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Lateral Training business edition, all rights reserved Numero 4, anno 2015, settembre Immagine: Monument Valley The C ircle The Real Game magazine di innovazione, comunicazione e marketing

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Lateral Training business edition,all rights reserved

Numero 4, anno 2015, settembre Immagine: Monument Valley

The CircleThe Real Gamemagazine di innovazione, comunicazione e marketing

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Avete mai la sensazione di essere dentro un videogame? Vi ricordate di Tron, il grande cult movie della Walt Disney prodotto nel 1982?

Oggi, il nostro immaginario è irrimediabilmente condizionato dalla fiction economy. Film, giochi, social network, applicazioni; siamo dentro storie che contribuiamo a costruire con le nostre interazioni.

The real game

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Viviamo in un mondo sospeso tra ciò che è reale e ciò che è immaginazione.Il processo che vede il gioco penetrare nella realtà e farsene interprete è detto Gamification e porta con sé opportunità incredibili sia sul versante della crescita personale che professionale.

Jane McGonigal, una delle più importanti game designer al mondo, ce ne parla ampiamente.

di Cyrano

Gamification & alternate gamesPerché il gioco è fondamentale per lo sviluppo personale e professionale

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La realtà in gioco

La realtà in gioco è ormai un bestseller. Jane McGoni-gal, con una brillante carriera di ricercatrice universitaria (Berkeley, Institute for the Future e SuperBetter Labs) di-vulgatrice e progettista di giochi e alternate games, pub-blica il volume tra il 2010 e il 2011, con il sottotitolo Per-ché i giochi ci rendono migliori e come possono cambia-

re il mondo.

La domanda che la McGoni-gal fa è: che cosa succede-rebbe se usas-simo tutto quel-lo che sappia-mo sulla pro-gettazione dei giochi per siste-mare que l lo che non va nel-la realtà?

Se conducessimo le nostre vite rea-li con il senso strategico di un gio-catore o, magari, riuscissimo a risol-vere i problemi al lavoro e nella vita come dei teorici dei videogame, ol-tre a essere tutto più semplice, sa-rebbe entusiasmante, brillante e da-rebbe a tutti una ragione per miglio-rare, crescere e diventare più effi-cienti.

I giochi contengono una speciale tensione al raggiungimento di un obiettivo. Un eroismo di scopo che ci porta alle più straordinarie prestazioni.

È difficile da credere, ma già dalla seconda metà degli anni ’70 alcuni studiosi, come Mihaly Csikszentmihalyi, con la psicologia positiva introducevano l’idea dello stu-dio del benessere umano e della felicità. Lo studioso par-lava di ‘flusso’ come di una sensazione soddisfacente ed esaltante di realizzazione creativa e di funzionamento ac-cresciuto (caratteristica tipica dei giochi). Il concetto è:

Rispetto ai giochi spesso la realtà è deprimente. I giochi concentra-no la nostra energia con ottimismo incrollabile su qualcosa in cui siamo bravi e ci piace.

The game that can give you 10 extra years of life

Jane McGonigal al TED Talks 2012

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David Sudnow nel 1983 ha scritto 161 pagine di resocon-to per spiegare come giocare a Breakout, un gioco per Atari simi-le a un ping pong, ma con il preci-so obiettivo di sfondare un muro e abbatterlo. Per lui, il gioco ha del-le caratteristiche precise che crea-no dipendenza:

a) un obiettivo chiaro

b) delle regole rigide e restrizioni chiare

c) ostacoli e problemi da risolvere

d) un feedback immediato e determinante

Va da sé che solo in questo ultimo periodo – con la convergen-za tra psicologia e neuropsicologia – si sta affrontando in modo sistemico lo studio degli effetti che il gioco crea a livello celebra-le. Se è vero che è stato individuato un primo fattore nella fierez-za (risolvere un enigma ci fa sentire bravi, efficienti, intelligenti, fieri di noi stessi), è pur vero che è necessario stabilire in cosa consista di fatto la felicità. Secondo alcune teorie, due tipi di gra-tificazione agiscono sullo stato psicologico di un individuo.

Quelle di primo tipo sono le gratificazioni:

ESTRINSECHE - soldi, oggetti, beni materiali, ecc.

Queste gratificazioni si collegano all’adattamento eudonico. Ov-vero: più cose si consumano e si ottengono, più il nostro stile di vita si eleva di livello, più sale la soglia di soddisfazione e di feli-cità. Ci adattiamo a quello che abbiamo e diventiamo meno faci-li da soddisfare, tendiamo a volere sempre qualcosa di più.

INTRINSECHE - emozioni, sensazioni, relazioni, ecc.

Non abituandoci mai al consumo finale di questi elementi, che si rinnovano continuamente e che sono imprevedibili, la nostra capacità di soddisfazione è più facilmente raggiungibile. Se la fonte dell’emozione siamo noi stessi, questa è più semplice da ottenere. Gli stimoli visivi e uditivi, tipici dei giochi, sono spesso ambivalenti (nel senso positivo di imprevedibilità legata alla frui-zione e all’esperienza) e liberano scariche di sostanze biochimi-che legate all’interesse, di oppiacei interni come le endorfine e le beta-endorfine.

