Shakespeare e la terapia della famiglia

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA Dottorato di Ricerca in Anglistica Cultura letteraria e problematiche testuali XII Ciclo Shakespeare e la terapia della famiglia Tesi di dottorato in Anglistica Relatore Prof. William N. Dodd ___________________________________ Presidente del Corso di Dottorato Prof. Carla Dente ___________________________________ Presentata da Marco Malaspina ___________________________________ Shakespeare – Terapia della famiglia – Letteratura inglese – Psicologia – Semiotica

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dottorato di Ricerca in Anglistica Cultura letteraria e problematiche testuali

XII Ciclo

Shakespeare e la terapia della famiglia

Tesi di dottorato in Anglistica

Relatore Prof. William N. Dodd ___________________________________

Presidente del Corso di Dottorato Prof. Carla Dente ___________________________________

Presentata da Marco Malaspina

___________________________________

Shakespeare – Terapia della famiglia – Letteratura inglese – Psicologia – Semiotica

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Ringraziamenti

Non ho idea del tipo di reazioni che questa tesi potrà suscitare in chi la leg-ge. So, però, che scriverla è stata un’esperienza assai piacevole. Questo grazie a persone che, nel corso degli anni, hanno contribuito in modo determinante a far nascere e a tenere viva in me la passione per la ricerca. Penso ai docenti e alle colleghe del corso di dottorato, per il modo in cui mi hanno accolto, incoraggia-to e arricchito durante tre anni indimenticabili trascorsi fra Firenze e Pisa. Ma penso anche ai colleghi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, insieme ai quali ho imparato—seppure in un ambito assai distante da quello umanistico—ad af-frontare le frequenti delusioni dell’attività sperimentale e ad assaporare le rare quanto autentiche gratificazioni alle quali la curiosità scientifica conduce.

Vorrei poi esprimere una particolare riconoscenza e affetto nei confronti di tre persone che, ognuna a modo suo, hanno avuto un ruolo assolutamente fon-damentale nella mia formazione: Guido Armellini, Giovanna Franci e Guido Fink. Loro forse non lo sanno, ma la passione che mi hanno trasmesso per la let-teratura, per l’insegnamento e per la critica è una fra le risorse più preziose che mi porto appresso. A proposito di cose preziose: un ringraziamento assoluta-mente particolare va a Giò, la mia terapeuta della famiglia preferita, nonché compagna di tutta una vita. Senza la sua consulenza professionale, la sua ster-minata biblioteca, e il suo incoraggiamento, non sarei mai giunto alla fine. E a Francesco, il quale si è trovato costretto a condividere il suo papà con un grup-po di noiosissimi personaggi che, tra l’altro, non erano nemmeno cartoni anima-ti! Infine, William Dodd: se non fosse stato per la sua eccezionale disponibilità all’ascolto e al dialogo, per l’attenzione che ha costantemente dedicato al mio lavoro, il progetto di questa tesi si sarebbe arenato ancor prima di prendere for-ma. Se nelle pagine che seguiranno ci si imbatterà, di tanto in tanto, nel rigore che lo studio di Shakespeare richiede, ciò è grazie all’esempio che William Dodd ha saputo offrirmi.

Quanto a imprecisioni, ipotesi azzardate e forzature, invece, posso garantire che sono interamente farina del mio sacco. Per le esagerazioni, che non manca-no, un po’ di merito va però anche a Harold Bloom: non sarà certo il più fine fi-

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lologo shakespeareano, ma è lui che sentivo divertirsi e commuoversi insieme a me nelle ore in cui il piacere di leggere Shakespeare prevaleva sull’ansia della scrittura. Ed è grazie al suo sconfinato, umanissimo egocentrismo se ho trovato la spudoratezza per andare avanti anche quando i paragrafi scartati hanno inizia-to a superare quelli recuperabili, e la consapevolezza dei miei limiti era l’unica cosa che vedevo crescere rigogliosa.

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SOMMARIO

INTRODUZIONE - NEL CONDOMINIO DI SHAKESPEARE...................... 3

CAP. 1 - FAMIGLIE NEL TEMPO ................................................................... 13

LA FAMIGLIA INGLESE FRA I SECOLI XVI E XVII E UNA FAMIGLIA DI OGGI.......... 17 UN’INDAGINE DIACRONICA SU LARGA SCA LA: I RAPPORTI FRA SIBLINGS.............. 58 IN CONCLUSIONE? ................................................................................................ 61

CAP. 2 - RELAZIONI FAMILIARI IN SHAKESPEARE .............................. 65

RELAZIONI FAMILIARI IN SHAKESPEARE: UN’INDAGINE STATISTICA .................... 75

CAP. 3 - DALLA CLINICA ALLA CRITICA: STORIA E MODELLI DELLA TERAPIA FAMILIARE.................................................................. 99

TERMOSTATI E DOPPI LEGAMI: L’EPOCA DELLE MACY CONFERENCES................. 100 DALLA TEORIA AL TRATTAMENTO TERAPEUTICO............................................... 105 TERAPIA DELLA FAMIGLIA, LETTERATURA E CRITICA LETTERARIA .................... 121

CAP. 4 - TERAPEUTI SHAKESPEARIANI .................................................. 123

L'AUTOANALISI: CAMBIARE "OVERHEARING ONESELF"...................................... 125 L'ANALISI FREUDIANA CLASSICA: CAMBIARE RICORDANDO IL PASSATO............. 126 IL COMPORTAMENTISMO: CAMBIARE SIMULANDO.............................................. 137 TERAPIE STRATEGICHE BREVI: CAMBIARE CON I PARADOSSI .............................. 143

CAP. 5 - LA DISGREGAZIONE DI UNA COPPIA ...................................... 171

CAP. 6 - SCENE DI TRIANGOLAZIONE ..................................................... 221

CONCLUSIONI - FAMIGLIE IN SHAKESPEARE, FAMIGLIE NEL TEATRO ........................................................................................................ 257

E LA TERAPIA DELLA FAMIGLIA?........................................................................ 265

APP. A - ABBREVIAZIONI DEI TITOLI DELLE OPERE ........................ 269

APP. B - STATISTICHE SUI SINGOLI PERSONAGGI ............................. 271

APP. C - TABELLE E STATISTICHE SULLE RELAZIONI DIADICHE 275

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Introduzione

Nel condominio di Shakespeare

Per le scale

Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una ma-niera un po’ pesante e lenta, nel luogo neutro che appartiene a tutti e a nessuno, dove la gente s’incontra quasi senza vedersi, in cui la vita dell’edificio si ripercuote, lontana e regolare. Di quel-lo che succede dietro le pesanti porte degli appartamenti, spesso se non sempre si avvertono solo quegli echi esplosi, quei brani, quei brandelli, quegli schizzi, quegli abbozzi, quegl’incidenti o accidenti che si svolgono in quelle che chiamiamo le parti co-muni, i piccoli rumori felpati che la passatoia di lana rossa attu-tisce, gli embrioni di vita comunitaria che sempre si fermano sul pianerottolo.

GEORGES PEREC1

Così comincia La vie mode d’emploi, il monumentale romanzo di Georges Perec: per le scale. Un incipit che Shakespeare avrebbe probabilmente gradito. Con il “Sì” d’esordio, Perec introduce il lettore in una conversazione in progress, in media verba: una soluzione, questa, che spesso ricorre nell’opera di Shakespeare.2 Più in generale, molti fra i suoi drammi—da Romeo and Juliet a Othello, da King Lear a The Winter’s Tale—cominciano, appunto, “per le sca-le”, su una sorta di pianerottolo, e cioè come ai margini di quelli che poi si rive-leranno i veri “luoghi”, in senso lato, della rappresentazione. Nel giro di poche battute, però, “le pesanti porte” degli appartamenti shakespeareani si spalanca-no. E, diversamente da quanto avviene nel libro di Perec, non sono solo “echi

1 G. PEREC, La vita istruzioni per l’uso, p. 11. 2 Sugli incipit in media verba, vedi R SPINALBELLI, “Problemi dell’inizio in medias res nel

canone shakespeariano” e K. ELAM, “L’incipit discorsivo”.

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esplosi”, ciò che viene offerto agli spettatori, ma anche e soprattutto le dinami-che che portano all’esplosione.

Quali dinamiche? Nella quasi totalità dei casi, dinamiche familiari. Il con-dominio di Shakespeare, con i suoi appartamenti abitati da re e regine, da picco-li borghesucci di provincia, da antichi bretoni o romani e da giovani coppie di innamorati, è quanto di più eterogeneo si possa immaginare, è vero. Al tempo, stesso, però, la struttura sociale attorno alla quale i suoi drammi ruotano è pres-soché sempre la stessa: la famiglia. In altre parole, oltre ad essere potenti sovra-ni, giovani innamorati o pragmatici borghesi di provincia, i personaggi shake-speariani sono anche padri e figlie, mogli e mariti. Ancora: per quanto straordi-narie possano apparire le situazioni in cui si muovono e le azioni che compiono, non mancano mai di offrire una rappresentazione dei rapporti interpersonali as-sai plausibile.

Quello che proporrò in questa tesi è un modo di guardare ai drammi di Sha-kespeare nel loro complesso. Porre un accento così marcato sulla famiglia, me ne rendo conto, è un’operazione tutt’altro che indiscutibile. Come ipotesi di la-voro, si presta a numerosi obiezioni, da quelle che riguardano la prospettiva sto-rica (il concetto di famiglia, in epoca elisabettiana e Stuart, non era identico a quello che intendiamo oggi) a quelle di natura ontologica (la “struttura sociale famiglia”, nei drammi, è anzitutto un costrutto linguistico e culturale). Tenterò di rispondere a queste e ad altre simili obiezioni nei capitoli che seguiranno.

Vorrei invece qui soffermarmi su un altro motivo di perplessità: scegliere i rapporti familiari come chiave di lettura privilegiata—giusto o sbagliato che sia—è un approccio critico significativo? Il dubbio è più che legittimo: se in quasi tutti drammi di Shakespeare ci sono famiglie, è anche fuori discussione che in tutti ci siano protagonisti antropomorfi, per esempio, o lettere ‘i’. Caratte-ristiche, queste, che per quanto indubbiamente presenti offrono un contributo assai scarso alla significazione. La struttura familiare, con tutta la sua rete di re-lazioni, non fa anch’essa parte di queste inevitabili quanto insignificanti ricor-renze? O, al contrario, presenta un potenziale drammatico—una sorta di valore aggiunto, potremmo dire—che altre strutture sociali non offrirebbero? Detto al-trimenti: la struttura famiglia introduce una differenza?

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Sono, queste, domande alle quali non ha molto senso rispondere semplice-mente con un sì o con un no. Vale però la pena osservare cosa accade quando si tenta di rispondere. Potremmo cominciare con una domanda solo in apparenza simile. Per esempio: il fatto che Othello sia un “moro” introduce una differenza significativa nell’omonimo dramma? E il fatto che Lady Macbeth sia non solo una moglie ma anche una regina? La maggior parte degli interpreti contempora-nei ritiene che certamente sia così. Altri, invece, pensano che il colore della pel-le di Othello sia solo una connotazione in più—magari molto importante, certo molto efficace, ma non tale da far sì che una rappresentazione con un attore bianco porti a una lettura sostanzialmente diversa dell’opera. Io tendo a pensarla come i primi, ma non è questo che ora mi interessa: ciò che voglio sottolineare è che abbiamo a che fare con ipotesi per le quali è possibile immaginare un meto-do di falsificazione—un esperimento di laboratorio: faccio indossare i panni di Othello a un attore bianco e osservo che succede. O addirittura, se voglio tenta-re un esperimento più radicale (“prove filologicamente pericolose in corso”, re-citerebbe l’immaginario cartello appeso alla porta del laboratorio) sostituisco le istanze di “moro” con qualche altra connotazione, adatto qualche battuta di Iago e compagni di conseguenza, e di nuovo osservo quello che accade. Esperimento esteticamente raccapricciante, forse, ma realizzabile con poca difficoltà.

Se, invece, la domanda fosse: il fatto che Othello e Desdemona siano marito e moglie introduce una differenza significativa? Come tenterò di mostrare nel secondo capitolo, alterando questo tipo di proprietà la tragedia di Othello diven-terebbe tutt’altra cosa. In altre parole, la rete delle relazioni familiari, in molti se non in tutti i drammi del canone shakespeareano, non appartiene alla categoria dei pur importantissimi “eccipienti”, ma fa piuttosto parte di quei “principi atti-vi”—per restare nella metafora farmacologica—o, meglio, di quei principi uni-versali che ci permettono, a quattro secoli di distanza dai primi avventori del Globe e alle latitudini e longitudini più lontane dalla Londra di inizio Seicento, di continuare a frequentare e, a volte, di riconoscere qualcosa di noi stessi nelle opere di Shakespeare.

In effetti, le domande latenti e sfuggevoli che mi hanno indotto a cominciare questa tesi penso siano state domande come: in chi può suscitare ancora emo-

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zioni un dramma come Macbeth? E sono affiorate varie risposte: critici, amanti del teatro, persone che si identificano nei personaggi e nelle situazioni rappre-sentate. Quali persone? Re scampati per miracolo ad una congiura? Uomini di potere desiderosi di affermare la nobiltà della propria dinastia? Persecutori di streghe? Dittatori crudeli? Pacifisti? Donne sterili? Vedovi di mogli sonnambu-le e suicide? Figli di genitori ambiziosi? Per riempire secoli di platee in tutti gli angoli del pianeta, nessuna delle tipologie elencate sarebbe mai sufficiente. La tentazione è quella di cavarsela in fretta dicendo che si tratta di una grande ope-ra d'arte. Oppure, ammettere che quella formulata prima è una domanda che ne cela un’altra, una domanda in un certo senso oltraggiosa e sconveniente da e-splicitare, ma che prima o poi penso vada affrontata da chiunque decida di dedi-care una porzione non irrilevante del proprio tempo e della propria vita in com-pagnia di Shakespeare: perché un dramma come Macbeth suscita emozione in me?3 Non è il plot, mi sento di affermare, con quell’assurda storia di streghe e di cespugli che si muovono. Né la poeticità del linguaggio, non da sola, almeno, considerando che nei momenti più elevati parla di dilemmi che, come il decide-re se uccidere o meno il proprio sovrano o un proprio amico, sono per fortuna lontani anni luce dalla mia esperienza. Eppure, il linguaggio c'entra. Quando Lady Macbeth pronuncia il suo “Let's go to sleep”, che me ne accorga o meno, sono già completamente trascinato nel dramma. Non mi è ancora capitato di ri-trovarmi le mani sporche del sangue di un re, ma le mie giornate nere le ho avu-te, le ho, e continuerò ad averle anch'io. “Ora, va a riposarti, che domani comin-cia la scuola.” “Dai, spegni quel computer, non pensarci più e vieni a letto, che sei distrutto.” Magari ciò a cui non devo più pensare è solo che sono in ritardo di tre mesi con le rate per l’automobile e l’unica persona che vorrei togliere di mezzo è l’amministratore del condomino. Ciò nonostante, quel “Let's go to sleep” di Lady Macbeth agisce da catalizzatore, e invece di farmi addormentare sulla poltroncina del teatro, mi ritrovo in un castello scozzese in preda ai rimorsi

3 In questo senso, mi pare che Harold Bloom non abbia tutti i torti quando, in un’intervista,

afferma: “The only critical wisdom I know is that there is no method except yourself. Eve-rything else is an imposture. There is only yourself” (in I. SALUSINSZKY, Criticism in Soci-ety, p. 67).

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e al terrore. Com’è possibile? La ragione non può essere nemmeno nel solo po-tere evocativo delle parole, visto che mia moglie, oltre a non parlarmi in blank verse, non mi ha mai detto “Let's go to sleep” ma, al massimo, “andiamo a dor-mire”. Non la trama, non il linguaggio o le parole da sole, non le situazioni, nemmeno i singoli personaggi. Perché una tragedia come Macbeth, con tutte le sue eccentricità, può sembrare così plausibile, naturale, addirittura familiare? L’ipotesi sulla quale questa tesi si concentra è che ciò derivi, almeno in parte, dalla particolare qualità mimetica con la quale il teatro di Shakespeare rappre-senta le relazioni interpersonali, e in particolare le relazioni familiari.

Ovviamente, non è tutto qui: lungi da me l’intenzione di suggerire che questa ipotesi, nata probabilmente tanto dallo studio delle opere quanto da una mia predilezione tutta personale per i testi ricchi di dialoghi e di vicende familiari, sia la chiave di accesso al “segreto di Shakespeare”... È un’ipotesi, però, che mi ha permesso di approfondire e applicare un metodo di approccio relativamente nuovo in ambito letterario, e potenzialmente produttivo, a mio giudizio, soprat-tutto per i testi teatrali: quello della teoria dei sistemi familiari. Volendo con-centrarmi sulle relazioni, infatti, più che sui singoli personaggi, mi occorreva una prospettiva che tenesse conto della dimensione psicologica interpersonale (più che di quella intrapsichica del modello freudiano classico) derivandola di-rettamente dalle realizzazioni dialogico-conversazionali,4 intese però non tanto in senso “sintattico” (dunque, non solo un’analisi del turn-taking), ma anche pragmatico e semantico: ossia, la conversazione teatrale vista come momento strategico di costruzione sociale di quelle emozioni e di quelle alleanze—o con-flittualità—che fanno della “struttura-famiglia” qualcosa di più del palinsesto per un plot o di un semplice aggregato di individui (o attanti che dir si voglia). La teoria dei sistemi familiari qui adottata, teoria che sta alla base di quella tipo-logia di interventi—sempre più diffusi—che vanno sotto il nome di “terapia della famiglia”, considerando la famiglia come un’unita, un’unità nella quale le

4 Per una presentazione comparativa dei differenti approcci metodologici che vanno in tal

senso—e più precisamente quelli di taglio sociologico, quelli orientati alla comunicazione e quelli specificamente “conversazionalisti”—e del loro potenziale contributo all’analisi dei testi drammatici, vedi W.N. DODD, “Conversation, dialogue and exposition”.

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relazioni sono più importanti degli individui, e focalizzandosi in primo luogo su fenomeni inerenti la comunicazione, offre precisamente questo tipo di prospet-tiva. Non solo: evitando per principio la formulazione di ipotesi intrapsichiche e invitando invece a lavorare sulle interazioni (verbali e non verbali), è una teoria che in un certo senso costringe a non allontanarsi mai troppo dalla superficie del testo. Da questo punto di vista, mi è subito apparsa una teoria quanto mai salutare per un lettore “a rischio” come posso essere io, cioè un lettore con una spiccata quanto perniciosa tendenza agli eccessi dell’open reading.

Ed ora, qualche parola sulla struttura di questa tesi. Nel primo capitolo, af-fronto il problema della distanza storica fra le famiglie dell’Inghilterra rinasci-mentale e le famiglie odierne, ossia fra le famiglie che possono aver offerto ma-teriale per i drammi di Shakespeare e quelle attorno alle quali, verso la metà de-gli anni ’50 del secolo scorso, si è sviluppata la teoria della famiglia. Poiché in entrambi i casi abbiamo a che fare con famiglie particolari, e non con la fami-glia intesa come concetto statistico, non si tratta tanto di un capitolo sulla storia della famiglia, quanto di una breve indagine su quella che potremmo chiamare, parafrasando Stephen Greenblatt, la storia delle possibilità della famiglia.5

Nel secondo capitolo, basandomi sulla raccolta di dati numerici riportati in appendice (raccolta che costituisce forse il principale risultato del lavoro di ri-cerca, in senso stretto, di questa tesi), mi rivolgo invece al problema della diffe-renza fra famiglie del mondo reale e famiglie del mondo della finzione, con lo scopo di individuare entro quali limiti un modello pensato per famiglie formate da persone in carne ed ossa possa essere applicato a famiglie letterarie. È un problema di natura essenzialmente semiotica, ma non solo: come cercherò di il-lustrare, trattando di relazioni più che di individui, è un problema che non sem-pre coincide con quello del rapporto fra dramatis personae e persone.

Il terzo capitolo è una brevissima storia della terapia della famiglia. Poiché si tratta di un orientamento teorico e terapeutico non a tutti noto, ho ritenuto utile inserirlo qui per illustrare i presupposti principali delle analisi presentate nei capitoli successivi.

5 Cfr. S. GREENBLATT, “Che cos’è la storia della letteratura?”, p. 174.

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La lettura vera e propria dei drammi ha inizio nel quarto capitolo: è uno stra-no capitolo, che ha per oggetto principale il cambiamento. Passando in rassegna alcune scene di The Tempest e di As You Like It, tento di mostrare come alcune strategie di induzione del cambiamento tipiche di orientamenti terapeutici come la psicoanalisi e il comportamentismo siano già adottate da quelli che ho chia-mato “prototerapeuti” shakespeareani. Una lettura più dettagliata è poi dedicata a The Taming of the Shrew, qui considerato come un vero e proprio dramma sul cambiamento familiare, e in particolare al confronto fra le paradossali strategie di Petruchio e quelle di uno fra i più irriverenti esponenti della terapia familiare strategica odierna, Milton H. Erickson. Tre modalità di induzione del cambia-mento—quella di The Tempest, quella di As You Like It e quella di The Taming of the Shrew—che, come vedremo, seguono tattiche e conducono a esiti assai differenti.

Negli ultimi due capitoli, infine, dedicati rispettivamente a Macbeth e alle scene di triangolazione fra membri della triade primaria (madre, padre e figlio o figlia), avvalendomi di concetti-cardine della terapia della famiglia—come quello di polarità semantiche e quello di triangolazione—propongo un’applicazione della teoria dei sistemi familiari all’analisi della comunicazione e della conversazione all’interno dei drammi, osservando le famiglie come da dietro le quinte, cioè dal punto di vista non tanto di un terapeuta della famiglia (sarebbe impossibile, essendo preclusa l’interazione con i protagonisti delle o-pere) quanto di un co-terapeuta, o meglio di un allievo. Un aspetto non margi-nale, per i miei scopi, della terapia della famiglia è infatti la sua intrinseca tea-tralità, evidente in particolare nel setting degli incontri, setting che in questi ul-timi capitoli tento di ricreare. Vale la pena lasciarlo descrivere direttamente da un terapeuta di lunga esperienza, Paolo Bertrando:

Dietro le quinte c’è quella che si definisce sala di osservazione. Se possibile è ancora più spoglia della sala di terapia (del resto, è esente da obblighi di rappre-sentanza): qualche sedia, un videoregistratore, un monitor e altoparlanti collegati all’impianto di trasmissione, la telecamera sopra un treppiede, puntata verso l’altra sala. Qui, due sono gli aspetti che colpiscono: la luminosità dell’altro lato dello specchio, che da questa parte offre una splendida, emozionante prospettiva della scena terapeutica (e che, a richiesta, può essere completamente coperto da una tenda); e l’oscurità della sala, con le finestre ermeticamente chiuse. Lo specchio,

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infatti, è unidirezionale solo se c’è differenza di luce. In caso contrario, è perfet-tamente bidirezionale. Se entrambe le sale fossero illuminate, si perderebbe l’intimità della sala di terapia.

Dietro le quinte sta l’équipe di osservazione. Che non è composta di spettatori distaccati: l’équipe partecipa al dialogo. I colleghi non restano nemmeno sempre seduti, quando seguono i colloqui. C’è chi si alza, passeggia nervosamente, si fa venire in mente una domanda e quasi prega che il terapeuta la faccia di sua inizia-tiva [...]. La partecipazione dei colleghi, com’è ovvio, varia a seconda di quanto avviene sulla scena. Se il pathos è alto e l’intensità è forte, l’équipe osserverà sen-za neanche pensare a intervenire. Se la seduta si trascina, crescerà l’urgenza di en-trare in qualche modo nel dialogo e rimetterlo in movimento. Più d’una volta suc-cede che lo humour dei clienti sia tale che i colleghi dell’équipe ridano di cuore, insieme ai clienti, dietro la protezione del loro specchio.6

Una prospettiva, dunque, che pone l’interazione familiare e gli osservatori entro uno spazio squisitamente teatrale, nel senso indicato da Jurij Lotman.7 Ed è lo stesso Lotman a sottolineare un ulteriore aspetto, a prima vista non sconta-to, comune ai due setting, e cioè il rapporto dialogico fra spettatori e azione scenica: “È sufficiente avere presente questa serie: azione scenica/spettatore, libro/lettore e schermo/spettatore per rendersi conto che soltanto nel primo caso la distinzione fra lo spazio dello spettatore e quello del testo rivela la natura dia-logica del loro rapporto”.8

6 P. BERTRANDO, Nodi familiari, pp. 34-35. 7 Vedi J. LOTMAN, “Semiotica della scena”, p. 8: “Lo spazio teatrale è diviso in due parti—

il palcoscenico e la sala dove siedono gli spettatori—fra le quali si creano rapporti che formano alcune delle opposizioni fondamentali della semiotica teatrale [...] Il confine fra ciò che si deve vedere e quello che deve invece restare invisibile è avvertito chiaramente dallo spettatore anche se non sempre si tratta di un limite così evidente come negli spetta-coli teatrali, a cui siamo abituati.”

8 Ibid., p. 9. Circa la dialogicità dello spazio teatrale e la maggiore o minore interazione fra attori e spettatori, occorre poi tenere presente che, nel teatro popolare dell’Inghilterra me-dievale così comein una certa misuranel teatro elisabettiano, la “linea di confine” fra spettacolo e pubblico era assai più esile e flessibile di quanto non sia nel teatro moderno, rendendo perciò l’esperienza del teatro ancora più affine a quella della seduta di terapia familiare descritta da Bertrando, con i colleghi dietro allo specchio che “si alzano, passeg-giano nervosamente” e, a volte, intervengono. A questo proposito, vedi per esempio l’opposizione proposta da R. Weimann fra locus (inizialmente, lo “scaffold” dei mysteries, dunque una zona ben delimitata sia spazialmente sia ontologicamente, in quanto luogo di finzione) e platea (l’area circostante, spesso condivisa fra attori e spettatori): “Unlike these loca, which could assume an illusionary character, the platea provided an entirely non representational and unlocalized setting; it was the broad and general acting area in which the communal festivities were conducted. Here the audience couldas in the per-

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Un rapporto, quello fra noi spettatori e le famiglie che Shakespeare porta in scena nei suoi drammi, che il punto di vista—in una certa misura straniante—adottato nelle pagine che seguiranno mi auguro contribuisca ad approfondire e vivificare.

formance of The Castle of Perseveranceshare the setting with both the actors and the “stytelerys” who acted as stewards or supervisors” (R. WEIMANN, Shakespeare and the Popular Tradition in the Theater, p. 79).

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Capitolo primo

Famiglie nel tempo

AARON My mistress is my mistress, this myself, The figure and the picture of my youth. This before all the world do I prefer; This maugre all the world will I keep safe, Or some of you shall smoke for it in Rome.

W. SHAKESPEARE, Titus Andronicus, IV.ii.106-110

Definire cosa significa ‘famiglia’ è un compito tutt’altro che semplice. E tutt’altro che innocuo. Come avviene per la parola ‘letteratura’—croce e delizia di tutte le introduzioni dei manuali di storia e teoria letteraria—tentare di asse-gnare confini precisi al concetto di ‘famiglia’ conduce, nei migliori dei casi, a null’altro che a illustrarne la complessità. Invece di aggiungere un ennesimo contributo in questo senso, quindi, preferisco limitarmi a riassumere, con pochi esempi, alcuni fra i problemi che la definizione di ‘famiglia’ comporta, per poi passare in rassegna alcune peculiarità della famiglia inglese del periodo Tudor e Stuart.

Anzitutto, c’è un problema etico: ‘famiglia’, come ‘letteratura’, non è un termine ideologicamente neutro. Così come negare a un qualsivoglia testo scrit-to lo status di ‘letteratura’ implica un giudizio negativo sulle qualità del testo da parte del recensore, rifiutare la definizione di ‘famiglia’ a una particolare rela-zione fra due o più persone è un atto che finisce per fornire più informazioni sulla posizione ideologica di chi definisce che non sulla relazione stessa. Basti pensare alle continue battaglie fra la Chiesa cattolica e alcuni movimenti laici sullo status giuridico delle cosiddette “coppie di fatto”, o delle coppie omoses-suali. Questo perché ‘famiglia’, come ‘letteratura’, è—ancora—un termine cari-co di connotazioni perlopiù positive, indicando un gruppo che tende a reggersi su ideali socialmente approvati, quali la protezione dei più deboli, la cura e

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l’educazione dei più piccoli, il mutuo sostentamento, la convivenza, lo scambio affettivo e, non ultimo, la procreazione. Questi ideali, è ovvio, sono solo una faccia della medaglia: come tutti ben sappiamo, e come le statistiche e la crona-ca continuamente ci confermano, la famiglia è anche uno fra i principali luoghi di violenza, maltrattamenti e abusi di ogni genere, nonché fonte primaria di pa-tologie e conflitti. In ogni caso, almeno fino ai nostri giorni, la società ha prefe-rito mettere in risalto l’aspetto ideale della famiglia, incoraggiandone la forma-zione e il mantenimento e condannandone le manifestazioni ritenute di volta in volta devianti.

Il problema della definizione, però, non è solo di natura ideologica. Anche volendo adottare parametri oggettivi, si finisce per essere costretti a scelte arbi-trarie—magari “adatte” a un particolare progetto, ma pur sempre esposte a obie-zioni e contraddizioni. Quanto è estesa una famiglia, per esempio? Lawrence Stone, in Famiglia, sesso e matrimonio, decide di riferirsi alla famiglia come “a quei membri della stessa parentela che vivono insieme sotto uno stesso tetto”.1 Per uno studio di taglio storico e sociologico come il suo, basato soprattutto su dati statistici e orientato a fornire un quadro generale, è certo una definizione ragionevole e condivisibile. Dovendo invece lavorare su famiglie particolari, come nel nostro caso, le limitazioni della regola di Stone sono immediatamente evidenti. È sufficiente pensare a Pericles e Marina: non hanno mai trascorso un solo minuto sotto lo stesso tetto, ma la loro relazione padre-figlia è una fra le più emotivamente intense di tutto Shakespeare, e sarebbe arduo negare che fan-no parte della stessa famiglia. Attenersi dunque a una definizione “legale” di famiglia? Anche in questo caso, si porrebbe un problema di estensione: fino a quale livello di parentela spingersi? Non solo: quanto tempo occorre affinché una coppia, anche legalmente unita in matrimonio, diventi famiglia? È suffi-ciente l’intervento, pur giuridicamente incontestabile,2 di Friar Laurence, affin-ché l’unione fra Romeo e Juliet dia luogo a una famiglia?

