore di 1 angstron alla

lunghezza della catena idrocarburica del tensioattivo, la densità micellare pari a

0.77 e la distanza tra carboni periferici pari a 2.5 A, è data da :

N = 0.139/n(1.25 n - 1)3

dove "n" è il numero di atomi di carbonio della catena idrocarburica.

Le micelle legano un gran numero di ioni posotivi alla loro superficie, come

contro-ioni, ma generalmente non un numero equivalente alle cariche

negative superficiali. Tale circostanza spiega, tra l'altro, una delle proprietà

colligative della CMC, quali la drastica riduzione della conducibilità elettrica che

si osserva alla concentrazione micellare critica.

Se in presenza di 100 ioni sodio e 100 ioni stearato, gli ioni stearato si aggregano

in micelle e le micelle legano 70 ioni Na+ come contro-ioni, rimarranno in

totale 1 ioni micellari con carica - 30 e 30 ioni Na+ , ossia 31 ioni, invece dei

200 ioni singoli. La drastica diminuzione di ioni in soluzione che si produce con

la formazione di micelle, provoca quindi una drastica diminuzione della

conducibilità elettrica.

I principali fattori che condizionano la formazione di micelle e la CMC sono i

seguenti:

1 - La CMC aumenta all'aumentare della temperatura.

2 - La CMC diminuisce per aggiunta di elettroliti alla soluzione o per aggiunta di

solventi polari.

3 - L'aggiunta di alcali monoidrissolici diminuisce la CMC in proporzione alla

lunghezza della catena carboniosa dell'alcole.

4 - Il logaritmo della CMC di un tensioattivo anionico (sapone) è correlato

linearmente col logaritmo della concentrazione cationica del sale aggiunto.

Più elevata è la valenza del catione, minore è la concentrazione cationica richiesta

per abbassare la CMC di un tensioattivo anionico.

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194

6 - La CMC è praticamente dipendente solo dalla lunghezza dello ione

tensioattivo, e non dal tipo di elettrolita (i tensioattivi che hanno una catena

carboniosa satura nella lunghezza hanno all'incirca la stessa CMC).

7 - Per ogni diminuzione di un atomo di carbonio dello ione tensioattivo la CMC

si raddoppia.

8 - Piccoli gruppi aggiuntivi in prossimità della testa idrofila della molecola non

influenzano la CMC.

9 - Gruppi polari lungo la catena alchilica aumentano fortemente la solubilità e

quindi la CMC.

10 - I saponi di acidi grassi insaturi hanno CMC più elevate di quelli saturi; il

doppio legame ha un carattere idrofobico meno pronunciato.

11 - Per i detergenti non-ionici, nei quali i gruppi idrofili sono corte catene di

poliossietilene, la CMC aumenta all'aumentare dei gruppi poliossietilenici.

12 - Per i detergenti non-ionici, a parità di lunghezza della catena poliossietilenica

la CMC diminuisce all'aumentare della idrofobicità della catena idrocarburica.

13 - Composti aventi la stessa CMC sono tensioattivi ugualmente efficaci, ma

non hanno necessariamente la stessa attività detergente.

I tensioattivi sintetici provvisti di attività microbicida possono essere distinti in

anionici, cationici e non ionici.

"R" rappresenta un gruppo lipofilo, quali una lunga catena alchilica o policiclica.

"A" rappresenta uno ione positivo, quale Na, K, NK4, ecc.

I radicali R sono legati alla porzione idrofila della molecola.

"X" rappresenta uno ione negativo di solito Cl –

Br - o J

- , e RI, R2 e R3 sono H,

gruppi alchilici, arilici o eterociclici.

I tensioattivi anionici sono i saponi, sali di sodio o potassio di acidi organici

superiori, gli alchilsolfati e i solfonati. Sono provvisti di attività

antimicrobica modesta e quasi esclusivamente nei confronti dei batteri

gram-positivi. I saponi con catena idrocarburica a 12 - 18 atomi di carbonio,

sono ottimi detergenti, ma sono inattivati da calcio e magnesio e, in misura

minore, da ferro e alluminio; sono inattivati anche in soluzioni saline concentrate,

e a basso pH.

Gli alchil-aril-solfonati sono detergenti eccellenti, resistono bene agli acidi, agli

alcali, al calcio e al magnesio; formano molta schiuma. Tra gli alchil-aril-

solfonati vi sono i componenti principali dei comuni detergenti sintetici del

commercio: tetrapropilene-benzen-solfonato e dodecil-benzen-solfonato.

Quest'ultimo, biodegradabile, è un ottimo detergente, quasi quando i saponi; è

stabile agli acidi, agli alcali, agli ossidanti; forma molta schiuma.

I tensioattivi cationici si dissociano in soluzione acquosa dando uno ione

tensioattivo carico positivamente. A tale classe di tensioattivi appartengono i

composti dell'ammonio quaternario, indicati per brevità QUATS. La struttura è

quella del cloruro d'ammonio, in cui uno o più idrogeni sono sostituiti da gruppi

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alchilici o da radicali fenilici e un idrogeno è sostituito da un gruppo alchilico a 8

- 18 atomi di carbonio.