Vogliamo fare una prova? Ecco un piccolo aneddoto. Qualche tempo fa, parlando con un amico, mi dice di vedermi particolar-mente stressato. Mi consiglia di trovare dei modi per inframez-zare le ore di lavoro con puri momenti di svago, senza però ca-dere nell’oblio tipico di chi nel riposarsi si lascia andare. Ci sono dei modi per mantenere il cervello attivo e guizzante, modi che consentono di sentirsi addosso un’ondata di nuova energia, en-tusiasmo, motivazione.

“Hai mai giocato a Monument Valley?”

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Monument Valley è un best seller del genere game puzzle prodotto dallo studio indie Ustwo. Ha vinto moltissimi pre-mi ed è riconosciuto come un capolavoro del genere, al punto da far pensare all’arte video-ludica.

Per saperne di più e scaricarlo, cliccate qui

Ora: Monument Valley è un gioco di abilità che si ispira alle ar-chitetture impossibili di Escher. Lo scopo è guidare un perso-naggio di livello in livello, ma soprattutto è uno scacciapensieri che ha la qualità di trasmettere energia, entusiasmo, soddisfa-zione di sé e senso di appagamento. Un piccolo gioco che rie-sce ad avere la funzione e la forza di un caricabatterie.

Provare per credere!

In questo caso, il gioco ha valore di input, uno strumento di atti-vazione di una serie di stimoli. Si parla spesso di economia del coinvolgimento, e il fatto di sentirci messi alla prova senza la pressione e la responsabilità schiacciante del lavoro (che, anco-ra oggi, ci vincola a una precisa e violenta estetica del fallimen-to), il fatto di sviluppa-re abilità in modo com-petitivo ma rilassato e di riuscire da soli a ri-solvere enigmi, proble-mi e a superare ostaco-li, è la vera incredibile forza di questi prodotti.

Tornando a Jane McGonigal: se portassi-mo tutto questo nella vita reale? Beh, Jane lo ha fatto. Ha inventato nel 2012 Super-

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Un gioco che aiuta a rilassarsi e ha rendere il cervello più creativo.

Una bella immagine di Monument Valley

Presentazione di Superbetter, clicca sul simbolo di Vimeo

Jane McGonigal e i social games

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better, un social game concepito per rendere più forte ed effica-ce la resilienza personale. Ma di che si tratta?

The creators of the game, SuperBetter Labs, applies technology and design to empower individuals and communities to lead “epic lives.” The lab focuses on creating games that are powered by strong social relationships, positive emotion, and a real sense of purpose. 

SuperBetter, is an online social game designed to build personal resilience in the face of a serious challenge — like an illness or in-jury, anxiety or depression. SuperBetter can also be used to make a major health change, like losing weight, quitting smoking, or ea-ting better. Players are challenged to build up their core strengths of physical, mental, emotional, and social well-being. By creating a fully customizable experience backed up by strong scientific princi-ples, SuperBetter allows any player to gain an experience and cha-se “epic wins”.

Non resta, quindi, che giocare. Cliccate sulla manina:

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The Sim World

Alla fine degli anni Ottanta un game designer ebbe una grande intuizione. Mentre imperversavano giochi d’azione e “sparatut-to”, tirò fuori il progetto di simulazione della costruzione e ammi-nistrazione di una città. Al di là delle invenzioni grafiche e tecni-che (come, ad esempio, la prospettiva isometrica), un gioco del genere presentava una serie di grandi novità. Con Sim City:

a) il gioco diventa uno strumento di riflessione, strategia, sele-zione e scelta di azioni da intraprendere;

b) il gioco, pur trattandosi di una simulazione, offre un macro-o-biettivo (sei il sindaco di una città) che necessita della defini-zione di un preciso piano, con sotto-obiettivi, azioni, interven-ti d’urgenza, ecc.;

c) il gioco assume l’autorevolezza di uno strumento educativo (Sim City riprende alcune teorie urbanistiche). Si svela la deli-cata macchina della gestione di una città;

d) il gioco approfondisce gli aspetti fisiologici dell’organismo cit-tà (ad esempio l’importanza di dotarsi di servizi pubblici, di luoghi preposti alla cultura, di aree per le feste cittadine e le manifestazioni di massa)

e) il gioco aiuta a sensibilizzare il giocatore sull’importanza del-l’interazione tra variabili e, dal punto di vista organizzativo, è un concatenarsi di insiemi (il sindaco, per fare un esempio,

deve rispondere a una giunta e alla po-polazione).

Sim City non è solo l’inizio di una fase nei giochi. È un ripe-scare nel ruolo più vero e necessario della strategia ludi-ca. Simulazioni e giochi di ruolo sono da sempre stati usa-ti per affrontare temi molto delicati ad al-to livello di coinvolgi-mento. Sim City, in

particolare, sembra riprendere il modello del Planning For Real.

