World Crisis Watch N°3 2013

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Osservatorio Aree di Crisi di BloGlobal-Osservatorio di Politica Internazionale

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Osservatorio Aree di Crisi N° 3, 6 ottobre 2013

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AFGHANISTAN – Alla vigilia delle nuove elezioni presidenziali e

del ritiro delle truppe di ISAF, entrambe fissate per il 2014, vi

sono nuovi importanti sviluppi in Afghanistan. L'ex avversario di

Hamid Karzai alle elezioni del 2009, Abdullah Abdullah, ha

annunciato ufficialmente che correrà per la massima carica

istituzionale al termine di un negoziato con il partito Hezbi-

Islami; insieme a lui, si è candidato anche il capo della

Commissione per la Sicurezza della Transizione, Ashraf Ghani

Ahmadzai. Sul versante diplomatico, è stato fissato il summit dei

Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza Atlantica incentrato sulla conclusione della missione ISAF; il vertice

si terrà, come annunciato da David Cameron, in Gran Bretagna in una data ancora da decidere. L’agenda

sarà prevedibilmente incentrata sulla capacità delle Forze afghane di garantire la sicurezza di un territorio

che tuttora è vittima di attacchi degli insorgenti. Se Kabul si dimostra fiduciosa sulla tenuta dell’Afghan Army,

così non è Washington e, in particolare, il Pentagono, come annunciato in un suo recente report. Proprio gli

Stati Uniti stanno spingendo per la definizione dei contenuti della ‘partnership strategica’ con l’Afghanistan,

INFOGRAFICA DEL MESE: L’instabilità del Mali

WORLD CRISIS WATCH – in Focus

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che contribuirà a definire il quadro di sicurezza generale. Un alto funzionario della Difesa americana ha

definito una “tragedia” se l’accordo non venisse siglato. In effetti, sembrano esserci cospicue divergenze tra

Washington e Kabul in merito. Anzitutto, come riferito da Karzai, dal concetto di ‘aggressione straniera’:

“siccome nessun Paese probabilmente ha intenzione di muoversi apertamente in armi contro di noi,

dobbiamo convincerci che le aggressioni straniere sono altre”, facendo riferimento al flusso di miliziani che

infoltiscono le fila degli insorgenti in Afghanistan; “se gli Americani non ci sostengono per contrastarli – ha

continuato – a che cosa servirebbero le loro basi qui?”. Un’altra questione bilaterale in attesa di risoluzione è

la war on terror americana sul suolo afghano, in altre parole la ‘caccia’ ad al-Qaeda, che gli Stati Uniti

vorrebbero condurre in autonomia dal governo di Kabul: nelle parole di Karzai, “non siamo d’accordo e

consideriamo questa ipotesi una violazione della nostra sovranità. Vittime civili per la nostra popolazione nei

loro raid sono inaccettabili”. Il Segretario alla Difesa statunitense, Chuck Hagel, ha dichiarato, forse con un

eccesso di fiducia, che l’accordo sarà trovato entro la fine di ottobre. Nel frattempo, anche il governo del

Pakistan, nel tentativo di proporsi alla comunità internazionale come interlocutore affidabile, sta cercando di

contribuire all’opera di pacificazione dell’Afghanistan sul fronte diplomatico. Islamabad avrebbe avviato un

dialogo con il principale movimento dei talebani pakistani, Tehrik-e-Taleban Pakistan, i cui esponenti

avrebbero accettato dietro esplicito invito di alcuni leader religiosi. Inoltre, a margine dell’avvio dei lavori

dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Primo ministro pakistano, Nawaz Sharif, e il suo omologo

indiano, Manmohan Singh, si sono incontrati per cercare un fronte comune per fermare le violenze che

colpiscono entrambi i Paesi e, secondo le intenzioni di Sharif, per siglare una nuova alleanza da estendere

poi a Kabul, anzitutto a sostegno della credibilità diplomatica del Pakistan.