I QUATS sono attivi sia nei confronti dei batteri gram-positivi che gram-

negativi. L'attività battericida è compromessa dalla contemporanea presenza di

tensioattivi anionici.

Come detergenti, sono poco efficaci e perdono d'attività in acqua a durezza

elevata.

Spesso sono associati a tensioattivi non-ionici, che non si ionizzano in soluzione

acquosa, e sono efficienti detergenti. I tensioattivi non-ionici sono composti

poliidrossilici ottenuti dalla reazione dell'ossido di etilene con una quantità di

composti idrofobici provvisti di un gruppo carbossilico, idrossilico, imido o

mono – o di-idro sostituito. I più comuni (polietenossieteri, condensati di acidi

grassi e etilene, ecc.) sono liquidi, non producono molta schiuma, sono buoni

detergenti e pressoché privi di attività antimicrobica.

SEQUESTRANTI E CHELANTI

I depositi calcarei che si formano negli impianti per effetto della durezza

dell'acqua o dell'azione di agenti alcalini, rappresentano un substrato

particolarmente favorevole all'ancoraggio di contaminanti, proteggono i batteri

inclusi nei confronti del calore e soprattutto delle soluzioni sanificanti, riducono

la trasmissione del calore, interferiscono con l'attività di molti tensioattivi

anionici.

Si è osservato da tempo che i polifosfati formano con Ca++

complessi solubili. Si

usano spesso sodio tripolifosfato (Na5P3O10), tetrasodio pirofosfato (Na4P2O7),

sodio tetrafosfato (Na4P2O7), sodio tetrafosfato (Na8P6O19; Na2O/P2O5 1.33),

sodio esametafosfato (Na16P14O43; Na2O/P2O5 1.14), e tetrapotassio pirofosfato

(K4P2O7). La maggior parte di tali composti sono dei detergenti; abbassano la

CMC.

Gli agenti sequestranti organici (acido citrico, gluconico, glucuronico,

etilendiaminotetraacetico-EDTA-) formano con certi metalli complessi termo-

stabili, detti"chelati".

DISPERDENTI E DEFLOCCULANTI - Sia le particelle di contaminante

che la superficie del substrato sul quale sono depositate, tendono ad adsorbire ioni

polifosfato dalla soluzione detergente, caricandosi negativamente; ne conseguono

forze repulsive sia tra particelle cariche, che tra particelle e substrato, ciò che

favorisce la suddivisione e la dispersione della contaminazione.

Molto simile è il modo d'azione di gran parte dei tensioattivi.

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ALTRI ADDITIVI

Diversi composti sono generalmente aggiunti ai detergenti, per limitarne la

corrosività (silicati), ridurre la CMC, come riserva di alcalinità, ecc.

APPLICAZIONE PRATICA DEI DETERGENTI

DISINFETTANTI

Col termine "in-place cleaning" si intendono le tecniche di lavaggio-

disinfezione applicate ad un impianto completo nelle sue parti.

L'applicazione delle soluzioni detergenti può essere fatta a bassa pressione,

impiegando notevoli volumi di soluzione (spray-cleaning); elevate pressioni e

volumi ridotti di soluzione (jet-cleaning); oppure facendo circolare il detergente

nelle tubazioni, scambiatori di calore, ecc. (circulation cleaning). Le operazioni

sono generalmente controllate automaticamente, per quanto attiene la selezione

dei detergenti, la corretta successione dei trattamenti, l'asciugamento finale con

aria filtrata.

Le pompe di circolazione del detergente debbono creare una turbolenza tale

da assicurare la richiesta rimozione della contaminazione.

La quantità di soluzione che viene scaricata all'estremità dell'impianto dove

essere almeno di 100L/min per una tubazione da 1.5 pollici, o equivalente.

La velocità di circolazione del detergente, deve essere di almeno 0.5 m/sec.

Tutte le parti dell'impianto che non sono attraversate dalla soluzione

detergente debbono essere smontate e trattate separatamente.

Tutte le parti dell'impianto debbono avere un'inclinazione che consenta il

drenaggio completo delle soluzioni.

I serbatoi di grandi dimensioni debbono avere un'inclinazione, verso la

valvola di scarico, di circa 25cm/m e lo scarico deve essere ad almeno 25 cm

dal pavimento.

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Se il trattamento è eseguito a caldo, debbono essere previsti lungo la linea

opportuni rilevatori di temperatura e, sopratutto nei trattamenti con vapore, le

necessarie valvole ad aria filtrata per impedire che la depressione che si

determina, soprattutto all'interno dei serbatoi, col raffreddamento, provochi

indesiderate deformazioni delle strutture.

Oltre al lavaggio con detergenti si debbono eseguire opportunamente

trattamenti con soluzioni "sanificanti".

Per trattamento di "sanificazione" si intende un trattamento che riduca a livelli

accettabili la contaminazione microbica di una superficie.

