“Starry night” di Federico Leoni

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In copertina: Starry night in Rome

Progetto grafico: Livresse

Realizzazione grafica: Federico Taibi

© 2013 Edizioni Ensemble, Roma

I edizione marzo 2013

ISBN 978-88-97639-66-4

www.edizioniensemble.com

[email protected]

Edizioni Ensemble

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Starry nightFederico Leoni

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Nessuno è l’ultimo in nessun posto,qualcuno attraversa più tardi sempre.

Javier Marías

Why do I tell you these things?You are not even here.

John Ashbery

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PrologoL’odore della pioggia

Anche annusare la pioggia è un’indagine sul vuoto.Affacciato alla finestra annuso un profumo che non esiste, oesiste solo nella mia mente, come forse tutte le cose che hovisto e come gli occhi che ho usato per guardarle. Vorrei avereancora a disposizione abbastanza meraviglia da sentire l’odoredella pioggia con lo stupore della prima volta. Perché è la mera-viglia che ha dato inizio alle cose, la magia che ha colmato l’as-senza. Ecco: certe storie si raccontano a partire da un’assenza.Sono sagome cave dentro custodie vuote, forme abbandonateche dicono “violino”, oppure “fucile”.

Se c’è una cosa che mi piace è l’odore della pioggia, ammes-so che questo odore esista. Cambia con le stagioni, ma rimanelo stesso ogni anno, e ogni settembre – dico per dire – il nasolo riconosce come l’odore del settembre passato. Adesso miaccorgo che questo profumo di pioggia è in realtà un odored’asfalto, e che la pioggia è solo l’incantesimo che questoodore rivela. Se la pioggia cade sulle strade, in città, sa di oliominerale e grasso fuso; se finisce sulla terra nuda profuma dimuffa e di erba tagliata; se ti bagna le spalle restituisce allapelle l’aroma del proprio respiro. Sotto a tutto, però, c’è unanota comune, come la radice di un verbo nella sua coniugazio-

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ne; è questa radice che mi sfugge, come in un’indagine sulvuoto.

È passato un anno dalla mia personale tragedia, o poco più.Dovrei decidermi a prendere di petto il nocciolo della questio-ne, perché ogni storia deve arrivare alla fine.

Chiudo i vetri e vedo il mio riflesso allontanarsi da me, poitorno alla macchina da scrivere, ma allora il citofono suona, esono costretto ad alzarmi di nuovo (non una cosa facile, a ottan-ta e passa anni). Mentre mi muovo lentamente verso la porta migiro (per caso?) e mi accorgo che ogni cosa è al suo posto:l’Olivetti sul tavolo, il foglio nel rullo, la tazza di caffè accantoal posacenere. Ho l’impressione che quel quadretto mi rendagiustizia quanto merito, adesso che non ne faccio più parte.D’altronde certe storie sono indagini sul vuoto. Sono come que-sta storia: si raccontano a partire da un’assenza.

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Come Zippo incontrò Zagana

La vita di Filippo cambiò il giorno del suo diciottesimo com-pleanno, o per lo meno fu allora che il meccanismo si mise inmoto. Come tutti i timidi, Filippo non amava le maschere. Lemaschere promettono di nascondere e invece mettono in evi-denza; sono un continuo richiamo e la promessa di un mistero,che è ciò che più attrae la gente. Sarebbe meglio mettersi unpappagallo tropicale appollaiato sulla testa, piuttosto. Te ne infi-li una, per di più, e la tua faccia rimane impressa al suo interno,e viceversa, così che quella maschera resterà tua anche quandote la sarai tolta.

Ecco perché Filippo non amava le feste, neppure quelle: per-ché alle feste bisogna mettersi in maschera – o almeno così face-vano tutti i suoi compagni di liceo – e fingere che le cose vada-no come devono andare anche se vanno in tutt’altra direzione.Era stato il primo a stupirsi, quindi, quando aveva finito perdire di sì alla madre, che voleva a tutti i costi celebrare il suodiciottesimo compleanno. Così adesso se ne stava a casa sua,seduto in disparte a fissare gli altri che, bene o male, si diverti-vano. Non era il tipo che sapeva dire di no ai genitori, ma avevapreteso una cosa in tono minore, almeno questo, dunque nien-te affitti di locali o ville hollywoodiane, ma solo il salone di casa,

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aperto sulla terrazza, una trentina di amici e compagni di scuo-la, tartine di Antonini, Coca Cola e una millefoglie di cremachantilly. Di bottiglie di champagne ce n’erano un paio, giustoper brindare, ma Filippo, che era astemio, aveva lasciato che sene occupasse il padre.