Da wiki:

Il Planning for Real, o PfR, in urbanistica indica una tecni-ca utilizzata per condurre un processo di progettazione ur-bana partecipata, ormai ampiamente utilizzata nel Nord Europa dagli esponenti del New Urbanism. Il nome le ven-ne assegnato dagli ideatori – un gruppo di ricercatori del-l'Università di Nottingham guidati da Tony Gibson – negli anni settanta. Si tratta di un procedimento complesso che

Gaming reality, 2012

Will Wright spiega la gamification

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coinvolge le differenti professionalità (architetti, ingegneri, urbanisti, sociologi, avvocati ecc.), che svolgono il ruolo di facilitatori e coordinatori, e gli abitanti del luogo dove si vuole intervenire, che svolgono il ruolo di giocatori. Di me-dio-lunga durata, il processo che porta alle decisioni pro-gettuali finali si articola in diverse "fasi", qui sotto riportate:

" •" Costruzione del plastico: i giocatori costruiscono un plastico (in scala 1:250 solitamente) della zona interes-sata alle ipotetiche trasformazioni.

" •" La comunicazione: il plastico viene messo in mo-stra, per un breve periodo, in luoghi molto frequentati dal-la comunità.

" •" Ipotesi di intervento: il plastico sarà ricoperto di figurine (che indicano dove intervenire), contenenti sugge-rimenti (sul come intervenire).

" •" Negoziazione e scelta delle priorità: le figurine vengono raccolte e suddivise, democraticamente tramite discussione, in tre gruppi a seconda dell'urgenza con cui si ritiene debbano essere svolti (lavori necessari e/o ur-genti, non impellenti, o da realizzare in futuro).

" •" Analisi e presa di coscienza dei progettisti con potere decisionale finale (dopo il consulto popolare, i tecni-ci di settore verificano l’effettiva fattibilità e danno inizio ai lavori).

È riconosciuta ed accettata fra i metodi dell'American Planning Association, e si sta diffondendo a livello teorico, pure in Italia, grazie anche al lavoro dell'Università degli Studi Roma Tre. Soli-tamente viene realizzata per gli interventi di microurbanistica, ma non mancano le applicazioni in contesti più grandi.

In alcuni casi gli utenti/giocatori hanno a disposizione carte opzione con l’indicazione di un budget indicativo.

Una sessione di Planning for Real

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Exploding Kittens non è solo un gioco. È un fenomeno.

Andando sul sito si legge: creato da Elan Lee (Xbox, ARG), Matthew Inman (la farina d'avena), e Shane Piccolo (Xbox, Marvel), Exploding Kittens è il gioco più sostenuto nella storia di Kickstarter ed è la campagna che ha avuto il maggior numero di sostenitori.

di Venanzio Antunes

DSign DGamePerché Kickstarter a volte funziona

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Kickstarter

Ekloding KItten è un gioco di carte (con una spiccata parentela con i giochi di ruolo), creato da Elan Lee (Xbox, ARGs), Matt-hew Inman (The Oatmeal), and Shane Small (Xbox, Marvel), ed è noto per la sua straordinaria campagna su Kickstarter che ha coinvolto circa 219.382 persone/donatori (bakers) per un totale di 8.782.571 dollari raccolti. Ma come è possibile e a cosa si de-ve questo straordinario successo? Cominciamo con:

che roba è Exploding Kittens?

It is a highly-strategic, kitty-powered version of Russian Roulette. Players draw cards until someone draws an exploding kitten, at which point they explode, they are dead, and they are out of the game -- unless that player has a defuse card, which can defuse the kitten using things like laser pointers, belly rubs, and catnip sandwiches. All of the other cards in the deck are used to move, mitigate, or avoid the exploding kittens. You can also attack other players.

Il gioco, insomma, è proprio bello, ma davvero basta una bella idea per tirare su 8 milioni di dollari? Forse stiamo ragionando troppo all’italiana, con il solito scetticismo pieno di disincanto, ma vediamo di analizzare la cosa in modo realistico. Ecco una serie di elementi da considerare:

A) i fondatori sono personaggi conosciuti nel loro settore e pro-fessionisti che lavorano per notissime società di produzione. Questa informazione è, senza dubbio, rassicurante per chi

decide di sostenere il progetto con una donazione;

B) il gioco è divertente, con un’ottima direzione artistica, e intelli-gente come costruzione del gameplay. La velocità dello sche-ma di gioco, l’abilità richiesta per definire la migliore strate-gia, ne fa un gioco competitivo che ha quasi le caratteristi-che di un gioco d’azzardo;

C) l’intelligente pianificazione di una campagna caratterizzata dalla costante sorpresa nel vedere realizzato un gioco cura-to, graficamente impeccabile.

D) la natura stessa del Kickstarter americano che, rispetto ai suoi colleghi europei, punta sul finanziamento di prototipi e prodotti tecnici (spesso anche software) secondo il concetto

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di design dell’innova-zione, più ancora che di supporto alle idee creative (ad esempio, le idee autoria-li che da noi vanno fortis-sime).

Io Ekploding Kittens l’ho finanziato ed è un gioco dav- ve-ro notevole. Con un versamento di 50 euro mi sono ampiamen-te meritato due kit bellissimi che, a ben vedere, conservo con gelosia e circospezione.