Si considera idoneo un trattamento che riduce la contaminazione a meno di 1

microrganismo /cm2.

Il trattamento di sanificazione più efficace è quello termico. Il calore è efficace nei confronti di tutti i microrganismi; raggiunge ogni zona

dell'impianto, fessure, screpolature, depositi di contaminante; non lascia residui.

Il trattamento deve essere effettuato con acqua calda, generalmente tra 75° C e

95°C, per tempi compresi tra 5' e 50', a seconda del materiale, della presunta

contaminazione, ecc.

I serbatoi sono riempiti; le piccole strutture, immerse; tubazioni, scambiatori di

calore, ecc., per circolazione continua. Il vapore può essere impiegato con

vantaggio nella sanificazione delle strutture combinate, (più che delle superfici)

come tubazioni, serbatoi, ecc.

I disinfettanti sono applicati vantaggiosamente solo su strutture pulite

perfettamente, poiché i residui di materiali diversi inattivano il disinfettante e/o

non gli consentono di raggiungere i microrganismi inglobati nei residui.

Dopo le operazioni di lavaggio con detergente, quindi, si applicherà un lavaggio

con acqua potabile, cui si farà seguire il trattamento con disinfettante. L'efficacia

microbicida di tutti i composti del commercio aumenta all'aumentare della

concentrazione e/o della temperatura. La scelta della concentrazione e della

temperatura di applicazione può essere effettuata sulla base delle indicazioni

fornite dai produttori dei diversi disinfettanti, oltre che, inalienabilmente,

da sperimentazione diretta della soluzione operativa più idonea.

CLORO

Si definisce comunemente "cloro" la quantità di cloro-derivato che

equivale a cloro elementare. Così una preparazione di Ca (OCl)2 col 70%

di cloro disponibile, ha una attività pari al 70% del suo peso in cloro

elementare. In realtà tale corrispondenza è solo convenzionale, e legata al metodo

di misurazione della capacità ossidante del composto.

La "dose di cloro" rappresenta la quantità di cloro aggiunta all'acqua ed è

espressa generalmente in ppm di cloro disponibile; non corrisponde alla

concentrazione di cloro attivo come germicida.

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La "richiesta di cloro" di un'acqua in cui è solubilizzato, consiste nella quantità di

cloro immediatamente utilizzato nell'ossidazione delle sostanze inorganiche e

organiche dell'acqua. Il cloro infatti reagisce rapidamente con ioni ferrosi, ioni

manganosi, nitriti, H2S e, più lentamente, con composti aminati formando mono e

di cloro-ammine.

Il cloro che reagisce con la sostanza inorganica (e parte di quello che ha reagito

con la sostanza organica) non è più disponibile per l'attività battericida.

Soddisfatta la richiesta di cloro dell'acqua, il cloro microbiologicamente attivo

può essere presente nella soluzione come "cloro disponibile libero" e come

"cloro disponibile combinato". Per cloro disponibile libero si intende cloro

elementare, acido ipocloroso e ione ipoclorito. Per cloro disponibile combinato

si intende il cloro che ha reagito con gruppi azotati; a pH> 8.4 si formano

prevalentemente monocloroammine, e a pH>4.5, dicloroammine. Per "cloro

residuo totale" si intende l'insieme del cloro disponibile, libero e combinato.

La clorazione dell'acqua può essere eseguita con modalità differenti (e per scopi

differenti):

(1) si possono impiegare piccole quantità di cloro (0.5 - 1 ppm), senza tener conto

del cloro residuo né della persistenza più o meno prolungata di cloro disponibile;

(2) si può impiegare un eccesso di cloro ("superclorazione"), se non ci sono

problemi di corrosione;

(3) si adotta la tecnica del "break-point".

Con quest'ultima tecnica, che è la più idonea agli impieghi industriali

dell'acqua trattata, si fanno aggiunte successive di cloro e si rileva la presenza di

cloro residuo. Inizialmente viene soddisfatta la "richiesta di cloro" dell'acqua,

quindi il cloro comincia a combinarsi con composti azotati formando cloramine

e altri cloro-derivati di composti azotati. Con le successive aggiunte si ha un

aumento del cloro combinato disponibile, fino a che non si raggiunge una

concentrazione (variabile in funzione del tipo di acqua) oltre la quale la quantità

di cloro combinato disponibile, diminuisce. Tale diminuzione continua sino

a che non si raggiunge la concentrazione di cloro del break-point (punto di

rottura, o di flesso nella relazione tra cloro aggiunto e cloro residuo); oltre tale

concentrazione, si ha comparsa di cloro libero disponibile, che aumenta

proporzionalmente alla quantità di cloro aggiunto.

Prima che si raggiunga la concentrazione del break-point, sono presenti in

soluzione sostanze (N-CI- derivati) maleodoranti, del tutto eliminate oltre il

break-point. L'attività microbicida del cloro libero disponibile, è massima e

permane a lungo, visto che le sostanze organiche e inorganiche presenti

nell'acqua sono già state ossidate.