AFRICA OCCIDENTALE (NIGERIA/MALI) - E' di almeno 143 vittime il

bilancio dell'attentato terroristico avvenuto lo scorso 17

settembre a Benisheik, nello Stato di Borno, nella Nigeria nord-

orientale. L 'attacco, ad opera del gruppo fondamentalista di

Boko Haram e condotto anche nelle aree limitrofe alla città e

nella strada che unisce Maiduguri (la capitale di Borno) con

Damaturu (capitale dello Stato di Yobe, altra area sensibile

all'azione dei Boko Haram) dove sono state incendiate case ed

edifici, non è stato tuttavia l’unico durante il mese di settembre: domenica 30, infatti, un commando di ribelli

estremisti ha preso d’assalto la facoltà di Agricoltura di Gujba, sempre nello Stato di Yobe, non lontano da

Damaturu, uccidendo almeno 50 studenti ospitati nei dormitori della struttura, ferendone decine e

mettendone in fuga almeno 1000. Già nello scorso luglio, nel villaggio di Mamud i miliziani avevano attaccato

il dormitorio di una scuola: 42 i morti, di cui la maggior parte studenti; poche settimane prima, nello Stato

confinante di Kano, un assalto a una scuola era costato la vita a 13 giovani e ad alcuni professori. Di minore

impatto, ma ugualmente gravi, anche gli assalti al villaggio di Zangang, dove hanno perso la vita nei roghi

almeno 11 persone, e nel distretto di Kunumburi, dove tra le 21 vittime risulta anche un capo villaggio. La

nuova raffica di attentati sono con ogni probabilità una risposta al raid compiuto dalle forze di sicurezza di

Abuja lo scorso 12 settembre contro un campo fortificato del gruppo in cui avrebbero perso la vita 150

islamisti oltre a 16 soldati nigeriani e fanno di fatto definitivamente saltare il già precario accordo di pace tra

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ribelli e Governo raggiunto lo scorso 8 luglio a seguito di una massiccia campagna anti-terroristica nelle aree

settentrionali del Paese – non ancora del tutto completata – da parte del Presidente Goodluck Jonathan con

la quale tuttavia non tutte le autorità politiche si sono trovate d’accordo: l'ex capo di Stato Maggiore,

l'influente generale Martin Luther Agwai, ha infatti dichiarato: “Non si può risolvere il problema con la forza

militare, non siamo in guerra, non stiamo combattendo un invasore. Il problema è politico, sociale,

economico, serve questo approccio per risolverlo”. Abuja sta intanto cercando di proseguire sulla strada dei

negoziati anche con l’altro gruppo terroristico presente sul territorio, Jamaatu Ansarul Musilimina fi Biladis

Sudan (Avanguardia per la protezione dei musulmani nell’Africa nera), meglio conosciuto come Ansaru, che

secondo alcuni sarebbe una formazione scissionista di Boko Haram, mentre per altri una costola stessa del

movimento jihadista.

A rischio rottura è anche l'intesa trovata lo scorso 18 giugno tra i ribelli tuareg del nord del Mali e il governo

di Bamako: i ribelli del Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad (MNLA), dell'Alto Consiglio per

l'Unità dell'Azawad (HCUA) e del Movimento Arabo dell'Azawad (MAA) hanno infatti deciso di sospendere

l'accordo accusando il governo centrale di non aver rispettato le condizioni, specialmente con riferimento alla

mancata scarcerazione dei detenuti ribelli nelle carceri di Bamako e, in particolare, allo status della regione

settentrionale. Su questo punto il neo-Presidente Ibrahim Boubacar Keita, eletto lo scorso 11 agosto dopo

aver battuto l’ex Ministro delle Finanze Soumailà Cissé, è stato chiaro: il suo governo non negozierà mai

l'integrità del Mali. Nel nord continuano intanto le scorrerie dei tuareg nelle zone di Gao e Kidal e l'emissario

ONU per il Sahel, Romano Prodi, ha dichiarato che il livello di fragilità resta alto e che la possibilità di attività

terroristiche resta elevata. Dopo scontri di piccola entità proprio nelle aree circostanti Kidal e presso un

check-point al centro del capoluogo tra soldati regolari e presumibilmente alcuni combattenti della ribellione

tuareg (anche se non è ancora chiaro chi per primo ha aperto il fuoco), il 28 settembre una base dell’esercito

maliano a Timbuctù, nel Nord-Ovest del Paese, è stata oggetto di un attentato kamikaze, rivendicato poi da

al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM), in cui hanno perso la vita 4 terroristi e 2 civili.

ESTREMO ORIENTE – Le tensioni in Asia, che hanno coinvolto la

penisola coreana e i due ‘giganti’ Giappone e Cina nel corso

degli ultimi mesi, stanno attraversando una nuova fase di

incertezza. Per ciò che concerne la questione della Corea, il

Nord da un lato appare deciso a non abbandonare la sua

retorica di guerra, dall’altro sembra non voglia rinunciare a

riavviare i vari progetti di cooperazione e distensione con il Sud.