La campagna Kickstarter è stata affiancata dall’apertura di pagi-ne Facebook, Instagram e Twitter.

Un gioco che, nella sua strategia di comunicazione al pubblico, si è lasciato vivere nella scommessa e nella sfida di un grande progetto realizzato step by step e che, grazie al forte commu-nity engagement, ha saputo diventare un riferimento per molti, siano essi utenti o operatori professionisti.

Capire un gioco in pochi secondi

Video di Ekploding Kittens

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Come si imposta una strategia di contenuto e quali sono le criticità? In un’analisi lucida del mondo web, tra sociologia e comportamento, prende piede una visione possibile del futuro di una professione, quella del content provider, ad oggi sottovalutata e costretta nei limiti dei lavori tradizionali.Ma allora: dove va la content curation?

di Davide Pellegrini

Speciale content curationSociologia e prospettive dello storytelling di contenuto

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Il corretto uso dello storytelling

Può capitare, di questi tempi, che il messaggio prevarichi il con-tenuto. Come spesso abbiamo detto, siamo già oltre McLuhan ed è meglio prenderne atto. Citiamo ad esempio lo storytelling, termine ormai inflazionato ed erroneamente connesso alla co-siddetta fiction economy. Uno scenario professionale, sociale e relazionale che, nel confrontarsi giornalmente con messaggi, articoli, video, link e quant’altro, si rifà instancabilmente ai lin-guaggi di un certo tipo di prodotto finzionale: i film, i videogame, la narrazione nelle sue tante forme. La storificazione (si badi be-ne, e non storicizzazio-ne) di ogni accadimen-to preso dalla realtà e ridotto a racconto dige-ribile e digerito dai vari media in circolazione, però, non è detto che funzioni sempre. 

Il processo di creazio-ne di storie porta con sé una serie di equivoci spesso difficili da individuare.

Ultimamente, proprio su Facebook, una delle mie connessioni ha postato un articolo in cui veniva glorificato un sito che invo-gliava gli abitanti di un’intera strada alla collaborazione. L’ottica

era quella di socializzare le relazioni tra vicini e coinvolgerle fisi-camente in un progetto di attivismo di quartiere. L’effetto finale, invece, è stato quello di aver creato l’ennesima storia a campio-ne drasticamente commentata da alcuni (tra i quai, non mi na-scondo, io) con sonori: è roba già vista e sperimentata; basta andare sul web e di progetti del genere se ne trovano a milioni.

Quindi possiamo dire che un progetto presente sul web con l’unico intento di fare comunicazione, viene di fatto fruito e valu-tato nel suo contenuto esclusivamente in quella dimensione e fatto morire sulla base dell’originalità e dell'efficacia dell’informa-zione. Lo storytelling non esprime più alcun legame con la real-tà fisica e concreta delle situazioni, ma rischia di diventare un modo espressivo a sé, la sublimazione dei fatti della vita in un formato puramente virtuale che predilige l’orizzontalità alla verti-calità, l’immediatezza all’approfondimento.

In questo senso, anche se posso fare ammenda della mia su-perficialità (non dovrei io per primo giudicare un’idea basando-mi solo sulla lettura di un articolo), vorrei mettere in evidenza alcuni punti deboli della produzione di contenuti sul web.

A) si procede per tormentoni linguistici che, se da un lato entra-no facilmente nel gergo comune, dall’altro rivelano una certa in-consistenza contenutistica. Non vengono mai approfonditi i con-tenuti nel senso di apertura alle tante e possibili interpretazioni. Il fenomeno resta ancorato alla sua denotazione linguistica che, in teoria, dovrebbe sottendere una serie di significati che, però, sfuggono ai più;

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B) l’inflazione delle mode (resa più facile ed efficace dalla gran-de capacità di viralità del web), come nel caso del recente “star-tuppismo”, tende a banalizzare dei fenomeni complessi e a ri-durli a formuletta, con l’unico risultato di rendere arido un qual-cosa che, nei suoi passi successivi, potrebbe invece essere in-teressante (basterebbe dire a chi è innamorato del fenomeno start up che dopo la fase di start c’è quella di sviluppo). Anche qui, il risultato reale è che ci sono più contenitori e slogan che reali fenomeni sostenibili. Molti festival e manifesti. Poca “cic-cia”;

C) l’incredibile rapidità di produzione del contenuto e la vorace immediatezza di consumo tendono per propria natura all’oriz-zontalità e, quindi, prediligono tecniche orientate all’iperbole, al sensazionalismo. In questo modo, può capitare che abbia suc-cesso un contenuto povero, ma trattato tecnicamente (dal pun-to di vista della comunicazione) in modo più aggressivo, origina-le e trasversale di altri che, invece, puntano semplicemente sul-l'autorevolezza delle proprie argomentazioni;

D) la facilità di produzione del contenuto sul web, con l’avvento di applicazioni e piattaforme che aggregano, spesso seleziona-no, rielaborano e pubblicano il contenuto preso in rete, ha tra-sformato il web in un enorme ipermercato la cui memoria non muore mai e si nutre di una continua ipercitazione e riproposi-zione di contenuti già prodotti e circolanti (su Facebook condivi-di, su Twitter fai il retweet, in altri siti fai lo share). In questo modo, prevale il modello finzionale che non prevede un prima e un dopo alla sua narrazione. I publishers, ad esempio, possono

mettere le mani in un grande calderone di articoli, individuare la strategia portante di una linea editoriale e affiliare un pubblico solo sulla base delle proprie abilità e originalità curatoriali.