Il break-point non è sempre rilevabile con facilità in tutti i tipi di acqua,

cosicché spesso si mantiene semplicemente il livello di cloro intorno a 5 - 7

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ppm per gli impieghi correnti e intorno a 15 - 20 ppm durante le operazioni

di sanitizzazione. Per quanto attiene in particolare l'acqua di raffreddamento delle scatole, si

raccomanda di mantenere, nell'acqua che scola appunto dalle scatole

sterilizzate, il livello di cloro sia pari almeno a 0,5 ppm.

Il cloro gassoso (solubilità = 0,7% a 20°C) è molto usato come fonte di acido

ipocloroso, anche per il costo ridotto. L'ipoclorito di calcio, molto usato un

tempo, è attualmente sostituito con l'ipoclorito di sodio.

L'ipoclorito di sodio è commercializzato in soluzioni normalmente al 2- 6%

di cloro disponibile, al 10 - 18% di cloro disponibile, per uso industriale.

Opportuni dosatori provvederanno ad immettere nel circuito idrico le

previste quantità di cloro.

Gli ipocloriti, in polvere o in soluzione, sono relativamente instabili e cedono

cloro per effetto della luce, dell'umidità e del calore. La stabilizzazione ottenuta

con sostanze alcaline, ne riduce l'attività.

La cloramina-T è la più nota e impiegata cloramina del commercio; è una

polvere cristallina bianca con un debole odore di cloro, solubile in acqua (12%

a 25°C), meno attiva dell'acido ipocloroso (occorrono tempi di contatto maggiori,

a parità di concentrazione) nei confronti dei microrganismi.

La diclorodimetilidantoina è una polvere bianca con debole odore di cloro,

spesso usata in miscela con altre cloramine, poco solubile in acqua, più attiva

apparentemente dell'ipoclorito a basso pH e meno attiva a pH elevato.

Le cloramine sono ritenute poco adatte per il trattamento dell'acqua

industriale, ma poiché cedono lentamente il cloro, trovano applicazione

preferenziale quando sono possibili, o addirittura auspicabili, tempi lunghi di

contatto e/o attività microbica nel tempo, o elevate temperature di trattamento.

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200

A N N E S S I

PASTORIZZAZIONE

LOW HEAT TREATMENT, LHT

Ma forse non sarà inutile cercare di far riemergere anzitutto i criteri ai quali

dovrebbe riferirsi un più generale impiego della tecnica cosiddetta di

pastorizzazione. Per distinguere l'impostazione proposta di seguito – più

razionale, basata sulle conoscenze acquisite di D e z dei diversi batteri patogeni

non sporigeni - e i risultati che ne derivano, da quelli dei trattamenti

convenzionali, il termine "pastorizzazione" sara' sostituito con LHT (da Low

Heat Treatment).

Obbiettivo primario di un trattamento LHT dovrà essere la riduzione della

probabilità di sopravvivenza dei microrganismi di alterazione dei prodotti

pastorizzati, a livelli sufficientemente ridotti. Tale trattamento comporterà

necessariamente anche la riduzione della probabilità di sopravvivenza dei

microrganismi patogeni, a livelli almeno altrettanto minimi.

Qualunque prodotto può essere stabilizzato con un trattamento LHT. In funzione

del valore di pH e di attività dell'acqua (Aw) del prodotto, la stabilità sarà

ottenibile solamente con il magazzinaggio a temperature di refrigerazione, oppure

anche a temperatura ambiente.

Due trattamenti termici LHT (LHT-1 e LHT-2) si possono prevedere (come si

vedrà in seguito), in funzione della loro entità (LHT-1 < LHT-2) e quindi dei

risultati che consentono di raggiungere.

A - Prodotti con aw ≥ 0.94 :

A.1 - Se il pH > 4.6 la stabilità è ottenibile solamente accoppiando l'LHT1

con il magazzinaggio a temperature T < 1°C.

A temperature di magazzinaggio inferiori a 1°C i prodotti trattati con

LHT-1 possono essere microbiologicamente stabili per piu di tre mesi.

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A.2 - Se è 3.7 ≤ pH ≤ 4.6 un trattamento LHT-2 consente di ottenere la

stabilità microbiologica indefinitamente, anche a temperatura

ambiente (shelf life).

B - Prodotti con aw < 0.94:

Tutti i prodotti con aw < 0.94 possono essere resi stabili a temperatura

ambiente con un semplice trattamento LHT-1.

Definizione dei parametri tempo-temperatura di

pastorizzazione LHT.

La totalità dei prodotti alimentari può essere alterata da mezza dozzina almeno

di muffe, capaci di formare ascospore molto termoresistenti: D70°C > 10 h, con

valori di z compresi tra 7 e 12°C.

Le spore batteriche possono essere talmente resistenti al calore, che non possono

essere prese in considerazione, nella loro totalità, dai trattamenti LHT. Solo un

gruppo di sporigeni anaerobi, i clostridi butirrici, e di Bacillus appartenenti al

gruppo Macerans-Polymyxa, può essere coinvolto.