1 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, p. 25. 2 A dire il vero, sarebbe stata considerata un’unione valida persino senza l’intervento di

Frair Laurence, come nota Barbara Diefendorf: “Romeo and Juliet did not need Friar Laurence to join their hands in wedlock; their own vows, followed by consummation of

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Nel capitolo successivo, esporrò e motiverò le risposte, a queste e altre simili domande, che ho ritenuto opportuno selezionare per il mio progetto. Per il mo-mento vorrei invece concentrarmi su quello che, per questa tesi, è forse il pro-blema principale: ha senso—e, se sì, con quali accorgimenti—adottare un im-pianto teorico che è andato sviluppandosi a partire dagli anni ’50, e costruito soprattutto sul modello della famiglia americana di quel periodo, per studiare dinamiche fittizie basate, presumibilmente, su famiglie inglesi a cavallo fra XVI e XVII secolo? O, in altre parole: in cosa è diversa la famiglia del periodo elisa-bettiano da quella attuale?

Per affrontare questa delicata questione, propongo di partire da un’affermazione di Salvador Minuchin, un terapeuta della famiglia di origini argentine il quale, avendo lavorato a lungo sia con famiglie americane di ogni ceto sia con famiglie dei kibbutzim israeliani, è particolarmente sensibile alle differenze originate dal contesto sociale e culturale:

Il cambiamento va sempre dalla società alla famiglia, mai dall’unità più picco-la a quella più grande. La famiglia cambierà, ma anche rimarrà, perché è la miglio-re unità umana per le società in rapido cambiamento. Più flessibilità e adattamento la società chiederà ai suoi membri, più significativa diventerà la famiglia quale matrice di sviluppo psico-sociale.

Nello stesso modo in cui la famiglia, in senso lato, cambia e si adegua a situa-zioni storiche, così anche la singola famiglia costantemente si adatta. La famiglia è un sistema aperto in trasformazione, cioè riceve e trasmette, a sua volta, stimoli dal mondo esterno, adattandosi alle diverse richieste degli stadi evolutivi che af-fronta.3

È un’affermazione che serve anzitutto a metterci in guardia: il fatto che “il cambiamento va sempre dalla società alla famiglia” può essere vero ora, ma for-se lo era un po’ meno durante il regno di Henry VIII, le cui turbolente vicende familiari, pur originate da motivazioni dinastiche e assecondate da ragioni poli-tiche, quali lo scontento della Chiesa inglese, diedero un contributo non indiffe-

the union, were all that was required. This was true even in Shakespeare’s England, for, unlike many place on the continent, which passed laws requiring parental consent to mar-riage in the sixteenth century, England did not adopt such legislation until 1753.” (B. DIE-FENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 670).

3 S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 55.

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rente alla storia dell’Inghilterra. In ogni caso, rimane un’affermazione larga-mente condivisa anche dagli storici della famiglia. Quando, per esempio, Stone cerca di giustificare il passaggio dalla famiglia a lignaggio aperto tardomedieva-le a quella moderna, caratterizzata da una crescente importanza del nesso nucle-are e dei legami affettivi coniugali, lo fa attribuendolo a tre fattori macrosociali: il declino della parentela nell’organizzazione della società terriera, l’affermarsi dei poteri dello stato su quelli delle famiglie estese e la diffusione del protestan-tesimo.4

Ciò che è importante sottolineare, comunque, è che sia per un terapeuta co-me Minuchin sia per uno storico come Stone, la famiglia si “adatta”: non si comporta, cioè, semplicemente come uno specchio della società nella quale si trova immersa, bensì come un organismo. Questo complica enormemente le co-se: dovendo adattarsi da una parte alle esigenze della società che la circonda e dall’altra a quelle dei membri che la compongono, la famiglia è un organismo oltremodo complesso. È quindi difficile, se non impossibile, ridurre le soluzioni via via adottate a pochi semplici schemi.

Non solo: un organismo, diversamente da uno specchio, ha un suo compor-tamento individuale. Similmente, ogni famiglia ha un suo modo di comportarsi, un modo che non riflette necessariamente né la propria epoca, né quello delle altre famiglie e nemmeno, infine, quello degli individui che ne fanno parte. Come intuisce brillantemente Tolstoj alcuni decenni prima della nascita della psicoanalisi, e con quasi un secolo d’anticipo sui terapeuti della famiglia, “ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. E, come avremo occasione di vedere, ci sono buone ragioni per ritenere che anche ogni famiglia felice—contrariamente da quanto afferma Tolstoj—abbia un proprio modo di essere tale: modo che non coincide necessariamente né con quello delle altre famiglie né con quello che porterebbe a essere felici i suoi singoli componenti .

Volendo mettere a confronto la famiglia elisabettiana e la famiglia odierna ci si trova quindi ad affrontare un duplice ostacolo: quale famiglia elisabettiana? e quale famiglia odierna? La distanza storica, per quanto riguarda la famiglia eli-

4 Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, cap. 4.

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sabettiana, può paradossalmente essere d’aiuto: non avendone una conoscenza diretta, siamo vincolati ai pochi dati ottenibili dagli sporadici documenti rima-sti, circoscrivendo così la varietà delle sue manifestazioni a un insieme relati-vamente limitato. Il problema maggiore mi pare piuttosto il secondo: con quale idea di famiglia attuale stabilire il confronto, per tentare di capire se le teorie della terapia familiare possono essere applicate anche alle famiglie dell’Inghilterra rinascimentale?

Per evitare l’equivoco della famiglia contemporanea “normale”, ho ritenuto opportuno scegliere una famiglia esplicitamente “singolare”. Infatti, ciò che la parola ‘famiglia’ evoca in ognuno di noi è necessariamente un compromesso fra statistiche ed esperienza personale. Stabilire quali tratti sono rimasti inalterati e quali, negli ultimi quattro secoli, si sono modificati è quindi, almeno in parte, una decisione comunque arbitraria. Proporre il confronto con una particolare famiglia non risolve certo il problema. Ma può aiutarci a non dimenticare che esso esiste.

La famiglia inglese fra i secoli XVI e XVII e una famiglia di oggi

La famiglia contemporanea che ho scelto, i Wagner, è formata da Emily, suo marito Mark, e il figlioletto Tommy, di tre anni. Come la definisce Minuchin, che ha intervistato i due coniugi, è una famiglia “normale”:

ciò vuol dire che la coppia ha molti problemi che riguardano le relazioni reci-proche, la crescita e l’educazione dei figli, i rapporti con i suoceri e il modo di far fronte al mondo esterno. Come tutte le famiglie normali, si dibattono costante-mente in questi problemi, negoziando compromessi che rendono possibile una vita in comune.5

Nelle pagine che seguono, riporterò alcuni brani di una lunga intervista alla coppia—intervista che ha il vantaggio di essere non terapeutica, bensì orientata a studiare una famiglia in formazione—mettendo di volta in volta a confronto la situazione dei Wagner con quella che possiamo ipotizzare per una famiglia del periodo Tudor e Stuart. Spero, in tal modo, di raggiungere tre obiettivi: illustra-

5 S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, pp. 24-25.

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re alcuni tratti della famiglia inglese rinascimentale, introdurre il linguaggio della terapia familiare e, infine, fornire le basi per un confronto in due direzioni, quella diacronica fra i Wagner e famiglie di quattro secoli fa e quella sincronica fra i Wagner e i miei idiosincratici stereotipi sulla famiglia contemporanea.

Chi decide la domenica?

MINUCHIN: La prima cosa che vorrei sapere è: perché siete qui? Cosa vi ha fatto decidere a venire? Come è stato?

SIGNOR W.: Il sabato è, diciamo così, il nostro giorno libero, perlomeno per quan-to mi riguarda. Qualunque cosa voglia fare mia moglie, si fa. Mi sta bene con-tinuare così. La domenica, perciò, è più o meno il mio giorno di libertà.

MINUCHIN: Interessante, significa che avete deciso di dividere il fine settimana in modo che un giorno lei ha la facoltà di decidere cosa fare e l’altro sua moglie.

SIGNOR W.: Non esattamente, è una specie di... MINUCHIN: È semplicemente successo. Ma come è avvenuto? Dal punto di vista

storico è interessante; come siete giunti a distribuirvi questo compito di deci-dere? Ve lo ricordate?

SIGNOR W.: Posso azzardare una congettura. Prima lavoravo dal lunedì al sabato in un ospedale. Il sabato era una specie di giorno inconcludente. Per quanto mi riguardava, pensavo che la domenica fosse il mio giorno libero. E così, appena il sabato si è reso disponibile, lei se ne è appropriata, per così dire. Non le a-vrei permesso di prendersi la domenica, perché quello era il mio giorno.

MINUCHIN: Così avete portato avanti quella specie di regola implicita, senza aver detto chiaro e tondo che vi sareste comportati così.

SIGNORA W.: La regola è che la domenica lui va a pesca o a fare qualche altra co-sa, e io me ne resto per i fatti miei. È sempre stato così. Sì, è andata così per circa un anno.

MINUCHIN: Va a pesca la domenica. Sabato è il giorno in cui fate qualcosa insie-me, e lei decide.

SIGNOR W.: Non è proprio così, così rigido e ferreo. Direi che il sabato mia moglie ha più probabilità di decidere cosa faremo.

SIGNORA W.: Di solito io ho programmato qualcosa che voglio fare, e in genere lo facciamo.

Queste sono le primissime battute dell’intervista ai Wagner. Ignorando com-pletamente la domanda di Minuchin, il signor Wagner spiega che il sabato è il giorno della moglie, mentre a lui spetta la domenica. Nell’Inghilterra di fine Cinquecento, una simile organizzazione dei fine settimana sarebbe stata sempli-cemente inconcepibile. E non tanto per la più o meno democratica distribuzione delle decisioni fra donna e uomo, quanto per la gestione della domenica. La domenica, fra i secoli XVI e XVII, non è né del marito né tantomeno della mo-glie: è il “Lord’s Day”, il giorno del Signore. Ciò non significa che il signor

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Wagner non sarebbe potuto andare a pescare: benché ritenute indecorose, le at-tività ludiche erano tollerate anche nei giorni festivi—al contrario di quelle la-vorative, per le quali si poteva persino incappare in una denuncia.6 Però non a-vrebbe mai definito la domenica “il mio giorno”.

La presenza ossessionante della religione in tutti gli aspetti della vita quoti-diana è, probabilmente, una tra le differenze di maggior rilievo fra una famiglia d’allora e una contemporanea. È una presenza che si fa sentire in ogni occasio-ne, da quelle più pubbliche (il controllo della morale era esercitato in gran parte dai tribunali ecclesiastici) a quelle più intime e private, come testimoniano i dia-ri dell’epoca giunti fino a noi. Nelle famiglie puritane, poi, si arrivava al paros-sismo. Ecco un assaggio di un pomeriggio di Lady Margaret Hoby, per l’esattezza il pomeriggio del 30 dicembre 1599, una domenica: “[...] we went to the afternoon sermon and from thence came home and read of Greenham [un predicatore puritano], and heard Meg Rhodes read. Then I walked and conferred with Mr. Hoby, took order for supper, and then went to private examination and prayer [...]”.7 In altre famiglie è probabile che ci si lasciasse un po’ più andare, come si può inferire dalle numerose proteste contro le ale-houses aperte nei giorni festivi,8 ma possiamo ragionevolmente ipotizzare che il nostro signor Wagner, se proprio avesse voluto un giorno tutto per sé, si sarebbe preso il sa-bato. E, con molta probabilità, la moglie non avrebbe avuto alcunché da ridire.

La seconda, enorme, differenza riguarda infatti la condizione femminile: quella dell’Inghilterra rinascimentale era una società a organizzazione patriarca-le. Avremo occasione di approfondire questo aspetto fra qualche paragrafo, ma già fin d’ora possiamo anticipare che la posizione maggiormente condivisa era quella espressa dal moralista William Gouge, il quale, scrivendo del mari-to/padre “he is as a king in his own house”,9 rendeva esplicita l’equazione fra

6 Vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, 1570-1640, cap. 3 (“Re-

ligion and the people”). 7 R. HOULBROOKE, English family life, 1576-1716, pp. 58-59. 8 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 99-101. 9 W. GOUGE, Of domesticall duties, 1622, p. 258 (citato in M. INGRAM, Church courts, sex

and marriage in England, p. 143).

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autorità patriarcale e autorità regale. Certo, c’era già chi cominciava a intrave-dere nella stessa Bibbia indicazioni per una maggiore equità nella distribuzione del potere fra i due sessi, ma leggi e consuetudini erano entrambe tese a raffor-zare l’autorità dell’uomo sulla donna. Per quanto numerose potessero essere le eccezioni, dunque, quel processo che Minuchin identifica nel matrimonio dei Wagner—il giungere a distribuirsi il compito di decidere—nel periodo elisabet-tiano era in gran parte sottratto alla coppia da consuetudini religiose e sociali.

Le domande da porsi, a questo punto, sono: a) quanto è rappresentativa della “famiglia contemporanea” la modalità dei Wagner di decidere dei week-end? b) ai fini di una lettura basata sui modelli teorici della terapia familiare, quali con-seguenze comportano le due differenze evidenziate fra la modalità dei Wagner e quella di un’ipotetica famiglia elisabettiana media?

Riguardo al primo punto, si potrebbe tentare una risposta facendo appello a un’indagine statistica. Un campione rappresentativo potrebbe dirci se la fami-glia “media” ritiene o meno la domenica un giorno sacro. Oppure, se le decisio-ni sulla gestione del tempo libero tendono ad essere affidate alla donna o all’uomo. Supponendo che le decisioni vengano prese dal “capofamiglia”, per esempio, se ne potrebbe dedurre che, negli Stati Uniti, decida l’uomo nel 72% dei casi, mentre in Italia la percentuale salirebbe all’83%.10 Nelle pagine che se-guono, farò talvolta ricorso a dati di questo tipo. I dati statistici, però, a diffe-renza di un’intervista, ci aiutano ben poco a capire come vengono prese le deci-sioni. Un aneddoto di Milton H. Erickson, fondatore della terapia familiare stra-tegica, illustra chiaramente il problema:

Una volta iniziai a chiedere ad alcune persone anziane che erano cresciute a Vienna alla fine del secolo scorso come erano le loro famiglie. Mi interessava co-noscere il clima familiare dei tempi di Freud, nel periodo in cui egli considerava il padre come una figura tanto potente e castrante. Una signora di Vienna mi raccon-tò che quando lei era giovane suo padre era un uomo molto potente nella sua fa-miglia e poi disse: “Non potevamo neanche sederci sulla sua sedia”. Incuriosito, le chiesi come faceva a impedire ai figli di sedersi sulla sua sedia e la donna rispose: “Oh, non era papà a farlo. Lo faceva la mamma. Ci diceva che se ci fossimo seduti

10 Dati ricavati dalla Tabella 088 dell’U.S. Bureau of the Census International Database,

“Heads of Households, by Age, Sex, and Urban/Rural Residence”, e relativi al 1980 per gli Stati Uniti e al 1971 per l’Italia.

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sulla sedia di nostro padre ci sarebbero venuti i foruncoli sul sedere”. Sembrereb-be che al padre fosse concesso soltanto di rappresentare il potere nella famiglia.11

In un’indagine a domande strutturate, soprattutto se su vasta scala, proba-bilmente ci si sarebbe fermati alla prima dichiarazione della signora di Vienna, confermando la figura del padre nell’epoca vittoriana come autoritaria e domi-nante. Una visione, questa, senz’altro convincente per quanto riguarda il macro-sistema sociale, ma non necessariamente fedele alla realtà dei microsistemi fa-miliari. “Partire dal presupposto che nella lotta per il potere è sempre la donna che perde va benissimo, se guardiamo al sistema sociale più largo,” obiettano Maria Grazia Cancrini e Lieta Harrison ad alcune loro colleghe femministe, “ma se guardiamo al sistema di coppia questo non può essere dato per scontato.”12 In altre parole, come già accennato, la famiglia non si limita a riflettere la società, ma vi si adatta. Poiché su tale adattamento agiscono anche le esigenze dei suoi membri, le soluzioni che ogni famiglia trova sono originali e spesso imprevedi-bili, come testimonia il bizzarro compromesso dei Wagner. Questo è il motivo per cui, considerando l’argomento che tratterò, ho ritenuto opportuno condurre il confronto sulla base di un’intervista, piuttosto che su dati statistici. In quest’ottica, la modalità di prendere le decisioni dei Wagner può dirsi rappre-sentativa solo nel senso che offre una rappresentazione dell’innumerevole varie-tà di soluzioni che ogni famiglia finisce per adottare.

Una simile varietà di manifestazioni sull’asse sincronico ha ripercussioni immediate anche sulla nostra seconda domanda, quella circa l’entità del cam-biamento sull’asse diacronico. Come sostengono gli storici più scettici nei con-fronti della netta divisione in tre epoche postulata da Stone, infatti, “the variety in the quality of relationships existing at any one time, the product of differ-ences in individual temperaments as well as social and economic circumstances, has, save perhaps in the very long term, outweighed the significance of change.”13

11 J. HALEY, Terapie non comuni, p.207. 12 M.G. CANCRINI E L. HARRISON, “La terapia di coppia”, p. 348. 13 R. HOULBROOKE, English family life, p. 10.

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Personalmente, ritengo sia pressoché impossibile stabilire se, in generale, la varietà nell’organizzazione della vita familiare sia più marcata sull’asse sincro-nico o su quello diacronico. Volendo però capire se tali variazioni siano tali da precludere o meno la possibilità di applicazione delle teorie sui sistemi familia-ri, è importante considerare che, per limitarci alla modalità di prendere decisio-ni, la soglia di applicabilità non sta fra “famiglie in cui decide la donna” e “fa-miglie in cui decide l’uomo”. In entrambi i casi, ovviamente, si tratta di fami-glie. La soglia coinvolge un tipo logico superiore,14 e cioè la distinzione fra si-stemi nei quali il potere che ha un individuo di decidere per tutti è potenzial-mente negoziabile e fonte di conflitti, e sistemi in cui non lo è. Si potrebbe o-biettare che tutti i sistemi umani, dalla semplice coppia di amici agli stati nazio-nali, godono di questa proprietà. E che quindi, limitatamente a tale proprietà, l’applicabilità delle teorie sistemiche alla famiglia è una tautologia. In effetti temo sia proprio così, e non c’è da stupirsene: l’impianto teorico della terapia familiare sistemica, come vedremo nel terzo capitolo, deriva direttamente dalla cibernetica (quindi dall’analisi di sistemi non necessariamente umani) e dagli studi di Gregory Bateson sulle interazioni più disparate—dalla comunicazione fra cetacei15 al sistema di valori degli abitanti di Bali.16 Dunque, una teoria con un campo di applicabilità decisamente esteso.

Un breve paragone con il modello freudiano classico, per quanto semplifica-to, può aiutare a chiarire l’intrinseca elasticità—o povertà, se si preferisce—dei modelli sistemici. La differenza sessuale è un fattore imprescindibile nelle teo-rie di Freud: basti pensare a concetti come l’invidia del pene e l’angoscia di ca-strazione, o alla diversa esperienza che l’attraversamento della fase edipica comporta per una bambina e per un bambino. In particolare, la bambina, a diffe-renza del bambino, si troverebbe a dover affrontare un cambiamento nel proprio

14 Per la teoria dei tipi logici, vedi A.N. WHITEHEAD E B. RUSSELL, Principia Mathematica,

vol. 1. 15 G. BATESON, “Problemi relativi alla comunicazione dei cetacei e di altri mammiferi”, in

Verso un’ecologia della mente, pp. 401-420. 16 G. BATESON, “Bali: il sistema di valori di uno stato stazionario”, in Verso un’ecologia

della mente, pp. 136-159.

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investimento oggettuale: dalla madre (o dalla balia), oggetto primario comune a entrambi i sessi durante l’allattamento, al padre, che l’invidia del pene promuo-ve a oggetto amoroso principale della fase edipica femminile.17 Cambiamento, questo, con notevoli conseguenze per la donna adulta: “La formazione del suo Super-io non può non risentire di queste condizioni, il Super-io non può rag-giungere quella forza e quell’indipendenza che tanta importanza hanno per la civiltà umana, e... i femministi [sic] non ameranno certo sentir dire quali sono gli effetti di questa debolezza sul carattere femminile medio.”18 Obiezioni dei “femministi” a parte, questo di Freud è indubbiamente un modello particolareg-giato ed estremamente esplicativo. Proprio questa sua ricchezza, però, lo rende quanto mai vincolato a contesti storico-sociali piuttosto determinati: come nota Stone, “risulta ormai abbastanza chiaro che quattro tra i traumi principali (orale, anale, genitale ed edipico) che Freud cercava, e trovava, nei suoi pazienti, dun-que riteneva universali, dipendono da esperienze peculiari alla società dei ceti medi europei nel tardo periodo vittoriano da cui provenivano gli stessi pazienti. [...] I bambini degli inizi dell’età moderna subivano una serie diversa, e forse ancor più sconcertante, di esperienze traumatiche.”19

Ora, perlomeno nella terapia familiare classica, la differenza sessuale gioca un ruolo assai più limitato. Per i terapeuti della scuola di Palo Alto, per esem-pio, nella famiglia i ruoli di moglie e marito passano in secondo piano rispetto alla distinzione fra comunicazione simmetrica e complementare, distinzione en-tro la quale gli attori non sono una donna e un uomo, bensì due “posizioni”, quella di one-up e quella di one-down. La povertà semantica di simili definizio-ni può lasciare sconcertati, ma esse hanno il vantaggio di essere applicabili a qualsiasi relazione comunicativa che implichi la negoziazione del potere. In al-tre parole, se era improbabile che una moglie, nell’Inghilterra rinascimentale, potesse imporre al marito la propria decisione su come trascorrere il sabato, era invece inevitabile che, all’interno di una relazione di coppia, ci fosse chi tende-

17 Vedi S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, pp. 518-519. 18 Ibid., p. 528. 19 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 177-178.

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va a occupare la posizione privilegiata di one-up, e che si adottasse uno stile comunicativo simmetrico o complementare. Resta da vedere quanto tali etichet-te, con la loro elasticità descrittiva, possano servire a sviluppare un modello che sia anche esplicativo. Ma questo è argomento dei successivi capitoli.

Rimane il problema, non indifferente, del ruolo della religione. È questo un aspetto intimamente connesso alla vita familiare perché, soprattutto nei diari delle famiglie puritane, la presenza di riferimenti a Dio è talmente pervasiva da configurarlo quasi come un membro della famiglia. Occorre dire che Dio è cita-to pressoché esclusivamente in formule di ringraziamento, ma ci sono anche oc-casioni in cui si tenta di “coinvolgerlo” in modo più diretto nelle diatribe fra pa-renti. Lady Anne Clifford, per esempio, alla quale il marito sta cercando di sot-trarre il controllo sulle terre da lei ereditate, annota così gli eventi del 14 feb-braio 1617: “[My] Uncle Cumberland and my Coz. Clifford came to Dorset House where my Lord and they signed and sealed the writings and made a final conclusion of my business and did what they could to cut me off from my right, but I referred my cause to God.”20 Da un punto di vista sistemico, il problema della presenza di Dio nella vita familiare è quasi imbarazzante, poiché si tratta di un “personaggio” assolutamente sui generis: non lascia possibilità di nego-ziare la posizione di potere, tutti i membri della famiglia possono ritenerlo loro alleato, non parla mai ma sembra ascoltare tutti. Senza un dio al quale affidare la propria causa, per esempio, Lady Anne si sarebbe forse rivolta con maggiore decisione a qualche conoscente fidato, magari un parente, innescando una serie di perturbazioni negli equilibri interni alla sua famiglia che, lasciando tutto nel-le mani di Dio, vengono invece, perlomeno in parte, evitate.

Almeno uno fra i pochi assiomi della teoria familiare, la triangolazione (cioè il coinvolgimento di un terzo membro, di solito un figlio, in situazioni di con-flitto), sembrerebbe quindi dipendere dal contesto storico. Probabilmente è pro-prio così, e quello della triangolazione è soltanto uno dei fenomeni ai quali oc-corre prestare estrema attenzione. In questo senso, si potrebbe anche aggiungere che, per lo scopo del nostro lavoro, la censura sui riferimenti religiosi durante le

20 R. HOULBROOKE, English family life, pp. 61-62.

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rappresentazioni teatrali, in quanto potenzialmente offensivi nei riguardi della divinità, rappresenta paradossalmente un vantaggio: la “famiglia drammatica” è, almeno per questo tratto, meno distante dalla “famiglia odierna” di quanto non lo sia la “famiglia storica”. Ma anche su questo punto avremo occasione di ri-tornare.

Infine, due curiosità. Così come i coniugi Wagner, anche i coniugi dell’Inghilterra rinascimentale non trascuravano l’importanza di passare un po’ del proprio tempo libero insieme: a giudicare dai diari, uno fra i passatempi più comuni, almeno per chi abitava in campagna, pare fosse dedicarsi a lunghe pas-seggiate—“walking into the fields”.21 Per quanto riguarda, invece, la causa di Lady Anne, l’intervento di Dio, seppur con un certo ritardo, fu infine decisivo: nel 1643 suo cugino morì senza eredi maschi, e le terre poterono quindi ritornare in suo possesso.

Contesti terapeutici, metacomunicazione e cambiamento

L’intervista ai Wagner si sposta poi su un piano metacontestuale:

MINUCHIN: Come è successo che siete qui? Perché siete voluti venire? SIGNOR W.: Venire qui? Ho visto un annuncio sul giornale e ho risposto. Mia ma-

dre ha visto l’annuncio sul giornale.

“Annuncio sul giornale” a parte, il semplice recarsi a un colloquio pseudo-terapeutico è già di per sé un atto assolutamente inconcepibile nel contesto eli-sabettiano. A prima vista, questa ovvia differenza potrebbe apparire irrilevante, come sembrano garantire le numerose letture freudiane di vicende inventate e ambientate numerosi secoli prima della psicoanalisi. Tenendo però conto delle peculiarità della terapia familiare, che dà alla relazione famiglia-terapeuta un’importanza—anche teorica—decisamente superiore a quella che rivestono il trasfert e il controtransfert nella terapia analitica, si tratta di una differenza che non posso permettermi di trascurare, e che anzi rischia di minare in modo con-siderevole la validità dell’approccio scelto.

21 Vedi, per esempio, il diario di Adam Eyre, “yeoman” (in R. HOULBROOKE, English family

life, pp. 65-69).

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Il problema non sta tanto nell’indagare se anche gli elisabettiani erano soliti ricorrere all’aiuto di una terza persona per ciò che riguardava vicende personali e familiari: basterebbe il solo esempio di Simon Forman—“mago e medico di professione” al quale si rivolgevano moltissime persone, soprattutto donne, “per farsi consigliare sul futuro di un marito o di un amante”22—per poter ipotizzare che simili opportunità di “consulenza professionale” non mancassero. Per valu-tare le possibilità di applicazione del modello della terapia familiare, però, ciò che più conta è piuttosto tentare di capire se, all’interno della famiglia elisabet-tiana, c’era o meno la consuetudine a metacomunicare, cioè a parlare delle mo-dalità e della qualità delle relazioni interpersonali, e se tali metacomunicazioni erano viste come potenziali opportunità di cambiamento.

Uno tra i princìpi fondamentali della terapia familiare, infatti, è che il cam-biamento non si innesca lavorando sui “contenuti”—sui fatti contingenti, cioè, o sui ricordi, o più in generale su ciò che accade o è accaduto—bensì spostando l’attenzione su un livello logico superiore: la “relazione”. Un esempio, per quanto banale e stereotipato, può illustrare ciò che intendo: se una moglie si la-menta perché il marito passa poco tempo in casa, e al tempo stesso il marito cerca di passare il minor tempo possibile in casa perché non sopporta le lamen-tele della moglie, secondo i terapeuti della famiglia la situazione non si sbloc-cherà cercando di scoprire “chi ha ragione” (dunque, lavorando sul contenuto), ma piuttosto aiutando i due coniugi a vedere come il loro modello di comunica-zione tenda a ripetere sempre le stesse sequenze (lavorando, perciò, sulla rela-zione). Se la terapia ha successo, moglie e marito rinunceranno a voler stabilire “chi ha ragione” e concentreranno i propri sforzi a stabilire nuove “regole”.

È, questo, un modo di affrontare i problemi che poteva avere luogo nel con-testo Tudor e Stuart? A giudicare dalle testimonianze dirette, si direbbe che questo spazio esisteva. La sequenza di brani che segue è tratta dal diario di A-dam Eyre—uno yeoman di mezz’età, sposato da sette anni (forse la famosa “cri-si del settimo anno” colpiva già all’epoca…), senza figli, perennemente in diffi-coltà finanziarie ma al tempo stesso incapace di rifiutarsi di pagare una birra a-

22 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 619-20.

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gli amici della alehouse—e lascia intravedere un’interessante evoluzione nella relazione con la moglie Susannah:

[June 8, 1647] This morn my wife began, after her old manner, to brawl and revile me for wishing her only to wear such apparel as was decent and comely, and accused me for treading on her sore foot, with curses and oaths; which to my knowledge I touched not .[..]

[July 30, 1647] This day I stayed at home all day, by reason my wife was not willing to let me go to bowls to Bolsterstone [...]

[October 2, 1647] This day my wife was very angry, and I stayed at home all day [...]

[January 1, 1648] This morn I used some words of persuasion to my wife to forbear to tell me of what is past, and promised her to become a good husband to her for the time to come, and she promised me likewise she would do what I wished her in anything, save in setting her hand to papers; and I promised her never to wish her thereunto. Now I pray God that both she and I may leave off all our old and foolish contentions, and join together in his service without all fraud, malice or hypocrisy [...].23

Nella domestica pacatezza dello stile di Adam, c’è qualcosa di straordina-riamente vivido e toccante. L’incidente del piede ferito, le piccole rinunce quo-tidiane, le liti e i rancori: le trame della vita familiare non sono fatte di grandi eventi, si sviluppano perlopiù su scene come queste, e la descrizione che ne of-fre Adam suona talmente attuale che, se non fosse per le date e per il linguag-gio, potrebbe benissimo riferirsi a una qualsiasi famiglia di oggi. Lo stesso rap-porto tra i sessi appare assai meno squilibrato di quanto siamo abituati a pensa-re, ed esemplifica bene ciò che abbiamo osservato a proposito dell’aneddoto di Milton H. Erickson.