Ma allora, se lo scenario è questo, qual è la soluzione?

Iniziamo col dire che una soluzione non esiste dal momento che non ci troviamo di fronte a un problema, ma a una rivoluzio-ne epocale che ha al suo centro l’esplosione dell’informazione e di nuovi modi di produrre e condividere il contenuto. Se pen-siamo che, grazie a questa rivoluzione, oggi abbiamo fenomeni di crowdsourcing, di citizen journalism, citizen science, open go-vernment e peer to peer. Se pensiamo che, grazie a questa mu-tazione, oggi abbiamo fenomeni come wikipedia, ci appare subi-to chiaro che siamo davanti a un mondo di possibilità. Solo, sa-rebbe opportuno non innamorarsi delle tendenze e far sì che la tendenza resti nel chiacchiericcio per far largo al fenomeno ve-

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ro e proprio, con le sue complessità, le sue possibili interpreta-zioni, le sue criticità e opportunità. Dopo la parola, che entri il contenuto. Quello vero, però.

Alcune ipotesi possibiliSì, ma allora? Questa analisi sembra non avere un epilogo!

Alla fine di questa prima parte di testo ho fatto una puntualizza-zione. Non esiste una soluzione perché non ci troviamo di fron-te a un problema, ma a un cambiamento epocale. Certo, sono stati tirati in ballo esempi autorevoli come wikipedia, ma che ne è del singolo content provider e content manager? Davvero è tutto a vantaggio dell’abilità e capacità di intuizione di un curato-re? Tutto sulle spalle del povero blogger?

Sarebbe opportuno fare una distinzione. L’approccio alla siste-matizzazione delle informazioni ha un diverso valore a seconda del proprio atteggiamento rispetto alla fruizione dei contenuti in rete. Non è affatto detto, ad esempio, che un individuo partico-larmente talentuoso nel selezionare articoli sparsi in rete secon-do criteri di qualità e autorevolezza – magari con la capacità di gestire un numero molto vasto di categorie – agisca animato dalla costruzione di un fil rouge o di chissà quale poetica edito-riale. La capacità di razionalizzazione dei contenuti in rete viene dallo studio, dalla tecnica e dalla propensione a frequentare un certo habitat professionale. Potremmo citare alcuni ottimi curato-

ri, magari impegnati in blog o siti dal contenuto apparentemente frivolo che, nei loro tanti anni di attività, sono riusciti a costruire

audience, flusso, ma magari non hanno dato vita ad alcu-na identità editoriale, ecce-zion fatta per la mission: fac-cio gossip e vendo chiacchie-re.

Senza esprimere giudizi di va-lore, se prendessimo a prete-sto un prodotto cartaceo del genere, vedi il periodico Og-gi, ci troveremmo di fronte al-la difficoltà reale di storicizza-re la produzione di contenuti perché il gossip (soprattutto

nella sua forma più colorata e leggera) esiste solo nel presente e non ha alcuna capacità di dimostrare una costruzione storica di avanzamento e crescita delle idee o della cultura, così come per sua natura non è molto interessato al futuro. Se prendessi-mo, invece, una rivista come Wired (una fra tante) con una li-nea editoriale più definita e presente nel dibattito della cultura contemporanea, andando indietro potremmo ricostruire la storia dell’innovazione, da Linus Torvald più o meno a Travis Kala-nick. Con questo non sto dicendo che un singolo curatore pos-sa avere più possibilità mettendosi ad approfondire gli stati di avanzamento della cultura contemporanea.

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Sono solo due modi diversi di investigare il contemporaneo. In effetti, anche in questo secondo caso (quanti sono i blog di gen-te che parla di innovazione, tecnologia, cultura, ecc?) non è af-fatto scontato mettersi a seguire fenomeni già ampiamente trat-tati. Solo sul caso Uber ho trovato milioni di articoli, alcuni era-no semplicemente citazioni, altri erano contenuti curati con po-che aggiunte, altri ancora erano commenti.

Come si fa a stabilire quale canale, quale sito seguire? E, dalla parte di chi scrive e produce un blog: come si fa a raggiungere la massa critica?