Il batterio patogeno che forma le cellule vegetative più termoresistenti è la

Salmonella senftenberg 775 W: D70°C > 2 min ad aw = 0.94.

I due fattori fisico-chimici di maggiore rilevanza nella stabilizzazione

microbiologica dei diversi substrati, sono il pH e l'attività dell'acqua. Per quanto

concerne la termoresistenza microbica, l'attività dell'acqua nel substrato esercita

un'influenza certamente predominante.

È noto che la termoresistenza microbica aumenta al diminuire dell'aw. Purtroppo,

le evidenze sperimentali riguardanti questo fenomeno sono scarse, talvolta

discordanti e comunque incomplete. Tale incompletezza riguarda sia la variazione

del valore di D(T) in funzione dell'aw, sia la variazione del valore di z in funzione

sempre dell'aw. Cosicché' non è possibile, sulla sola base dei risultati sperimentali

disponibili, ottenere una relazione che ci consenta di individuare la relazione che

intercorre tra i tempi di riduzione decimale e temperatura, in funzione dell’attività

dell’acqua.

L'unico modello fisiologico-matematico che consenta di mettere in relazione la

resistenza termica dei microrganismi con la temperatura di trattamento e il

contenuto d'acqua nel mezzo, è il Modello Generale, proposto precedentemente

(Casolari, 1981, 1988), secondo il quale :

Ct = Co 1/(1 + M * t)

(P13)

ed essendo:

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M = exp (A - 2 * Ed/(R*T) (P14)

la (P4) diventa:

Ct = Co [(1+t*exp(A - 2 * Ed/(R*T))]-1

(P15)

dove Ct e Co sono le concentrazioni cellulari dopo il tempo t (min) di

esposizione alla temperatura T (°K) e la concentrazione iniziale (tempo zero);

Ed è l'energia letale, ossia l'energia richiesta per la distruzione dei diversi tipi

di microrganismi; R è la costante universale dei gas (1.987 cal/mole/grado); ed

infine:

A = 94.519 + 2 * Ln W (P16)

dove W sono i grammi d'acqua presenti in 100 g di substrato.

Dalla (P13) deriva che il tempo di trattamento Ë necessario per ridurre al valore

Ct la concentrazione iniziale Co dei microrganismi che interessa distruggere

(quelli che richiedono l'energia letale di valore Ed) è dato da :

Ë = [(Log Co/Log Ct) - 1

] / M (P17)

in cui l'unica incognita rimasta è :

N = ( Log Co / Log Ct ) -1

Poiché secondo il Modello Generale l'inattivazione microbica non è esponenziale,

è necessario svincolarci dal modo usuale di considerare il problema della

definizione del valore di N. Considerando che il massimo numero di batteri che

può essere contenuto in un grammo è pari a 1012

, e che è necessario (secondo il

Modello) che sia presente più di un microrganismo per unità considerata, perché

il microrganismo possa svilupparsi (e alterare così il prodotto in cui si sviluppa)

con una probabilità accettabile, poniamo Ct = 10, cosicché sarà N = 11.

Si potrebbe impiegare un valore di Ct molto più prossimo a 1, per ridurre in

misura maggiore la probabilità di sopravvivenza. Ma se si accetta che

l'inattivazione microbica non sia esponenziale, ma occorra tanto più tempo per

distruggere i microrganismi, quanto minore è il loro numero (come propone il

Modello Generale), allora non si può ridurre ulteriormente il valore di Ct, senza

che aumenti troppo vistosamente il tempo del trattamento termico. Come è noto

infatti (Casolari 1981, 1988) le ‘code’ che si riscontrano nelle curve di

inattivazione dei microrganismi sono determinate dalla progressiva diminuzione

della probabilità di inattivazione, che si verifica al diminuire della concentrazione

cellulare.

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D'altra parte, un valore di N = 11 è vicinissimo al classico valore delle 12

riduzioni decimali richieste nella ‘sterilizzazione’ convenzionale, per le spore del

Cl.botulinum.

Dunque N = 11 può essere accettato anche dagli animi più sospettosi. Anche

perché, come si vedrà, il Modello applicato qui impone trattamenti termici di

maggiore entità, soprattutto alle temperature inferiori, rispetto a quelli suggeriti

dal modello convenzionale della inattivazione esponenziale.