Era appollaiato accanto al tavolo del rinfresco, dove tartine etranci di pizza, a tre ore circa dall’inizio della festa, sopravvive-vano a stento sui vassoi di cartone dorato. Accanto a lui, dall’al-tra parte del tavolo, c’era Paolo Fracco, il figlio della portiera delpalazzo dove suo padre aveva uno studio notarile. Paolo avevaquasi diciannove anni, era alto un metro e novanta ed era timi-dissimo, soprattutto quando entrava in quella casa, per cui ades-so sedeva silenzioso con il piatto di carta appoggiato sulle cosceenormi, fissandosi la punta delle scarpe.

– Ti piacciono i Coldplay? – gli chiese Filippo, sentendosi indovere di fare conversazione.

– A te? – rispose Paolo.– Sì, ho tutti i loro CD.– Anche a me piacciono – concluse Paolo, e tornò con gli

occhi sulle scarpe e l’aria tesa dell’esaminando che attendenuove domande.

Filippo si alzò di scatto. La sua timidezza incarognita nons’armonizzava granché con quella bonaria di Paolo: Filippo nonsperava in una cura, per così dire.

Seduta su uno dei divani, Valentina Parchi illustrava le sueprossime vacanze a Formentera a una platea entusiasta di neo-maggiorenni o quasi. Aveva le labbra lucide e rideva volentieri,rovesciando la testa all’indietro per potersi poi sistemare con ungesto rapido della mano i lunghi capelli castani. Sporgendosi aldi sopra di Valentina, che non lo notò, Filippo si chinò sul tavo-lino davanti al divano per prendere uno dei libri che gli aveva-

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no regalato, e ora sentiva il profumo forte dei capelli di lei sbat-tergli contro la faccia e, roteando gli occhi in maniera un po’innaturale, poteva risalire con lo sguardo dagli stivali alla coscianuda, e più su, fino alla linea incerta della gonna scura, unbastione variabile che arretrava a ogni risata. Solo che sul ginoc-chio destro di lei, proprio sopra allo spigolo netto della rotula,la pelle raggrinziva in un punto, come formando tante piccoleonde: era una cicatrice di bambina, forse rimediata in biciclettao correndo in un giardino di ghiaia. Non sembrava molto anti-ca, però, al massimo l’anno precedente, e aveva la forma di unagoccia, come se volesse scivolare sullo stinco fino a nascondersisotto il cuoio degli stivali.

Filippo afferrò il libro e se lo portò in terrazza. Sollevando losguardo verso il cielo capì perché la madre aveva passato tutto ilpomeriggio borbottando “Speriamo che il tempo sia clemente”,mentre passava da un canale televisivo all’altro continuando ascuotere la testa davanti alle previsioni meteo. Sulla festa siaddensavano nubi metalliche, come scarti di fabbrica appena sof-fiati via da una ciminiera. Niente gocce, per il momento, manella gomma che aveva in bocca Filippo sentiva già il sapore dellapioggia, come se stesse masticando una foglia di basilico bagnata.

Poco male. Tornò con gli occhi sul libro, uno dei tre che ilnonno gli aveva regalato insieme a un suo vecchio orologioAudemars Piguet, comprato alla fine degli anni Cinquanta coni primi guadagni di sceneggiatore. Il libro parlava della storia delcinema italiano nel Dopoguerra, e il fatto che nell’indice deinomi comparisse anche il suo aveva spinto il nonno a presentar-glielo per ultimo, dopo Conrad e Dickens, come in tono mino-re e di rispetto per quei giganti. Per anni il nipote l’aveva tem-pestato di domande sugli inizi della sua carriera, sulla Romadegli anni Cinquanta e sul mondo di via Veneto e Cinecittà, e

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quel libro era un modo per rispondere senza dover ricorrere allapropria memoria appannata.