In questo senso, il passo più importante è stata la recente

riapertura di un complesso industriale in Corea del Nord gestito

congiuntamente da Pyongyang e da Seul. Il Presidente dell’Assemblea Suprema del Popolo della Corea del

Nord, Kim Yong Nam, ha dichiarato recentemente che l’obiettivo del suo Paese è di concentrarsi sul

miglioramento della difficile situazione economica attraverso un incremento del tenore di vita; Kim ha

aggiunto che per perseguire tale fine è necessario che gli Stati Uniti abbandonino una “politica ostile” verso

Pyongyang : "Non ci sarebbe alcun motivo per noi di coltivare cattivi rapporti con gli Stati Uniti se il governo

americano abbandonasse la sua politica ostile e optasse per un cambiamento, in virtù del rispetto della

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nostra sovranità e del nostro diritto di scegliere". Si rincorrono però altre voci meno distensive, che

suggeriscono che la Corea del Nord avrebbe riavviato un reattore nucleare di eredità sovietica, già utilizzato

in passato per ottenere plutonio e costruirsi la propria bomba atomica. Il riavvio del reattore significherebbe

che il Paese sarebbe deciso a riavviare la produzione, dando così reale seguito alle minacce nucleari che

dal 2007 – anno in cui entrò in vigore, seppur per breve tempo, un accordo con Washington – vengono

regolarmente reiterate. Nel frattempo, a poche centinaia di chilometri di distanza, le tensioni tra Tokyo e

Pechino sulle isole Senkaku, le isole giapponesi contese dalla Cina nel Mar Cinese Orientale, restano vive;

nel corso degli ultimi mesi, più volte navi e aerei cinesi hanno continuato ad accedere alle zone intorno alle

isole. Il Primo Ministro del Giappone, Shinzo Abe, ha ribadito che il suo governo è deciso a non arretrare

dalla propria posizione a sostegno dell’indiscussa sovranità giapponese; Abe ha però aggiunto che, al di là

della non-negoziabilità della sovranità, la porta è sempre aperta per il dialogo con la Cina. In una conferenza

stampa a margine dell’avvio dei lavori dell’Assemblea Generale dell’ONU, Abe ha dichiarato che "Noi non

cerchiamo alcun compromesso sulla sovranità delle Senkaku. [Ma] non è giusto chiudere la porta [del

dialogo con la Cina] dato che ci sono sfide da affrontare. C’è la necessità di avere colloqui, anche a livello di

summit". La Cina, però, benché abbia apparentemente abbandonato l’acceso nazionalismo, è decisa a

rivendicare i propri diritti sulle Diaoyu (la denominazione cinese delle Senkaku). Infatti, due settimane prima

delle parole di Abe, il 9 settembre, un drone cinese – come riconosciuto dallo stesso Ministero della Difesa di

Pechino – ha sorvolato lo spazio aereo delle isole contese, spingendo l'aeronautica giapponese a far alzare

in volo i propri caccia. Il Ministro della Difesa giapponese, Itsunori Onodera, ha notificato l’incidente

all’Ambasciata della Cina a Tokyo, sottolineando come il drone abbia violato un’area il cui attraversamento,

con tanto di informazioni di volo, avrebbe dovuto essere prima notificato alle autorità giapponesi e da queste,

eventualmente, autorizzato.

FILIPPINE – Sono in corso dall’inizio di settembre scontri tra

l’esercito di Manila e i guerriglieri del gruppo separatista

islamico del Moro National Liberation Front (MNLF) nell’area di

Zamboanga, nella parte meridionale dell’arcipelago. Con la

liberazione degli ultimi 195 civili tenuti in ostaggio, il bilancio

delle vittime dopo venti giorni di battaglia è di 166 ribelli uccisi e

di altri 23 soldati filippini e almeno una decina di civili morti. Altri

238 ribelli sono stati invece arrestati e saranno processati.