Quindi la (P17) diventa:

N = 11 / M (P18)

Come indicato nell'eq. (P16), il Modello Generale consente di prevedere la

variazione della termoresistenza in funzione della quantità d'acqua contenuta

nel mezzo. Tuttavia, può essere più utile fare riferimento al valore di attività

dell'acqua, Aw, piuttosto che al contenuto totale di acqua. A tal fine, dall'esame

di 35 isoterme di assorbimento di prodotti alimentari, si riscontra sostanzialmente

che, in generale, i valori di aw compresi tra 0.80 e 0.99 (intervallo di aw entro

il quale è applicabile con vantaggio evidente l'LHT) si registrano con contenuti

d'acqua compresi tra 40 e 80 g per 100 g di materiale commestibile. In

particolare, si puo' ritenere con una approssimazione sufficiente ai nostri scopi,

che valga la seguente relazione, tra contenuto percentuale di acqua negli alimenti

(FW) e aw:

FW = 210.658 * AW - 128.93 (P19)

Quindi la relazione (P18) diventa, se si conosce il contenuto percentuale d'acqua

(W) del mezzo da trattare [A]:

Ë = 11 / exp [ A - 2 * Ed/(R*T)] (P20)

da cui:

Ë = 11/exp[(94.519 + 2*Ln W) - 2*Ed/(R*T)] (P21)

Il trattamento termico LHT da applicare alle diverse temperature, in funzione

invece dell'attività dell'acqua del substrato [B], è definito invece dalla relazione

(P22):

LHT = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.933)-2*Ed/(R*T)] (P22)

Per applicare la (P22) ai due gruppi di prodotti individuati precedentemente, è

solo necessario definire il valore di Ed da utilizzare nei due casi; vale a dire,

occorre stabilire quali microrganismi è necessario inattivare, nei due gruppi di

alimenti. Infatti, il valore di aw nella (P22) è quello del prodotto che si intende

trattare; R è una costante definita precedentemente e T è la temperatura alla

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quale si intende trattare il prodotto, espressa in gradi Kelvin (T = °K = 273.15 +

°C). I prodotti inclusi nel gruppo A possono essere alterati da alcuni ceppi di

Clostridium botulinum, quindi debbono essere magazzinati a temperature

inferiori a quelle di sviluppo dei ceppi più psicrotrofi della specie, e quindi

a meno di 1°C (per maggiore sicurezza, considerate le incertezze connesse alla

precisione dei termometri). Con un trattamento LHT appropriato, si può

determinare l'inattivazione di tutte le Salmonella, applicando un trattamento

adeguato alla distruzione (più di 11D) della Salmonella senftenberg 775 W, la

Salmonella più resistente al calore. I valori di termoresistenza della Salmonella

senftenberg riportati in letteratura sono interpretati dalla eq. (P13) assumendo un

valore di Ed = 35.75 kcal/mole.

Detto LHT1 il tipo di trattamento meno energico, ma sufficiente alla

distruzione di tutte le cellule vegetative patogene, si avra':

ËLHT1 = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.93))-35750/T] (P23)

Nella Tabella LHT1 sono riportati i tempi (minuti) di trattamento equivalenti, in

funzione della temperatura, dell'attività dell'acqua e del contenuto percentuale di

acqua, ottenuti con la ËLHT1.

L O W H E A T T R E A T M E N T, LHT-1 .

--------------------------------------------------------------------------------

Aw Acqua T E M P E R A T U R A °C

% 71 73 75 77 79 81

--------------------------------------------------------------------------------

.80 40. 160.8 88.0 48.4 26.8 15.0 8.4

.8l 42. 145.0 79.2 43.6 24.2 14.5 7.6

.82 44. 131.4 71.8 39.5 21.9 12.2 6.9

.83 46. 119.6 65.4 36.0 19.9 11.1 6.2

.84 48. 109.3 59.8 32.9 18.2 10.2 5.7

.85 50 100.3 54.8 30.2 16.7 9.3 5.2

.86 52. 92.4 50.5 27.8 15.4 8.6 4.8

.87 54. 85.4 46.7 25.7 14.2 7.9 4.5

.88 56. 79.1 43.3 23.8 13.2 7.4 4.1

.89 59. 73.5 40.2 22.1 12.3 6.8 3.8

.90 61. 68.5 37.5 20.6 11.4 6.4 3.6

.9l 63. 64.0 35.0 19.3 10.7 6.0 3.3

.92 65. 59.9 32.7 18.0 10.0 5.6 3.1

.93 67. 56.2 30.7 16.9 9.4 5.2 2.9

.94 69. 52.8 28.9 15.9 8.8 4.9 2.8

.95 71. 49.7 27.2 15.0 8.3 4.6 2.6

.96 73. 46.9 25.7 14.1 7.8 4.4 2.5

.97 75. 44.3 24.2 13.3 7.4 4.1 2.3

.98 78. 42.0 22.9 12.6 7.0 3.9 2.2

.99 80. 39.8 21.7 12.0 6.6 3.7 2.1

--------------------------------------------------------------------------------

Salmonella senftenberg 775 W; nD = 11; Ed=35750 cal/mole;

z = 7.82; Q10 = 19.01.

--------------------------------------------------------------------------------

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Come si può rilevare dai valori di ËLHT1, le spore di Bacillus e Clostridium non

sono inattivate da tali trattamenti. Ma tutte le altre cellule vegetative, patogene e

non patogene, subiscono rilevanti distruzioni.