Vorrei, però, soffermarmi su alcune caratteristiche e sottolineare alcuni a-spetti degni di nota. Anzitutto, Adam Eyre non è né un nobile né un gent, bensì un uomo comune, uno yeoman. Ancora, dal tono con cui descrive la sua situa-zione familiare, possiamo intuire che, per quanto difficile e ansiogena, non la ri-tenesse così fuori dal comune. Ma ciò che più ci interessa, qui, è l’evoluzione relazionale che indirettamente la sequenza sopra riportata illustra. Le pagine del

23 R. HOULBROOKE, English family life, pp. 67-6.

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1647 mostrano una coppia che ragiona sui contenuti: Adam è troppo conserva-tore, o è Susannah che non sa darsi un contegno? Il piede è stato pestato oppure no? È giusto che Adam debba rinunciare ad andare a Bolsterstone? Ha ragione Susannah ad essere in collera? Il primo giorno del 1648, però, evidenzia una si-tuazione qualitativamente diversa: Adam e Susannah hanno parlato fra loro non di ciò che dicono o fanno, ma di come comunicano—delle “our foolish conten-tions”—e, smettendo di interrogarsi su chi ha ragione, sembrano aver preso atto che quello di coppia è un gioco che si gioca in due—“she and I”. L’unico modo per introdurre un vero cambiamento è quello di ritoccarne insieme le regole, cioè di metacomunicare, ed è in questa direzione che si orientano i loro proposi-ti. Anche senza l’intervento di un terapeuta.

Vicini e parenti

Per tornare ora ai nostri Wagner, sentendo menzionare la madre del Signor W., Minuchin non si lascia sfuggire l’occasione per estendere l’indagine alla cosiddetta “famiglia estesa”:

MINUCHIN: Sua madre? Mi dica qualcosa della sua famiglia. Vive vicino a voi? SIGNORA W.: Vivono nella stessa comunità.

Quello di ‘famiglia estesa’, e più in generale di ‘comunità’, è un concetto fondamentale per la comprensione dell’evoluzione storica della struttura fami-liare. Secondo Stone, infatti, i due più importanti momenti di discontinuità nella storia della famiglia hanno entrambi a che fare con il grado di isolamento del nucleo familiare rispetto alla famiglia estesa e alla comunità: sia nel passaggio da ‘famiglia a lignaggio aperto’ a ‘famiglia nucleare patriarcale ristretta’, sia in quello successivo a ‘famiglia nucleare domestica chiusa’, la tendenza è quella di un progressivo “arroccamento della famiglia nucleare sia come difesa dalle in-terferenze, e gli appoggi, della parentela, sia come ulteriore forma di allontana-mento dalla vita comunitaria”.24

24 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 247.

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Una tendenza, questa, tuttora facilmente osservabile anche da un punto di vi-sta statistico, come sembra confermare il crescente numero di coppie senza figli e di single. Almeno in apparenza, questo è un ulteriore limite all’applicabilità delle teorie della terapia familiare al teatro shakespeareano, perché sembra san-cire che le dinamiche inter-familiari di quattro secoli fa erano oggettivamente assai diverse.

Vorrei perciò, a questo punto, soffermarmi un istante su una considerazione metodologica. Per valutare l’applicabilità di un approccio a due “oggetti di stu-dio” diversi, l’ideale sarebbe poter disporre di un elenco chiaro e non ambiguo delle proprietà dei due oggetti in questione, confrontare tali proprietà, e stabilire infine se esiste un margine di sovrapposizione tale da poterli considerare “suffi-cientemente simili”. Purtroppo, per “l’oggetto famiglia” la realizzabilità di un simile elenco è un’utopia, e il fatto che una delle poche proprietà chiare—le de-finizione dei confini rispetto a famiglia estesa e vicinato—lasci intravedere una notevole differenza non depone certo a favore della “somiglianza”.

Ma siamo proprio sicuri che la famiglia di oggi sia un’entità così impermea-bile all’influenza esterna? E impermeabile a quali forme di influenza esterna? Curiosamente, una tra le pochissime “regole familiari generali” che chi si occu-pa professionalmente di famiglie riesce a individuare sembra affermare proprio il contrario di quanto assume Stone:

Prendiamo ad esempio una delle regole familiari più comuni: quella che può essere espressa dalla frase “che cosa dirà la gente?”

Poche regole nella famiglia sono seguite più fedelmente di questa, anche se coloro disposti ad ammetterlo non saranno in molti. [...] Cosa dirà la gente... Cosa dirà la gente se non cambiamo l’auto; se il ragazzo non ha il motorino; se non fac-ciamo la settimana bianca; se mi lavo i capelli da sola; se la ragazzina non è pro-mossa; se Gigi non va all’università; se non teniamo il passo con la famiglia Ros-si...

Eppure... provate a svelare questa regola così evidente, così rispettata: otterrete un coro di proteste. Figuriamoci! Chi se ne frega dei vicini... della famiglia Ros-si... della salumiera... dei colleghi... dell’insegnante... di quella vipera di Maria...25

Ovviamente, non si tratta qui di un’influenza istituzionale: nessuno, al gior-no d’oggi, perde il diritto di voto se la propria consorte non va regolarmente dal

25 G. BERT e S. QUADRINO, L’arte di comunicare, pp.8-9.

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parrucchiere, e Gigi correrà ben pochi rischi di essere diseredato se anche man-cherà il traguardo della lau-rea. Ma è proprio nei più banali rapporti quotidiani con il mondo circostante che la famiglia acquista un’identità propria, che si distingue. E, per questo tipo di rapporti, le differenze ri-spetto alla famiglia elisabettiana sembrano essere assai più lievi di quanto lascia intuire Stone. “Then as now, the idea of the ‘family’ could extend to kinsfolk and affines out-side the household circle”,26 scrive Ingram (corsivo mio), e anche Houlbrooke mostra alquanto scetticismo circa la differenza di permeabilità tra famiglie dell’epoca di Shakespeare e famiglie odierne: “whether family households were considerably larger and more complex before the industrial revolution, may now be regarded as resolved: most of them were not. But whether they were more ‘porous’, more subject to the influence of kin and neighbours, remains a controversial point.”27

Esistevano i nonni? I tempi della morte e altri fattori demografici

Parlando di famiglia estesa, è ora inevitabile affrontare l’argomento anche da un punto di vista più strettamente demografico. Nel Cinquecento e Seicento si viveva assai meno a lungo di oggi, e questo aveva evidenti ripercussioni sulla vita familiare. Quando Stone ci informa, per esempio, che “la speranza di vita al momento della nascita, nell’Inghilterra degli anni 1640, era di soli trentadue an-

26 M. Ingram, cit., p. 127. 27 R. Houlbrooke, cit., pp. 9-10.

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ni”,28 viene naturale domandarsi, prima di indagare il rapporto fra nonni e nipo-ti, se mai esistessero, i nonni. In realtà, considerando che i trentadue anni di spe-ranza di vita si riferiscono al momento della nascita e che la mortalità infantile era elevatissima, per chi superava il quinto anno di età le attese di vita non era-no così catastrofiche. Come si può dedurre dal grafico di figura 1.1 (tratto da Stone, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 784), relativo alla durata media della vita degli eredi della squirarchy e dei ceti superiori maggiori di ventun anni dal 1500 al 1800, quella dei nonni, per quanto rara, non era certo una categoria ine-sistente. Ma che tipo di relazione mantenevano con figli adulti e i nipoti? E, più in generale, com’erano i rapporti intergenerazionali nell’Inghilterra dell’età mo-derna?

Prima di tentare di rispondere, conviene anche in questo caso rivolgersi per un istante alla situazione odierna, in modo da poter poi condurre il confronto su basi più concrete. Ecco dunque i Wagner a proposito dei propri genitori:

SIGNOR W.: Domani andiamo dai miei. MINUCHIN: I suoi genitori vivono vicino? SIGNOR W.: Meno di un miglio. MINUCHIN: E i suoi? SIGNORA W.: Direi a circa tre o quattro miglia. MINUCHIN: Quanto sono importanti suo padre e sua madre? SIGNOR W.: Direi che... SIGNORA W.: Non molto, veramente. SIGNOR W.: No, non quanto i genitori di mia moglie. SIGNORA W.: Tutti e due i suoi genitori lavorano e di regola non li vediamo molto.

La domenica è l’unico giorno in cui possono sbrigare le loro cose. Non li ve-diamo spesso come i miei, ma neanche i miei li vediamo tanto spesso. Lui per-lomeno: io li vedo di più, durante la settimana.

MINUCHIN: Ciò significa che la famiglia di Emily entra nella vostra vita più di quella di Mark. Era così anche prima della nascita di Tommy?

SIGNOR W.: Direi di sì. SIGNORA W.: Vivevamo con i miei prima dell’arrivo di Tommy, cioè da quando ci

siamo sposati. MINUCHIN: Quando vi siete sposati siete andati a vivere con i suoi genitori? SIGNORA W.: Lui studiava ancora all’università, stava finendo il semestre; così

siamo stati là. Abbiamo vissuto insieme a loro da aprile ad agosto: è stato orri-bile.

28 L. Stone, cit., p. 68. Per un confronto, basti pensare che, nel 1983, in Gran Bretagna, la

speranza di vita alla nascita era di 72 anni per gli uomini e di 78 per le donne.

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Anzitutto, i Wagner hanno entrambi tutti e due i genitori vivi e vegeti: se a-vere un nonno ancora in vita non era così infrequente pure in epoca elisabettia-na, averne quattro come capita a Tommy era praticamente impossibile. Al tem-po stesso, però, le dinamiche che legavano genitori e figli adulti non erano così diverse da quelle che i Wagner descrivono.

Per esempio, capitava che alcune giovani coppie—soprattutto se pressate da problemi finanziari—si adattassero a vivere con la famiglia di origine di uno dei due, come riporta Ingram parlando delle caratteristiche essenziali della famiglia Tudor e Stuart: “The great majority of family households were nuclear in form. Analysis of contemporary listings reveal that only about 10 per cent of households included resident kinsfolk other than the conjugal couple and their unmarried children. An even smaller proportion actually housed three generations of the same family.”29 In ogni caso, non si trattava di un fenomeno comune, perlomeno in Inghilterra e nel nord Europa, come precisa Barbara Diefendorf: “The question of extended versus nuclear families, though debated, has less importance for Renaissance scholars working on areas north of the Alps. It seems generally agreed that, with the exception of Italy, extended fami-lies—in the sense of families living under one roof and sharing economic re-sources—were primarily a rural phenomenon, if they existed at all, by the fif-teenth century”.30

Se non proprio “orribile” come il periodo di cinque mesi trascorso da Mark ed Emily a casa dei genitori di lei, i dati di Ingram e Diefendorf lasciano intra-vedere che la convivenza con la famiglia d’origine non doveva essere ritenuta una soluzione particolarmente allettante nemmeno per le giovani coppie elisa-bettiane. Considerando, infatti, che uno tra i motivi che contribuivano mag-giormente a ritardare l’età delle nozze (le donne si sposavano, in media, fra i 23 e i 27 anni; gli uomini verso i 30 anni) era la difficoltà di procurarsi un alloggio, è ragionevole supporre che anche all’epoca si preferisse evitare la convivenza con suoceri e genitori.

29 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 126. 30 B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 666.

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Al di fuori della convivenza, comunque, i figli adulti pare tendessero a man-tenere buoni rapporti con le famiglie di origine. In particolare, mentre mancano quasi totalmente di riferimenti a relazioni affettive significative fra nonni e ni-poti, i diari abbondano di testimonianze su reciproci scambi di visite e corri-spondenza fra figli adulti e genitori anziani, come questa di Leonard Wheatcroft (artigiano, commerciante e insegnante):

[...] Not finding myself well, I sent to my sons at London, desiring to see them before I died. So according to my desire and their mother’s they came down to us.31

O questa di Lady Anne Clifford:

Upon the 13th being Monday, my Lady’s footman Thomas Petty brought me letters out of Westmorland by which I perceived how very sick and full of griev-ous pains my dear mother was, so as she was not able to write herself to me and most of her people about her feared she would hardly recover this sickness [...]32

Nel complesso, le fonti dirette sembrano indicare che gli anziani non fossero percepiti tanto come ‘nonni’ quanto come ‘genitori dei genitori’ (decisamente, una figura assai diversa da quella dei “nonni italiani” di oggi),33 e che la rela-zione fra figli adulti e genitori anziani fosse sì emozionalmente intensa ma, al-meno geograficamente, una relazione a distanza.

Il matrimonio: tempi e modi

MINUCHIN: La sua famiglia non era contenta?

31 R. HOULBROOKE, English family life, p. 190. 32 Ibid., p. 202. 33 Cfr. lo spassoso romanzo-autobiografia-saggio di TIM PARKS, An Italian Education, e in

particolare il capitolo “Nonni”. A questo proposito, è interessante osservare che, benché in questo capitolo si sottolinei la prospettiva diacronica, le differenze sincroniche fra varie culture sono spesso altrettanto tangibili. A proposito dei nonni, per esempio, possiamo no-tare come la distanza fra la percezione elisabettiana e quella dell’Inghilterra di oggi fosse per molti aspetti minore rispetto a quella fra Inghilterra e Italia contemporanee, come tra-spare dal divertito stupore del protagonista del romanzo di Parks, un inglese che vive da anni a Verona: “Indeed, the problem for the modern Italian couple is not finding some-body to babysit, but avoiding giving offence to whichever of the grandparents is asked to babysit least.” (p. 135).

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SIGNORA W.: Sì, ma pensavano che... abbiamo cominciato a stare insieme da quando avevamo sedici anni. Io avevo sedici anni e lui diciassette, e così non abbiamo detto niente fin quando non ci siamo fidanzati.

MINUCHIN: Quanti anni avevate quando vi siete sposati? SIGNORA W.: Diciannove.

Sposarsi a diciannove anni, al giorno d’oggi, è considerata un’eccezione: se-condo i genitori di Emily, la figlia avrebbe fatto meglio ad attendere qualche anno. Nel XVI e XVII secolo, almeno da un punto di vista legale, la situazione era completamente diversa. Che ci si potesse sposare molto presto lo sappiamo bene, ma forse non sempre ne riusciamo a cogliere tutte le implicazioni. Un breve stralcio di diario può, in questo caso, essere utile a darci un’idea dell’abisso che separa le due epoche. L’autore—Samuel Jeake, mercante di Rye, astrologo e puritano—ha ventinove anni. La sua giovane sposa, Mrs. Elizabeth Hartshorn, ne ha da poco compiuti tredici. Dopo aver descritto l’impegno profu-so dalla suocera nel rimuovere potenziali ostacoli—ovviamente, di natura esclu-sivamente finanziaria—alle nozze, e aver garantito che non si tratta di un’infatuazione passeggera (“for [Elizabeth], I had an affection from her in-fancy”), ecco il resoconto di Samuel circa i primi tre giorni di nozze:

<March 1 Tuesday> [1681] About 9h 35’ a.m. I was married to Mrs Elizabeth Hartshorn at Rye by Mr Bruce, in the presence of Mr Thomas Miller, Mr Nathan-iel Hartshorn and the sexton, we going though in the day time, yet so much incog-nito that there was no concourse or notice taken either of our going or coming. The day was cloudy, but calm. The sun shone out just at tying the nuptial knot, and also just at his setting. Devirg[ination] 3 Thursday night.34

Deflorazione: giovedì 3 marzo. Un atto che, al giorno d’oggi, lo porterebbe senza alcun dubbio a una condanna pesantissima per abuso sessuale su minore, è ritenuto da Samuel talmente normale che, per descriverlo, fa ricorso a un’abbreviazione: devirg. È evidente che siamo di fronte a una differenza di contesto tale da poter invalidare l’intero impianto di questa tesi: come analizza-re i rapporti di coppia con parametri attuali, quando le mogli di allora potevano benissimo essere poco più che bambine—più adatte, eventualmente, a indagini

34 R. HOULBROOKE, English family life, p. 38.

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basate su nozioni di psicologia dell’età evolutiva che non sui metodi della tera-pia familiare?

Il problema esiste, ed è chiaro che non si potrà pretendere di descrivere la re-lazione fra il giovane Romeo e la quattordicenne Juliet—per quanto più o meno regolarmente sposati—come se si trattasse di un rapporto adulto. Ma occorre anche tener presente che la realtà—la realtà statistica, questa volta—era assai diversa da quanto la legislazione dell’epoca e le autobiografie come questa di Samuel lasciano supporre:

In theory it was possible for people to marry very young. The minimum legal age for contracting a binding union were twelve for women and fourteen for men. Moreover, it was legally permissible for couples to be betrothed at the age of seven, with the right to dissent from and repudiate the engagement when they reached the age for full marriage. Child ‘marriages’ of this sort may have been quite common in parts of north-west England at least as late as the reign of Eliza-beth, but were probably rare in most other parts of late sixteenth- and early seven-teenth-century England […]. Even the minimum ages for full marriage were, in practice, of little social relevance: it was tacitly accepted throughout society that matrimony should be reserved for those of the age of discretion, and most people married much later than the legal threshold. In England as a whole the mean age of first marriage for both men and women was in the mid- to late twenties, with males generally marrying somewhat later than females. […] But there was a marked difference between the experience of females from yeoman and gentry families and those from poorer households: the former typically married in their late teens or early twenties, while the latter often did not get married till the late twenties or the thirties. Wealthy menfolk also tended to marry earlier than their poorer neighbours.35

Sui dati riportati da Ingram, basati perlopiù su licenze matrimoniali e registri parrocchiali, concordano praticamente tutti gli storici contemporanei, Stone compreso (anche se quest’ultimo tende a dare maggior risalto ai dati relativi ai ceti più elevati, e di conseguenza a ritoccare verso il basso l’età media al primo matrimonio). E concordano pure nel far risalire il relativo ritardo dei tempi delle nozze—paragonabili a quelli odierni—a cause principalmente economiche, co-me vedremo tra qualche paragrafo.

È però interessante notare come, tra i motivi non dipendenti da fattori eco-nomici, ci siano anche considerazioni di ordine scolastico, molto simili a quelle

35 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 128-129.

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che tutt’ora contribuiscono a posticipare il matrimonio: come il nostro signor Wagner, anche gli eredi degli squires, attorno ai vent’anni, si trovavano a fre-quentare l’università. Dopodiché, spesso li attendeva un certo numero di anni agli Inns of Court e, in molti casi, il Grand Tour. 36 Insomma, una sequenza non troppo diversa, perlomeno come durata, da quella che si trova ad affrontare un ventenne dei nostri giorni per conseguire una qualsiasi specializzazione post-universitaria.

Oltre a quello dell’età delle nozze, un altro luogo comune del quale la sto-riografia sta sempre più ridimensionando la portata è quello che riguarda l’influenza dei genitori sulla scelta del partner.37 Stando ai drammi dell’epoca (e non solo), si ha l’impressione che le più laceranti tragedie familiari avessero o-rigine nel conflitto fra padre e figlia circa il futuro sposo. In effetti, soprattutto tra le classi benestanti, l’opinione dei genitori era assai più determinante di quanto non sia ora. Anche se, per legge, la decisione ultima spettava ai due con-traenti, era comunque preferibile il consenso dei genitori, in particolare quando c’era in gioco un’eredità cospicua. In ogni caso, era estremamente raro che si rendesse necessario giungere a un conflitto di proporzioni tragiche (di solito, genitori e parenti contrariati si limitavano a esercitare un “financial leverage”, come osserva David Nicholas).38 A tal proposito, mi pare condivisibile la gene-ralizzazione di Stone, il quale afferma che “nel secolo XVI la violenza era meno necessaria poiché il dovere dell’obbedienza filiale era stato meglio interiorizza-

36 Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 53. A proposito di altre motivazioni,

Stone ne riporta una assai emblematica della concezione rinascimentale della fisiologia: “era diffusa l’idea che lo sperma fosse un fluido vitale che controllava la crescita; una sua eccessiva emissione prima della piena maturità avrebbe quindi arrestato lo sviluppo fisico e intellettuale.”

37 B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 669: “Stone has been criticized for assuming that patterns observed among elites extended far down the social scale. His critics have found little evidence that English children were pressured into marriages they did not want. On the contrary, the evidence suggests that common people generally chose their own marriage partners, although they did feel an obligation to obtain parent ap-proval.”

38 In B. DIEFENDORF, “Family Culture, Renaissance Culture”, p. 670.

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to”.39 In altre parole, è sì vero che in fatto di matrimonio i giovani elisabettiani, pur non essendovi costretti, tendevano ad accettare eventuali indicazioni dei genitori, ma ciò non era che una conseguenza, fra tante, di una più generale si-tuazione di relativa sottomissione dei figli—situazione, questa, che tratteremo più avanti.

Non c’era, comunque, solo l’opinione dei genitori: la scelta, già verso la fine del Cinquecento, era anche dettata da quell’amore romantico che Stone tende forse a sottostimare.40 Prendo questa posizione un po’ a malincuore, perché, nel-la sua analisi sull’evoluzione del ruolo giocato dall’amore nella scelta del par-tner, Stone propone un’interpretazione che, per chi si occupa prevalentemente di letteratura, è estremamente avvincente:

Il calcolo pragmatico degli interessi della famiglia era nel secolo XVI il crite-rio dominante, e su di esso si fondava, nella vita pratica, la concezione del matri-monio. L’élite era però soggetta anche alla propaganda di poeti e drammaturghi, che sostenevano un ideale del tutto antitetico di amore romantico, quale si espri-me, ad esempio, nei Sonetti e nel teatro di Shakespeare.41

Così come Bloom attribuisce la grandezza di Shakespeare alla “invenzione dell’umano”, qui Stone ipotizza che Shakespeare e i suoi colleghi abbiano avuto un ruolo fondamentale nella diffusione, se non addirittura nell’invenzione, del matrimonio per amore. Ma i diari, come abbiamo avuto occasione di vedere, ri-portano situazioni assai più equilibrate sulle ragioni della vita di coppia. È dun-que ragionevole ritenere che motivazioni sentimentali e motivazioni più prag-matiche non si escludessero a vicenda, bensì tendessero entrambe a condiziona-re la scelta del partner. In questo senso, il rapporto fra teatro e società non era né puramente mimetico né, come sostiene provocatoriamente Bloom, di in-

39 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 201. Lo stesso concetto è ripreso da B. Die-

dendorf in termini di “emotional leverage parents could exert”. 40 Cfr. M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 138: “Stone’s analysis

of the processes involved in matchmaking is in some points congruent with reality; but overall he exaggerates the strength of parental influence, underestimates the role of roman-tic love and gives inadequate attention to the middling groups who played such an impor-tant part in parish society.”

41 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 198.

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fluenza diretta dell’uno sull’altra, ma piuttosto qualcosa di simile a uno fra i tanti rapporti di negoziazione analizzati da Stephen Greenblatt.42 Un rapporto nel quale c’era spazio sia per la comicità mimetica del “catalogo delle qualità” della promessa sposa di Lance (“she can milk..., she brews good ale..., she can sew..., she can knit..., she can wash and scour..., she can spin...”),43 sia per l’invenzione di un’immortale femme fatale—“not of an age, but for all time”—come Cleopatra, le cui qualità (“Age cannot wither her, / Her infinite variety. Other women cloy / The appetites they feed, but she makes hungry / Where most she satisfies”) sembrano aver influenzato non poco i criteri di ricerca della compagna ideale per numerose generazioni.

Con ciò non voglio affermare che la situazione fosse più o meno identica a quella attuale. Almeno quantitativamente, il concetto di “buon matrimonio” a-veva comunque un’importanza notevole e socialmente riconosciuta. Un’importanza maggiore, per esempio, di quanta ne potesse avere la bellezza o il fascino sensuale del partner, almeno per quanto possiamo inferire da dati pu-ramente statistici come quello secondo il quale “in Europa, nei secoli XVII e XVIII, nel 20 per cento circa di tutti i matrimoni le mogli erano di cinque o più anni maggiori del marito, di contro al 6-8 per cento che è normale nelle condi-zioni di oggi”.44

Questa compresenza di motivazioni pragmatiche e motivazioni sentimentali mi pare sintetizzata in modo equilibrato da Ingram, il quale, basandosi sulle in-dicazioni di moralisti dell’epoca come William Gouge (Of domesticall duties, 1622) o John Dod e Robert Cleaver (A godly forme of houshold government, 1630), giunge alle seguenti conclusioni:

Commentators recognised that there should be ‘good liking’, even love, be-tween prospective spouses, but they warned against the fascination of mere out-ward beauty and urged attention to interior qualities. Beyond that the essential yardstick was equality or at least comparability between the couple, especially in

42 S. GREENBLATT, Shakespearean Negotiations, 1988. 43 TGV, III.i.294-307. 44 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 210.

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respect of religious commitment, virtue, age, birth and breeding, and wealth and estate.45

Era dunque essenzialmente entro l’ambito della “equality”, cioè in un conte-sto di endogamia sociale ed economica, che ulteriori motivazioni potevano e-ventualmente essere prese in considerazione. I fattori economici, in particolare, avevano se possibile un’importanza ancora maggiore di quanto ne abbiano ora, e questo perché, nella società dei Tudor e dei primi Stuart, il confine fra econo-mia ed etica tendeva ad essere molto labile, se non pressoché inesistente. Un breve esempio, legato al discorso del matrimonio e del problema degli alloggi che abbiamo trattato poco innanzi, può ben illustrare fino a che punto l’ambito economico e quello morale si venissero a sovrapporre. Ecco cosa scriveva, nel 1628, il ministro ecclesiastico di Nether Compton (Dorset) a proposito di una tal Anne Russed: “she hath no house nor home of her own and very like to bring charge on the parish, and therefore will hardly be suffered to marry in our par-ish”.46 Simili considerazioni lasciano ragionevolmente supporre che le difficoltà che si prospettavano alle giovani coppie in procinto di sposarsi non fossero in fondo così diverse da quelle che sussistono tuttora.

Per chi riusciva a convolare a nozze, infine, anche la sequenza di passaggi ri-tuali e burocratici da rispettare era abbastanza simile a quella odierna. Infatti, benché in termini strettamente legali gli spousals di retaggio medievale—cioè i riti basati esclusivamente sull’informale dichiarazione tra una donna e un uo-mo—fossero sufficienti per diventare moglie e marito, nella realtà il matrimonio era di solito una cerimonia assai più formale e solenne, coinvolgeva le autorità ecclesiastiche ed era occasione di lunghi festeggiamenti.47 A questo proposito, è interessante osservare che proprio nel periodo fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento la Chiesa inglese, preoccupata il numero ancora elevato di matrimoni clandestini (e, soprattutto, per i crescenti casi di bigamia) e pressata

45 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 136. 46 In M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 131. 47 Vedi R. HOULBROOKE, English family life, p. 17: “Weddings among the gentry and pros-

perous yeomanry were commonly occasions for feasting and celebration which might con-tinue for several days”.

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dalle richieste del Parlamento per una normativa più severa, impose ai propri ministri regolamenti assai rigidi sulla concessione delle licenze matrimoniali e sulla conduzione del rito—i “canons” del 1597 e del 1604. Contemporaneamen-te, con il bigamy act del 1604, il reato di bigamia, prima processato dai tribunali ecclesiastici, diventò competenza della assai più severa giurisdizione secolare, che ne stabilì in modo dettagliato i limiti: se l’altro coniuge era ancora in vita, ci si poteva risposare solo in seguito a una sua assenza di almeno sette anni, oppu-re se al momento del matrimonio non era stato rispettato il vincolo della mag-giore età o, infine, se la coppia veniva dichiarata ufficialmente divorziata da una corte ecclesiastica.

‘A little hell’: crisi e incomunicabilità nella vita di coppia

Da quanto si è appena detto circa le eccezioni al reato di bigamia, sembra di intuire che, se il matrimonio rinascimentale era un rito di passaggio avente nu-merose affinità con quello odierno, la separazione doveva essere una faccenda assai più complicata di quanto non sia ora. Prima di affrontare l’argomento, dunque, volgiamo di nuovo lo sguardo ai Wagner, e in particolare a un loro pe-riodo di crisi coniugale:

MINUCHIN: Come sono stati i primi anni? Il primo anno di matrimonio, cosa è ac-caduto?

SIGNORA W.: Uno schifo. MINUCHIN: Mark le permette di dire ciò che sente, vero? Così lei ha potuto dire

che è stato uno schifo. E come è stato per lei, Mark? SIGNOR W.: In un certo senso, una delusione, perché... né più né meno di come me

l’aspettavo, comunque. MINUCHIN: Un bel disastro.

[…]

SIGNORA W.: Lui era studente. E così... se le cose andavano male poteva rifugiarsi nei libri. E ce la metteva proprio tutta. Quando le cose non andavano bene io stavo là, lo mettevo in croce e ne facevo una tragedia. La situazione divenne insopportabile, sproporzionata. Penso che se non avessi avuto Tommy, proba-bilmente, dopo un mese di quella trappola, lo avrei lasciato.

Emily racconta che, dopo un solo mese nella nuova casa, la situazione fra lei e Mark era già talmente deteriorata da farle prendere in considerazione l’ipotesi di separarsi. Se non lo ha fatto, è stato principalmente per il figlioletto Tommy.

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Le ragioni della crisi, com’è del tutto normale, sono piuttosto confuse, e Minu-chin cerca di comprenderle un po’ meglio:

MINUCHIN: Voglio sapere in che modo faceva schifo. SIGNOR W.: La comunicazione, questo era il problema centrale. SIGNORA W.: Non comunicavamo.

[…]

SIGNORA W.: Non comunicavamo per niente. È stato così per due anni. Dopo la botta e risposta: “Ti odio” — “Ti odio”, le comunicazioni tra noi finivano. Dopo un po’ siamo arrivati a detestarci.

SIGNOR W.: O lo abbiamo creduto. SIGNORA W.: Sa che c’era? Lui poteva fuggire, io non avevo alcun modo per

squagliarmela. E rimanevo seduta lì. MINUCHIN: Naturalmente. Lui non aveva cambiato di molto il suo modo di vivere.

Studiava prima e studiava dopo. Per lei invece come è cambiata la vita? SIGNORA W.: Niente di particolare. Dovevo solo aspettare di avere un figlio, farlo

e aver cura di lui.

L’atmosfera familiare descritta dai Wagner—che sia o meno quella respi-rabile, in un periodo di crisi, in una “famiglia odierna media”—è senz’altro un valido campione di ciò che i terapeuti della famiglia si trovano quotidianamente ad affrontare: la comunicazione tende a ridursi a scambi simmetrici, la casa di-venta una “trappola”, e i figli vengono immediatamente coinvolti—persino pri-ma di nascere. Chiedersi quali possano essere le analogie e le differenze rispetto alle crisi di una famiglia dell’Inghilterra Tudor e Stuart è dunque inevitabile, per quanto non sia affatto semplice trovare una risposta certa.

Cominciamo dall’aspetto meno controverso: era ammesso, e se sì in quali casi, lasciare il proprio coniuge? Premesso che il divorzio così come lo inten-diamo ora non era ammesso, erano però contemplati alcuni casi per i quali si poteva chiedere l’annullamento del matrimonio: minore età, frigidità o impoten-za permanente, bigamia, incesto. Si poteva, inoltre, chiedere una separazione giudiziaria—“from bed and board”—a patto di riuscire a dimostrare che l’altro coniuge (moglie o marito) si era reso colpevole di adulterio o estrema crudeltà.48 L’incidenza degli annullamenti era relativamente elevata soprattutto nei ceti più

48 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, pp. 145-146. L. STONE,

Famiglia, sesso e matrimonio, pp. 41-45.

