Download - Alvin Ailey

Transcript
Page 1: Alvin Ailey

il grandissimo Alvin Ailey

Enrico Pieruccinipu

bblic

ato

sul p

rogr

amm

a di

sal

a de

ll’Es

tate

Tea

tral

e Ve

rone

se 2

014

ALVIN AILEY

ph: E

duar

do P

atin

o N

YC

Page 2: Alvin Ailey

il grandissimo Alvin Ailey

Per raccontare Alvin Ailey (1931-1989) e le due compagnie da lui fondate (l’Alvin Ailey American Dance Theater nel 1958 e l’Ailey II nel 1974) bisogna partire da Lester Horton (1906-1953): un grande, anzi un grandissimo, sconosciuto al pubblico e poco considerato dalla critica e dagli storici della danza. Hor-ton – insieme a Jack Cole (1913-1974) e a Katherine Dunham (1909-2006) – fu il grande maestro di Ailey. Non Martha Gra-ham, Hanya Holm e Charles Weidman come sostiene l’ufficia-lità, in primo luogo The concise Oxford Dictionary of Ballet. In più occasioni, ridendosela sotto i baffi , Ailey aveva addirittura pre-cisato che quando era giovane li detestava. Aveva i suoi motivi. Poco più che ragazzotto, arrivando a New York da Los Angeles, Ailey ebbe una sorta di shock. Gli sembrò, anziché andare avan-ti, di tornare indietro, soprattutto per la danza.Per quanto New York fosse una fucina di idee e vi si respirassero, come tra San Francisco e Los Angeles, i prodromi del mito on the road e della beat generation, la California aveva due cose in più: Hollywood e Horton. E se Hollywood (dove trionfavano i grandi musical) poteva essere controbilanciato da Broadway, Horton era un esemplare unico, inimitabile, patrimonio della cultura liberal della West Coast meridionale. Ribelle e intelli-gente, Horton creava balletti di forte valenza politica attingen-do dall’accademico, dal genere “musical” che si evolveva giorno dopo giorno, dal teatro giapponese e dalle danze degli indiani d’America. Non erano tempi di tutela delle diversità. Tutt’altro. E quella “condivisione” della tribalità indiana fu uno dei colpi di genio (e di sensibilità umana e artistica) di Lester Horton.Condivisione, non approccio antropologico. Decenni dopo, un altro grande, Jiří Kylián, proporrà le danze degli aborigeni au-straliani in Stamping Ground (1983): un’esperienza, interessan-te fin che si vuole, limitata a un balletto. Nel caso di Horton fu invece una “condivisione” dettata dal desiderio di ampliare e arricchire quello che normalmente fa ogni coreografo: ispirarsi alle pulsioni umane quanto agli animali, alle piante e ai fluidi in movimento (dall’acqua che scorre al vento che soffia) per parla-re, tramite la danza, ad altri uomini. «Horton – diceva Ailey – mi ha scoperto, mi ha insegnato tutto quello che so, mi ha marcato nella tecnica e nelle idee. In tutto quello che sono e che faccio, scorre, mi auguro, la linfa del suo messaggio». Danzatore della compagnia di Horton dal 1950, Ailey ne diventa direttore nel 1953. Finché, nel 1958, fonda l’ensemble che lo rende celebre