I tempi di trattamento LHT1 equivalgono ad alcune centinaia di D per Listeria,

Pseudomonas, Vibrio, Campylobacter, Yersinia, Mycobacterium tuberculosis,

Virus FMDV; ci si può aspettare che siano inattivati la Legionella (≥11 D); lo

Staphylococcus aureus (≥20 D) e l'E. coli (≥100D). I batteri non patogeni, di

alterazione, e più resistenti al calore, appartengono ai Generi Lactobacillus e

Streptococcus. Ci si può attendere che per effetto dei trattamenti LHT1 il

Lactobacillus plantarum e L. casei subiscano da 5 a 11 D; almeno 20 D gli

Streptococcus faecalis.

Tutti i prodotti con aw ≥ .94 e 3.6 ≤ pH ≤ 4.6 possono essere resi stabili

anche a temperatura ambiente, con un trattamento LHT2, adatto alla distruzione

delle spore dei clostridi cosiddetti butirrici. Sulla base della termoresistenza delle

spore del clostridium più termo-resistente del gruppo, il Cl. pasteurianum ,

(D95°C = 3.95 minuti, z = 10°C), si puo' ricavare un valore di Ed pari a 38.250

cal/mole, cosicché il trattamento basato sulla loro distruzione, LHT2 appunto,

sarà ottenibile dalla relazione:

ËLHT2 = 11/exp[(94.519+2*Ln(210.658*aw-128.933))-38250/T (P15)

Nella Tabella LHT2 sono riportati i valori dei trattamenti termici equivalenti,

sulla base dell'aw e della temperatura, tratti dalla (P15). Applicando i trattamenti

LHT2, ci si può aspettare la distruzione (> 11 D) anche delle ascospore di

Neosartoria e Talaromyces, oltre che delle spore di un gran numero di specie

batteriche.

I tempi di trattamento previsti da LHT-1 sono circa 2.5volte superiori, a 71°C, e

più di 5 volte superiori, a 81°C, a quelli indicati nella Tabella P1 e previsti (su

basi incerte, come si è detto, e contraddittorie) dalla legislazione USA e dalla

pratica corrente.

I vantaggi che offrono i trattamenti LHT, rispetto a quelli tradizionali di

pastorizzazione, sono soprattutto di maggiore aderenza alle conoscenze acquisite,

sia teoriche che sperimentali; ciò dovrebbe conferire loro una superiore

affidabilità, sia in relazione alla probabilità di stabilizzazione, sia di

sopravvivenza e diffusione dei microrganismi patogeni.

La possibilità di modulare il trattamento LHT in relazione al valore di aw del

prodotto, pur mantenendo l'equivalenza della letalità nei confronti dei

microrganismi, non possono che accrescerne affidabilità e convenienza.

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L O W H E A T T R E A T M E N T (minuti) LHT-2 .

--------------------------------------------------------------------------------

Aw Acqua T E M P E R A T U R A °C

% 92 94 96 98 100 102 104

--------------------------------------------------------------------------------

.80 40. 386.97 217.89 123.46 70.38 40.36 23.29 13.51

.8l 42. 348.86 196.43 111.30 63.45 36.39 20.99 12.18

.82 44. 316.12 178.00 100.85 57.49 32.97 19.02 11.04

.83 46. 287.77 162.04 91.81 52.34 30.02 17.32 10.05

.84 48. 263.08 148.13 83.93 47.85 27.44 15.83 9.19

.85 50 241.43 135.94 77.02 43.91 25.18 14.53 8.43

.86 52. 222.35 125.20 70.94 40.44 23.19 13.38 7.76

.87 54. 205.45 115.68 65.54 37.36 21.43 12.36 7.17

.88 56. 190.40 107.21 60.74 34.63 19.86 11.46 6.65

.89 59. 176.94 99.63 56.45 32.18 18.46 10.65 6.18

.90 61. 164.87 92.83 52.60 29.98 17.20 9.92 5.76

.9l 63. 153.99 86.71 49.13 28.00 16.06 9.27 5.38

.92 65. 144.15 81.17 45.99 26.22 15.03 8.67 5.03

.93 67. 135.22 76.14 43.14 24.59 14.10 8.14 4.72

.94 69. 127.10 71.57 40.55 23.12 13.26 7.65 4.44

.95 71. 119.69 67.39 38.19 21.77 12.48 7.20 4.18

.96 73. 112.91 63.58 36.02 20.53 11.78 6.79 3.94

.97 75. 106.69 60.07 34.04 19.40 11.13 6.42 3.73

.98 78. 100.97 56.85 32.21 18.36 10.53 6.08 3.53

.99 80. 95.70 53.88 30.53 17.40 9.98 5.76 3.34

--------------------------------------------------------------------------------------------

Cl. pasteurianum ; nD = 11; Ed = 38250 cal/mole; z = 8.21; Q10=16.53.

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Q U A L I T Y S T E R I L I Z A T I O N

Con la QUALITY STERILIZATION (QS) ci si propone di privilegiare

tempi e temperature di trattamento termico, che pur assicurando una conveniente

distruzione delle spore del Cl. botulinum e delle spore dei termofili, consenta allo

stesso tempo di determinare la minore degradazione possibile delle caratteristiche

chimico-fisiche in generale, e/o in particolare di determinati componenti

privilegiati - come possono essere alcune vitamine - profittando del valore

di ‘zeta’ dei composti chimici che interessano, generalmente molto più elevato sia

di quello delle spore batteriche dei mesofili sia di quello dei termofili.