Per alcuni si tratta di scegliere una nicchia, iperspecializzarsi e fare a gomitate per conquistare una posizione di leadership. Co-me dire, se mi occupo di ferramenta, può essere un mio specifi-co interesse avere il più seguito, più autorevole e più smart blog sui bulloni in Italia. Perfetto! Ma, va detto che, in questo caso, la posizione professionale viene prima e determina la scelta di uti-lizzare uno strumento di content marketing nella misura di incre-mentare il commercio dei propri prodotti. Mi risulta che siano in-vece moltissimi là fuori i blogger o i content curator che pensa-no di monetizzare il contenuto senza avere alle spalle alcun pro-dotto o servizio da offrire (in questo, la promozione sfrenata del-l’affiliate marketing ha fatto la sua parte). Dovremmo avere, in questo senso, una specie di sapientino virtuale che, pur non commerciando su nulla, sa talmente tante cose da attrarre un numero pazzesco di utenti e guadagnare sulle revenues dei pro-grammi di affiliazione e dalle pubblicità. Ma questa cosa era possibile negli anni ’50, quando esplodeva la mania del quizzo-

ne e il vecchio Mike Bongiorno stupiva gli spettatori facendo di-ventare dei semidei dei secchioni. Non c’era altro.

Oggi, con l’intelligenza collettiva e con il sapere collaborativo, vista anche la velocità dei messaggi prodotti, non è umanamen-te possibile. L’abbattimento, non solo teorico, dei confini e dei limiti di interazione tra le persone, rendono impossibile specializ-zarsi nel sapere specialistico tanto quanto rendono difficilissimo accumulare un sapere generico e generalista. Ok, ma allora?

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La prima ipotesi:

Una premessa

La capacità selettiva che siamo chiamati a maturare riguardo le informazioni che ci circondano dovrebbe obbedire al proposito di non farci gestire dai messaggi, semmai organizzarli e usarli per dare spessore ai nostri propositi, alle nostre reali competenze e ai nostri obiettivi. Forse la direzione non è nel semplice sapere qual-cosa in modo specialistico, ma è nella capacità di combinare quel che si sa con le altre informazioni in una modalità che permetta ad altri di avere un'interpretazione intelligente e utile dei fenomeni che ci circondano.

E) Tu sei la storia che ti interessa - Pessoa diceva: «mi sono talmente esteriorizzato dentro di me, che dentro non esisto se non esteriormente». Cosa voleva dire esattamente? For-se, uno dei punti di debolezza della content curation e della produzione di contenuto, è cercare storie che non ci appar-tengono. L’obiettivo imprescindibile per chi lavora nella co-struzione di un contenuto è l’identità. Bisognerebbe avere la percezione di quanto possa essere interessante in prima istanza la propria storia.

F) Una storia non è solo un racconto - Avete mai provato a sfogliare un album di ricordi? Sembra strano ma, nonostante lo sforzo nel cercare di riconoscere fasi temporali, visi e luo-ghi e quello che, più arditamente, potremmo definire la tem-perie delle diverse fasi della nostra vita, non riusciamo a capi-talizzare quei dati fino a saperli davvero gestire. Forse per-

ché viviamo in un eterno presente, con la mancanza di tem-po per riorganizzare chi siamo stati e come stiamo cambian-do, forse perché non riusciamo a percepire il futuro se non nella misura di un continuo rimandare e procrastinare alcune scelte e decisioni, quel grande capitale di idee, stati d’animo, progetti, opinioni e intuizioni non viene mai valorizzato fino in fondo. Ecco, in quel capitale c’è la nostra capacità di dare un’esclusiva e personale visione del mondo. Un grande e pic-colo granello nel calderone dell’umanità.

G) Ogni vita racconta un percorso di scelte e rinunce - So-no così, le vite. La serenità si raggiunge quando, facendo la stima del punto di arrivo rispetto a un punto di partenza, tra decisioni e rinunce, si è di fatto attivata una personale sele-zione di ciò che è interessante e ciò che non lo è. In quella selezione c’è tutto: le cose che appartengono più alla sfera psicologica ed emotiva (valori, convinzioni, ecc), le passioni culturali, i pattern comportamentali e il modo di trattare le re-lazioni e i rapporti con il prossimo. La nostra storia è un pun-to di vista tra tanti altri punti di vista.

Piccolo aneddoto. Quando avevo più o meno 14 anni ascoltavo in vinile gli Electric Light Orchestra. Li adoravo, percepivo la loro grande qualità di innovatori. Una volta, di fronte a dei giovani stu-denti, quando li citai, vidi nei loro sguardi il vuoto. Non ne avevano mai sentito parlare e non avvertivano alcuna necessità di andare a vedere chi fossero mai questi musicisti. Va bene, lo capisco, pen-sai. I gusti sono cambiati, oggi si ascolta altro. Ma, poi, qualche tempo fa ho letto la notizia che recentemente Jeff Lynne, il leader

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e vocalist, veniva insignito del riconoscimento della stella nella Hall of Fame. Mi sono detto. Ragazzi, è Storia. ma allora, se si stu-

dia la letteratura e la filosofia, perché non si studiano anche que-ste cose. Forse perché nell’Accademia non c’è più nessuno in gra-do di aggiungere contenuti storicizzabili e importantissimi per la lettura del contesto contemporaneo? Manca chi decide quando sia ora di svecchiare le informazioni o, magari, integrane di nuove.