Alvi

n Ai

ley

Lester Horton

Page 3: Alvin Ailey

il grandissimo Alvin Ailey

inaugurando strade mai percorse da altri. Critica e addetti ai la-vori non lo capiscono subito e – davanti a quell’esplosione di nuovo – non sanno cogliere fino in fondo la profondità e la ge-nialità di Ailey che si ritrova tra due fuochi. Da una parte quelli della modern dance ce l’hanno con lui perché, a loro dire, strizza l’occhio al classico e per questo lo considerano un “impuro”. Dall’altra i ballettomani parrucconi lo considerano un sacrile-go che si accosta indegnamente al “sangue blu dell’entrechat e degli altri passi dello stile accademico”. Ailey, sotto i baffi , se la ride. E a quanti continuano a chiedergli quale sia la sua po-sizione sul rapporto modern dance - balletto classico, comincia a rispondere così. «Non so a cosa alludiate. Se pensate che tra questi due generi ci debba essere guerra a oltranza, vi sbagliate. Da anni, fin dalla scuola di Horton, mi sono buttato questo falso problema dietro le spalle. Io sono un coreografo americano e adopero tutto intero il patrimonio che ho ereditato: quello del mio Paese, quello dei miei maestri e quello mio, personale. Non mi soffermo certo a pensare da quale ambito provengano que-sto o quel passo e questa o quella sequenza di movimenti che mi capita di usare per una coreografia!». È invece il pubblico, libero da intellettualismi e da secchionaggini libresche, a coglie-re tutta intera la grandezza di Ailey. Avviene negli States come nelle altre parti del mondo compresa Verona dove la compagnia arriva nel 1968, il 13 e 14 agosto al Teatro Romano, con The black district di Talley Beatty, The prodigal prince di Geoffrey Hol-der, Icarus di Lukas Hoving e Revelations di Ailey. Caso piuttosto infrequente, Ailey, con spirito democratico e antidivistico, met-te in programma una sua sola coreografia e dà spazio agli altri. In riva all’Adige il pubblico va in visibilio: «le manifestazioni di plauso – scrive il cronista – sono state tanto intense e ripetute da diventare autentiche interminabili ovazioni che hanno finito col cogliere di sorpresa gli stessi ballerini». Tra i danzatori una ventiquattrenne Judith Jamison – musa ispiratrice di Alvin Ailey insieme a Donna Wood che entrerà in compagnia nel 1972 – e altri giovani poi diventati delle celebrità: in particolare il venti-treenne George Faison che nel 1975 firmerà un musical di suc-cesso (The Wiz) e il ventiduenne Miguel Godreau che di lì a poco diverrà una star di Broadway. È l’agosto del 1968. Sono passati quattro mesi dall’assassinio di Martin Luther King e due da quello di Robert Kennedy. ll razzismo negli States è tutt’altro che debellato. Forse per questo, con l’intento di esal-

ph: j

ack

varto

ogia

nph

: And

rew

Ecc

les

BriAnA rEEd

Page 4: Alvin Ailey

il grandissimo Alvin Ailey

tare la bravura di quei danzatori neri (“negri” recita l’occhiel-lo dell’Arena nello stile di allora), il cronista areniano esalta lo spirito “negro-americano” dello spettacolo. Riduttivo, ma comprensibile. Poco o nulla comprensibile fu invece nel cor-so degli anni 70 e 80 l’atteggiamento della critica (il rappor-to tra modern dance e accademico non era il solo problema) che, pur parlando bene di Ailey, tirava continuamente in ballo “negritudine” e “black tradition” e anziché definire Ailey “un grandissimo coreografo” lo etichettava “il maggiore coreogra-fo di colore di oggi”. Con una sorta di mea culpa Vittoria Ot-tolenghi su BallettoOggi dell’agosto 1987 ammetteva: «Quando nel 1974 vedemmo a Nervi il celeberrimo Cry creato tre anni prima per Judith Jamison, pensammo subito all’urlo di dolore della donna nera americana (moglie, madre, sorella) vittima di una situazione di schiavitù reale e morale. Poi ci rendemmo conto che no, quell’urlo era di tutti noi, bianchi o neri, per le più diverse motivazioni». Ammirevole autocritica solo in mi-nima parte rivolta a se stessa, in realtà collettivo atto riparato-rio che non risparmiava nessuno. Compreso forse il critico del New York Times Clives Barnes (1927-2008) che, qualche anno prima, come se avesse dovuto farsi perdonare qualcosa, aveva scritto: «Ailey è il direttore di compagnia più meraviglioso e spregiudicato al mondo. Scrittura bianchi, neri, gialli, rosa e, se esistessero, come dice lui stesso con un rimando al film di Joseph Losey, ne scritturerebbe anche di verdi». E Ailey, sotto i baffi che sfumavano nel pizzo, doveva riderci. C’era abituato, soprattutto in Italia. La sua prima volta in Italia, a Roma nel 1966 ospite della Filarmonica, fu per lui un’ottima occasione per farsi due risate. Non c’entravano né il colore della pelle né i rapporti tra accademico e modern dance. C’entrava la perples-sità dell’organizzatrice nonostante il pubblico fosse al settimo cielo. «Era sconvolta. Durante il primo intervallo – ebbe modo di raccontare lo stesso Ailey – venne da me. In lacrime mi dis-se: “signor Ailey, le sue ballerine sono brutte, sudate, sporche e ballano come gli uomini. Non è possibile!”. Non fu il primo shock. Dopo il secondo balletto, introspettivo ed esistenziale, la signora venne da me e mi disse: “ma signor Ailey, è troppo triste e deprimente. Il balletto deve essere una cosa bella, sere-na, pulita!”. Non ho più dimenticato quelle parole. Effettiva-mente non potevo che riderci».Lo sapeva benissimo, il grande Ailey, che queste erano scioc-