L’offensiva messa in atto dallo scorso 9 settembre da un

commando di qualche centinaia di ribelli – giunti via mare dalla regione di Mindanao sulle coste di Rio Hondo

e a cui si è immediatamente opposto un nucleo di 800 soldati dell’esercito regolare nazionale – sarebbe

scaturita a seguito della dichiarazione unilaterale di indipendenza della regione di Zamboanga da parte dello

stesso gruppo in risposta ai negoziati di pace attualmente in corso tra il governo centrale e un altro gruppo di

ribelli sunnita – il Moro Islamic Liberation Front (MILF), fuoriuscito dal MNLF nel 1984. La recente intesa (13

luglio) di Kuala Lumpur sulla condivisione delle risorse naturali (il 75% di oro, rame e altri estratti dell’isola

meridionale andranno ai dissidenti del MILF) fa infatti seguito all’accordo quadro sul Bangsamoro (FBA) –

firmato il 15 ottobre dello scorso anno e mediato dalla vicina Malesia e da un Gruppo di Contatto

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Internazionale creato appositamente nel 2009 composto da Regno Unito, Giappone, Turchia, Arabia Saudita

e dalle rappresentanze di quattro ONG, l'Asia Foundation, il Centro per il Dialogo Umanitario, il Conciliation

Resources e l'indonesiana Muhammadiyah – che, concedendo ai musulmani del Mindanao (dove

rappresentano la maggioranza della popolazione) maggiore autonomia (ma non indipendenza) e accordando

agli 11mila uomini del MILF più poteri economici e politici, ha tentato di risolvere definitivamente un conflitto

che dura da oltre 40 anni e che è costato 120mila vite umane. Il compromesso trovato durante l’estate ha

così aperto la strada al completamento del FBA, che prevede la creazione della nuova regione entro il 2016

(che sostituirà proprio quella dell’Autonoma Regione nel Mindanao Musulmano ARMM, creata nel 1996

dall’unione delle province di Basilan, Lanao del Sur, Maguindanao, Sulu e Tawi-Tawi e che lo stesso

Presidente ha definito un “esperimento fallito”) con la fine del mandato del Presidente Benigno Aquino, ma

non risolve ancora molti problemi sul tappeto: non solo il trasferimento di alcuni importanti poteri (tra cui

soprattutto quelli relativi alla gestione delle forze di sicurezza) e la garanzia dei diritti umani per la

popolazione musulmana, ma anche e soprattutto il disarmo di tutte le milizie ribelli, tra cui il Bangsamoro

Islamic Freedom Fighters (BIFF), una milizia fuoriuscita nel 2011 dal MILF che opera sempre nell'area di

Bangsamoro e che non ha accettato l’intesa del 2012, e il gruppo fondamentalista Abu Sayyaf, nato negli

anni Novanta e presumibilmente legato al network di al-Qaeda che opera prevalentemente nelle isole di Jolo

e di Basilan. Il rischio, dunque, è che la ripresa delle ostilità del MNLF nei confronti di Manila e della fazione

MILF rinfocoli le spinte estremiste degli altri gruppi, vanificando gli sforzi di pace e, complessivamente, la

stabilità dell’intero arcipelago e del Sud Est asiatico, strategico com’è per la lotta al terrorismo islamista

regionale e dove a questo proposito, ed impegnate nell’addestramento delle forze armate locali, in

operazioni di intelligence e in missioni di ricostruzione civile, sono schierate truppe statunitensi non-combat.

IRAQ – Non accennano a placarsi le violenze settarie nel Paese

mediorientale ormai sconvolto da quotidiani attentati. L’ultima

mattanza di sabato 5 ottobre parla di cinque attentati avvenuti

tra Baghdad e Mosul che hanno provocato la morte di 48 civili.

Almeno 23 fedeli sciiti diretti al mausoleo di Mohammed al-

Jawad, il nono imam per gli sciiti duodecimali, sono stati uccisi

nel quartiere di Adhamiyah nella zona Nord di Baghdad. A

Balad, area Nord della capitale, un kamikaze si é fatto saltare in

aria in un caffè uccidendo almeno 12 persone. Altre vittime si

sono registrate a Muqdadiyah e a Bayaa, quartieri nei dintorni di Baghdad. Tra le vittime ci sono anche un

reporter e un cameraman della televisione irachena al-Sharqiya uccisi invece a Mosul. Cifre, queste, che

confermano i dati preoccupanti diffusi pochi giorni fa dall’UNAMI (United Nations Assistance Mission for