Dopo aver liberato il volume dalla carta, Filippo era corso aleggere le pagine che riguardavano La dolce vita di Fellini, tro-vando splendide foto di Mastroianni e Anouk Aimée scattate atelecamere spente.

“Allora, hai passato il limes dei diciotto anni. Come tisenti?”, gli aveva chiesto il nonno quel pomeriggio, allungando-gli i regali.

“Come se avessi infilato la testa in un secchio di latte”, avevarisposto Filippo. Sembrava un’immagine comica, ma non lo erae il nonno l’aveva capito. Infatti non aveva riso.

“Rende l’idea”, aveva risposto. “Futuro nebuloso; credo sisentano così un po’ tutti. Devo essermici sentito anch’io”.

“Ai tempi tuoi c’erano un sacco di cose da fare. Da costrui-re. Me l’hai detto tu, no?”.

“E adesso non ci sono?”.Filippo aveva risposto con un’alzata di spalle.Mentre sul terrazzo di casa dei suoi ripercorreva mentalmen-

te quel dialogo, lo sguardo gli cadde d’istinto sull’orologioAudemars Piguet che aveva indossato per l’occasione; sembravafermo, ma poi lo accostò all’orecchio e si accorse che ticchettava.

– Funziona?La domanda lo colse di sorpresa. Non si era accorto che

qualcuno l’aveva raggiunto. Profumo Abercrombie: si trattavadi Sergio.

– Pare di sì – disse.– Una bella padella. Te l’hanno regalata? Dev’essere vecchia

sul serio.– È un regalo di mio nonno – rispose Filippo. Per quanto ne

sapeva Sergio era un impiccione, quindi conveniva rispondere a

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monosillabi e toglierselo dalle scatole il prima possibile. Ora chelo vedeva, con i suoi capelli biondi appiccicati sulla fronte el’orecchino al naso, non era nemmeno sicuro di averlo invitato.Magari s’era imbucato, possibilissimo. A scuola lo chiamavanoZagana, chissà perché. Era arrivato da neppure un mese, dopoun tour nei principali istituti privati di Roma concluso con unnumero record di espulsioni. L’ultima volta aveva steso a capoc-ciate il professore di educazione fisica, durante una partita dibasket. “Lo stronzo mi fa fallo”, aveva raccontato una volta,durante la ricreazione. “Allora io bum, gli tiro una testata inpetto e quello va giù. Il cuore gli si è fermato per un fottio diminuti, così hanno detto i medici. Poco c’è mancato che glifacessi stirare le zampe. Io, dico la verità, lì per lì mi sono caga-to sotto. Se fosse morto, invece di stare qui a vantarmi sarei fini-to nella doccia di Regina Coeli a raccogliere saponette”. Il gior-no dopo l’espulsione era passato dalla ferramenta, aveva com-prato una siringa di silicone e aveva impiegato la notte successi-va a sigillare per bene tutte le serrature esterne dell’istituto. “Avoi la merda, a me la gloria”, aveva urlato dal motorino la mat-tina, sfrecciando davanti ai suoi ex compagni e ai bidelli chesudavano di brutto cercando di sbloccare i cancelli.

– Ti ho portato un regalo – disse Sergio allungandogli unpacchetto confezionato alla meglio. Filippo se lo rigirò tra lemani e notò che la carta stropicciata con il marchio dellaFeltrinelli era la stessa che aveva avvolto i libri del nonno e chepoi era finita sul tavolino in salone. Dentro c’era un accendinodi metallo satinato.

– È uno Zippo – disse Sergio con un certo entusiasmo. – Lopuoi usare per accendere le sigarette.

– Già – rispose Filippo, poi aggiunse abbastanza vanamente:– È un accendino.

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– E ci sono le tue iniziali – precisò Sergio con un tono in stile“effetto sorpresa”. Per un attimo sembrò che avrebbe conclusoesclamando: “Voilà!”.

Sull’accendino, effettivamente, c’erano una «F» e una «L»,incise in un pretenzioso stile gotico in basso a destra.

– Grazie. Davvero – scandì Filippo un po’ interdetto. Sergiotirò fuori due sigarette come per mettere un punto alla vicenda,se ne accese una e allungò l’altra a Filippo.