H) Una storia personale non è detto che parli di noi - Mi so-no detto: vorrei che mio figlio apprezzasse la storia della mu-sica pop contemporanea (mi piace quella e quella conosco, per la classica non sono purtroppo la persona giusta). Mi so-no anche chiesto il perché. Perché la Storia ti apre la mente e contiene importanti storie personali (io da piccolo che ascoltavo gli ELO sul divano con le cuffiette e il vinile che frig-geva strani fruscii) che possono determinare in altri la com-prensione di un aspetto del mondo. In questo caso, la narra-

zione viene affidata alla selezione che fin da piccolo ognuno di noi ha compiuto su ciò che lo circondava allora. La nostra storia di punti di vista, di musiche che ci sono piaciute, dei migliori libri mai letti, dei film che ci hanno fatto commuovere.

I) Un buon blog è un blog che offre un’idea del mondo - Se prendessimo tutti questi dati e li organizzassimo in articoli e in rubriche, se ci costruissimo attorno una site-map, verreb-bero senza dubbio fuori giornali interessanti con una motiva-zione personale che, come quel segreto fil rouge di cui so-pra, ci ha spinto a selezionare le nostre idee e a fornire un’in-

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terpretazione della contemporaneità. Nel mio caso, la curiosi-tà nei confronti del nuovo, dello straordinario, ha condiziona-to i miei gusti più o meno su tutto.

A case history.

Maria Popova

MARIA POPOVA è forse il content cu-rator più famoso al mondo. Ideatrice, tra le altre cose, di un codice etico del-

la citazione delle fon-ti, il suo blog Brain Pickings al 2012 contava circa 1 milione e 200mila visitatori al mese (mentre scrivo, vedo che la pagina FB super i 3 milioni di utenti). Brain Pickings, molto seguito an-che da Vip, contiene spunti che vengono dalla storia, dall’arte, dalla cultura, dai libri, dalle curiosità, tutti articoli trattati secondo il gusto, la sensibilità e il personalissimo punto di vista della Po-pova.

Brain Pickings is my one-woman labor of love — a subjec-tive lens on what matters in the world and why. Mostly, it’s a record of my own becoming as a person — intellectual-

ly, creatively, spiritually — and an inquiry into how to live and what it means to lead a good life.

Ecco qui sotto uno schema di come impostare un lavoro di con-tent curation:

Come si può notare, per la blogger l’idea centrale è nel restitui-re al proprio pubblico una radiografia del mondo filtrata dalla len-te della propria sensibilità e del percorso di crescita che ha ca-ratterizzato la sua vita. Colpisce in particolare una frase:

curation as a form of autorship

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No. Non siamo stanchi del circo mediatico delle esibizioni.L’ultima pubblicità della Vodafone fa dire a una procace bonazza che aiuta Bruce Willis con la connessione dell’ipad: Bruce, ma quanto X-Factor c’hai? Il che la dice tutta.

Ma il talent show è nulla paragonato alla sociologia delle culture. E i media offrono un’infinità di spunti.

di Venanzio Antunes

Lost in YouTube

Andando a cercare dati e informazioni su Kawehi si scopre che è una cantante professionista.

E anche molto brava. Morale: usa Youtube e Facebook come un trampolino.

I am Kawehi e la sua cover di Michael Jackson ha ricevuto oltre 9 mln di views

Antropologia dei media. Il popolo e la cultura

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Facebook, YouTube, la sociologia

Il caso di Kawehi parla chiaro. Per molti YouTube è un trampoli-no di lancio o, più ancora, un palcoscenico che serve a rafforza-re e dare voce alle proprie attività. Soprattutto nel caso di un in-terprete, dove il talento si esprime come tecnica, la arcinota piat-taforma offre l’opportunità di mettersi in mostra. La bravura ostentata è di tipo performativo e si lega all’imitazione o al con-cetto di provino (come molti talent). Ovvero, il contenuto artisti-co è in realtà già codificato e ha conquistato una sua notorietà; quello che cambia è l’interpretazione. Se digito Michael Jack-son su YouTube, tra le tante pagine prima o poi mi capiterà di buttare un occhio alla cover di Kawehi.

Quando si parla di autorialità, invece, il discorso è molto più complesso. Solitamente YouTube predilige un certo tipo di lin-guaggio. Il demenziale, la comicità a volte volgare, la mitologia adolescenziale di certi youtuber. Ma c’è qualcosa che, nono-stante tutto, rende YouTube una vera e propria finestra sul mon-do, tanto importante nello studio della sociologia di massa quan-to colorata nella fusione di generi, valori, contenuti.

Un ragionamento un po‘ kitsch

Ogni strumento, svuotato del suo potenziale innovativo, diventa un sistema orizzontale che tende a concentrarsi nel suo uso più banale e funzionalmente elementare.

YouTube è il teatro degli uomini. E, come tale, mette ogni gior-no in mostra delle rappresentazioni che racchiudono diversi li-velli di lettura e significato:

A) l’uso più conosciuto di YouTube è di tipo auto-promozionale. Come sorta di apposizione di Facebook, aggiunge al profilo una serie di prestazioni rivolte a coinvolgere e dialogare con un “pubblico”.