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alti (tra il 1570 e il 1659, circa il 10 per cento dei matrimoni aristocratici venne-ro annullati). Per ragioni prettamente economiche, inoltre, era abbastanza eleva-ta (attorno all’8 per cento) anche la percentuale di abbandoni del tetto coniuga-le, quasi sempre da parte del marito, fra famiglie poverissime.49 Per tutte le altre fasce sociali, invece, nella quasi totalità dei casi il matrimonio terminava con la morte di uno dei due coniugi (evento, del resto, tutt’altro che raro, considerando quanto era breve la durata media della vita).

Tornando alla nostra Emily, dunque, è chiaro che le sarebbe stato impossibi-le ottenere la separazione da Mark solo in base al fatto che la loro convivenza “faceva schifo”. Ciò, però, non significa che la convivenza sotto il tetto coniu-gale non potesse rivelarsi “uno schifo” anche per le coppie elisabettiane:

More direct evidence from diaries, autobiographies, letters, wills and other sources likewise supports the idea that family relationships in the middle and lower ranks of society were more affectionate and less authoritarian than Stone implies.

It is important, however, not to go to the other extreme and idealise family life in this period. Court records and other sources reveal, in Wiltshire as in other ar-eas, some brutal cases of child neglect and ferocious wife-beating; and no doubt tyrannical husbands were to some extent sustained by the stereotype of male dominance. For these and other reasons, marriages could in some cases become ‘a little hell’.50

L’esperienza della vita familiare come “un piccolo inferno”, soprattutto per le donne, non era dunque sconosciuta. Le ragioni riportate da Ingram (“fero-cious wife-beating”, “tyrannical husbands”), però, benché purtroppo ancora at-tualissime, sono assai diverse dalla soffocante palude di incomunicabilità e soli-tudine descritta da Emily. Ancora una volta, non è dalle registrazioni degli ar-chivi penali che possiamo sperare di ricostruire gli aspetti più quotidiani e meno eclatanti di eventuali esperienze di malessere nelle coppie rinascimentali, bensì dai diari personali. Nelle pagine del maggio del 1617 del diario di Lady Anne Clifford, che già abbiamo avuto occasione di conoscere all’inizio di questo capitolo, si trova la seguente sequenza di annotazioni:

49 Per questi dati, vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 148. 50 Ibid., p 144.

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The 3d my Lord went from Buckhurst to London, and rid it in four hours, he riding very hard, a hunting all the while he was at Buckhurst, and had his health exceeding well.

The 8th I spent this day in working, the time being very tedious unto me as having neither comfort nor company, only the child.

[12] … I wrote not to my Lord because he wrote not to me since he went away …51

Appena qualche frammento di emozioni, perlopiù implicite, ma al tempo stesso materiale prezioso e raro, sul quale vale la pena soffermarsi. Il marito di Lady Anne è un uomo attivo, benestante, “his health exceeding well”, e non gli mancano le opportunità per viaggiare. Proprio come accade al signor Wagner, “lui può fuggire”, mentre Lady Anne, come Emily, “non ha alcun modo di squagliarsela”. Emily “doveva solo aspettare di avere un figlio”; Lady Anne già ce l’ha, un figlio, ma non ha nient’altro: “only the child … neither comfort nor company”. Di conseguenza subentra la noia, certo (“the time being very tedious unto me”), ma anche, ed è questo che più ci interessa, una modalità simmetrica di comunicare il proprio risentimento: in questo senso, il botta e risposta “ti o-dio – ti odio” dei Wagner corrisponde al “I wrote not to my Lord because he wrote not to me” tra Lady Anne e suo marito.52 Ed è esattamente sull’esistenza di questo tipo di corrispondenze, sulla possibilità di modalità comunicative co-me il “non scrivere al marito perché lui non ha scritto a me”, che si fondano i presupposti per il tipo di letture shakespeareane che verranno proposte in questa tesi.

51 R. HOULBROOKE, English family life, p. 64. 52 A proposito di questo confronto, può essere utile sottolineare che il primo “assioma” degli

studiosi del comportamento e della comunicazione umana asserisce l’impossibilità di non comunicare, e comprende anche il “silenzio” come forma di comunicazione. Ecco come lo illustrano P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN e D.D. JACKSON in Pragmatics of Human Com-munication: “Activity or inactivity, words or silence all have message value: they influ-ence others and these others, in turn, cannot not respond to these communications and are thus themselves communicating. It should be clearly understood that the mere absence of talking or of taking notice of each other is no exception to what has just been asserted.” (p. 49).

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Come si educa un figlio?

Essendoci imbattuti nel piccolo Tommy Wagner e nel figlio di Lady Anne, cogliamo ora l’occasione per considerare un altro aspetto della vita familiare Tudor e Stuart: il rapporto tra figli e genitori. Per introdurre il confronto, ci af-fidiamo ancora una volta ai ricordi dei Wagner, e in particolare di Emily:

SIGNORA W.: Ricordo un episodio. Non so perché, ma mio padre era furibondo per qualche motivo. Ero una ragazzina senza peli sulla lingua e non ci pensavo due volte a dirgli di togliersi dai piedi. Dovevo avere circa quindici anni. Non so nemmeno perché lui era così arrabbiato con me, ma so che non mi parlava perché era furioso per qualcosa che avevo fatto. Mia madre mi lasciò uscire, perché non era d’accordo col suo modo di pensare e lui non parlò più con lei per tutto il giorno. Era nero. Intendo dire, questo era il genere di situazione. Basta un episodio...

MINUCHIN: Così sua madre combatteva contro suo padre servendosi di lei. SIGNORA W.: Probabilmente sì. Non ricordo che mio padre mi abbia mai picchiato

fino a quindici anni. Poi lo ha fatto. Penso che mi abbia picchiato una sola vol-ta, forse due. E io l’ho ricambiato: non gli rivolsi la parola. Lui disse a suo fra-tello che ero molto arrogante e non gli portavo rispetto.

“Penso che mi abbia picchiato una sola volta, forse due”, come dice Emily di suo padre, sono parole che difficilmente una quindicenne elisabettiana avrebbe avuto motivo di pronunciare, così come “e non gli portavo rispetto”. Se la vita di coppia poteva trasformarsi in “a little hell”, per i pochi bambini che soprav-vivevano—la mortalità infantile entro i primi cinque anni di vita sfiorava il 60 per cento—la vita domestica doveva essere un inferno di proporzioni assai più vaste, almeno ai nostri occhi. La repressione cominciava, in modo quasi lettera-le, fin da quando si era ancora in fasce: per curiose ragioni mediche,53 infatti, ta-li fasce erano infatti talmente strette da immobilizzare completamente i bambini. In seguito, se possibile, la situazione tendeva a peggiorare. Senza addentrarci nell’impressionante quantità di pratiche al limite del sadismo cui i bambini ve-nivano sottoposti, sia in casa che a scuola, ci può essere sufficiente sapere che, per il periodo che va dal 1540 al 1660, “una gran massa di documenti, soprattut-

53 Vedi L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 178: “Le ragioni mediche della fasciatu-

ra erano che «per la loro tenerezza, le membra di un bambino possono presto curvarsi e flettersi e assumere forme diverse»”.

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to di parte puritana, testimonia una fiera determinazione a piegare la volontà del bambino per imporgli una totale soggezione all’autorità degli anziani e dei su-periori, soprattutto dei genitori”.54

In ambito educativo, era la disciplina il valore fondamentale da perseguire a tutti i costi, e il metodo seguito, lungi dal prevedere rinforzi positivi (premi, in-coraggiamenti), si basava pressoché esclusivamente sulle punizioni corporali. Era normale inginocchiarsi davanti ai genitori, e scontato dare loro del lei.55 Un altro aspetto da tenere in considerazione è che i protagonisti della violenza non erano solo i padri, ma anche le madri: “[è] anzi evidente che i figli spesso ave-vano altrettanto o più da temere dalle madri che dai padri, probabilmente perché le frustrazioni e le angosce psicologiche delle prime venivano sfogate sui figli indifesi”,56 scrive Stone.

Anche in questo caso, però, è prudente non dare valore assoluto alle conclu-sioni di Stone, e cercare piuttosto di assegnare il giusto rilievo ai documenti che lasciano intuire possibilità in contraddizione con le sue generalizzazioni. Per quanto riguarda l’ipotizzata violenza delle “madri frustrate” sui figli, per esem-pio, occorre tenere presente che molti commentatori dell’epoca erano invece preoccupati proprio del contrario, e cioè degli effetti deleteri che l’indulgenza delle madri poteva avere sull’educazione della prole. In un interessante saggio sull’assenza di figure materne di rilievo in Shakespeare,57 Mary Beth Rose ri-porta alcuni passaggi del capitolo “Of children and the charge and care about them”, tratto da un volume del 1529 dell’umanista Juan Luis Vives, Instruction of a Christen Woman, la cui traduzione ebbe una notevole influenza sul pubbli-co inglese. In uno di questi brani, Vives ricorda—in quello che Rose definisce

54 Ibid., p. 179. 55 A questo proposito, è interessante notare come anche nel teatro di Shakespeare i figli si ri-

volgano ai genitori con la formula ‘you’, mentre i genitori tendano ad usare il ‘thou’. Per un confronto su basi statistiche, vedi le tabelle C.5.1-4 in appendice).

56 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 187. 57 M.B. ROSE, “Where Are the Mothers in Shakespeare? Options for Gender Representation

in the English Renaissance”, pp. 291-314.

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“an extraordinary moment of pre-Freudian self-revelation”—la sua relazione con la madre, e scrive:

I coulde nat perceyue that euer she longed me. Therfore was ther no body, that I more fled, or was more lothe to come nyghe, than my mother, whan I was a childe.58

Come commenta Rose, ciò che la società percepiva e condannava come po-tenziale pericolo non era la violenza delle madri—o, più in generale, dei genito-ri—sui figli, bensì la loro “overindulgence of love”. Tutto sembra comunque far pensare che, vuoi perché frustrati e angosciati, vuoi per l’esigenza di crescere una prole addestrata ad affrontare la dura vita elisabettiana, i genitori mantenes-sero nei confronti dei figli rapporti improntati sulla violenza fisica e sulla fred-dezza psicologica.

Eppure i diari, pur confermando le violenze, lasciano intravedere anche no-tevoli spazi di attenzione, nonché squarci di indubbia tenerezza. John Dee, ma-tematico e astrologo morto nel 1608, tra il 1582 e il 1596 si preoccupò di anno-tare le vicissitudini degli otto figlioletti avuti da Jane, la sua seconda moglie. Nonostante lo stile distaccato, sono pagine toccanti, pagine dense di sangue e fratture, ma non sempre nel senso che ci potremmo attendere:

[1582, July] 3. At a quarter past twelve, Arthur Dee fell from the top of the Watergate Stairs down to the foot from the top, and cut his forehead on the right eyebrow.

[1588, January] 1. On New Year’s Day, about nine of the clock after noon, Michael, going childishly with a sharp stick of eight inches long and a little wax candle light on the top of it, did fall upon the plain boards in Mary’s chamber, and the sharp point of the stick entered through the lid of his left eye towards the cor-ner next to the nose, and so pierced through, insomuch that great abundance of blood came out under the lid, in the very corner of the said eye; the hole on the outside is not bigger than a pin’s head; it was anointed with St John’s oil. The boy slept well: God speed the rest of the cure… The next day after it appeared that the first touch of the stick’s point was at the very middle of the apple of his eye, and so (by God’s mercy and favour) glanced to the place where it entered with the weight of his head and the force of his fall. Thus I may make some show of it. [A

58 Ibid., p. 301.

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sketch illustrates the accident at this point]. To the praise of God for his mercies and protection.59

Il diario prosegue riportando meticolosamente numerosi incidenti di questo genere capitati ai vivaci figlioli, incidenti in base ai quali pare di capire che, una volte tolte le fasce, i bambini avessero ampie occasioni per rifarsi dell’immobilità cui erano stati costretti nei primissimi anni di vita. La famiglia Dee, tra l’altro, non doveva certo essere particolarmente permissiva, almeno a giudicare da quest’altro brano del diario—protagoniste la moglie Jane e la figlia di otto anni Katharine—perfettamente in linea con le categoriche conclusioni di Stone:

[1589, May 21] Katharine by a blow on th’ear given by her mother did bleed at the nose very much, which did stay for an hour and more; afterward she did walk to the town with Nurse and [after] her coming home an hour, she bled again, very sore, by gushes and [pulses?], very fresh good blood, whereupon I perceived it to be the blood of the artery…60

Le osservazioni di John Dee sono espresse con un linguaggio talmente clini-co, per essere fatte da un padre, da sembrarci quasi ciniche. Secondo Stone, un certo grado di cinismo da parte dei genitori era l’inevitabile conseguenza dell’alta mortalità infantile e di quella “costante presenza della morte” che è, a suo giudizio, “la caratteristica più sorprendente che distingueva la famiglia de-gli inizi dell’età moderna da quella di oggi”,61 nonché dei fattori specifici della cultura del tempo, che spiegherebbero “la freddezza psicologica e la severità fi-sica”.62 Ma la convivenza forzata con la morte non è necessariamente causa di distacco emotivo. Ecco le reazioni di Nehemiah Wallington, un tornitore londi-nese al quale sono già morti tre dei cinque figli (un quarto morirà l’anno succes-sivo alla stesura del brano che segue), alla scomparsa e al ritorno della figliolet-ta Sarah, la quale era uscita nel pomeriggio per giocare con un’amichetta e, per una serie di disguidi, non era rientrata che a notte fonda:

59 R. HOULBROOKE, English family life., p. 137. 60 Ibid., p. 138. 61 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 67. 62 Ibid., p. 194.

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[August 13, 1631] Now I had been to look for her, but could not find her, and when I came home I was told all this as is aforesaid. Then I began to think of God’s great mercy unto me and unto my wife, for it might have been that we should have seen it no more, or if we had it might have been a great while after; and then what strange distractful thoughts should we have had, and how could we eat or have slept that night with thinking ‘What is become of our poor child?’, thinking ‘It may be it is drowned at the water side, or some other mischief hath be-fallen it’; and how should we have gone to church the next day, being the Sabbath, being full of grief and such distractful thoughts as we should have had?63

Sono brani come questi a farci sospettare che l’atmosfera di repressione e violenza nei confronti dei bambini non fosse che una faccia della medaglia, e che, come scrive Houlbrooke, “the bond between parents and children, in an age sometimes portrayed as one of distance and deference, was often close”.64 E questo pare essere l’atteggiamento prevalente anche nei confronti dei rari “bam-bini shakespeareani”, dallo spiazzante affetto paterno mostrato da un villain del calibro di Aaron—il quale, nella battuta citata in apertura di questo capitolo, giunge a dire del suo pargoletto “This before all the world do I prefer”—allo scambio di battute fra Lady Macduff e il figliolo in Macbeth—“an early instan-ce of the emerging concept of the affective nuclear family”, come lo definisce Catherine Belsey.65

Prima di congedarci dal periodo dell’infanzia, infine, mi sembra giusto la-sciare l’ultimo spazio al punto di vista di una “diretta interessata”. Si tratta di una testimonianza pressoché unica nel suo genere, e cioè le ultimissime parole di Elizabeth—la prima figlia di Nehemiah, gravemente malata—pronunciate poche ore prima di morire all’età di tre anni, e amorevolmente trascritte dallo stesso Nehemiah: “Father, I go abroad tomorrow and buy you a plum pie.”66

So che non andrebbe scritto in una tesi di dottorato, ma quando mi capita di rileggere gli ultimi versi di Lear, non riesco a non correre col pensiero al plum-cake della piccola Elizabeth.

63 R. HOULBROOKE, English family life, p. 145. 64 Ibid., p. 136. 65 C. BELSEY, “Literature, History, Politics”, p.407. 66 R. HOULBROOKE, English family life, p. 142.

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Adolescenti ribelli

Se l’infanzia era considerata alla stregua di una patologia, una malattia da curare in modo deciso e nel più breve tempo possibile, si potrebbe pensare che nel Rinascimento venisse riservato ben poco spazio per i turbamenti tipici dell’età adolescenziale—sempre che l’adolescenza esistesse, il che non è così scontato. Le domande da porsi, rassegnandosi in partenza a ricorrere a inevitabili stereotipi, sono dunque: quali tratti presenta l’adolescente di oggi? E quali i loro coetanei del periodo di Shakespeare?

SIGNORA W.: Ma io... fumavo a tredici anni. Mio padre non mi ha dato il permes-so di farlo fino a sedici anni, tuttavia potevo fumare davanti a mia madre. Quando mio padre non c’era affumicavo la casa.

MINUCHIN: È un bel triangolo. SIGNORA W.: Fingevo di sentirmi male per non andare a scuola; mia madre sapeva

che ero malata fino alle otto e un quarto, e mi permetteva di star fuori il resto del giorno.

SIGNOR W.: Oh, si andava anche un po’ più in là... MINUCHIN: Aspetti un momento. Emily sta descrivendo la sua famiglia e se ha bi-

sogno d’aiuto deve chiederglielo. SIGNORA W.: Vuole intromettersi. SIGNOR W.: Per esempio, so che più tardi, quando ci siamo conosciuti, se papà a-

vesse saputo che stavamo fuori fino alle due o alle tre di notte, capperi, sareb-be caduta la casa, ma lui non lo sapeva mai.

SIGNORA W.: Anche tuo padre e tua madre non lo sapevano mai. SIGNOR W.: A loro non importava nulla. Questa è la differenza.

Triangolazioni a parte, sia dai ricordi di Emily sia da quelli del marito traspa-re il ritratto di un’adolescenza intesa anzitutto in termini di ribellione, di oppo-sizione alle direttive mondo adulto. Un’opposizione, è bene notare, finalizzata precisamente alla conquista di quelle forme di emancipazione che contribuisco-no a sancire il passaggio dall’infanzia all’età adulta: fumare, per esempio, o in-trattenere relazioni sentimentali e sessuali, o ancora rientrare a casa a notte fon-da. Una fase della vita, dunque, che dal punto di vista relazionale si gioca anzi-tutto all’interno di una semantica della libertà, ed entro il classico doppio lega-me—più o meno latente—che impone di comportarsi in modo “responsabile”: poiché il concetto di “comportamento responsabile”—in quanto appannaggio della diade genitoriale, e più in generale del mondo adulto—presenta una so-vrapposizione pressoché totale con il concetto di “ubbidienza”, se si accettasse

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integralmente l’ingiunzione si cadrebbe nel paradosso di non avere mai occa-sione di affrontare le proprie responsabilità; se la si rifiutasse in toto, d’altronde, si avrebbero notevoli difficoltà ad essere considerati come “adulti maturi”, rischiando così l’emarginazione in quanto devianti. Ed è proprio nella continua—e spesso faticosissima—negoziazione fra queste due alternative e-streme che consiste il percorso relazionale dell’adolescenza come la intendiamo oggi.

E all’epoca di Shakespeare? Come si comportavano gli adolescenti del pe-riodo Tudor e Stuart? Era presente anche nell’immaginario di allora una corre-lazione diretta fra età anagrafica e comportamento ribelle, o “irresponsabile”, o comunque un’idea dell’adolescenza come momento di forte discontinuità sia ri-spetto all’infanzia sia rispetto al mondo adulto? Se ci si dovesse basare sui drammi di Shakespeare, si direbbe proprio di sì. A parte gli innumerevoli con-flitti fra padri e figlie in occasione del matrimonio, o il tormentato percorso di maturazione—linguistica quanto politica—di un personaggio come Hal in Henry IV,67 anche le occasionali considerazioni di carattere più generale sem-brano confermare oltre ogni possibilità di dubbio che tale correlazione fosse ben presente al pubblico elisabettiano. Ecco come va rimuginando l’Old Shepherd di The Winter’s Tale, in procinto di imbattersi in Perdita:

I would there were no age between ten and three-and-twenty, or that youth would sleep out the rest; for there is nothing in the between but getting wenches with child, wronging the ancientry, stealing, fighting—hark you now, would any but these boiled-brains of nineteen and two-and-twenty hunt this weather?

[III.iii.58-64]

Dai dieci ai ventitré anni: un’età da cancellare. Un’affermazione, questa dell’Old Shepherd, che né il padre di Emily né suo suocero, contrariati dagli in-contri clandestini dei due figli, avrebbero avuto troppe difficoltà a sottoscrivere. Ma la ribellione adolescenziale non era prerogativa del solo mondo della fin-zione. Una storia per molti aspetti simile a quella di Emily e di suo marito, co-struita su incontri all’insaputa dei genitori e culminata in uno stolen marriage, è

67 Sul processo di formazione linguistica di Prince Hal, vedi S. GREENBLATT, “Invisible Bul-

lets”, in S. GREENBLATT, Shakespearean Negotiations.

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raccontata per esempio nel diario di John Evelyn, per un lungo periodo amba-sciatore in Francia:

[July] 27 [, 1685] This night when we were all asleep went my daughter Elizabeth away to meet a young fellow, nephew to Sir John Tippet […], whom she married the next day, being Tuesday, without in the least acquainting either her parents, or any soul in the house. I was the more afflicted and astonished at it in regard we had never given this child the least cause to be thus disobidient, and being now my eldest, might reasonably have expected a double blessing. But it af-terward appeared that this intrigue had been transacted by letters long before, and when she was with my Lady Burton in Leicestershire, and by private meeting near my house. She of all our children had hitherto given us least cause of suspicion; not only for that she was yet young, but seemed the most flattering, supple, and observant; of a silent and particular humour, in no sort betraying the levity and the inclination which is commonly apparent in children who fall into these snares, having being bred up with the utmost circumspection, as to principles of severest honour and piety. But so far, it seems, had her passion for this young fellow made her forget her duty, and all that most indulgent parents expected from her, as not to consider the consequence of her folly and disobidience ‘til it was too late. […] [My wife and I] were most of all astonished at the suddenness of this action, and the privateness of its management; the circumstances also considered and quality, how it was possible she should be flattered so to her disadvantage; he being in no condition sortable to hers, and the blessing we intended her. The thing has given us much disquiet: I pray God direct us how to govern our resentments of her diso-bidience, and if it be his will, bring good out of all this ill.68

Il matrimonio fra Elizabeth e il nipote di Sir John Tippet finì poi in modo tragico, ma non nel senso che ci si potrebbe attendere pensando a una vicenda come quella di Romeo and Juliet: molto più banalmente, poche settimane dopo le nozze, Elizabeth morì di vaiolo. Ciò che però più qui ci interessa è altro, e cioè la reazione dei genitori alla “disobidience” della figlia: sulla rabbia prevale nettamente lo stupore, il rendersi conto all’improvviso di quanto poco cono-scessero veramente la figlia, l’inquietudine, la volontà di trovare una soluzione. In particolare, mi pare estremamente attuale la richiesta di aiuto rivolta a Dio, qui invocato per un tipo di intervento squisitamente “terapeutico”: “[to] direct us how to govern our resentments of her disobidience”. In altre parole, almeno nella famiglia di John Evelyn, pare che circolassero idee assai simili a quelle di oggi circa la complessità di un fenomeno come la ribellione adolescenziale.

68 R. HOULBROOKE, English family life, pp. 38-39.

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Questa testimonianza sembra dunque far supporre che l’adolescenza esistes-se, e che fosse caratterizzata da un conflitto con il mondo adulto non tanto di-verso da quello che la caratterizza ora. Stephen Greenblatt, riferendosi all’età di Cordelia, scrive che “[it] was for Shakespeare’s England the age that demanded the greatest attention, instruction, and discipline, the years between sexual ma-turity at about fifteen and social maturity at about twenty-six. This was, in the words of a seventeenth-century clergyman quoted by Keith Thomas, «a slippery age, full of passion, rashness, wilfulness,» upon which adults must impose re-straints and exercise shaping power.”69 Ingram, per citare il parere di uno stori-co, parla esplicitamente del matrimonio come un evento “marking an end to the irresponsibility of youth”.70 E lo stesso Houlbrooke, pur sempre riferendosi all’adolescenza principalmente come a un periodo di corteggiamento, afferma che “most people in the late teens and the early twenties probably enjoyed a considerable degree of freedom in forming their own attachments to members of the opposite sex.”71

La differenza principale rispetto a oggi, piuttosto, mi pare fosse nell’asimmetria fra il grado di libertà concesso agli adolescenti maschi e quello, assai più limitato, riservato alle adolescenti femmine, ma questo era un tratto ti-pico della società in generale più che della sola adolescenza. Ed è ciò di cui ci occuperemo nella prossima sezione.

“Chi portava via la spazzatura?”

Affrontare l’argomento della condizione femminile nel Rinascimento inglese richiederebbe una tesi di dottorato ad esso interamente dedicata. Qui mi limiterò a pochissimi aspetti, a mio giudizio significativi, circa la posizione della donna in famiglia.

69 S. GREENBLATT, “Lear’s Anxiety”, in S. GREENBLATT, Learning To Curse, Essays in E-

arly Modern Culture, p. 83. 70 M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 128. 71 R. HOULBROOKE, English family life, p. 15.

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In generale, possiamo affermare che le donne vivevano in una condizione di pesante disparità rispetto agli uomini. L’istruzione, per esempio, a parte durante l’illuminato periodo che va da più o meno dal 1530 al 1560—del quale la stessa regina Elisabetta fu una fra le poche beneficiarie, e che comunque riguardò solo un numero estremamente limitato di donne dell’aristocrazia—era monopolio pressoché esclusivo degli uomini, e questo era vero per ogni fascia sociale. “Nell’Inghilterra elisabettiana,” scrive Stone, “il divario d’istruzione tra i sessi si verificava a tutti i livelli della società: dagli artigiani maschi che sapevano tracciare la propria firma all’élite maschile che sapeva scrivere e leggere la Bib-bia, e spesso anche Cicerone. La maggior parte delle mogli erano incapaci di imitare i mariti in questa attività, fatto che rafforzava significativamente il loro senso di inferiorità.”72

Sul “senso di inferiorità” di cui parla Stone è d’accordo anche Houlbrooke, il quale, oltre a sottolineare come quasi tutti i diari femminili a noi pervenuti siano opera di donne delle upper classes, aggiunge che “the distinctive aspect of wo-men’s situation which left the clearest mark on a number of diaries […] was their subordination to men—fathers or husbands. About half our female diarists suffered frustrations and tensions as a result of the conflict between their duty of obedience and their own wishes, or obligations which they thought to be even more important.”73

Un altro dato sul quale gli storici concordano è che, in modo analogo a quan-to si è già osservato circa l’età delle nozze, le donne appartenenti ai ceti sociali più umili pare avessero un maggior margine di libertà e maggiori occasioni di esprimere la propria autorevolezza rispetto alle donne di classi più elevate. Ciò era probabilmente legato all’opportunità che le donne non appartenenti alla no-biltà avevano di lavorare (principalmente nell’agricoltura e nei servizi), oppor-tunità che si presentava in particolare in occasione dell’assenza dei mariti. Ciò però non significa che quella di lavoratrice fosse una condizione ambita: le don-ne erano pagate all’incirca la metà degli uomini, e finché il marito era in vita

72 L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio, p. 174. 73 R. HOULBROOKE, English family life, p. 13.

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non era comunque concessa loro alcuna indipendenza economica. Lo stato giu-ridico delle mogli lavoratrici, dunque, più che a quello di “socie alla pari”, era assimilabile a quello della servitù. Non a caso, è opinione pressoché unanime di tutti gli storici che a stare meglio in assoluto fossero le vedove e le—peraltro numerosissime—donne adulte non sposate: era infatti solo in assenza di un ma-rito che una donna poteva diventare, a tutti gli effetti, padrona dei suoi posse-dimenti.

In ogni caso, la maggior parte dell’attività femminile si svolgeva fra le mura domestiche, quindi sotto lo stretto controllo dei mariti, il cui diritto ad esercitare la propria autorità sulle mogli era appoggiato e rafforzato tanto dalle posizioni dei moralisti74 quanto dalle consuetudini delle comunità urbane e rurali,75 presso le quali una donna che osasse opporsi apertamente al coniuge veniva sottoposta al pubblico dileggio e a forme di umiliazione che potevano contemplare persino il ricorso alla tortura. Sul piano strettamente legale, inoltre, la condizione fem-minile, già fortemente penalizzata nel corso del Cinquecento, subì un deciso peggioramento nel secolo successivo, con il progressivo affermarsi da una parte della common law sul diritto ecclesiastico (tradizionalmente più sensibile alle richieste, se non di parità, perlomeno di attenuazione delle discriminazioni ses-suali) e dall’altra della famiglia nucleare su quella estesa. Entrambe queste ten-denze, infatti, andando in direzione di una maggiore parcellizzazione del potere, contribuirono a relegare sempre di più le donne nelle posizioni subordinate di figlie e di mogli. Persino il graduale abbandono del cattolicesimo a favore del protestantesimo, decretando la fine del culto della Vergine e la scomparsa di una figura come quella del prete (fra le cui attività rientrava anche quella di me-diazione in casi di conflitto familiare, in seguito delegata direttamente al capo-

74 A questo proposito, anche senza voler prendere in considerazione posizioni di radicale an-

tifemminismo come quelle sostenute da JOSEPH SWETNAM nel suo Arraignment of Lewd, Idle, Froward, and Uncostant women del 1615, basti considerare che persino in un testo illuminato come l’Utopia di THOMAS MORE—che pure prevedeva una società egualitaria con pari diritto all’educazione per entrambi i sessi—la soggezione della donna all’uomo era l’unico tratto autoritario esplicitamente ammesso.

75 Sull’antifemminismo della comunità dei vicini, vedi il quarto capitolo di questa tesi.

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famiglia), finì per avere ripercussioni complessivamente negative sulla condi-zione femminile.

Entro questo tetro ritratto di una società saldamente maschilista e patriarcale, però, non mancavano eccezioni e contraddizioni, in particolare se si considera quanto avveniva nel resto d’Europa, dove le donne godevano in generale di una libertà ancora più limitata. Il fatto, per esempio, che in Inghilterra le donne po-tessero lavorare tranquillamente nei pub e negli inn, o che nessuno (a parte i pu-ritani, naturalmente) proibisse loro di frequentare le feste e i teatri, era per molti viaggiatori stranieri occasione di stupore. Ancora, nonostante in materia di mo-rale sessuale il double standard maschilista fosse ampiamente accettato e la re-putazione sessuale fosse tenuta in grande conto, vi era una diffusa tolleranza per quanto riguardava il comportamento nell’ambito delle relazioni prematrimonia-li: erano per esempio consentiti gli abbracci e i baci in pubblico, e più in genera-le tutte le manifestazioni di affetto che non giungessero all’atto sessuale com-pleto. Evenienza, quest’ultima, che a giudicare dalle statistiche (all’epoca di Shakespeare, circa una donna su cinque giungeva al matrimonio già incinta76) era comunque tutt’altro che rara, soprattutto considerando che, a causa delle precarie condizioni igieniche e alimentari, si presume che la possibilità di un singolo rapporto di portare effettivamente al concepimento fosse inferiore al già ridotto due per cento che si riscontra nelle coppie dell’epoca moderna.