Page 5: Alvin Ailey

il grandissimo Alvin Ailey

chezze, quisquiglie, che le cose importanti erano ben altre. E infatti Ailey assurge, poco più che quarantenne, nell’Olimpo della danza mondiale. In 101 stories of the great ballets (1975) scritto a quattro mani da George Balanchine e da Francis Ma-son gli vengono dedicate due pagine. Tra i centouno balletti che hanno fatto la storia della danza di tutti i tempi (dal Lago dei cigni a Giselle, dallo Schiaccianoci a Coppelia, dalla Bella ad-dormentata nel bosco a Don Chisciotte) c’è anche il suo The river (1970) su musica di Duke Ellington. Un balletto meraviglioso dove “il fiume è la vita, il suo corso è quello dell’umanità e le due rive sono separate ma gli uomini possono varcarle per vincere le divisioni e le solitudini”. Anche in Italia (tra le varie attestazioni quella di Balletto, repertorio del teatro di danza dal 1581, Mondadori, 1979) è The river la coreografia più “get-tonata” dalla critica. Per notorietà, coinvolgimento, fascino visivo, il suo capolavoro resta invece, sicuramente, Revelations (1960), colpo di genio di un Ailey appena ventinovenne. Non a caso, quando la compagnia torna al Teatro Romano nel 1989 (dall’11 al 15 luglio), come accadde nel 1968, è Revelations a chiudere la serata. Prima di Revelations vanno in scena altri bal-letti a firma di Elisa Monte, Talley Beatty e George Faison. Anche questa volta Ailey, con spirito molto democratico, dà ampio spazio agli altri coreografi . E nel suo stile fa vincere l’eleganza sull’egocentrismo. Come nel 1968 è un successone,il pubblico va in visibilio. Contrariamente alle precedenti tournée italiane, al seguito della compagnia il grande Ailey non c’è. Nei preparativi e nel dopo spettacolo si avverte la sua mancanza. Purtroppo non sta bene. Morirà cinque mesi dopo, il 1° dicembre, all’ospedale Lenox Hill di New York. Venticin-que anni dopo, il mito “Ailey” torna al Teatro Romano: con la compagnia Ailey II, ensemble nato quarant’anni fa per ope-rare parallelamente all’Alvin Ailey American Dance Theater con un compito ben preciso: dare ancora più spazio ai migliori talenti della giovane danza americana e favorire i migliori co-reografi emergenti. Questa volta le coreografie sono di Amy Hall Garner, Jessica Lang, Robert Battle… e Alvin Ailey. Di Ailey, come nel 1968 e nel 1989, sarà proposta la sua “icona”: quell’immortale Revelations che, cinquantaquattro anni dopo la prima newyorkese, non cessa d’incantarci ed emozionarci con i suoi canti di dolore, di amore e di liberazione assurti, negli anni, a inno di tutti i popoli della Terra alla libertà.