Iraq), la missione internazionale ONU di stanza nel Paese mediorientale che ha contato 979 vittime e 2.133

feriti nel solo mese di settembre. Numeri, questi, ritenuti sottostimati dalle ONG internazionali e che

dovrebbero essere più verosimilmente vicini ai 1.271 deceduti e diverse migliaia di feriti. Si tratta di uno dei

dati mensili più sanguinosi registrati negli ultimi anni. Anche se il mese peggiore in termini di stragi per gli

attentati è stato lo scorso luglio, quando le vittime sono state 1.057. La città più colpita da atti di violenza

politica è stata Baghdad, dove a settembre si sono registrati 418 morti e 1.011 feriti. Nei primi 5 giorni del

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mese di ottobre le vittime sono già 110 ed oltre 5.900 dall'inizio dell'anno, uno dei peggiori dal terribile

triennio 2006-2008 che insanguinò l'Iraq. Gli attacchi sono stati quasi tutti rivendicati dallo Stato Islamico

dell’Iraq e del Levante (ISI) e da al-Qaeda in Iraq (AQI), gruppi affiliati alla centrale afghana di al-Qaeda che

hanno sfruttato lo scoppio della guerra civile siriana e le tensioni settarie e che hanno cavalcato il

malcontento sunnita per scatenare una violenta campagna di attentati. Gli estremisti hanno giustificato le

violenze come “una risposta ai continui attacchi alla comunità sunnit da parte del governo”. A più di dieci anni

dall’invasione americana e a due dal ritiro delle truppe americane dall’Iraq che lasciarono la difesa del Paese

alle deboli e impreparate forze di sicurezza nazionali, questi episodi confermano ancora una volta come il

conflitto settario in corso in Iraq stia acquisendo sempre più connotati di natura politica. Il Premier Nouri al-

Maliki, che molti sunniti accusano di politiche discriminatorie nei confronti della loro comunità, ha portato

avanti in questi anni politiche di sostanziale accentramento dei poteri e di graduale emarginazione dei

principali esponenti politici della comunità sunnita. Tuttavia le profonde divisioni anche all’interno del fronte

sunnita non facilitano un processo di coesione nazionale. Nikolai Muladinof, Rappresentante Speciale in Iraq

del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, ha fatto appello a tutti i leader politici, religiosi e

sociali e alle forze di sicurezza perché lavorino insieme per la “fine degli attentati” e creino le “condizioni per

una maggiore coesione nazionale”. Oltre alle tensioni settarie tra sunniti e sciiti, il tema della sicurezza è da

ricondursi ai problemi legati allo sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio nel Kurdistan iracheno e

alle rivendicazioni autonomiste di quest’ultimo. Intanto la scorsa settimana (21 settembre) si sono tenute le

elezioni locali che hanno decretato, con il 37% delle preferenze (e dunque con 42 seggi dell'Assemblea di

Erbil), la vittoria del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Massud Barzani, riconfermandosi così alla

guida della regione irachena. A sorpresa seconda forza del Parlamento curdo è il Gorran – Movimento per il

Cambiamento, fondato nel 2009 da Nawshirwan Mustafa, che ha conquistato 24 seggi. Solo terza l'Unione

Patriottica del Kurdistan (UPK) del Presidente della Repubblica irachena Jalal Talabani, che potrà contare su

18 seggi. A pesare su questo risultato anche le difficili condizioni di salute proprio del Capo dello Stato. Alle

consultazioni del 2007 PDK e PUK avevano partecipato con una lista unica ottenendo 70 seggi. Flop dei tre

partiti islamici in lista – primo fra tutti il Kurdistan Islamic Union (KIU), la frangia curda della Fratellanza

Musulmana –, danneggiati dalle vicende egiziane e dalla guerra dichiarata dai qaedisti contro la minoranza

curda in Siria. Al di là del risultato, che fa pendere l'ago dell'alleanza più verso l'ala di Barzani, queste

consultazioni rappresentano un momento fondamentale nella vita politica della regione e dell'Iraq: la prima e

la più grande sfida è infatti la prospettiva indipendentista del Kurdistan iracheno (che tra l'altro dal punto di

vista economico-commerciale agisce già in maniera completamente distaccata dal governo centrale) in un

momento in cui, tra l'altro, il Paese è attraversato da divisioni etnico-settarie che rischiano di far scivolare

Baghdad in una guerra civile. La seconda questione, invece, sarà la gestione dei rapporti con le altre

componenti curde in Turchia, Siria, e Iran, finora non scevri da tensioni. L’escalation di violenze a sfondo

settario, la contrapposizione tra arabi e curdi, la fragilità delle procedure democratiche per conferire

legittimità alle istituzioni irachene e la sempre più intrusiva influenza delle potenze regionali, rischiano di fare

nuovamente dell’Iraq un terreno di scontro per l’intero Medio Oriente.