Per riassumere, potremmo quindi dire che la diffusa discriminazione sessuale si concretizzasse—sul piano sociale, legale ed economico—perlopiù nell’ambito strettamente familiare, e in particolare sui ruoli di moglie e figlia, più che sulle donne in generale. Poiché quello della famiglia è il contesto del quale si occupa questa tesi, è dunque quanto mai necessario confrontare tale si-tuazione con quella attuale. In altre parole, come vive la sua condizione di don-na, all’interno della famiglia, la Emily della nostra intervista?

Per quanto riguarda l’istruzione, è indubbio che le siano state concesse op-portunità impensabili per una donna del periodo Tudor e Stuart: prima del ma-

76 Vedi M. INGRAM, Church courts, sex and marriage in England, p. 157.

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trimonio con Mark, e soprattutto prima della nascita di Tommy, Emily frequen-tava l’università. Ma dopo?

MINUCHIN: […] Lui non aveva cambiato di molto il suo modo di vivere. Studiava

prima e studiava dopo. Per lei invece come è cambiata la vita? SIGNORA W.: Niente di particolare. Dovevo solo aspettare di avere un figlio, farlo

e aver cura di lui. MINUCHIN: Cosa faceva prima di sposarsi? SIGNORA W.: Ero studentessa. Ho lavorato per un po’. MINUCHIN: Sicché la vita di Mark non è stata sconvolta dal matrimonio come la

sua. SIGNORA W.: Scusi, non ho capito ciò che ha detto. MINUCHIN: Il suo modo di vivere è stato sconvolto dal matrimonio, quello di Mark

no. SIGNORA W.: Esatto, penso di sì. Credo proprio di poterlo affermare. MINUCHIN: Perciò lei voleva qualcosa di più da lui. SIGNORA W.: Sì. Stava continuando a vivere nello stesso modo in cui viveva pri-

ma di sposarsi. MINUCHIN: Mark non voleva riconoscere il fatto di essere sposato. SIGNORA W.: Penso che ne tenesse conto, almeno fino a un certo punto. Tornando

a casa trovava l’appartamento pulito e i pasti... Dopo la nascita di Tommy c’è stato un po’ più di caos [ride].

MINUCHIN: Non mettiamo ancora in mezzo Tommy. Vi siete trasferiti dopo quat-tro terribili mesi in cui lei era ancora figlia, mentre era già moglie. Siete andati a Kansas City. Lì non era più figlia perché i suoi genitori non stavano più con lei, non era neanche più studentessa, né lavorava, ma, in un modo o nell’altro, non era neppure moglie.

SIGNORA W.: Sì, credo che sia così.

Dinamiche di coppia a parte, ciò che questo stralcio di dialogo pone in rilie-vo non sono solo le diverse conseguenze del matrimonio per i due coniugi, ma soprattutto la rassegnazione con cui Emily sembra avere accettato di essere lei, e non Mark, a dover interrompere gli studi. È stata, questa, una scelta dettata e-sclusivamente da motivi contingenti? O ha influito il fatto che Emily fosse don-na e Mark uomo? Nell’intervista non viene specificato, ma ulteriori stralci pos-sono aiutarci a formulare alcune ipotesi:

MINUCHIN: Chi portava via la spazzatura? SIGNORA W.: Dicevo: “Mark portala via”. Facevamo baruffa. MINUCHIN: E allora? SIGNORA W.: “Lo farò quando mi capita”. SIGNOR W.: “Sì, e io lo farò quando tocca a me” [ride]. SIGNORA W.: Nel frattempo, la spazzatura si ammucchiava e allora veniva fuori la

grossa litigata. L’immondizia straripava. Erano sempre piccolezze come que-sta, mai cose serie.

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MINUCHIN: Ovviamente non si trattava solo dell’immondizia. Ne facevate una questione di autorità.

SIGNORA W.: Proprio così. SIGNOR W.: La questione era nei termini; sono disposto a fare ciò che mi chiedi,

finché non t’aspetti che lo faccia a modo tuo. SIGNORA W.: O quando vuoi tu. MINUCHIN: E come l’avete risolta? SIGNOR W.: Erano cose da poco, quelle che Emily ha menzionato. MINUCHIN: La vita è fatta di piccole cose. SIGNOR W.: Quello era il mio modo di mostrare resistenza non è vero? MINUCHIN: Credo che lui continuasse a dire: “Sono scapolo”. Capisce? SIGNORA W.: Era come se lo fosse. MINUCHIN: E lei, invece, gli ricordava che eravate sposati. “Porta via la spazzatu-

ra”. Questa è una funzione da persona sposata [ride]. Ma lui insisteva: “Io so-no scapolo”.

SIGNORA W.: Non mi aiutava affatto. Non ha cambiato un pannolino fino a quan-do Tommy ha avuto sei mesi; e questo dall'inizio in poi. Gli dissi: “Mark, devi imparare a cambiare i pannolini, che succederebbe se mi ammalassi o qualcosa del genere? Dovresti cambiarli tu”. Non potevo uscire neanche una volta senza portare con me il bambino, perché lo disturbava mentre studiava. E così scop-piò il conflitto.

Portare via la spazzatura, cambiare i pannolini: cose davvero da poco, ma come rileva prontamente Minuchin la vita familiare, al tempo di Shakespeare come al nostro, è fatta di esattamente di queste piccole cose. Ora, benché nel contesto macrosociale del mondo occidentale le donne abbiano conquistato, nel corso del Novecento, una posizione di sostanziale parità rispetto all’uomo, a giudicare dalla distribuzione dei compiti fra i Wagner pare che, in ambito fami-liare, la strada da percorrere sia ancora lunga: quali che siano le cause contin-genti, anche al giorno d’oggi, proprio come accadeva in epoca Tudor e Stuart, dei bambini se ne occupano principalmente le donne. Con questo non intendo certo sminuire l’entità dei risultati di quella che è stata senz’ombra di dubbio la più importante rivoluzione culturale e sociale della storia: semplicemente, vo-glio evidenziare come il genere sessuale giochi tutt’ora un ruolo determinante, per quanto sempre più latente, nella continua negoziazione del potere all’interno della coppia.

Un ultimo esempio, nuovamente tratto dalla vicenda coniugale dei Wagner, penso possa risultare significativo in rapporto a quanto si è scritto circa il dou-ble standard e il diverso grado di libertà concesso alle donna prima e dopo il matrimonio:

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SIGNORA W.: È vero, si aspettava alcune cose da me fin da quando abbiamo co-minciato a uscire insieme. Per esempio, non dovevo fumare in pubblico, ossi-genarmi i capelli...

MINUCHIN: Lei si tinge i capelli? SIGNORA W.: Ora sì. MINUCHIN: Ciò significa che vi siete messi d'accordo. SIGNORA W.: Basti un esempio. Stavamo a Kansas City da circa un mese e abita-

vamo nei College Courts, dove tutte le ragazze avevano i capelli tinti. Glielo feci notare e gli dissi che avrei fatto lo stesso, lui rispose: “Fallo e io mi rapo come Yul Brynner”. Era quello il punto; io sfidavo i suoi desideri e lui era pronto a combattermi. […] Ce n'era abbastanza per litigare per cinque mesi. Ero andata contro i suoi desideri.

Emily, alla fine, è riuscita ad ossigenarsi i capelli, proprio come tutte le ra-gazze non sposate dei College Courts. Ma per farlo ha dovuto combattere. Do-vendo valutare l’applicabilità del punto di vista della terapia della famiglia all’epoca rinascimentale, ciò che dobbiamo domandarci non è tanto se una mo-glie del periodo Tudor o Stuart sarebbe riuscita ad averla vinta sul marito—probabilmente, no, e comunque avrebbe attirato su di sé il biasimo dell’intera comunità di appartenenza—quanto se fosse prevista (anche solo a livello poten-ziale) la possibilità, lo spazio relazionale, per avviare un conflitto sulla libertà di gestione del proprio aspetto. Ripensando ad Adam Eyre e ai suoi battibecchi quotidiani con la moglie Susannah “for wishing her only to wear such apparel as was decent and comely”, penso di poter affermare che questo spazio, per quanto ancora angusto, esistesse già allora.

Un’indagine diacronica su larga scala: i rapporti fra siblings

È dall’inizio di questo capitolo—e in modo temo piuttosto monotono—che propongo confronti fra l’intervista ai Wagner e brani di diari del XVI e XVII secolo. Il motivo, come ho già spiegato, è dovuto principalmente alla necessità di stabilire confronti fra realizzazioni di dinamiche familiari concrete, più che su tendenze desumibili da dati statistici. In quest’ultima sezione, nella quale mi concentrerò sui rapporti fra fratelli e sorelle, mi limiterò invece a presentare il metodo e i risultati di uno studio su vasta scala condotto da Frank J. Sulloway, un sociologo americano, dal titolo Born to Rebel. Il motivo di questa scelta è che il metodo di indagine adottato da Sulloway per indagare le dinamiche rela-

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zionali che si stabiliscono fra fratelli (e sorelle) soddisfa in modo egregio nume-rosi vincoli: a) è condotto su un campione di decine di migliaia di biografie, re-lative a ben 6243 “fratelli” e 323 “sorelle”;77 b) il criterio adottato per la raccolta dei dati è assai più affine a quello dell’intervista che a quello delle domande a scelta multipla, e presta notevole attenzione alle particolari contingenze di ogni famiglia presa in esame (basti pensare che il numero totale di “dati” codificati per l’intera indagine supera il mezzo milione); c) dal punto di vista diacronico, ed è questo l’aspetto che mi interessa qui maggiormente, il campione copre un periodo che va dalla Riforma protestante ad oggi.

Come si può intuire già da queste poche cifre, si è trattato di uno studio va-stissimo: ha richiesto numerosi anni di lavoro e coinvolto decine di collaborato-ri. Il risultato principale che Sulloway ha ottenuto, volendolo riassumere in po-che parole, è la dimostrazione della correlazione fortissima esistente fra ordine di nascita e una particolare propensione a ribellarsi all’autorità, a cercare nuove soluzioni—in definitiva, al cambiamento. Per quanto riguarda l’innovazione in campo scientifico, per esempio, Sulloway giunge a concludere che “[most] in-novation in science, especially radical ones, have been initiated and championed by laterborns. Firstborns tend to reject new ideas, especially when the innova-tion appears to upset long-accepted principles. During the early stages of radical revolutions, laterborns are 5 to 15 times more likely than firstborns to adopt the heterodox point of view. During technical revolutions, laterborns are 2 to 3 ti-mes more likely to lend their support. For their own part, firstborns are drawn to reactionary innovations, a domain in which they are also the principal pioneers. Firstborns typically welcome conservative doctrines as potential bulwarks against radical change, supporting them 2 to 1 over laterborns.”78 In campo politico e religioso, per fare un altro esempio, questa propensione si manifesta con la tendenza, da parte dei primogeniti, ad aderire a movimenti conservatori, mentre gli ultimi nati sembrano essere più inclini a sostenere idee di stampo liberal.

77 Vedi F. SULLOWAY, Born to Rebel, p.xvi e p. 376. 78 Ibid., p. 53.

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Come si spiega questa correlazione, che pare essere quantitativamente più determinante di ogni altro fattore extrapsichico (dalla posizione sociale allo stesso genere sessuale)? La motivazione offerta da Sulloway è di tipo “neo-darwiniano”, e si basa sull’interessante concetto—tipicamente sistemico—di “nicchia familiare”, che merita di essere riportato in modo esteso: “Families are best seen as containing an array of diverse niches, each occupied by a different individual and each presenting differing vantage points on life. From these dif-fering perspectives, family members experience the same event differently. Families do share interests and social values. But siblings differ even in their in-terests and values, and these differences are caused, in substantial part, by dif-ferences in niches within the family. […] The typical firstborn strategy is to align his or her interests with those of the parents, adopting the parents’ per-spective on family life. The family status of firstborns is primary, and they seek to maintain this primacy by defending their niche against encroachments by younger brothers and sisters. Laterborns offspring face a different developmen-tal challenge. Their most pressing problem is to find a valued family niche that avoids duplicating the one already staked out by the parent-identified firstborn. Instead, they seek to excel in those domains where older siblings have not al-ready established superiority. Laterborns typically cultivate openness to experi-ence—a useful strategy for anyone who wishes to find a novel and successful niche in life”.79

Ovviamente, le eccezioni sono ammesse (da figlio primogenito quale sono, la prima volta che ho letto Born to Rebel ho tentato, senza troppo successo, di aggrapparmi all’idea di essere una di queste…). Ciò che mi pare straordinario dello studio di Sulloway, però, è che l’incidenza di tali eccezioni è quantificata (vedi le percentuali riportate prima circa la propensione all’innovazione in cam-po scientifico). Ma anche senza fare appello al rigore del metodo scientifico, penso sia sufficiente pensare a coppie shakespeareane significative come Oliver e Orlando in As You Like It, o a triadi come quella Goneril-Regan-Cordelia in King Lear, per subire la suggestione della teoria di Sulloway.

79 Ibid., pp. 352-353.

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Nel corso di questa tesi, farò esplicitamente riferimento allo studio di Sullo-way in un’unica occasione: nel quarto capitolo, a proposito della relazione fra Katherine e Bianca in The Taming of the Shrew. Tuttavia, per quanto riguarda l’impostazione generale di questa tesi, il fatto che un aspetto relazionalmente così rilevante come il rapporto fra fratelli (e sorelle) non abbia subito variazioni significative nel corso degli ultimi cinque secoli—“the influence of birth order has held steady since the time of the Protestant Reformation, a period of nearly five centuries”,80 sottolinea Sulloway—mi sembra possa essere considerato un’ulteriore indicazione a favore della possibilità di applicare la teoria dei si-stemi familiari anche a gruppi sociali storicamente assai distanti dal periodo nel quale tale teoria si è sviluppata.

In conclusione?

Cercando di riepilogare quanto scritto fino ad ora circa il rapporto fra le re-lazioni intrafamiliari dell’Inghilterra al tempo di Shakespeare e quelle del mon-do occidentale contemporaneo, direi che si potrebbero assumere come accettabi-li ipotesi di lavoro le seguenti affermazioni:

• Nonostante le condizioni sociali ed economiche dei singoli individui fos-

sero assai diverse, la struttura ‘famiglia’ nella sua evoluzione diacronica, sia da un punto di vista demografico (composizione, numero di figli, età di formazione) sia da un punto di vista affettivo-relazionale (presenza di conflitti sul problema dell’autorità, senso di appartenenza, necessità di negoziazione con le esigenze dei singoli membri da una parte e con grup-pi socialmente più estesi dall’altra) mostra un cospicuo numero di tratti sovrapponibili.

• Le due differenze relazionali più rilevanti si riscontrano nel rapporto fra i

sessi e nell’atteggiamento verso l’infanzia. In entrambe queste sfere, però, cominciava a delinearsi la possibilità di soluzioni alternative, di un cam-

80 Ibid., p. 53.

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biamento. In altre parole, benché l’esito delle realizzazioni fosse decisa-mente diverso da quello attuale, lo spazio per negoziarle—come testimo-niano non soli i diari ma anche l’interesse degli stessi moralisti sia per la condizione femminile sia per l’educazione dei bambini—esisteva.

• Per quanto riguarda le relazioni extra-familiari, pare evidente che la per-

meabilità fra organizzazione familiare e organizzazione politica, nel sen-so di possibilità di intrusione di quest’ultima nella sfera privata, fosse as-sai più elevata di quanto non sia ora. Ciò vale anche nella direzione op-posta: la società, in tutti i suoi aspetti, si mostrava estremamente consa-pevole e preoccupata delle ripercussioni che i cambiamenti nell’organizzazione familiare avrebbero potuto innescare al livello della sfera pubblica. Si pensi, per esempio, alla relativa tolleranza nei confronti dei comportamenti individuali rispetto alle numerose forme di controllo sugli individui in quanto membri di una famiglia. Questo, contingenze storiche a parte, è probabilmente collegato a quanto osserva Minuchin sulle famiglie nelle società in rapida evoluzione: “più flessibilità e adat-tamento la società chiederà ai suoi membri, più significativa diventerà la famiglia quale matrice di sviluppo psico-sociale”.81

Alla luce di queste considerazioni, è dunque applicabile la teoria dei sistemi

familiari alla famiglia del periodo Tudor e Stuart? Per rispondere, ovviamente, occorre conoscere almeno a grandi linee i metodi e gli strumenti della teoria dei sistemi familiari, quindi rimando i lettori di questa tesi alla lettura del terzo ca-pitolo per poter valutare autonomamente tale applicabilità. La mia opinione, comunque, è che un simile tentativo sia non solo possibile ma anche proficuo.

Proficuo per chi si interessa primariamente di storia culturale, in quanto, ri-volgendosi soprattutto a interazioni reali fra individui particolari, offre un punto di vista potenzialmente straniante. Proficuo per chi si occupa di psicologia so-ciale e di terapia della famiglia, poiché aiuterebbe a individuare con maggior

81 S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 55.

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precisione i vincoli che un concetto inevitabilmente arbitrario come quello di ‘famiglia’ comporta. Ma proficuo anche per chi, come nel nostro caso, si inte-ressa di famiglie che esistono solo nella finzione e solo per qualche ora, poiché è proprio su queste—in quanto destinate, dal loro nomadismo diacronico e sin-cronico, a continui confronti—che la tensione fra ‘famiglia’ come soggetto illu-soriamente universale e ‘famiglia’ intesa nelle sue realizzazioni storiche e parti-colari ha occasione di esercitare tutta la propria forza.

Per concludere questo lungo ma necessario accostamento fra due entità così diverse ma per molti aspetti anche così affini come la famiglia odierna e la fa-miglia in epoca Tudor e Stuart, vorrei proporre un’ultima—brevissima—scena familiare. È tratta dal diario di John Dee (che abbiamo avuto occasione di cono-scere nella sezione sui bambini), e si riferisce a uno dei figli dello stesso Dee e a una sua giovane amichetta, colti mentre sono impegnati in un’attività molto co-mune anche fra i bambini di oggi. Un’attività che meglio di ogni altra riassume e dà parvenza organica alla caotica eterogeneità di questa tesi:

[1582, January] 22/23 Arthur Dee and Mary Herbert, [illegible word] being but three year old the eldest, did make as it were a show of childish marriage, of calling each other husband and wife…82

Di ciò che si dissero Arthur e Mary durante la loro recita domestica non è purtroppo rimasta traccia alcuna. L’argomento, però, occorre ammettere che l’avevano scelto bene: altri “show” risalenti all’incirca allo stesso periodo e che, pur fra mille altre vicende, portano in scena relazioni familiari hanno riscosso un successo tale da giungere, più o meno intatti, fino ai nostri giorni. Ed è di questi che mi occuperò nei successivi capitoli.

82 R. HOULBROOKE, English family life, p. 137.

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Capitolo secondo

Relazioni familiari in Shakespeare

Nel capitolo precedente, ho tentato di stabilire un confronto fra alcuni tratti della vita familiare in epoca Tudor e Stuart e di quella odierna. Dunque, un con-fronto sull’asse diacronico, finalizzato a identificare i principali limiti circa l’applicabilità delle teorie della terapia familiare su famiglie del passato. La di-stanza fra le famiglie di cui intendo occuparmi e quelle di cui si occupa la tera-pia familiare, però, non è solo storica: trattandosi in un caso di gruppi sociali formati da persone reali (quindi, un costrutto non solo culturale1 ma anche “bio-logico”) e nell’altro di una finzione artistica (quindi, un costrutto prevalente-mente culturale), è una distanza che potremmo definire ontologica. E il colle-gamento fra i due costrutti, se collegamento c’è, deve ovviamente essere di na-tura mimetica.

Già, ma mimesi in che senso? Chi “imita” chi? E, soprattutto, mimesi di che cosa? Le risposte, in questo caso, sono tutt’altro che scontate. Alcuni semplici esempi possono aiutare a illustrare il problema. Secondo la Poetica di Aristote-le, nel dramma—e in particolare nella tragedia—la mimesi consiste nella rap-presentazione diretta delle azioni umane. Per Erich Auerbach, invece, il concet-to di mimesi si traduce anzitutto su un piano linguistico, per cui il grado di rea-lismo di una rappresentazione si può indagare concentrandosi su aspetti preva-lentemente stilistici.2 La critica a orientamento psicologico, a sua volta, dà mag-gior risalto al realismo della sfera comportamentale ed emotiva dei singoli per-

1 Vedi U. ECO, Lector in fabula, p. 132: “Nel quadro di un approccio costruttivistico ai

mondi possibili, anche il cosiddetto mondo «reale» di riferimento deve essere inteso come un costrutto culturale”.

2 Vedi E. AUERBACH, Mimesis, vol. 2, pp. 339-340.

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sonaggi. Ancora, un presupposto implicito della critica psicoanalitica è che an-che i personaggi delle finzioni letterarie dispongano di una sorta di “incon-scio”—sia esso dell’autore, dell’epoca, o dei personaggi medesimi—e che tale inconscio si manifesti attraverso le stesse modalità con le quali si manifesta l’inconscio degli esseri umani in carne ed ossa: attraverso sogni, simboli, e lap-sus più o meno freudiani. Per Harold Bloom, infine, il ragionamento andrebbe capovolto: nel caso degli strong poets, dei quali Shakespeare sarebbe la massi-ma espressione, siamo noi a “imitare” i personaggi letterari. Dal suo punto di vista, non è Hamlet che soffre di un complesso edipico, ma piuttosto è Freud che soffre di un “complesso shakespeareano”,3 ed è il concetto di complesso e-dipico ad essere influenzato da Hamlet, non viceversa.

Tornando ora all’argomento di questo capitolo, la domanda diventa: quale tipo di relazione mimetica è necessaria affinché esista un margine per poter ten-tare di applicare le teorie della terapia della famiglia ai drammi di Shakespeare? Prima di cercare di formulare una risposta, è opportuno considerare che il pro-blema della mimesi fra arte e realtà non riguarda solo i critici letterari: così co-me questi ultimi “sfruttano” teorie nate per indagare i fenomeni della vita reale, chi si occupa di sistemi reali spesso “sfrutta” le opere artistiche per illustrare le proprie teorie, e capita che si trovi costretto a fornire una giustificazione di fronte alle numerose obiezioni che questo tipo di approccio solleva, esattamente come accade ai critici letterari. È dunque interessante sentire come Paul Wa-tzlawick, un terapeuta della famiglia, abbia giustificato la sua scelta di includere una dettagliatissima analisi del dramma Who’s Afraid of Virginia Woolf all’interno di un volume sulla comunicazione umana:

The general problem of adequately illustrating the theory of interactional sys-tems described in the previous chapter, as well as our choice of a fictitious system rather than actual clinical data (such as in earlier chapters), deserves some special comment. Having described a unit of recurring, ongoing processes with no single important incident or variable but rather redundant patterns over time and over a wide variety of situations, the first difficulty of providing examples becomes one of sheer size. In order to demonstrate exactly what is meant by the various abstrac-tions that define a system—rules, feedback, equifinality, and so forth—an enor-mous number of messages, their analysis, and their configurations must be avail-

3 Vedi H. BLOOM, “Freud: a Shakespearian Reading”, in The Western Canon, pp. 371-94.

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able. Transcripts of hours of family interviews, for instance, would be prohibi-tively bulky and would be biased by both the therapist’s point of view and by the therapeutic context. Unedited “natural history” data would carry the lack of limits to unusable extreme. Selecting and summarizing is not a ready answer either, for this would be biased in such a way as to deny the reader the right to observe this very process of selection. The second major goal, in addition to manageable size, is thus reasonable independence of the data, that is, independence of the authors themselves, in the sense of being publicly accessible.

Edward Albee’s unusual and well-known play seems to satisfy both these cri-teria. The limits of the data presented in the play are fixed by artistic license, though the play is possibly even more real than reality […]; and all the informa-tion is available to the reader.4

Watzlawick, in modo piuttosto sorprendente, afferma dunque che le sue teo-rie si possono illustrare meglio analizzando un’opera teatrale piuttosto che ri-correndo a quelli che chiama “natural history data”, e proprio grazie al maggio-re realismo della prima—“possibly even more real than reality”. La spiegazione proposta da Watzlawick è sostanzialmente la stessa per la quale uno storico co-me Hayden White ritiene opportuno ricorrere a strumenti retorici per lo studio della storia:5 sia nel caso del terapeuta sia in quello dello storico, l’indispensabile intervento sugli “unedited natural history data” finisce per in-trodurre comunque un elemento di artificiosità, alterazione tanto più pericolosa quanto più impercettibile. Ciò che invece Watzlawick, avendo scelto un dram-ma come quello di Albee, dà per scontato è che le dinamiche sistemiche alle quali è interessato—“rules, feedback, equifinality, and so forth”—siano comun-que rinvenibili anche nell’opera di finzione: in altre parole, la mimesi.

Si ripresenta così la nostra domanda: mimesi di cosa? Né di azioni in senso aristotelico, né linguistica, né di tratti strettamente individuali come il carattere o l’inconscio, ma piuttosto mimesi di relazioni, e in particolare di relazioni fa-miliari. Per essere più espliciti: il teatro così come lo definisce Peter Brook—“I can take an empty space and call it a bare stage. A man walks across this empty space whilst someone else is watching him, and this is all that is needed for an act of theatre to be engaged.”6—non sarebbe sufficiente per i nostri scopi, in

4 P. WATZLAWICK et al., Pragmatics, pp. 149-50. 5 Vedi H. WHITE, “Le poetiche della storia”, in AA.VV., Il neostoricismo. 6 P. BROOK, The Empty Space, p. 11.

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quanto l’unica relazione interpersonale consentita sarebbe quella fra l’uomo che attraversa lo spazio vuoto e il suo pubblico, relazione questa, per quanto inte-ressantissima, di natura ovviamente non mimetica. Il problema, a questo punto, diventa quello di stabilire se le relazioni familiari presenti nel corpus shakespe-areano siano o meno “adeguatamente mimetiche” rispetto alle relazioni familiari della vita reale. Prima di proseguire, però, è opportuno affrontare due problemi tutt’altro che marginali circa la natura ontologica delle relazioni.

Mimesi, “realtà” e mondi possibili: lo status delle relazioni familiari

La prima questione sulla quale vorrei spostare temporaneamente l’attenzione è riassumibile in una domanda: il significato di “finzione” è sempre lo stesso, sia che venga applicato a un personaggio sia che venga applicato a una relazio-ne fra personaggi, oppure no? È, questo, un tipico caso di sovrapposizione tra diverse categorie logiche, quindi occorre affrontarlo con particolare cautela, pe-na l’incorrere in pericolosi paradossi.

Per introdurlo meglio, invece della finzione teatrale, consideriamo per un i-stante una “finzione algebrica”: dovendo rappresentare un elementare problema del tipo “distribuendo in parti uguali otto uova a quattro bambini, quante uova toccano a ciascuno?”, si può ricorrere a un’espressione tipo x=nu/nb, dove nu sta per il numero di uova, nb per il numero di bambini e il simbolo ‘/’ per l’operazione di “distribuzione in parti uguali”. L’aspetto curioso di questa for-mulazione è che, mentre è evidente che le uova hanno una natura assai diversa da quella del numero di uova (nel senso che ‘nu’ non ha né tuorlo né albume, per esempio, e se anche potesse cadere dal cesto non si romperebbe), cosa dire del rapporto fra il simbolo ‘/’ e la relazione di distribuzione in parti uguali? In altre parole, un’astrazione come il concetto di relazione cambia il suo “valore di realtà” al cambiare del valore di realtà degli elementi ai quali si applica, così come avviene per il concetto di individuo? Non è detto.

Abbandonando l’algebra e rivolgendo di nuovo lo sguardo all’analisi dei te-sti letterari, per affrontare la questione in tutta la sua complessità è opportuno fare riferimento al modello di Umberto Eco sui mondi possibili come costrutti

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culturali,7 e in particolare ai concetti di proprietà essenziali, identità, individui supranumerari e proprietà S-necessarie. Stabilito che “costruire un mondo si-gnifica assegnare proprietà a un dato individuo”,8 che esistono proprietà più o meno essenziali, e che “l’essenzialità di una proprietà è topico-sensibile”,9 Eco si pone il problema fondamentale dell’accessibilità di tale mondo, e giunge alla conclusione che l’accessibilità dipende dall’isomorfismo, fra i due mondi WREALE e WNARRATO, di particolari relazioni—diadiche e simmetriche, nonché vincolate semanticamente—che possiamo definire relazioni S-necessarie, o proprietà strutturalmente necessarie. In particolare, le relazioni S-necessarie “sono essen-ziali all’identificazione degli individui supranumerari della fabula”,10 ossia tutti quegli individui che, rispetto agli individui di un altro mondo possibile (tipica-mente, il “mondo reale”), differiscono da essi nelle proprietà essenziali. Ed è esattamente l’isomorfismo di cui parla Eco la ragione per cui una relazione fitti-zia è “meno finta”—o meglio, è finta in modo completamente diverso, come approfondiremo più avanti—di un individuo o di un’azione o di un qualsiasi al-tro oggetto fittizio.11

7 U. ECO, Lector in fabula, cap. 8 (“Strutture di mondi”). Per un’applicazione di questi mo-

delli al testo teatrale, vedi K. ELAM, Semiotica del teatro, e in particolare il cap. 4, “Logica drammatica”.

8 U. ECO, Lector in fabula, p. 135. 9 Ibid., p. 141. 10 Ibid., p. 159. Per illustrare il concetto di “individuo supranumerario”, Eco propone due

controfattuali (dunque, due mondi possibili) che forse vale la pena riportare. Nel primo, Eco immagina che sua suocera si chieda: “Cosa sarebbe accaduto se mio genero non aves-se sposato mia figlia?”. L’individuo x qui immaginato dalla suocera di Eco, non condivi-dendo con Eco una proprietà essenziale (aver sposato la figlia della parlante), è un esem-pio di individuo supranumerario. Nel secondo, la suocera di Eco si chiede invece: “Cosa sarebbe accaduto se l’autore di questo libro [Lector in Fabula] non si fosse mai sposato?”. Poiché la proprietà essenziale, in questo caso, è “essere l’autore di Lector in Fabula”, l’individuo al quale il mondo possibile immaginato dalla suocera si riferisce non è supra-numerario rispetto allo stesso Eco, il quale soddisfa la proprietà essenziale in entrambi i mondi.