Anzitutto, occorre trovare a quale temperatura TQ il tempo di trattamento ËQ sarà

equivalente al valore di ËR alla temperatura di riferimento R.

Dalla (101) si ha che:

ËQ = ËR * 10 (TR-TQ)/z

(181)

Per i microrganismi sarà:

ËQm = ËRm * 10 (TR-TQ)/zm

(182)

Mentre per le caratteristiche qualitative sarà:

ËQC = ËRC * 10 (TR-TQ)/zc

(183)

I due trattamenti comporteranno i valori corrispondenti di ËQ , alla temperatura TQ

alla quale ËQm = ËQC, ossia, quando:

ËRm * 10 (TR-TQ)/zm

= ËRC * 10 (TR-TQ)/zc

(184)

Da cui:

Log ËRm + (Tr-Tq)/zm = Log ËRC +(TR-TQ)/zc (185)

(TR-TQ)/zm – (TR-TQ)/zc = Log ËRC - Log ËRm (186)

da cui:

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(TR_TQ)*(1/zm -1/zc) (187)

(TR-TQ)*zc –(TR-TQ)*zm = Log ËRC - Log ËRm (188)

(TR-TQ)(zc-zm)/zm*zc = Log ËRC - Log ËRm (189)

da cui

TR-TQ = (Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm) (190)

Da cui:

-TQ = (Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm) – TR (191)

TQ = -(Log ËRC - Log ËRm ) *zm*zc/(zc-zm) + TR (192)

Ossia:

TQ = (Log ËRm - Log ËRC ) *zm*zc/(zc-zm) + TR (193)

A questo punto, occorre stabilire i valori di ËRC e ËRm.

Tali valori saranno evidentemente il valore irrinunciabile per la sterilità

microbiologica ËRm , pari poniamo Fo=10, ossia ËRm =10; mentre per il valore di

ËRc si potrà scegliere quale caratteristica fisico-chimica privilegiare; il carotene,

ad esempio, ha un D121.1° = 44 minuti e uno z = 25°. Se si intende limitare la

degradazione del carotene ad un centesimo del D, si avrà ËRc = 0.44.

Dalla (193) si ha:

TQ = (1+0.3565)*(250/15) +121-1 16.7*

= 1.3565*16.67+121.1

= 22.61 + 121.1

= 143.71

In effetti, alla temperatura T = 143.76, i valori di entrambi ËRC e ËRm sono pari a

0.054 minuti=3.24 sec, come si ottiene calcolando il valore di ËQ sia mediante la

(171) sia la (170), indifferentemente.

Poiché lo zc è sempre superiore allo zterm, tale trattamento termico avrà un’

efficacia molto elevata nei confronti dei termofili termoresistenti che hanno z = 4,

e può quindi essere qualificato come QUALITY STERILIZATION

TREATMENT (QST).

Se si scegliesse un valore di ËRC = 0.044, ossia la degradazione di solo lo 0.1% del

carotene, pur mantenendo un Fo=10, si avrà, dalla (193):

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TQ = (1 +1.3565)*16.67+121.1

= 2.3565*16.67 + 121.1

= 160.384°C

E il tempo di trattamento ËRC = 0.00118 min =0.07 sec.

Un trattamento di solo 0.07 secondi richiederebbe una tecnologia attualmente non

disponibile. Quindi, per ËRC deve essere scelto un valore di 0.44 o di poco

inferiore e comunque superiore a 0.044, vale a dire che non è possibile nella

pratica della sterilizzazione che sia distrutto meno dell’1% del carotene.

COMPOSTO D121.1 ND Z TQ ËQ

Vitamina C 246 2.46 50.5 128.69

Tiamina 158 1.58 31.0 132.93

Carotene 43.6 0.44 25.5 143.42

Clorofilla 13.2 0.13 38.8 160.02

Imbrunim. 12.5 0.13 26.0 151.75

……………………………………………………………….

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DETERMINAZIONE DEL TRATTAMENTO TERMICO DA

APPLICARE NELLA PRATICA, PER OTTENERE UN

DETERMINATO VALORE DI Fo.

Sono riportate di seguito alcune windows - tratte dal software MicroBioFood

scaricabile gratuitamente dal sito http://www.vency.com/indexit.html - utiliz-

zabile per ottenere una valutazione dei tempi di trattamento termico necessari

per applicare il valore di F72° – F85° scelto per la pastorizzazione, oppure il valore

di Fo, per la sterilizzazione dei diversi prodotti.

Si possono trovare in commercio attrezzature idonee alla rilevazione

dell’evoluzione della temperatura all’interno dei contenitori, e comunque

direttamente nel prodotto, nel corso del trattamento termico – termocoppie di

diverso tipo e dimensione (data trace) –accoppiate a sistemi di calcolo dell’entità

dei trattamenti termici applicati.

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