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TUNISIA – Dopo mesi di stallo politico dettato dalle tensioni

derivanti dagli omicidi di Chokri Belaid e Mohammed Brahmi,

leader dell’opposizione laica e di sinistra, Ennahda ed Ettakatol,

due dei tre partiti della maggioranza di governo, hanno accettato

di iniziare il cosiddetto Dialogo Nazionale con le opposizioni per

fare uscire la Tunisia dalla crisi. Rimasto invece su posizioni

critiche il terzo partito della maggioranza, Congresso per la

Repubblica, che non intende firmare l'accordo anche in virtù

della traballante posizione del suo leader e Capo di Stato

Moncef Marzouki – recentemente coinvolto in una dura polemica con le autorità egiziane per la sua

dichiarazione in favore della scarcerazione del Presidente egiziano Mohammed Mursi – che, in base

all’accordo sottoscritto la settimana scorsa, dovrebbe essere sostituito con Béji Caïd Essebsi, ex Ministro

degli Esteri sotto Bourghiba e leader di Nidaa Tounés, principale forza centrista di opposizione e in grande

ascesa nei sondaggi elettorali. Il documento, stilato dal cosiddetto quartetto, il gruppo di quattro mediatori

della società civile – l’Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT), l’Union Tunisienne de l’Industrie, du

Commerce et de l’Artisanat (UTICA), Ligue tunisienne des droits de l’homme (LTDH) e l’Office National de

l’Artisanat Tunisien (ONAT) –, sancisce la nomina di un Primo Ministro indipendente ma scelto da Ennahda

(entro una settimana), le dimissioni dell’attuale esecutivo – sebbene questo sia ancora ufficialmente in carica

– e la formazione di un governo non politico ad interim (in un paio di settimane) che traghetti il Paese ad

elezioni anticipate (presumibilmente nei primi mesi del 2014). Intanto le forze aderenti al Dialogo Nazionale

dovranno portare a termine i lavori nell’Assemblea Costituente redigendo sia la nuova Carta fondamentale

sia una nuova legge elettorale entro tre settimane. La crisi, nata con l’uccisione del deputato Brahmi e

accelerata dalle incessanti manifestazioni di protesta avvenute durante tutta l’estate avevano di fatto posto le

condizioni per una vera e propria paralisi politica ed economica dello Stato. Tensioni, queste, connesse con

le questioni legate alla sicurezza interna e a quelle delle frontiere che hanno reso il Paese particolarmente

vulnerabile alla penetrazione di gruppi armati più o meno legati alla galassia qaedista di AQIM e per lo più

provenienti dal confine meridionale e condiviso con Algeria e Libia. Ennahda, infatti, ha pagato l’ambiguità

del proprio rapporto con alcune realtà salafite violente come il movimento di Ansar al-Sharia, inserito di

recente dalle autorità nazionali nella black list delle organizzazioni terroristiche. Infatti, secondo le indagini

del forze di polizia coordinate dal Ministro degli Interni Lofti Ben Jeddou, il gruppo salafita sarebbe

responsabile della morte di Belaid e dello stesso Brahmi. Sempre Ben Jeddou ha comunicato che gli ultimi

blitz effettuati da polizia e militari hanno portato all’arresto di oltre trecento terroristi dislocati nel Sud della

Libia e pronti a combattere il jihad in Siria. Questi uomini sono legati alla formazione jihadista di al-

Murabitun, gruppo costituito di recente e guidato dall’algerino Mokhtar Belmokhtar, nato da una fusione del

gruppo algerino Katiba al-Mulathimin, comandato dallo stesso Belmokhtar, e il MUJAO (Movimento per

l’Unicità e il Jihad in Africa dell’Ovest). Nelle passate settimane il governo tunisino aveva dovuto lanciare una

pesante controffensiva aerea e terrestre di counter-terrorism, in collaborazione con i vicini algerini, nell’area

tra i Monti Chaambi e il wilayat algerino di el-Oued.

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Photo credits: Asiainfo.org, Exploring Africa, Lonely Planet.

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Coordinamento editoriale a cura di

Maria Serra, Giuseppe Dentice, Davide Borsani

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