11 A questo proposito, è importante tenere presente la natura intrinsecamente relazionale del-le proprietà. Sulla confusione fra individui e proprietà, Eco osserva correttamente: “Non solo è impossibile stabilire un mondo alternativo completo ma è anche impossibile descri-vere come completo il mondo «reale». […] A maggior ragione un mondo narrativo prende a prestito i proprio individui e le loro proprietà dal mondo «reale» di riferimento. Ed ecco

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Già, ma in che modo le relazioni S-necessarie riescono a permettere l’identificazione degli individui del mondo della finzione? Eco lo chiarisce con un esempio ispirato all’incipit di Un drame bien parisien di Alphonse Allais. Poiché si tratta di un esempio secondo me non casuale—in particolare, di un e-sempio che per alcuni tratti mi pare essere sovradeterminato proprio dal concet-to di “relazione familiare”—penso possa essere interessante riportarlo per este-so. Eco riassume l’inizio del racconto con queste parole: “In un periodo attorno al 1890 c’era a Parigi un uomo chiamato Raoul. Esso era il marito di Margueri-te”; dopodiché, illustra come “essere maschio” sia “solo” una proprietà essen-ziale di Raoul, mentre la proprietà S-necessaria—quella che permette di “indi-viduare Raoul all’interno della fabula senza possibilità di errore”—è “essere il marito di Marguerite”. In altre parole, si viene a stabilire una relazione simme-trica del tipo “x è il coniuge di y” tramite la quale Raoul e Marguerita si defini-scono a vicenda, in modo circolare.

Ora, il tratto apparentemente più curioso di questa lucida e convincente tas-sonomia delle proprietà è che quasi tutti gli esempi di proprietà S-necessarie proposti da Eco riguardano relazioni familiari: oltre a quella citata fra Raoul e Marguerite, abbiamo la relazione moglie-marito fra Milady e Athos ne I tre mo-schettieri, quella padre-figlio nell’Edipo di Sofocle e perfino quella genero-suocera fra l’autore e la suocera dello stesso Eco (vedi nota 10)! Ovviamente, dovendo illustrare il concetto di proprietà S-necessaria, non esiste alcuna ragio-ne formale per privilegiare le relazioni familiari rispetto alle altre: anche la rela-zione fra “l’uomo in giacca bianca” e il “Ricki’s bar” di Casablanca12 funziona benissimo. Eppure, la preferenza accordata alle relazioni familiari è numerica-mente indiscutibile, e non è certo una prerogativa di Eco.

Giusto per citare un altro esempio significativo, lo stesso Greimas, propo-nendo la sua teoria per l’interpretazione del racconto mitico,13 finisce per sce-

perché possiamo continuare a parlare di individui e proprietà anche se solo le proprietà dovrebbero apparire come primitivi.” (ibid., p. 131, corsivo mio).

12 Ibid., p. 158. 13 A.J. GREIMAS, “Elementi per una teoria dell’interpretazione del racconto mitico”.

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gliere come mito di riferimento una storia di iniziazione—già analizzata da Lévy-Strauss—che ha per protagonisti i membri di una famiglia bororo. Fatto piuttosto sorprendente, pur trovandosi a far ricorso per tutta la durata del saggio a definizioni relazionali familiari (“il padre”, “la madre”, “il figlio”, “la suoce-ra”, “la nonna”, “il genero”, il fratellino”, ecc.), Greimas sembra non avvedersi che tale tassonomia funziona in modo assai più efficace di quella attanziale (de-stinante, eroe, adiuvante, opponente, ecc.) da lui proposta.14

Pare dunque che le relazioni familiari—rispetto, per esempio, a quelle di po-tere, o di amicizia, o di possesso, ecc.—abbiano qualche caratteristica che le porta ad essere molto adatte a esemplificare cosa si intende per proprietà S-necessaria. Ma che cosa?

Anzitutto, possiamo osservare come le relazioni familiari siano proprietà e-stremamente vincolanti (ovviamente, qui stiamo parlando del punto di vista de-notativo, non di quello sociale), ma questo è un aspetto strutturale comune a tut-te le relazioni S-necessarie. Ciò che le distingue mi pare piuttosto essere un trat-to che è al tempo stesso pragmatico e semantico, e cioè la loro straordinaria e-conomicità. 15 Se il testo, come scrive Eco, è “una macchina per produrre mondi possibili”,16 potremmo dire che il riferimento a una relazione familiare è un di-spositivo eccezionalmente efficace per indurre i lettori (o gli spettatori) a popo-lare quei mondi di significato.

La spiegazione di questa efficacia ha naturalmente a che vedere con fattori psicologici e sociali: l’esperienza della relazione familiare—in particolare la re-lazione madre-figlio, ma non solo—è l’esperienza primaria di relazione fra il sé e il mondo, ed è alla base della costruzione dell’identità di ciascuno di noi. Ter- 14 L’impressione di inadeguatezza delle “nuove” categorie narratologiche, rispetto per esem-

pio a quelle proppiane per l’analisi della fiaba, è ovviamente dovuta alla loro—voluta—povertà semantica. In teoria, il grado di astrazione e la relativa povertà delle categorie at-tanziali dovrebbero avere il vantaggio di renderle applicabili a un corpus assai più vasto di quello analizzato da Propp. Ma quanto vasto? E a quale prezzo? Come cercherò di illustra-re nei successivi capitoli di questa tesi, la loro applicabilità alla descrizione dei testi dram-matici mi pare piuttosto limitata, nonché eccessivamente penalizzante.

15 Circa il rapporto fra vincolo, economia e mimesi, e in particolare sui vincoli intrinseci all’interazione sociale, cfr. P. PUGLIATTI, “Dalle convenzioni alle regolarità”, pp. 13-28.

16 U. ECO, Lector in fabula, cit., p. 173.

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ritorio di confine fra socialità e individualità, quella della struttura familiare è un’esperienza al tempo stesso condivisibile e densa di contenuti individuali.

Ecco perché, quando scorriamo un elenco di dramatis personae17 come que-sto che segue:

James Tyrone Mary Cavan Tyrone, his wife James Tyrone, Jr., their elder son Edmund Tyrone, their younger son Cathleen, second girl18

pur senza avere la benché minima idea della vicenda che sta per avere inizio, possiamo fare ipotesi—per quanto destinate a rivelarsi errate—che vanno ben oltre la semplice distribuzione attanziale, ipotesi che coinvolgono anche il livel-lo semantico (sarà un rapporto affettivamente intenso, quello fra James e Mary? saranno gelosi l’uno dell’altro, James Jr. e Edmund? quale dei due sarà il prefe-rito? i genitori avrebbero forse voluto anche una figlia? ecc.). Tutte ipotesi che non potremmo formulare con altrettanta densità semantica se, al posto di “his wife” o “their son” fossero indicate relazioni non primarie—come avviene nel caso di “Cathleen, second girl”—o, rifacendoci a Greimas, relazioni puramente narratologiche come “il suo adiuvante”. Tanto meno potremmo formularle se al posto di proprietà S-necessarie fossero indicate proprietà essenziali, per quanto particolareggiate.19

Riassumendo, l’inevitabile isomorfismo fra alcune proprietà del mondo “rea-le” e le relative proprietà S-necessarie del mondo della finzione implica una re-lazione mimetica qualitativamente privilegiata. D’altro canto, la particolare na-tura delle relazioni familiari le rende, tra le infinite possibili proprietà S-necessarie, quantitativamente favorite per convogliare in modo economicamen-

17 A proposito delle liste di dramatis personae, è qui rilevante osservare che di solito si pre-

sentano come un elenco di nomi associato alla loro proprietà S-necessaria, e che questa proprietà è quasi sempre una relazione familiare.

18 EUGENE O’NEILL, Long Day’s Journey Into Night, 1955. 19 Un esempio significativo è il recente Ashes to Ashes (1996) di HAROLD PINTER, che si gio-

ca interamente sull’ambiguità relazionale fra Devlin e Rebecca (sono amici? amanti? tera-peuta e paziente?), definiti soltanto come “both in their forties”.

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te efficace non solo informazioni strutturali ma anche ipotesi di informazioni semantiche sul mondo della finzione. A questo proposito, può essere utile sotto-lineare che il “vantaggio economico” delle relazioni familiari diventa partico-larmente importante in un genere come quello drammatico, nel quale la necessi-tà di convogliare in breve tempo (rispetto, per esempio, al romanzo o all’epica) contenuti emotivamente significativi è abbinata a una strutturale povertà di mezzi (rispetto, per esempio, al cinema). Non stupisce, quindi, che un profes-sionista del teatro come Shakespeare se ne sia avvalso così di frequente.

Una breve parentesi sugli atti linguistici e sulla mimesi delle relazioni

Inevitabilmente legata al problema della finzionalità delle relazioni familiari è l’ormai annosa querelle circa la finzionalità degli atti linguistici. Com’è ben noto, il caso nasce dalla radicale esclusione auspicata da John L. Austin di tutti gli atti linguistici “proferiti in circostanze non ordinarie”:

[…] un enunciato performativo sarà, ad esempio, in un modo particolare va-cuo o nullo se pronunciato da un attore sul palcoscenico, o se inserito in una poe-sia, o espresso in un soliloquio. […] In tali circostanze il linguaggio viene usato in modi particolari—in maniera intelligibile—non seriamente, ma in modi parassiti-ci del suo uso normale—modi che rientrano nella teoria degli eziolamenti del lin-guaggio. Noi escludiamo tutto ciò dal nostro esame. I nostri enunciati performati-vi, felici o meno, devono essere intesi come proferiti in circostanze ordinarie.20

Queste affermazioni hanno suscitato un’enorme quantità e varietà di reazio-ni, soprattutto fra chi si occupa di teatro, ed è comprensibile: è come se l’inventore del cannocchiale in persona—e non la Chiesa—avesse proibito a Galileo di usarlo per osservare il cielo! Non è qui mia intenzione ripercorrere per l’ennesima volta i limiti, e le ragioni, del pregiudizio di Austin nei confronti dei testi drammatici:21 come dimostra in modo convincente Alessandro Serpieri, la teoria degli atti linguistici non solo è utile per analizzare i testi drammatici e per caratterizzarli rispetto a quelli letterari in generale, ma è anche ormai impos-

20 J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, pp. 21-22 (corsivi dell’autore). 21 Per una rassegna chiara e ragionata delle principali posizioni assunte a questo riguardo da-

gli studiosi del testo drammatico, vedi K. ELAM, “Atti e giochi linguistici nel dramma”, pp. 63-73.

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sibile rinunciarvi, poiché “il teatro è tutto performativo”.22 Mi limiterò quindi a rendere esplicito, nel modo più semplice e banale, il tipo logico degli atti lingui-stici dei quali questa tesi inevitabilmente si occupa, sperando così di ridurre al minimo il rischio di paradossi, sempre in agguato quando ci si trovi ad affronta-re dal punto di vista linguistico un campo di indagine al confine fra mondo della realtà e mondo della finzione drammatica.

Nella figura 2.1 ho tentato di illustrare, semplificandole quanto più ho potu-to,23 le direzioni minimali di ogni atto linguistico drammatico. Ciò che mi inte-ressa qui sottolineare è che, per evitare confusione, è fondamentale tenere sem-pre presente non solo la differenza fra linguaggio e metalinguaggio, ma anche fra le diverse categorie logiche—il “livello dei mondi”—che il metalinguaggio di volta in volta descrive. La prima cosa da notare è che “l’atto parassitico” cui fa riferimento Austin è X’0�Y’0, cioè “un atto fra attori” (e non X1�Y1, che

22 A. SERPIERI, “Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale”, p.105. 23 Per esempio, non ho tenuto conto di realizzazioni particolari come gli aside, o della bidi-

rezionalità della comunicazione sull’asse esterno. Per un’analisi più dettagliata, vedi K. ELAM, Semiotica del teatro, cap. 5.

Figura 2.1 – Atti linguistici e mondi possibili

W0

W1

P0 (PUBBLICO)

X’0

Y’0

X1

Y1

“X0” R “Y0”

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rappresenta invece un “atto fra personaggi”), poiché è solo rispetto a W0 che noi possiamo emettere un giudizio di “serietà”.24 L’anomalia dell’atto X’0�Y’0 di-venta esplicita considerando che il destinatario “autentico” non è Y’0, bensì P0, come mette in evidenza la freccia tratteggiata lungo l’asse esterno. Questa ano-malia, però, non è affatto presente nell’atto X1�Y1, in quanto W1 è inconsape-vole di W0. È dunque evidente che l’atto X1�Y1 può essere analizzato come at-to linguistico, e che i limiti di questa possibilità non dipendono da quanto è sin-cero, bensì da quanto è mimetico.

A questo proposito, ho anche cercato di evidenziare, in figura 2.1, quanto ho scritto nella sezione precedente a proposito della mimesi di relazioni: la freccia che porta da W0 a W1 rappresenta ciò che Eco chiama l’isomorfismo fra i due mondi. Che cosa “trasporta” questa freccia? Ovviamente, non X1 o Y1, i quali, essendo supranumerari, non esistono in W0 se non in quanto attori (X’0 o Y’0). Ciò che viene trasportato—o meglio, trasposto—è anzitutto la relazione (in sen-so lato) fra loro, poiché è questa a definirli, e non viceversa. Ora, benché “X0” e “Y0” possano non esistere (e di solito non esistono), la condizione necessaria af-finché l’isomorfismo si realizzi è che in W0 esista R: è proprio dal grado di mi-metismo di R che dipende la possibilità di analizzare l’atto X1�Y1, e non solo in quanto atto linguistico, ma anche in quanto comunicazione in genere. Ed è precisamente di un particolare ambito di questa comunicazione interna a W1 e mimetica di W0, la comunicazione intrafamiliare, che si occupa questa tesi.

Relazioni familiari in Shakespeare: un’indagine statistica

I drammi di Shakespeare traboccano di famiglie. Più precisamente, i perso-naggi dei 38 drammi intrattengono fra loro circa 500 relazioni familiari diadi-

24 La relatività delle affermazioni di Austin diventa palese se proviamo a immaginare un

dramma nel quale venga messa in scena la vita di un linguista, diciamo un certo Austin1, il quale a un certo punto pronunci una battuta a proposito degli atti linguistici nelle opere drammatiche (ovviamente, in un ipotetico W2…). In altre parole, il valore logico di concet-ti come “parassitismo” e “circostanze ordinarie” è sempre dipendente dal—e relativo al—livello di mondo nel quale vengono pronunciati.

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che:25 in media, più di una dozzina per ogni opera. L’unico dramma che non mette in scena personaggi fra loro imparentati è The Life of Timon of Athens. In tutti gli altri drammi, è presente almeno una relazione familiare. E, ciò che più conta, il vincolo di parentela fra i personaggi ha quasi sempre una funzione fon-damentale, al punto da condurre alcuni critici ad affermare che “Shakespeare’s preoccupation with the family leads him to interweave the definition of theatri-cal space with the vicissitudes of family bonds.”26

Come valutare, con un minimo di oggettività, il grado di mimetismo di un numero così ampio di famiglie? Ho ritenuto opportuno cominciare con una sorta di “censimento”, un approccio di tipo statistico che, se da una parte ha l’indubbio limite di offrire informazioni assai poco sofisticate, d’altra parte ha il vantaggio di fornire una serie di dati numerici trasparenti—e, per quanto ne so, in buona parte inediti. Nella parte restante di questo capitolo, presenterò la mia lettura di questi dati. Essendo, comunque, tutti riportati in appendice, il mio auspicio è che tali dati possano risultare utili anche, e soprattutto, a chi non condividerà le mie interpretazioni.

Distribuzione per sessi delle dramatis personae

Se c’è un parametro che, tra l’epoca di Shakespeare e la nostra, non ha subito rilevanti mutamenti, questo è la distribuzione fra sessi della popolazione. L’incidenza delle morti premature per parto, a dire il vero, durante il Rinasci-mento era assai più rilevante di quanto non sia ora, ma era anche in parte bilan-ciata da una maggiore esposizione della popolazione maschile al rischio di mor-te accidentale (guerra, lavoro, viaggi). È quindi ragionevole supporre che la po-

25 Cfr. tabella C.1 in appendice. Per “relazione familiare diadica” intendo una relazione del

tipo xRy, in cui x e y siano due dramatis personae presenti all’interno di un dramma come speakers (devono, cioè, pronunciare almeno una battuta nel corso del dramma) e R sia una delle 36 relazioni diadiche elencate nella tabella C.1. Il numero totale delle relazioni ripor-tate in tabella è 958. Poiché, però, ogni relazione di tipo xRy ne implica una reciproca di tipo yRx (per esempio, “Ophelia è figlia di Polonius” implica che “Polonius è padre di Ophelia”), il numero effettivo di relazioni familiari diadiche diventa la metà, cioè 489.

26 Murray M. Schwartz e Coppélia Kahn, “Introduction”, Representing Shakespeare, ***, p. xv.

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polazione fosse più o meno equamente distribuita fra maschi e femmine.

Nei 38 drammi di Shakespeare, la distribuzione delle DD.PP. per sesso è invece assolutamente improbabile: quasi nove personaggi su dieci sono maschi (vedi figura 2.2, ottenuta dalla tabella B.3).27 Da questo punto di vista, è perciò evidente che la “società shake-speareana” non è mimetica della società reale. Questo dato è ben noto, e ragioni che lo giustifichino non mancano.28 Per prima cosa, ha a che vedere con il tema

delle opere: come si può in-fatti evincere dalla figura 2.3 (tratta dalla tabella B.7), il disequilibrio fra donne e uomini è notevolmente più marcato nei drammi tenden-zialmente a carattere storico-politico (in particolare, le hi-stories e le roman tragedies)

rispetto, per esempio, ai romances e alle commedie,29 dove l’influenza delle strutture militari e di potere—rigidamente ancorate a un modello patriarcale e a larghissima prevalenza maschile—è decisamente inferiore.

Una seconda ragione, indirettamente collegata alla prima, è dovuta invece al-la necessità di ricorrere ad attori maschi anche per i ruoli femminili, necessità che probabilmente tendeva a limitare la rappresentazione di personaggi femmi-

27 L’uso dei termini in inglese, in queste figure così come nelle tabelle in appendice, è dovu-

to al fatto che sono direttamente ottenute dall’output di un software (da me sviluppato) con “classi” in inglese (questo per ridurre le “contaminazioni” culturali, quali per esempio quella derivante dall’omonimia lessicale, in italiano, fra i concetti di nephew e grandson).

28 Vedi, per esempio, il saggio di M.B. ROSE, “Where are the Mothers in Shakespeare? Op-tions for Gender Representation in the English Renaissance”.

29 Per la ripartizione dei drammi nei sei generi, ho adottato lo schema canonico riportato in tabella A.1.

Figura 2.3 - Distribuzione delle DD.PP. per sessoe per genere (vedi tabella B.7)

0% 20% 40% 60% 80% 100%

ComediesDark comedies

HistoriesRoman tragedies

RomancesTragedies

Females Males

Figura 2.2 - Distribuzione per sessodelle DD.PP. (vedi tabella B.3)

Males87.66%

Females12.34%

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nili marginali. Una conferma di tale ipotesi la si può ottenere confrontando le percentuali riportate in figura 2.2 con quelle riportate in figura 2.4: co-me si può vedere, pur rappresentando appena il 12% delle DD.PP., le donne pronunciano quasi il 18% dei versi (o

delle linee di prosa, in base alla segmentazione dell’edizione Oxford). Potrem-mo dunque affermare che le poche figure femminili presenti sono frutto di una sorta di selezione, e in particolare che sono in media un po’ più importanti (sempre che “l’importanza” si possa misurare in versi: per esempio, si potrebbe ipotizzare che siano semplicemente più prolisse, anche se ciò è facilmente falsi-ficabile tramite un conteggio del numero di battute) delle numerosissime figure maschili.

A questo proposito, per evitare di trascinarci appresso un grosso equivoco, è meglio chiarire subito cosa si intende qui con “importanza media”, e quali sono i limiti di un simile parametro. Se, per esempio, volessimo calcolare quanti versi pronunciano in media i personaggi dei drammi, otterremmo un risultato in appa-renza sorprendente: 72 per gli uomini, 111 per le donne. Vuole forse dire che, in Shakespeare, le donne contano “una volta e mezzo” più degli uomini? Ovvia-mente no, come si può dedurre osservando una statistica classica come quella riportata nella tabella B.1, dalla quale si evince facilmente che, tra i personaggi che parlano di più, la prima donna (Rosalind) figura solo al quindicesimo posto. Il dato indica, piuttosto, che i drammi di Shakespeare abbondano di uomini “poco importanti” (i vari “messengers” e “servants”). È soltanto in questo senso che le donne sono “in media un po’ più importanti”—o “più selezionate”—degli uomini.

Quanto conta, la famiglia?

Fino a questo punto, ho preso in esame due variabili indipendenti soltanto: il sesso e il genere drammatico. Per tentare di valutare l’importanza delle strutture familiari, introdurrò ora una nuova variabile, e cioè il coinvolgimento o meno di

Figura 2.4 - Distribuzione per sessodelle lines pronunciate (vedi tabella

B.4)Males

82.10%

Females17.90%

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ogni DD.PP. in almeno una relazione fami-liare diadica. Le relazioni diadiche che prenderò in considerazione, qui e nel resto del capitolo, sono quelle elencate in tabella C.1. Si tratta 36 tipi di relazioni scelte con un criterio inevitabilmente rigido e arbitra-rio, ma spero anche sufficientemente am-pio, dettagliato e documentato da permette-re a chiunque di apportarvi correzioni e modifiche con relativa facilità.

Con l’introduzione di questa nuova variabile, il primo risultato che balza agli occhi è quello riportato in figura 2.5: a fronte di appena 17 maschi su 100 coin-volti in relazioni familiari, le DD.PP. femminili che intrattengono almeno una relazione familiare sono oltre la metà. L’interpretazione di questo dato è piutto-sto semplice: le donne, in Shakespeare, al contrario di quanto avviene per gli uomini, sono in primo luogo rappresentate per il ruolo da esse rivestito nel con-testo familiare. Meno semplice, però, è coglierne le implicazioni. A prima vista, infatti, è un dato che sembrerebbe non fare altro che confermare l’influenza del-la società patriarcale sulla popolazione dei drammi. In realtà, ritengo che il di-scorso sia un po’ più complesso.

Se, infatti, mettiamo a confronto la figura 2.2 con la figura 2.6, ci accor-giamo che il disequilibrio nella rap-presentazione dei sessi risulta assai più attenuato quando si abbia a che fa-re con le famiglie. Questo dato non è in contraddizione con il precedente, ma rende più esplicita la possibilità di una seconda lettura: i drammi di Shakespeare, cioè, sono sì influenzati da una società a organizzazione patriarcale, ma la rappresentazione che essi offrono della famiglia permette di dare all’universo femminile una visibilità superiore di quanto non permetta la rappresentazione che essi offrono del resto della società.

Figura 2.5 - Quanti sono coinvolti inrelazioni familiari? (vedi tab. B.5)

0% 20% 40% 60% 80% 100%

DD. PP.

Females

Males

With Fam. Rels. Without Fam. Rels.

Figura 2.6 - Distribuzione per sessodelle DD.PP. coinvolte in almeno una relazione familiare (vedi tabella B.5)

Males70%

Females30%

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Detto altrimenti, all’interno dei drammi di Shakespeare, la rappresentazione del-la famiglia è demograficamente più mi-metica di quanto non lo sia la rappresen-tazione della società in generale.

Questa considerazione non è in sé particolarmente rilevante e si presta a numerose obiezioni: esistono, infatti, in-finiti altri sottoinsiemi, oltre alla fami-glia, per i quali il grado di mimetismo—quale che sia il parametro che si adotti per quantificarlo—è più elevato rispetto alla classe di tutti gli insiemi. Si pensi, per esempio, al sottosistema “politico”, per il quale, considerando il periodo eli-sabettiano, l’assenza di donne è in se stessa un tratto mimetico. Ma ciò che a mio parere la rende degna di nota è che appartenere o meno a una famiglia è, in Shakespeare, un criterio sovradeterminante. Per rendercene conto, è sufficiente confrontare la figura 2.5 con la figura 2.7: quel 17% di maschi e quel 50% di femmine che sono coinvolti in relazioni familiari pronunciano, rispettivamente, quasi il 50% e oltre l’80% dei versi! Si tratta di un dato secondo me fondamen-tale, poiché indica che le DD.PP. meno importanti sono prevalentemente quelle situate al di fuori della famiglia. In altre parole, nei drammi di Shakespeare la struttura famiglia ha un ruolo centrale, in quanto esiste una correlazione manife-sta fra l’intrattenere una relazione familiare e il “peso” che i personaggi hanno sulla scena.

A questo punto, è interes-sante cercare di capire in co-sa consista questa correla-zione. Se fosse dovuta a ra-gioni meramente pragmati-che—per esempio, l’economicità delle relazioni familiari, alla quale ho ac-cennato nelle sezioni prece-

Figura 2.7 - Quanto parla chi è coinvolto in relazioni familiari?

(vedi tab. B.5 e tab. B.6)

0% 20% 40% 60% 80% 100%

DD. PP.

Females

Males

With Fam. Rels. Without Fam. Rels.

Figura 2.8 - Distribuzione dei versi per genere e per appartenenza a relaz. familiari (vedi tab. B.7)

0% 20% 40% 60% 80% 100%

ComediesDark comedies

HistoriesRoman tragedies

RomancesTragedies

With Fam. Rels Without Fam. Rels.

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denti—dovrebbe presentarsi in modo più o meno uniforme in tutti i sottogeneri, in quanto la divisione per sottogeneri è anzitutto tematica. Se, invece, interven-gono anche ragioni semantiche, come pare ragionevole supporre, dovrebbe es-sere possibile osservare una disomogeneità nella distribuzione per sottogeneri.

Il grafico di figura 2.8 riporta la distribuzione delle linee pronunciate in base al genere del dramma e all’appartenenza o meno di ogni D.P. a una o più rela-zioni familiari. La disomogeneità è evidente, e tutt’altro che scontata: se è abba-stanza ovvio attendersi percentuali più basse per quanto riguarda histories e Roman tragedies, infatti, potrebbe lasciare piuttosto perplessi il valore relativa-mente ridotto che presentano le commedie, e in particolare le dark comedies. A ben pensarci, però, non c’è ragione di sorprendersi: le dark comedies si caratte-rizzano soprattutto per la rappresentazione di conflitti sociali, più che di conflit-ti familiari. Comunque sia, mi pare numericamente evidente che nei romances e, soprattutto, nelle tragedie (dove oltre tre versi su quattro sono pronunciati da DD.PP. appartenenti a una relazione familiare) la famiglia riveste una funzione fondamentale. Questa non uniformità tra sottogeneri ci consente dunque di sup-porre che la famiglia sia importante non solo dal punto di vista strutturale, ma anche da quello semantico, e che costituisca perciò un tema privilegiato.

Prima di continuare, è forse opportuna una precisazione rispetto a quanto detto fino ad ora: la significatività di questi dati non è dovuta tanto a cosa indi-cano, quanto a come sono stati ottenuti. Infatti, chiunque abbia visto o letto al-meno due o tre opere di Shakespeare sa benissimo che la famiglia riveste in esse un ruolo centrale, e non c’è certo bisogno che intervenga io ad affermarlo… Ciò che mi pare interessante è che tale impressione sembra essere confermata da un’indagine puramente pragmatica, un’indagine che non richiede in input in-formazioni semantiche e che, potendo essere svolta in modo completamente au-tomatico, è stata eseguita con relativa rapidità sull’intero corpus. Questo impli-ca, tra l’altro, che sarebbe assai semplice riprodurla su altri corpus drammatici. Ma ciò, ovviamente, esula dagli scopi di questa tesi.

Page 86: Shakespeare e la terapia della famiglia

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Chi conta, in famiglia?

Nelle pagine precedenti, ho indicato come un possibile indicatore di mimeti-smo della famiglia la distribuzione dei sessi al suo interno. È un indicatore mol-to oggettivo, ma anche assai povero: se, per esempio, venisse adottato come u-nico criterio per analizzare uno strano corpus di drammi nei quali entrino in scena soltanto mariti e mogli, o soltanto cugine e cugini, darebbe come risultato distribuzioni perfettamente equilibrate, ma ovviamente non si potrebbe dire che le strutture familiari rappresentate siano una buona mimesi delle strutture fami-liari reali.

Il fatto è che le relazioni familiari non costituiscono semplicemente un reti-colo relazionale uniforme, bensì sono soggette a rapporti di tipo gerarchico. E-sistono, cioè, relazioni diadiche primarie, secondarie, terziarie, ecc. Questo per-ché esse sono definite in base a un sistema di coordinate intrinsecamente ego-centrico, l’io-qui-ora in relazione al quale assumono significato concetti come quello di “madre”, “figlio”, “cognata”, ecc (vedi figura C.1). In altre parole, se

Figura 2.9 - Distribuzione dei ruoli familiari nei drammi (vedi tabella C.3)

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

Mot

hers

Fath

ers

Dau

ghte

rsS

ons

Gra

ndm

othe

rsG

rand

fath

ers

Gra

ndda

ught

ers

Gra

ndso

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Wiv

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nds

Aun

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roth

ers-

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Fath

ers-

in-la

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ters

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in-la

wS

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s-in

-law

Illeg

itim

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hter

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ousi

nsLo

vers

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83

si verificasse che il corpus shakespeareano mette in scena più relazioni diadiche fra zie acquisite e nipoti acquisiti che non fra madri e figli, l’ipotesi mimetica verrebbe in parte invalidata.

La figura 2.9 rappresenta la distribuzione dei ruoli familiari fra le DD.PP. shakespeareane (per il significato del termine “ruolo” rispetto a “relazione dia-dica”, vedi nota alla tabella C.3, in appendice). L’aspetto che più salta agli oc-chi è—con la sola eccezione delle mogli30—la disparità fra i sessi (della quale si è già discusso nelle sezioni precedenti), che genera risultati in apparenza ano-mali, come per esempio l’alto numero di zii e cognati rispetti a quello di madri, figlie e sorelle. Una volta tenuto conto di questa disparità, però, si evidenziano nettamente alcune tipologie relazionali predominanti, e in particolare il gruppo delle relazioni verticali primarie madre/padre e figlia/figlio, e quello delle rela-zioni orizzontali primarie sorella/fratello e moglie/marito. Questa disomogenei-tà è dunque in accordo con la struttura gerarchica della quale si parlava prima, ed indica che le relazioni primarie sono meglio rappresentate di quelle non pri-marie. La figura 2.9 mostra inoltre, com’era logico attendersi in base a quanto si è detto nel primo capitolo sulla durata media della vita, la bassa incidenza delle relazioni fra nonni e nipoti: un’ulteriore conferma dell’ipotesi mimetica.