– Io non fumo – si sentì rispondere.– Non fumi? Ma se ti ho visto in giro con l’accendino in tasca.– Sì, è un vizio che ho, non lo so, una specie di tic: lo accen-

do e lo spengo di continuo –. E per dimostrare quanto stavadicendo tirò fuori il piccolo Bic di plastica nera che ora divide-va la tasca con lo Zippo metallico.

– Non sarai mica uno di quelli che se lo portano appressoper accendere le sigarette alle pischelle?

– Ma no, figurati. Mi piace guardare la fiamma.– Ah, sei un cazzo di piromane! – sentenziò Sergio con com-

piaciuto stupore.– Non sono un piromane, sei pazzo?– Un cazzo di piromane – ripeté Sergio come se non avesse

sentito. – Ne ho conosciuto uno quando andavo al Nazareth,era nell’altra sezione; ha cominciato con i fogli protocollo edopo un paio di mesi per poco non seccava un barbone. Seicosì, tu? Vuoi dare fuoco ai barboni?

– Cazzo, non sono un piromane – ripeté Filippo.– Ok, va bene – disse Sergio sporgendo in avanti le mani

aperte come per dire “calmati”.Passarono qualche secondo in silenzio, guardando in direzio-

ni opposte, mentre sopra di loro il vento addensava le nuvolecon un rumore di pagine girate.

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– Sai chi è il vero piromane, qui? – domandò Sergio, facen-do capire se non altro che il messaggio era arrivato.

– Chi?– Quella pischella seduta sul divano. La tipa con gli stivali.

Cristo santo, quella t’accende sul serio, vero Fil? – e qui Sergiogli diede una piccola gomitata complice.

– Non chiamarmi Fil, lo odio quel soprannome – chiarìFilippo, gelido.

– Ok, ti chiamerò Zippo allora. Ti piace Zippo?– Si chiama Valentina – disse Filippo senza rispondere. –

Valentina Parchi.– Ok, Zippo, ora ti faccio vedere come ci si prova con

Valentina Parchi.Sergio s’incamminò verso il salone fregandosi platealmente

le mani, ma all’improvviso si bloccò.– Aspetta un secondo, non sarà mica la tua donna?– Mia? – disse Filippo sorridendo. – No.Poi accese lo Zippo mentre Sergio spariva oltre la porta fine-

stra, guardò la fiamma tremare nel vento e dopo pochi secondi,pietoso, la soffocò.

Oltre il vetro osservò la scena muta di Sergio che s’avvicinavaal divano come a una preda. Non sembrava un cacciatore, però,piuttosto un attore che impersonava una parte. A guardarlo bene,in effetti, Sergio sembrava sempre l’imitazione di qualcun altro.

Alla fine tutto s’era risolto in un incrocio di sguardi traZagana e Valentina, una cosa rapida durante la quale lei neppu-re aveva notato chi la stava guardando e lui invece aveva vistoabbastanza per evitare di farsi avanti. Tutti, a quel punto, ebberol’impressione che la festa fosse finita e presto la festa finì davvero.

In un attimo Filippo si ritrovò solo, piacevolmente malinco-nico mentre fuori, finalmente, cadeva la pioggia. Una pastarella

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sbocconcellata, triste avanzo della serata, lo fissava dal vassoiosul tavolo come una domanda insistente.

– Che fai? – gli chiese la madre, in una breve pausa del suoandirivieni dal tavolo alla cucina. Filippo si era seduto sul diva-no e aveva chiuso gli occhi.

– Mi guardo le palpebre.La madre non rispose.Certe volte uno osserva il buio dentro i propri occhi.

Filippo, per lo meno, lo faceva. Non è proprio come non guar-dare, e nemmeno come fissare l’oscurità completa in una stanzasenza luci né finestre. È più come guardare il nulla e colorarlodi pensieri. C’era spazio per tutto, lì dentro.

Sempre con gli occhi chiusi, Filippo accese mentalmente ilsuo Zippo, avvertendo contemporaneamente il peso dell’og-getto reale nella tasca destra dei pantaloni, come se all’improv-viso l’accendino esercitasse una lieve pressione sulla sua coscia.Lo spense.

Confezione a parte, era un bel regalo. Sergio invece era unapersona scomoda, che si agitava in maniera contagiosa. Nonpensava che l’avrebbe rivisto, per lo meno non al di fuori del-l’orario scolastico. Ma si sbagliava su tutto.

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