La case history: accanto al social counter del profilo Facebook di Angelo Garcia compare il numero 798.170. Lo slo-gan su FB recita I’m a LIVING LE-GEND, I'm Uni-que , I'm Origi-nal, I'm a ROCK STAR BITCH! Quando, poi, si va a leggere la descri-zione della vita ci si trova di fronte a un’auto-celebrazio-ne in pompa ma-

gna: nato a New York e di origini messicane, fin da piccolo nel mondo delle performance e della musica, membro nei primi ’90 di boy band come i Menudo (tra i quali c’era anche Ricky Mar-

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tin), ha avuto vari contratti (soprattutto come interprete di musi-che di altri autori) con World Wide Entertainment prima, con Warner Bros Entertainment poi. Diventato una celebrità in Messico con una serie album, appassionato di fitness, ormai stanco di etichette non in grado di capire la sua grandezza (che lui stesso paragona a Rhianna e Lady Gaga), ormai lanciato al massimo della celebrità decide di fondare una sua etichetta, la Icon music, di cui è attualmente presidente e che produce so-prattutto i suoi lavori;

B) dietro alcune performance di pseudo artisti dall’ego dilagan-te, si nascondo importanti riferi-menti culturali. Dal profilo si evince che il tipo in questio-ne è conosciu-to soprattutto presso un pub-blico di origini ispaniche. Ora: quando viene presa una trac-cia famosa di cui si fa una co-ver, si sceglie

qualcosa di molto noto al proprio traget, e che incarni i valori che si vogliono trasmettere n modo molto preciso. In questo caso, Garcia sceglie Ariel Camacho;

C) sono moltissime le cover eseguite su musiche di Ariel Cama-cho. La scelta di un determinato artista (Camacho in Messi-co è stranoto), con svariati milioni di visualizzazioni sul web, ci dà l’opportunità di realizzare una sorta di radiografia di uno specifico ambiente culturale. Leggiamo Wikipedia:

José Ariel Camacho Barraza (August 7, 1992 – February 25, 2015)[1] was a Mexican singer-songwriter who performed in the Regional Mexican genre. He was the leader of the band Los Plebes del Rancho and was signed on to DEL Records. On Fe-bruary 25, 2015 Camacho and two other people died in a car accident on the road from Angostura, Sinaloa. Following his death, his group's song "El Karma" reached number one on the Billboard Hot Latin Songs chart;

D) a volte, per avere un’idea chiara di quello che abbiamo di fronte occorre un vero e proprio lavoro di ricerca. Se, cliccan-do su Wikipedia, abbiamo la prima informazione generale (non dico che sia sempre massimamente attendibile), i com-menti di YouTube offrono uno spaccato molto più chiaro del pubblico e dei valori culturali che un contenuto racconta ed esprime. Nel caso di Camacho ci sono dei tratti importantissi-mi da mettere in evidenza;

Sono molte le cover delle canzoni di Ariel Cama-cho, segno di un certo tipo di pubblico

Una delle cover di Angelo Garcia

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Camacho è il perfetto esempio di una condizione culturale. Ri-prende lo stereotipo del cantore latinoamericano (il mariachi), con una impostazione di gruppo che vede solo una seconda chi-tarra e un trombo-ne. Se da un la-to, come primo approccio, sem-bra un artista di folklore, dall’altro leggendo i testi delle sue canzo-ni si scopre un musicista impe-gnato nel racconto dei cartelli della droga, del narcotraffico, de-gli scontri tra bande, che caratterizzano in qualche modo la so-cietà latinoamericana. Soprattutto, alcune canzoni descrivono le azioni criminose del Cartel di Sinaloa (località della tragica morte di Camacho, scomparso prematuramente a 22 anni in un incidente stradale). Eppure c’è altro;

E) La corretta tecnica di ricerca delle informazioni consente di slittare da un canale all’altro. I commenti rimandano ad ap-profondimenti trasversali: siti, forum, social e, pian piano, si compone un mosaico di informazioni non ufficiali alternativo alle notizie pubblicate. Ne vengono fuori quadri più chiari in cui l’identità di un pubblico e il modo di pensare comune di un preciso target si definisce culturalmente per quello che è. Con questa tecnica si riesce a capire che:

1) questo artista era al massimo della notorietà, aveva un forte carattere popolare, ed era diventato molto ricco;

2) incarnava una specie di eroe nazionale che manda messag-gi al popolo per sensibilizzarlo della situazione di violenza tra bande (mutuata dalla cultura americana). Un vero trattato di geografia culturale. Un utente dice:

Porque se tiene que morir en mejor, pinche Komander y larry si-guen respirando y cagando mierda, puta madre, camacho, voy a

seguir tu estilo yo me encargare de mandar el mensaje al pueblo, yo se que tu que-

rias la paz para tu gente no apoya-bas la violencia, yo lo conoci en

persona antes de que se hiciera fa-moso, el siempre me decia que le

gustaba la cultura sinaloense mas le

daba verguenza las acciones de dejar muertos al

publico y que ma-ten una mujer con

sus hijos a lado. ANIMO CAMACHO

Una delle canzoni più significative del canto-re messicano

Ariel Camacho - El Karma