Concentrandoci ora sulle sole relazioni primarie (figura 2.10), può essere in-teressante osservare la loro importanza in termini di versi pronunciati (figura 2.11). Ovviamente, il grafico tende un poco ad appiattirsi (vedi quanto si è detto prima circa la cautela da adottare nelle medie su singoli personaggi) ma, consi-derando l’elevato numero di DD.PP. coinvolte, il risultato rimane comunque si-gnificativo: in particolare, i mariti sembrano nettamente dominare, le figlie bal-zano al terzo posto (quindi, assai più “loquaci” dei figli) e fra sorelle e fratelli si ricrea un notevole equilibrio. La situazione illustrata in figura 2.11 mi pare, in

30 Le relazioni diadiche “x è marito di y” e “y è moglie di x” sono sessualmente simmetriche

(diversamente da tutte le altre—per esempio, da quella “x è padre di y”, nella quale y può essere sia maschio che femmina), ed è quindi inevitabile che i ruoli da esse derivanti siano sessualmente meglio distribuiti. La lieve discrepanza fra il numero dei mariti e quello del-le mogli dipende dal fatto che una moglie può aver avuto più mariti, e viceversa. In parti-colare, l’unico marito risposato è Henry VIII, mentre le mogli risposate sono due (Lady Anne e Queen Gertrude), quindi le mogli risultano meno numerose dei mariti.

Page 88: Shakespeare e la terapia della famiglia

84

questo senso, fornire una fotografia abbastanza adeguata di quello che potrem-mo chiamare il “nucleo familiare shakespeareano medio”.

Rimane comunque da prendere in considerazione l’anomalia relativa all’elevato numero di zii e di cognati: anche tenendo conto della disparità fra sessi, come è possibile che siano così generosamente rappresentate due tipolo-gie di relazione che primarie non sono? È un dato che, se non adeguatamente spiegato, potrebbe minare la validità dell’ipotesi mimetica. Suggerisco perciò di considerare la distribuzione dei ruoli familiari—limitandoci, per comodità, solo ai primi 22 (per una rappresentazione completa, vedi tabella C.3 in appendi-ce)— all’interno dei sottogeneri. Come si può osservare, le distribuzioni sono tutt’altro che uniformi. Suddividendo le diverse tipologie in quattro categorie—a) relazioni verticali primarie (genitori-figli); b) relazioni verticali secondarie (nonni-nipoti); c) relazioni orizzontali primarie (coniugi e fratelli); d) altre rela-zioni—diventano evidenti alcune disomogeneità dipendenti dal sottogenere:

1. nonni e nipoti sono totalmente assenti nelle commedie e nelle tragedie; 2. nelle commedie, le madri sono quasi totalmente assenti; 3. la relativa prevalenza delle “altre relazioni” (categoria d), e in particolare

“zio” e “cognato”, non si verifica né nelle commedie né nelle tragedie; 4. histories e Roman tragedies presentano un pattern praticamente identico

(vedi, per esempio, l’incidenza degli “zii”); 5. i picchi relativi a figli (maschi), fratelli e cognati sono limitati alle dark

comedies, alle histories, alle Roman tragedies e, in misura minore, ai ro-mances.

Figura 2.10 - I ruoli famigliari primari

0 20 40 60 80

Brothers

Sons

Husbands

Wives

Fathers

Daughters

Mothers

Sisters

Figura 2.11 - Media dei versi (o linee)per ogni D.P. avente un ruolo primario

0 100 200 300 400

Husbands

Fathers

Daughters

Sisters

Brothers

Wives

Sons

Mothers

Page 89: Shakespeare e la terapia della famiglia

85

Solo un’analisi sui singoli drammi permette di dare ragione di questi tratti: per esempio, i sei cognati (un numero relativamente elevato) che compaiono

Figura 2.12b - Dark comedies

Mot

hers

Fath

ers

Dau

ghte

rsS

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Gra

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othe

rsG

rand

fath

ers

Gra

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ught

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Fath

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augh

ters

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Son

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Figura 2.12a - Comedies

Mot

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Fath

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fath

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Gra

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Fath

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Son

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Figura 2.12d - Roman tragedies

Mot

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Son

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Figura 2.12c -Histories

Mot

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Figura 2.12e - Romances

Mot

hers

Fath

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fath

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Figura 2.12f - Tragedies

Mot

hers

Fath

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Dau

ghte

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rand

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Gra

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Fath

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wD

augh

ters

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Son

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-law

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nelle dark comedies sono tutti dovuti a Troilus and Cressida, e in particolare al matrimonio fra Hector e Andromache, e dunque non si tratta di una distribuzio-ne tipica delle dark comedies in generale. Con la dovuta cautela, comunque, una lettura complessiva è possibile, e sembra suggerire che la distribuzione dei ruoli familiari fra DD.PP. sia dettata per alcuni sottogeneri—in particolare, le histo-ries e le Roman tragedies—dall’esigenza di fedeltà al mito o alla storia, per al-tri—in particolare, le tragedie—da esigenze più strettamente drammatiche. An-cora, è interessante notare come queste due tipologie di distribuzione riflettano la differenza postulata da Stone (vedi capitolo 1) fra famiglie a lignaggio aperto e famiglie nucleari.

Riassumendo, penso si possa affermare che le tragedie e—numero di madri a parte31—le commedie tendano ad offrire una rappresentazione della “struttura familiare rinascimentale media” (vedi, per esempio, quanto si è detto, nel primo capitolo, a proposito del numero dei figli e delle famiglie estese) più mimetica rispetto a quella che presentano sottogeneri come le histories e le Roman trage-dies, Sarà dunque prevalentemente su tragedie e commedie che converrà con-centrare i primi passi del tipo di analisi che propongo.

I rapporti familiari che contano

Un ulteriore indicatore di mimesi, più raffinato dei precedenti ma anche più complesso da ottenere, è quello relativo alla “intensità” delle relazioni. Indipen-dentemente dalla distribuzione dei ruoli familiari e dal numero di versi o linee pronunciati da ogni personaggio, infatti, è ragionevole supporre che, se c’è mi-mesi relazionale, le sequenze di battute che si scambiano DD.PP. legate fra loro da relazioni primarie siano preponderanti rispetto a quelle che intercorrono fra DD.PP. legate fra loro da relazioni più marginali. Prendendo a prestito un ter-

31 Per una teoria di orientamento psicoanalitico che spieghi la relativa assenza di madri nelle

commedie, vedi J. ADELMAN, Suffocating Mothers, p. 13: “Maternal absence is as striking in [the romantic] comedies as in the [Lancastrian] tetralogy. And if, in the histories, this absence functions to enable the son’s assumption of his father’s identity, here it function to protect comic possibility itself by sustaining the illusion that the endlessly appealing girls of the comedies will never become fully sexual women and hence will never lose their androgynous charm: having no mothers, they need not become mothers”.

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mine classico della terapia della famiglia, enmeshment, ho dunque cercato di stabilire quali sono le 15 relazioni a più elevato grado di “invischiamento” nel corpus shakespeareano.

Il presupposto, ovviamente, è che nella vita familiare di tutti i giorni si stabi-liscano più frequentemente scambi comunicativi fra moglie e marito, o fra ma-dre e figlio, di quanto non accada, per esempio, fra zie e nipoti. Poiché l’unico parametro pragmatico che avevo a disposizione per misurare la “frequenza e l’intensità degli scambi comunicativi” è il numero di battute “a distanza zero” (D0_PAIRS)—cioè consecutive—fra due DD.PP., quella che ho condotto è una tipica analisi conversazionale. Naturalmente, ho limitato l’indagine alle coppie di DD.PP. legate fra loro da almeno un tipo di relazione familiare (non figura, per esempio, la relazione fra Othello e Iago).

Pur trattandosi di un’indagine meramente pragmatica, è piuttosto complessa da condurre, poiché richiede di conoscere, per ogni battuta, non solo l’identità dello speaker, che è esplicitata nel testo, ma anche quella del listener, che inve-ce è implicita (e a volte difficile da assegnare perfino ricorrendo a un’analisi semantica). Il procedimento che ho seguito è dunque inevitabilmente euristico: avvalendomi di una classica regola sul turn-taking,32 ho ipotizzato che, in una sequenza di battute di tipo A0B0A1B1A2B2 … AN-1BN-1ANBN, le battute A1…AN sia-no rivolte a B, e quelle B0…BN-1 siano rivolte ad A.33 In questo modo, l’incidenza degli errori nell’identificazione del listener dovrebbe essere forte-mente ridotta, soprattutto considerando che l’indagine è condotta su un corpus di oltre 100.000 linee.

Il risultato, riportato in tabella C.6 (e riprodotto nella tabella 2.1, in forma semplificata, per facilitarne la consultazione; le relazioni non primarie sono e-

32 Vedi V. Hermann, Dramatic Discourse, pp. 80-81: “[The turn-taking mechanism must be

abstract enough to be context-free […]. Rule 1a: if C select N in current turn, then C must stop speaking, and N must speak next, transition occurring at the first TRP [transition re-levant place] after N-selection.” Partendo da questa regola, mi sono limitato a supporre che ci viene “selezionato”, dovendo riconoscere la selezione, sia anche un listener (in sen-so lato: può anche essere selezionato in modo non verbale).

33 Per una spiegazione più dettagliata, nonché corredata da un esempio del tipo di errori ai quali questa ipotesi può dare luogo, vedi il commento alla tabella C.6 in appendice.

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videnziate dallo sfondo grigio), è al tempo stesso sorprendente e incoraggiante. Cominciamo dagli aspetti sorprendenti: al secondo posto, troviamo la relazione fra Richard ed Elizabeth in Richard III, e cioè una relazione cognata-cognato!

Tabella 2.1

Play Relation DP_A DP_B D0 PAIRS N_SEQUENCES

Oth Wife DESDEMONA OTHELLO 88 18

R3 Sister-in-law QUEEN ELIZABETH KING RICHARD 83 1

Mac Wife LADY MACBETH MACBETH 81 11

Tit Brother MARCUS TITUS 73 27

Tmp Father PROSPERO MIRANDA 66 12

Tro Uncle PANDARUS CRESSIDA 66 16

Ham Mother QUEEN GERTRUDE HAMLET 64 14

LrF Father GLOUCESTER EDGAR 63 10

Rom Cousin BENVOLIO ROMEO 57 12

AYL Cousin CELIA ROSALIND 53 25

Ham Uncle KING CLAUDIUS HAMLET 53 19

Shr Wife KATHERINE PETRUCCIO 53 20

Oth Wife EMILIA IAGO 52 18

Ant Brother-in-law ANTONY CAESAR 51 16

LrF Father GLOUCESTER EDMOND 49 8

Osservando attentamente la tabella (colonna N_SEQUENCES), si può però

notare che il conteggio di battute fra Richard e Queen Elizabeth è anomalo an-che per un altro aspetto: è relativo a un’unica sequenza. Si tratta della lunghis-sima sequenza, chiusa dal noto verso “Relenting fool, and shallow, changing woman” (IV.iv.362), nella quale Richard chiede la mano della nipote. Con i suoi versi altamente stilizzati, caratterizzati dal frequente ricorso alla stichom-ythia, è una sequenza nella quale il virtuosismo verbale sembra prevalere su o-gni altro scopo. In ogni caso, considerando anche l’argomento affrontato, non è certo un dialogo che potremmo definire mimetico.

Quanto alle altre cinque relazioni non primarie presenti in tabella, hanno tut-te in comune il fatto che alla relazione familiare “ufficiale” se ne sovrappone un’altra almeno altrettanto intensa: Pandarus, per Cressida, è anzitutto l’intermediario morboso; nel caso di Romeo e Benvolio, come in quello di Ro-salind e Celia, l’intenso legame di amicizia prevale su quello di parentela; An-tony e Caesar, prima di diventare cognati, sono due dei tre triumviri di Roma; il

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legame incestuoso di Claudius con Gertrude, infine, rende la relazione zio-nipote con Hamlet pressoché equivalente a un rapporto primario.

In ogni caso, è importante osservare che ben 9 relazioni su 15 sono primarie. Ed è significativo anche il fatto che quelle appartenenti alle tragedie siano oltre la metà (8 su 15). Ciò che più mi pare incoraggiante come indicatore dell’importanza della famiglia in Shakespeare, comunque, è un altro aspetto: anche considerando soltanto il gruppo delle prime otto relazioni, tutte le “great tragedies” vi si trovano rappresentate, e vi si ritrovano rappresentate da quattro coppie che potremmo tranquillamente definire “canoniche”: Desdemona e O-thello, Macbeth e Lady Macbeth, Gertrude e Hamlet, Gloucester ed Edgar (per non parlare di Prospero e Miranda). In un certo senso, questo è un risultato scontato. Ma è proprio il suo “essere scontato” a fornire la conferma principale al principio mimetico che si voleva investigare: è un risultato che consideriamo scontato perché ci pare “naturale” che le relazioni più intense (anche verbal-mente)—quelle in grado di sostenere l’impianto drammatico di una “great trag-edy”—siano, nel mondo della “realtà” come in quello della finzione, le relazioni familiari primarie. Il fatto che “metodi” incommensurabili, come possono essere le considerazioni su basi estetico-psicologiche di A.C. Bradley—tanto per fare un esempio classico—e un’analisi intrinsecamente povera e meramente pragma-tica come quella qui proposta, sembrino convergere nell’identificazione del campione delle opere in qualche modo più significative è a mio parere reso pos-sibile proprio dalla presenza, nei drammi citati, di un elevato livello di mimesi delle relazioni familiari.

Le parole della famiglia

La peculiarità a mio avviso più rilevante del metodo di indagine numerica che ho adottato è che, diversamente dalle statistiche tradizionali, assume come oggetto di studio privilegiato non gli individui ma le relazioni. Sul piano con-versazionale, questo si traduce in un allargamento della focalizzazione: dall’enunciazione al dialogo, dalla battuta alla sequenza di battute. Ciò compor-ta la possibilità di analizzare un numero di parametri più ampio. A differenza della singola battuta, per esempio, una battuta considerata nel suo contesto dia-

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logico può essere di apertura, intermedia o di chiusura: nella sequenza ipotetica che consideravamo prima, A0B0A1B1A2B2 … AN-1BN-1ANBN, la battuta di apertura è A0, quella di chiusura è BN, tutte le altre sono battute intermedie.

Associando a questa tripartizione l’analisi delle relazioni familiari, si apre la possibilità di cercare una correlazione fra dinamiche relazionali e dinamiche conversazionali. Per esempio, diventa teoricamente realizzabile uno studio stati-stico che permetta di individuare, all’interno di una relazione padre-figlio, chi dei due mostra maggiore propensione ad avviare un dialogo, e chi a terminarlo. Premetto che, se condotta esclusivamente sull’alternanza delle battute, è un ti-po di ricerca quanto mai soggetto ad errori, poiché è pressoché impossibile sta-bilire se una battuta non intermedia apre una nuova sequenza, ne chiude una precedente, svolge entrambe le funzioni o, infine, non ne svolge nessuna delle due. Considerando, però, il numero consistente di dati disponibili, penso possa valere comunque la pena di dare un’occhiata, pur con tutta la cautela del caso, ai risultati che si prospetterebbero.

Osservando le colonne DA_OPENS (numero di sequenze fra A e B inaugura-te da una battuta di A) e DA_CLOSES (numero di sequenze terminate da una battuta di A) della tabella C.6, relativa alle 15 relazioni familiari conversazio-nalmente più invischiate, possiamo distinguere due casi. Il caso simmetrico, quello cioè in cui il numero di aperture e di chiusure di A è l’opposto di quello di B (per esempio, Emilia e Iago, o Pandarus e Cressida), è quello che potrem-mo chiamare del “botta e risposta”, dettato probabilmente più da esigenze di ritmo drammatico che dalla qualità della relazione fra A e B. Il caso asimmetri-co, quando cioè le aperture sono distribuite più o meno equamente mentre c’è una disparità evidente nella distribuzione delle chiusure, evidenzia invece chi tende a sentirsi in diritto di avere l’ultima parola: in altre parole, i cosiddetti one-ups (per esempio, Prospero, Hamlet e Petruccio—guarda caso tutti ma-schi). A questo proposito, è interessante osservare come anche Macbeth, da tale interpretazione, risulterebbe essere tutt’altro che succube della moglie, ed è una lettura che proverò ad illustrare in modo particolareggiato nel quinto capitolo.

L’analisi relazionale permette però anche qualcosa di assai più insolito e in-teressante: tentare una classifica delle parole più ricorrenti tra ruoli familiari. Si

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tratta, in questo caso, di un’indagine al confine fra tratti pragmatici e tratti se-mantici, ed è quindi particolarmente utile per stabilire la qualità mimetica dei drammi. Le tabelle C.5.1-17 riportano la top ten delle parole più frequenti per le relazioni diadiche più significative. L’ordine in cui le parole sono elencate si basa sulla loro frequenza all’interno delle battute intermedie, in quanto sicura-mente le più affidabili per le ragioni discusse prima, ma è riportato anche il con-teggio relativo a battute di apertura e chiusura.

Il primo dato che salta agli occhi è che, per tutte le relazioni, ai primi posti troviamo pronomi personali di seconda persona. Questo risultato è fortemente condizionato dall’algoritmo di estrazione delle parole: ho infatti ritenuto oppor-tuno non tenere conto delle cosiddette stopwords, cioè di quelle classi di paro-le—avverbi, congiunzioni, preposizioni, pronomi, verbi modali, aggettivi dimo-strativi, numerali e possessivi, nomi propri e interiezioni—che hanno funzione prevalentemente grammaticale, ma ho deliberatamente escluso da questa lista i pronomi di seconda persona, in quanto estremamente indicativi delle dinamiche relazionali. Il fatto che si presentino in cima a tutti i conteggi, comunque, è un sintomo evidente di quanto scrive Serpieri circa la prevalenza della funzione deittica—relativa all’io-qui-ora del parlante—come specificità del genere drammatico: “Ora, a teatro, dove tutti i personaggi sono io e tu, […] gli indica-tori linguistici o paralinguistici […] o gestuali […] si moltiplicano a tal punto da costituire lo specifico della lingua teatrale che sottende tutte le varie conven-zioni storiche di linguaggi per la scena.”34

Ma quali pronomi di seconda persona si presentano con maggior frequenza? Rispondere a questa domanda è assolutamente fondamentale per capire se, ad esempio, la mimesi relazionale rispecchia le consuetudini di cui si è scritto nel primo capitolo a proposito dell’educazione dei figli: poiché la scelta fra you e thou, durante il Rinascimento, era anzitutto determinata da considerazioni ine-renti la gerarchia sociale e il rispetto (pur con qualche rilevante eccezione),35 in

34 A. SERPIERI, “Ipotesi teorica di segmentazione del testo teatrale”, pp. 102-103. 35 Vedi J. MULHOLLAND, “‘Thou’ and ‘You’ in Shakespeare: a study in the second person

pronoun”.

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un contesto mimetico sarebbe logico attendersi una disomogeneità nell’uso del pronome di seconda persona fra genitori e figli. Osservando le tabelle C.5.1-4 possiamo notare che questa ipotesi è ampiamente soddisfatta: quando il parlante è una madre o un padre tendono a dominare le forme th-, e viceversa quando a parlare è un figlio o una figlia. Nelle relazioni orizzontali primarie, invece (ta-belle C.5.5-8), si rileva una prevalenza indifferenziata per la forma you, che pe-rò è sensibilmente attenuata nel caso dei parlanti maschi (mariti e fratelli), visto che nel loro caso, al contrario di quanto avviene per mogli e sorelle, al secondo posto incontriamo una forma th-.

Ovviamente, come più volte ripetuto, occorre considerare questi dati con molta cautela e tentare di sottoporli a qualche forma di verifica, in quanto l’identità del listener è ottenuta euristicamente. A questo riguardo, una prima valutazione—benché solo qualitativa—dell’affidabilità del metodo da me adot-tato per individuare il listener è indirettamente offerta proprio dai conteggi delle parole. In quasi tutte le tabelle, infatti, la prima parola relativa a un legame di parentela è esattamente la parola che indica la relazione complementare: “son” quando a parlare è una madre (tabella C.5.1); “father” e “mother” quando parla una figlia o un figlio (C.5.3-4); “sister” e “brother” tra sorelle, fratelli e fratella-stri (C.5.5-6 e C.5.15); “uncle” se i parlanti sono nipoti (C.5.11-12); e “cousin” nel caso di cugini (C.5.16). Ci sono però tre eccezioni notevoli, il “cousin” usa-to dagli zii e il “daughter” usato da suoceri e cognati, sulle quali occorre sof-fermarsi in dettaglio, poiché ognuna di esse ha una spiegazione diversa. Il fre-quente uso di “cousin” da parte di zii (C.5.9) che parlano ai nipoti o alle nipoti (ma anche in numerose altre relazioni non primarie) è conseguenza della poli-semia della parola “cousin” in epoca rinascimentale.36 Ecco, per esempio, come Pandarus si rivolge alla nipote Cressida: “Well, cousin, I told you a thing yes-terday. Think on 't." (Tro, I.ii.166). Più complesso è giustificare le sei occorren-ze di “daughter” in bocca a un cognato (C.5.14). In effetti, non ha alcuna spie-

36 A tal proposito, è bene chiarire che nell’ambito di questa tesi la polisemia di “cousin” è

confinata ai testi, e naturalmente non si estende alla mia analisi: i personaggi che ho elen-cato nelle tabelle come “cugini” (vedi, per esempio, la tabella C.2.34) sono intesi come cugini in senso restrittivo, cioè come figli (o figlie) di fratelli (o sorelle).

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gazione che abbia validità generale, e lo si può comprendere solo andando a controllare quando si verifica: tutti e sei i casi si presentano nell’interminabile sequenza fra Richard e Queen Elizabeth, della quale abbiamo già scritto e che si conferma dunque come una singolarità (se non un vero e proprio “mostro” di virtuosismo e convenzionalità—un incubo, almeno per questa mia tesi…). An-cora diverso, infine, è il caso dell’elevata ricorrenza di “daughter” nelle battute pronunciate dai suoceri, dovuto principalmente al fatto che la relazione com-plementare di “father-in-law”—a differenza delle relazioni complementari di tutte le parentele fino ad ora considerate (con l’esclusione di “brother-in-law”)—non è realisticamente utilizzabile per indicare l’interlocutore. Detto al-trimenti, se è accettabile che un figlio si rivolga al padre chiamandolo “father”, è alquanto anomalo che un suocero si rivolga al genero chiamandolo “son-in-law”.37 Ecco, così, che a balzare al primo posto tra i termini che indicano una re-lazione di parentela non è una parola che serve a identificare l’interlocutore bensì una parola riferita all’argomento. Trattandosi qui perlopiù di padri che parlano con il genero, conoscendo la peculiare relazione che i padri shakespea-reani tendono a stabilire con le figlie (vedi capitolo 4) non c’è dunque da stupir-si che l’argomento privilegiato sia proprio la figlia...

Quanto si è appena detto circa l’accettabilità dell’uso ricorrente di termini che identifichino l’interlocutore ci offre l’occasione per un’ulteriore interpreta-zione di questi dati. Se considerassimo come termine di paragone della qualità mimetica le relazioni familiari odierne, infatti, le parole che si riferiscono alla parentela complementare dovrebbe essere, per molte categorie di relazioni, pressoché assenti, perlomeno nella loro forma non colloquiale: chi mai, al gior-no d’oggi, si rivolgerebbe alla figlia chiamandola “figlia”? O al cugino chia-mandolo “cugino”? La loro presenza nei drammi è in parte dovuta alla differen-za di consuetudini fra l’epoca presente e quella rinascimentale, ma il fatto che si presentino con una frequenza così alta è certamente dovuto anche a un’altra ra-gione: la necessità di individuare l’interlocutore sull’asse esterno, cioè di per-

37 Ciò non si applica, invece, al caso delle suocere. In Cor. I.iii.1, per esempio, Volumnia si

rivolge a Virgilia dicendole: “I pray you, daughter, sing…”.

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mettere al pubblico di identificarlo. Questa considerazione depone ovviamente contro la qualità mimetica degli scambi conversazionali fra DD.PP. Al tempo stesso, però, se tale considerazione è fondata ne deriva la conferma che le rela-zioni familiari sono, anche statisticamente, le principali proprietà S-necessarie adottate nei drammi per garantire al pubblico l’accesso al mondo della finzione.

Oltre ai pronomi di seconda persona e ai legami di parentela, poi, fanno la loro comparsa altre parole alle quali ritengo valga la pena accennare, per poi magari tentare di avanzare qualche ipotesi. Un chiaro sintomo della differenza fra la modalità affettiva del rapporto madre/figlio e di quello padre/figlio, per esempio, mi pare essere offerto dall’opposizione fra “son” (usato dalle madri) e “man” (usato dai padri). Un discorso analogo si potrebbe fare circa l’uso di “sir” e “lord” da parte delle figlie rispetto a “father” (che è prevalente nei discorsi dei figli maschi), o sulla frequenza di “lord” nella tabella relativa alle mogli. L’impiego di “love”, invece, mi pare troppo indifferenziato per poterne trarre qualche ipotesi.

Un’altra classe di parole potenzialmente degna di interesse pare infine essere quella dei verbi dichiarativi, come “speak” (per le madri), “know” (per padri, fi-glie e mogli), “see” (per i fratelli) e “say” (per i mariti), ma nel loro caso il nu-mero di occorrenze inizia ad essere pericolosamente basso, vicino cioè alla so-glia oltre la quale le caratteristiche individuali dei personaggi prevalgono su quelle del ruolo familiare, quindi la prudenza mi induce a rimandare un’eventuale analisi della loro distribuzione alle letture dei singoli drammi.

Un tentativo fallito: i go-betweens

L’ultima tappa della mia indagine numerica sui drammi è stata il tentativo di passare dall’analisi di relazioni diadiche all’analisi di relazioni triadiche. L’importanza teorica di questa estensione è notevole, in quanto tutta la terapia della famiglia—come del resto la psicoanalisi, benché su presupposti diversi—si basa sul concetto di triangolazione: come recita uno fra i pochi “assiomi” del-la famiglia, infatti, quando fra due persone le cose non vanno bene si finisce i-nevitabilmente per coinvolgerne una terza. D’altro canto, trovare una rappresen-tazione formale, e adatta a un approccio statistico, per le relazioni triadiche è ri-

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sultato assai più complesso che per quelle diadiche: anzitutto, le tipologie cre-scono in modo fattoriale; secondo, se anche si riuscissero a descrivere formal-mente tutte le tipologie, la frammentazione dei dati diventerebbe talmente elevata da rendere rischioso qualunque tentativo di generalizzazione; terzo, la probabilità di errori nel metodo euristico di analisi conversazionale diventereb-be assai elevata, poiché se già è difficile determinare il candidato più probabile al ruolo di listener in una sequenza diadica, determinare con sufficiente approssimazione l’identità di tre interlocutori senza ricorrere ad analisi semantiche è estremamente complicato, se non impossibile.

Mi sono dunque fermato a uno stadio che potremmo definire “intermedio” fra analisi diadica e analisi triadica, e cioè alla produzione di una tabella delle relazioni “più mediate” (vedi tabella C.7). In questa tabella, sono elencate le re-lazioni diadiche ordinate in modo decrescente in base all’incidenza percentuale delle coppie di battute a “distanza 1” (N_D1) rispetto a quelle a “distanza 0” (N_D0). Per battute a “distanza 1”, in una sequenza tipo A0B0A1B1C0A2B2 … AN-

1C1BN-1ANBN, intendo le coppie come B1A2 o AN-1BN-1, cioè quelle coppie di bat-tute intercalate dall’intervento di un terzo speaker, in questo caso C. Lo scopo iniziale era quello di individuare C rispetto ad A e B, in modo da scoprire, per esempio, se gli scambi fra madri e figli tendessero ad essere mediati da qualche go-between particolare (il padre? una zia? la sorella?). Purtroppo, si è trattato di un tentativo fallito: in parte per le difficoltà che ho elencato prima, in parte per l’alto livello di entropia delle distribuzioni ottenute, non sono riuscito ad indi-viduare alcuna classe di go-between che prevalesse sulle altre.

Ho comunque deciso di riportare in appendice la tabella C.7 per tre motivi: primo, segna in modo concreto il limite fino al quale si è avventurata—è pro-prio il caso di dirlo—la mia analisi; secondo, benché per lo scopo che mi ero prefissato essa rappresenti solo un punto di partenza, è in ogni caso una ricaduta indiretta di un percorso assai insolito (l’analisi triadica), e quindi vale la pena renderla disponibile per facilitare il lavoro a chi voglia proseguire oltre in tale direzione; terzo, offrendo un tentativo di classificazione delle relazioni in base al loro grado di mediazione, è possibile utilizzarla per sottoporre a verifica al-cune delle interpretazioni presentate nelle pagine precedenti.

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Per esempio, è possibile osservare la notevole omogeneità delle prime dieci relazioni, da “granddaughter” a “daughter-in-law”: sono tutte relazioni interge-nerazionali non primarie, e in particolare sono o relazioni tipicamente oblique e generalmente considerate ansiogene (come lo stereotipo per eccellenza, suoce-ra-nuora, o le relazioni fra “figliastre/i” e “matrigne/patrigni”, tutte rappresenta-te fra le prime dieci), oppure relazioni verticali di secondo grado (cioè fra nonni e nipoti), relazioni dunque che, come si è visto nel primo capitolo a proposito della durata media della vita, in epoca Tudor e Stuart erano assai più sporadiche di quanto non siano oggi, e probabilmente assai meno intense dal punto di vista affettivo, se l’immagine, offerta dai diari, dei nonni come “genitori dei genitori” corrisponde davvero alla realtà di allora.

All’estremo opposto troviamo invece relazioni anch’esse tipicamente distan-ti, come quelle fra zie e zii acquisiti e relative nipoti, ma senza particolari po-tenzialità ansiogene. La presenza della tipologia “illegitimate-son” costituisce un’eccezione, ma è opportuno sottolinearne che quella con il figlio illegittimo è la relazione “naturale” per antonomasia. Riguardo a questi due estremi—relazioni molto mediate e relazioni poco mediate—è comunque necessario ri-cordare che presentano entrambi tipologie per le quali la quantità di dati dispo-nibili è assai scarsa, e dunque l’interferenza delle caratteristiche individuali è elevatissima. D’altronde, si può notare che l’ultima colonna della tabella (N_D2_PERC), nella quale sono riportate le percentuali relative alle battute a “distanza 2”, non è troppo dissimile da quella della colonna N_D1_PERC, e sembrerebbe dunque essere confermata la validità generale, anche se non l’accuratezza puntuale, della classificazione ottenuta.

Il più interessante, comunque, è il caso delle posizioni intermedie, e in parti-colare l’ordine in cui si presentano le relazioni primarie, tutte rappresentate in questo gruppo ed entro un intervallo percentuale assai ridotto (dal 36% delle madri al 27% di mogli e mariti, dunque appena 9 punti percentuali da un estre-mo all’altro). Il rapporto meno mediato, e quindi più diretto, sembra essere quello fra coniugi, confermando così un tratto già evidente nella tabella relativa alle 15 relazioni più invischiate (tabella C.6). Quelli meno diretti risultano esse-re i rapporti fra madri e figli e quelli fra fratelli e sorelle, mentre un posto privi-

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legiato spetta alla relazione fra padri e figlie, altro tratto, questo, nel quale ci siamo più volte imbattuti e sul quale avremo nuovamente occasione di soffer-marci.

Riassumendo…

Lasciandoci ora alle spalle le analisi più o meno puntuali, i numeri e le ipote-si sulle singole relazioni, cosa sembrano indicare, nel complesso, questi dati? Per prima cosa, ritengo che offrano la fotografia di una rete di relazioni intrafa-miliari notevolmente mimetica, e per alcuni particolari sottogeneri ampiamente sufficiente, sia come qualità sia come quantità, per giustificare il tentativo di applicare l’impianto teorico della terapia familiare alla lettura degli scambi con-versazionali. Detto altrimenti, una rete di individui che comunicano verbalmen-te con membri della propria famiglia e che lo fanno seguendo modalità pragma-ticamente affini (seppur linguisticamente diverse) a quelle che si possono osser-vare nel mondo “reale”. Ancora, mi pare a questo punto evidente che l’organizzazione familiare, nel suo complesso, sia una delle strutture centrali—se non addirittura la struttura centrale—attorno alle quali il corpus preso in e-same tende a conformarsi. Infine, vorrei anticipare una lettura abbastanza sor-prendente, per quanto discutibile: in base alle teorie della terapia familiare—e in particolare di Murray Bowen e di Theodore Caplow38—circa la comunicazione intergenerazionale vs. intragenerazionale, le famiglie shakespeareane, dando l’impressione di privilegiare le relazioni verbali fra coniugi rispetto a quelle fra genitori e figli, si presentano mediamente come famiglie piuttosto “sane”—o, meglio, non così psicogene come verrebbe da supporre pensando ad alcune rea-lizzazioni individuali. Questo, è bene ribadirlo, solo da un punto di vista stret-tamente pragmatico e relazionale. Ma di ciò avremo occasione di discutere nei capitoli successivi.

38 Vedi M. BOWEN, Family Therapy in Clinical Practice, nel quale viene postulata

l’importanza del processo di differenziazione individuale; e, soprattutto, T. CAPLOW, Two Against One: Coalitions in Triads, sui concetti di “triade patologica” e “coalizioni impro-prie”, caratterizzati entrambi dal rilievo anomalo che assumono le alleanze lungo l’asse in-tergenerazionale rispetto a quello intragenerazionale.

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Capitolo terzo

Dalla clinica alla critica: storia e modelli della terapia familiare

Io non credo nelle persone, credo solo nelle famiglie.1

CARL A. WHITAKER

“A little known fact in literary critical circles is that Freudian analysis has been compared with up to two hundred other therapeutic systems, and has been shown to have no better success-rate than its many rivals, and to suffer from two serious disadvantages, the length of time it takes and the consequent ex-pense in analysts’ fees. Few of these other therapies have so far been used as models by literary critics, for whom Freudianism has long been the single sys-tem”.2 Così scriveva, con feroce umorismo, Brian Vickers nel 1993. Scopo di questa tesi è offrire un contributo che aiuti a colmare il vuoto da Vickers giu-stamente indicato. Poiché il modello terapeutico—o meglio, i modelli terapeuti-ci—dei quali mi intendo avvalere sono relativamente poco noti, perlomeno ri-spetto alla psicoanalisi, in questo capitolo cercherò di illustrarne brevemente la storia e i fondamenti.

La deliziosa nonchalance di Vickers offre l’occasione per mettere a fuoco un aspetto fondamentale della sua avversione nei confronti della psicocritica, e cioè quello che potremmo chiamare “integralismo freudiano”. Occorre infatti ri-cordare che la psicoanalisi freudiana, come del resto le varie scuole di psicolo-gia che si sono sviluppate in seguito, non implica solo un tipo di terapia, ma

1 C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, p. 133. 2 B. VICKERS, Appropriating Shakespeare. Contemporary Critical Quarrels, p. 272.

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un’intera concezione dell’essere umano. Una concezione affascinante e geniale, la cui applicazione in letteratura ha portato a risultati prima impensabili non so-lo nel campo della critica (per quanto riguarda Shakespeare, si può fare riferi-mento alla bibliografia riportata nel volume di Schwarz-Kahn3), ma anche nella produzione stessa di opere artistiche. Una concezione talmente influente da la-sciare spesso l'impressione che noi donne e uomini siamo veramente—“oggettivamente”—come Freud ci ha descritto. Quella che mi accingo a traccia-re è la storia di una tra le tante ipotesi alternative a quella offerta dalla teoria psicoanalitica, un’ipotesi basata su modelli che si situano al crocevia fra nume-rose discipline e che coinvolgono campi di ricerca in apparenza lontanissimi tra loro, quali la psicoterapia, la sociologia, l’antropologia, l’epistemologia e la ci-bernetica: ossia, la teoria dei sistemi familiari.

Termostati e doppi legami: l’epoca delle Macy Conferences

Le origini della terapia familiare sono meno scontate di quanto si potrebbe immaginare. Certo, già nella psicoanalisi degli esordi alla famiglia era riservato un ruolo tutt’altro che irrilevante—basti pensare all’importanza del concetto di “triangolo edipico” nel modello di Freud sulle fasi evolutive della sessualità—e non c’è dunque da stupirsi se alcuni terapeuti di formazione psicodinamica, for-se più irriverenti di altri nei confronti dell’ortodossia freudiana, abbandonando i rigidi vincoli sul setting a due, iniziarono a coinvolgere e a invitare ai colloqui anche i familiari dei pazienti. Ciò avvenne soprattutto negli Stati Uniti, tra la fi-ne degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, ad opera di pionieri come Nathan Ackerman e, più tardi, Virginia Satir e Murray Bowen. Il tratto che accomunava i loro pur eterogenei approcci al trattamento terapeutico era l’idea che, per ottenere un cambiamento, non fosse sufficiente lavorare solo sull’individuo, bensì occorresse intervenire sull’intera rete delle sue relazioni familiari. Bowen, per esempio, riadattando il principio-guida della terapia freu-

3 M. SCHWARZ E C. KAHN, Representing Shakespeare: New Psychoanalytical Essays, 1980.

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diana—“dov’era l’Es, lì sarà l’Io”4—in termini non più intrapsichici ma inter-generazionali, si proponeva come obiettivo fondamentale per i suoi pazienti il raggiungimento della “differenziazione del sé” rispetto allo “Io-massa” della famiglia di origine. Per scindere i triangoli generazionali che invischiano geni-tori e figli in un confuso amalgama di emozioni, Bowen adottava tecniche tera-peutiche che avrebbero fatto inorridire qualsiasi analista ortodosso, quali per esempio invitare intere famiglie alle sedute o prescrivere ai pazienti di rivela-re—tramite lettere inviate ai parenti—tutti i segreti e i pettegolezzi che ciascuno taceva o diceva alle spalle degli altri.5

Ma i presupposti teorici della teoria dei sistemi familiari ebbero origine pre-valentemente al di fuori della pratica terapeutica. Più o meno nello stesso perio-do in cui psichiatri e psicanalisti muovevano i primi passi nel mondo della fa-miglia, infatti, alcuni scienziati provenienti dalle più svariate discipline—tra lo-ro, John von Neumann (un matematico, nonché pioniere dell’informatica), Wal-ter Pitts (un altro matematico), Warren S. McCulloch (un neurologo), Margaret Mead (un’antropologa) e Gregory Bateson (principalmente, un epistemologo)—cominciarono ad accorgersi che le ricerche da essi fino ad allora individualmen-te condotte, per quanto rivolte ad ambiti quanto mai distanti, sembravano orien-tarsi verso un non meglio definito interesse comune per i meccanismi di autore-golazione. Nell’intento di mettere a confronto le loro idee, decisero di dare vita a un ciclo di convegni annuali dal sapore insolitamente multidisciplinare, con-vegni che si tennero negli Stati Uniti, dal 1942 al 1956, sotto gli auspici della Josiah Macy Foundation: le Macy Conferences.6 Fin dal primo di questi singola-ri incontri, si cominciò a intravedere la possibilità di formulare una teoria che, avvalendosi delle idee di informazione, controllo e retroazione, avrebbe potuto

4 Vedi S. FREUD, “The dissection of the Psychical Personality”, 1932 (in New Introductory

Standard Lectures, Standard Edition, a cura di STRACHEY, vol. XXII): “Where id was, there ego shall be” (p. 80).

5 Vedi M. BOWEN, Family Therapy in Clinical Practice, 1978. 6 Due ottime retrospettive, che ben si integrano tra loro, sul periodo delle Macy Conferences

si possono trovare in B.P. KEENEY, L’estetica del cambiamento, e in H. VON FOERSTER, Sistemi che osservano.

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descrivere il comportamento tanto dei sistemi tecnologici (per esempio, un ter-mostato) quanto di quelli biologici (per esempio, una famiglia). Per questa teo-ria, alcuni anni più tardi, Norbert Wiener (uno tra i padri dell’intelligenza artifi-ciale) coniò il nome di cibernetica.

Il concetto fondamentale della prima teoria cibernetica—o cibernetica di prim’ordine—è l’idea di sistema chiuso, o circolare: l’output del sistema, trami-te il meccanismo di feedback, ne costituisce anche l’input. Un corollario del concetto di sistema è che gli input e gli output, di qualsiasi natura essi siano—dalle variazioni di temperatura di un ambiente ai cambiamenti di tono della voce di un familiare—possono essere considerati semplicemente come informazioni. Un punto di vista, questo, radicalmente diverso sia da quello della psicoanalisi, basato essenzialmente sulla metafora dell’energia, sia da quello behaviorista, che tende a modellare il comportamento degli esseri umani su sequenze lineari di stimoli e risposte. In un sistema circolare, come può per esempio essere un ambiente riscaldato la cui temperatura sia controllata da un termostato, il meto-do più efficace per indurre un cambiamento non sta tanto nell’aumentare o di-minuire la potenza del sistema di riscaldamento, o nel migliorare l’isolamento termico dell’ambiente, quanto nell’intervenire sul meccanismo di feedback che lo regola, ossia sulla soglia del termostato, e dunque sul significato dell’informazione—troppo caldo, troppo freddo—che mette in relazione la cen-trale di riscaldamento con l’ambiente. In altre parole, la chiave per comprendere il “comportamento termico” dell’ambiente è il termostato, più che il tipo di combustibile usato o la metratura dell’ambiente stesso, e tutte le variazioni di temperatura che intervengono sono allo stesso tempo stimoli e risposte, ossia reazioni a reazioni.

Gregory Bateson: verso un’ecologia della mente

Tutto ciò era senz’altro interessante, ma anche piuttosto arido, specialmente in relazione al comportamento degli esseri umani. Se la psicologia, e in partico-lare l’allora nascente psicoterapia familiare, cominciò a prendere in seria consi-derazione un punto di vista così astratto e difficile da abbordare come quello ci-bernetico, il merito è in gran parte da attribuire al ruolo e alla personalità di

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Gregory Bateson. Descrivere l’opera di Bateson in poche parole è impossibile, ma ad almeno un aspetto del suo contributo occorre accennare, a costo di sem-plificazioni e rischi di fraintendimento: egli riuscì a convincere chi si occupava di psichiatria che quella cibernetica poteva essere una teoria non soltanto pro-duttiva ma anche profondamente rispettosa della complessità che lo studio del pensiero e del comportamento umano richiede. Di formazione antropologo ed etnologo, Bateson impiegò con lucidità ed elasticità il modello cibernetico per descrivere i fenomeni più disparati, dalla schizofrenia all'alcoolismo, dal “carat-tere nazionale” alla comunicazione tra cetacei, dall’ecologia all’apprendimento. Tutte le direzioni che l’evoluzione del pensiero sistemico ha percorso negli ul-timi quarant'anni—la necessità di distinguere correttamente la categoria logica di un fenomeno, la teoria del double bind, il ruolo dei paradossi, la cibernetica di second’ordine, ecc.—sono già presenti nelle sue opere, magari appena accen-nate ma più spesso perfettamente sviluppate.

Bateson iniziò ad accostarsi al mondo della malattia mentale nello stesso modo in cui, negli anni precedenti, si era interessato alle più disparate forme di gruppi sociali—dall’addestramento dei delfini alle cerimonie della società Iat-mul—e cioè osservando le modalità di interazione fra i vari membri. In partico-lare, cominciò ad indagare, insieme a Jay Haley e ad altri psichiatri, le cause dello strano rapporto che i pazienti affetti da schizofrenia sembravano stabilire fra immaginazione e realtà:

Agli inizi degli anni ’50 alcuni ricercatori presero a interessarsi ad alcune os-servazioni che avevano fatto sul comportamento di pazienti schizofrenici. Nono-stante si ritenga che lo schizofrenico risponda a una sua propria visione interna di-storta del mondo e venga considerato al di fuori del contatto con la realtà, questi osservatori notarono che quando la madre di un paziente veniva in visita all’ospedale, nei giorni successivi il paziente accusava una riacutizzazione della sua sintomatologia. Poiché questa sintomatologia acuta non era certamente frutto delle fantasticherie del paziente, pensarono di far stare insieme i pazienti schizo-frenici e le loro madri e osservarono le loro interazioni per un certo tempo. Rima-sero molto colpiti da quello che videro…7

7 A. NAPIER e C.A. WHITAKER, Il crogiolo della famiglia, p. 57.

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Ciò che stupì l’équipe di ricercatori fu che il linguaggio e il comportamento dei pazienti schizofrenici, assolutamente incomprensibile durante i colloqui in-dividuali, inserito nel contesto familiare—e in particolare nella relazione con le madri, ma non solo—mostrava invece una logica sorprendente e, soprattutto, pattern comunicativi che si ripetevano: i genitori sembravano far di tutto per in-coraggiare—se non addirittura per pretendere—nei figli un comportamento schizofrenico. In altre parole, era come se la schizofrenia fosse l’esito appro-priato, per quanto tragico, di una sorta di processo di apprendimento. Non solo: l’équipe notò anche che, “se il paziente migliorava, qualcun altro della famiglia peggiorava. Era quasi come se la famiglia richiedesse la presenza di qualcuno con un sintomo.”8

Tutto ciò indusse Bateson a considerare la schizofrenia in termini “ecologi-ci”: non tanto—o non solo—come la conseguenza di un trauma psichico o di una particolare predisposizione genetica, dunque, quanto come una peculiare forma di adattamento all’ambiente familiare, e più precisamente alle modalità di comunicazione caratteristiche di tale ambiente. Analizzando le conversazioni fra genitori e figli, Bateson si accorse che nelle famiglie dei pazienti schizofre-nici era frequentissimo il ricorso a una particolare forma di ingiunzione su due livelli (di solito, uno verbale e l’altro non verbale, o più in generale uno comu-nicativo e l’altro metacomunicativo), alla quale diede il nome di “doppio lega-me” (double bind), che ha la caratteristica di porre il destinatario nell’impossibilità di rispondere adeguatamente alle richieste implicite ed espli-cite del messaggio, in quanto esse sono fra loro in contraddizione. I risultati di queste osservazioni furono raccolti in un articolo, ormai storico, dal titolo “To-ward a Theory of Schizophrenia” (apparso nel 1956, su Behavioral Science, a firma di Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John Weakland), nel quale erano descritti i tratti formali del double bind ed alcuni esempi, tratti da casi clinici, del suo potenziale patogeno.

Gli “ingredienti” comunicativi necessari perché si possa parlare di double

8 L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 26.

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bind sono numerosi e a volte un po’ ambigui.9 Un breve esempio, però, è suffi-ciente per dare un’idea di quello che, secondo Bateson, dovrebbe essere il suo “meccanismo”:

[…] Se la madre comincia a provare ostilità (o affetto) per il figlio e contem-poraneamente si sente spinta a ritrarsi da lui, potrebbe dirgli: “Va’ a dormire, sei stanco e voglio che ti riposi”. Questa frase apparentemente affettuosa tende a ne-gare un sentimento che potrebbe essere espresso con queste parole: “Va’ fuori dai piedi, perché sono stufa di te”. Se il bambino interpretasse correttamente i segnali metacomunicativi, dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non desidera averlo vicino e per di più lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. Egli sarebbe ‘puni-to’ per aver appreso a distinguere con cura gli ordini dei messaggi, e quindi, piut-tosto che riconoscere l’inganno materno, tende ad accettare l’idea di essere stanco. Questo significa che, allo scopo di sostenere l’inganno della madre, il bambino deve ingannare se sesso circa il suo stato interno: per continuare a vivere con lei, egli deve discriminare in modo errato i suoi messaggi interni, oltre che discrimina-re in modo errato i messaggi altrui.10

L’instaurarsi, nel corso degli anni, di simili pattern comunicativi come forma di relazione abituale all’interno della famiglia, può spiegare una sintomatologia tipica della schizofrenia quale l’incapacità di distinguere fra livello metaforico e livello letterale, o fra immaginazione e percezione della realtà.

Dalla teoria al trattamento terapeutico 9 La “ricetta” originale del double bind prevedeva i seguenti “ingredienti”: 1) due o più per-

sone, una delle quali identificabile come vittima; 2) un’ingiunzione primaria negativa (per esempio, una minaccia), di solito verbale; 3) un’ingiunzione secondaria, di solito non ver-bale, in conflitto con la prima e, come la prima, sostenuta da punizioni o da segnali che minacciano la sopravvivenza; 4) un’ingiunzione negativa terziaria che impedisce alla vit-tima di sfuggire al conflitto (implicita, per esempio, nel rapporto genitori-figli); 5) l’abitualità del fenomeno. Essa è stata in seguito più volte riformulata (anche dallo stesso Bateson) e criticata, sia per l’assenza di criteri univoci e formali che consentano di discri-minare fra doppi legami e altri pattern comunicativi, sia per il suo relativo insuccesso in ambito clinico (ma anche per l’eccesso di responsabilità che, almeno nelle prime formula-zioni, tendeva ad attribuire alla figura materna). Solo negli anni ottanta, e in particolare grazie agli studi di V.E. CRONEN, K.M. JOHNSON e K.M. LANNAMANN sui livelli multipli di contesto e sui circuiti riflessivi bizzarri (vedi “Paradoxes, Double Binds and Reflexive Loops: an Alternative Theoretical Perspective”, Family Process, 20, 1982, pp. 91-112), si è giunti a una riformulazione soddisfacente del ruolo svolto dal doppio legame nell’insorgere di alcune forme di malattia mentale.

10 G. BATESON, D.D. JACKSON, J. HALEY e J. WEAKLAND, “Toward a Theory of Schizophre-nia”, 1956 (trad. it. “Verso una teoria della schizofrenia”), in G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, pp. 258-9.

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Se l’importanza della famiglia nel formarsi e nel perpetuarsi di determinate forme di patologia diventava mano a mano più evidente, rimaneva invece tutt’altro che chiaro stabilire le modalità di intervento per un eventuale tratta-mento terapeutico. I più importanti terapeuti della famiglia degli anni ’60 e ’70—Virginia Satir, Carl Whitaker, Milton Erickson e Don Jackson, non a caso soprannominati “i grandi originali”—sembrano non avere altro in comune se non uno straordinario intuito per cogliere al volo le più segrete dinamiche fami-liari e una capacità istrionica, difficilmente esportabile al di fuori dello studio di ognuno di loro, di stabilire un intensa relazione emotiva con i membri delle fa-miglie in trattamento. Milton Erickson, per esempio, uno tra i leader indiscussi nel campo dell'ipnosi, si avvaleva frequentemente di tecniche assai poco orto-dosse come l’induzione dello stato di trance, o l’assegnazione di compiti para-dossali, fino ad interventi ancora più diretti, come fissare incontri con un’estetista per le pazienti dismorfofobiche, se non giungere addirittura allo scontro fisico.11 Virginia Satir aveva invece un dono assolutamente unico per spiazzare i suoi pazienti fornendo una lettura positiva anche delle situazioni più infauste, come quando iniziò un trattamento con un ragazzo, accusato di aver messo incinta due sue compagne di classe, complimentandosi per la “bontà del suo seme”.12 Carl Whitaker, che era solito definire il suo “metodo” con l’etichetta dal sapore squisitamente teatrale di “terapia dell’assurdo”, era con-vinto della necessità di creare una situazione “confusa” prima di poter procedere a un qualsiasi autentico tentativo di cambiamento. Memorabili, in questo senso, alcune sue prescrizioni come quella rivolta a una moglie e suo marito, entrambi reduci da relazioni extra-coniugali e intenzionati a rimettere in sesto il loro ma-trimonio, ad invitare alla seduta successiva anche i due amanti e i loro rispettivi coniugi.

L’aspetto più sorprendente di tali trattamenti non mi pare tanto la loro eccen-tricità, quanto il fatto che funzionavano—benché nessuno, a parte forse gli stes-

11 Per un affascinante resoconto delle tecniche terapeutiche di Milton Erickson, vedi J.

HALEY, Terapie non comuni. Alcune delle sue tecniche più bizzarre sono discusse più a-vanti, nel quarto capitolo di questa tesi.

12 L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 206.

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si terapeuti, riuscisse a spiegarsi come. Il ruolo svolto da alcune tattiche di in-tervento, però, era certamente riconoscibile: le prescrizioni paradossali, la con-notazione positiva e “l’induzione alla confusione”, per esempio, sono tutte stra-tegie che aiutano la famiglia a ridefinire la propria condizione e a considerare sotto una nuova luce la posizione di ciascuno dei suoi membri.13 Lavorando fianco a fianco con questi pionieri, e analizzando i filmati delle loro “interviste alle famiglie”, altri terapeuti cominciarono così a individuare negli interventi dei “grandi originali” ipotesi e tecniche che era possibile insegnare e apprende-re.14 Fu così che, verso la fine degli anni ‘60 e per tutti gli anni ‘70, iniziarono a sorgere, perlopiù negli Stati Uniti, numerose scuole di terapia familiare. Nelle pagine che seguono tenterò di riassumere (semplificandoli drasticamente) i principali orientamenti teorici di tali scuole, cercando di porre in rilievo il con-tributo che essi possono offrire all’analisi dei testi drammatici.

L’approccio strutturale di Salvador Minuchin

Fondatore, verso la fine degli anni ‘60, della Philadelphia Child Guidance Clinic, Sal Minuchin deriva buona parte della sua metodologia d’intervento dall’ipotesi di Bowen circa la necessità di raggiungere una “differenziazione del sé”, allargando però l’obiettivo della differenziazione dall’individuo all’intera generazione. Come Bowen, Minuchin ha un’idea abbastanza precisa di che cosa si debba intendere per “famiglia sana”: una famiglia, cioè, nella quale i confini generazionali (generational boundaries) siano chiari, e comunque sufficiente-

13 Per una teoria delle strategie di ristrutturazione in ambito terapeutico e comunicativo, vedi

P. WATZLAWICK, J.H. WEAKLAND, R. FISCH, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, e in particolare il capitolo 8, “La sottile arte della ristrutturazione”; P. WATZLAWICK, Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica; R. BANDLER E J. GRINDER, La ristrutturazione. La programmazione neurolinguistica e la trasformazione del significato, in particolare il capitolo 5, “Ristrutturazione di sistemi: coppie, famiglie, organizzazioni”.

14 A questo proposito, è interessante notare come le opere più note sui primi terapeuti della famiglia siano state spesso scritte non in prima persona ma dai loro allievi: è questo il ca-so, per esempio, di Milton Erickson e di Carl Whitaker (The Family Crucible è costituito in gran parte dalle osservazioni raccolte da August Napier, per anni coterapeuta di Whita-ker).

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mente marcati da evitare che le coalizioni intergenerazionali (per esempio, ma-dre/figlia, o nonno/nipote)—considerate potenzialmente patogene—finiscano per prevalere sulle alleanze intragenerazionali (ossia, tra genitori, tra fratelli, ecc.), fisiologiche e di solito innocue. Durante i primi colloqui, Minuchin e i suoi allievi si preoccupano anzitutto di cogliere tali alleanze o coalizioni, per poi rappresentarle in una sorta di “mappa del territorio psicopolitico della fami-glia”: una mappa, cioè, che descriva la struttura familiare in termini di confini fra sottosistemi (il sottosistema coniugale, quello genitoriale e quello dei fratel-li). Terminata questa indagine preliminare, il compito della terapia diventa rela-tivamente semplice da descrivere: “il terapista […] funge da costruttore di con-fini, chiarificando i confini invischiati e sciogliendo quelli eccessivamente rigi-di”.15

L’alto grado di formalismo del modello di riferimento—una griglia di tratti binari come sensibilità all’ambiente, alla distanza interpersonale e al consen-so—fa dell’approccio strutturale di Minuchin un ottimo strumento per la descri-zione delle “famiglie letterarie”. Per molti aspetti paragonabile ad altri modelli strutturalisti (per esempio, quello narratologico di Greimas), nonché allo stesso modello freudiano (il triangolo edipico, in fin dei conti, può essere considerato come la realizzazione simbolica di una coalizione intergenerazionale), la teoria di Minuchin mi pare interessante in ambito teatrale proprio in quanto permette descrizioni svincolate sia da ipotesi intrapsichiche sia dal percorso narrativo, nel senso che il ruolo attanziale dei vari membri della famiglia non è determina-to dalla loro relazione con l’azione bensì dal loro rapporto con gli altri familiari. Ciò lo rende particolarmente produttivo per l’analisi di quei testi teatrali natura-listici in cui l’azione è praticamente inesistente, ma anche per testi in cui, come avviene in quelli di Shakespeare, la specificità dell’invenzione non riguarda tan-to il plot quanto il linguaggio e la rappresentazione delle relazioni interpersona-li.

15 Vedi S. MINUCHIN, Famiglie e terapia della famiglia, p. 59.

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Il Mental Research Institute di Palo Alto e la terapia strategica breve

L’esempio più notevole dell’applicazione della cibernetica di prim’ordine al-lo studio dei sistemi umani è senza dubbio il lavoro di ricerca svolto, in collabo-razione con Gregory Bateson, al Mental Research Institute di Palo Alto nel cor-so degli anni ‘60, e culminato nella pubblicazione di Pragmatics of Human Communication.16 Diversamente da Bowen e Minuchin, i ricercatori del gruppo di Palo Alto assunsero fin dall’inizio una posizione in netta discontinuità con le teorie psicodinamiche allora imperanti: accantonando ogni tentativo di forma-lizzazione della struttura intrapsichica o extrapsichica dell’individuo o della fa-miglia, Paul Watzlawick e i suoi colleghi portarono fino alle estreme conse-guenze il punto di vista cibernetico e l’assimilazione del concetto di comporta-mento a quello di comunicazione. A questo proposito, vale la pena riportare l’analogia con la quale gli autori descrivono una tra le differenze principali tra la psicoanalisi classica e il loro tipo di approccio:

If the foot of a walking man hits a pebble, energy is transferred from the foot to the stone; the latter will be displaced and will eventually come to rest again in a position which is fully determined by such factors as the amount of energy trans-ferred, the shape and weight of the pebble, and the nature of the surface on which it rolls. If, on the other hand, the man kicks a dog instead of the pebble, the dog may jump up and bite him. In this case the relation between the kick and the bite is of a very different order. It is obvious that the dog takes the energy for his reac-tion from his own metabolism and not from the kick. What is transferred, there-fore, is no longer energy, but rather information. In other words, the kick is a piece of behavior that communicates something to the dog, and to this communication the dog reacts with another piece of communication-behavior. This is essentially the difference between Freudian psychodynamics and the theory of communica-tion as explanatory principles of human behavior.17

Ogni forma di comportamento, dunque, viene considerata dai terapeuti del gruppo di Palo Alto anzitutto come una forma di comunicazione, verbale o non verbale che sia. Ciò ha curiose implicazioni, come per esempio l’assioma se-condo il quale “non è possibile non comunicare”, in quanto la scelta di non co-

16 P. WATZLAWICK, J.H. BEAVIN, D.D. JACKSON, Pragmatics of Human Communication,

1967. 17 Ibid. p. 29.

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municare è una modalità comportamentale che in realtà comunica moltissimo—seppure avvalendosi esclusivamente di canali non verbali—circa la qualità della relazione fra due o più individui. Ancora più interessante, soprattutto per i no-stri scopi, mi pare il concetto di “mente come scatola nera” (black box): consi-derare, cioè, la mente umana come se fosse una “scatola nera”, una scatola della quale non possiamo né pretendiamo di sapere alcunché—al contrario di quanto tenta di fare la psicoanalisi—di quello che vi avviene all’interno, limitandoci a osservare ciò che vi entra e ciò che ne esce. Un simile punto di vista sulla mente umana ha l’immediata conseguenza di porre l’accento non su ciò che un indivi-duo “è” o “pensa”, “è stato” o “ha vissuto”, bensì sul modo in cui si relaziona con gli altri individui. L’oggetto di studio—ed eventualmente il campo di inter-vento—si sposta così dall’individuo al sistema del quale l’individuo fa parte. Tale approccio alla persona mi pare assai adeguato all’analisi delle dramatis personae in quanto, rare eccezioni a parte, la specificità del genere drammatico (diversamente dal romanzo o dalla lirica, per esempio) tende a precludere l’accesso alla mente o al passato dei personaggi (basti pensare ad alcuni tratti tipicamente narratologici come l’assenza di narratore e la conseguente localiz-zazione del point of view nello spettatore stesso18), e al tempo stesso tende a e-saltare la rappresentazione, hic et nunc, delle loro interazioni, verbali e non ver-bali, con gli altri membri del sistema.

Ma ogni essere umano fa parte di un numero indefinito di sistemi (vedi figu-ra 3.1):19 perché privilegiare proprio la famiglia? In effetti, l’approccio strategi-co del gruppo di Palo Alto, così come la terapia sistemica più in generale, trova

18 Per una tassonomia delle relazioni fra diegesi, focalizzazione e point of view, vedi M. Bal,

Narratologie: Essais sur la signification narrative dans quatre romans modernes, e P. PUGLIATTI, Lo sguardo nel racconto. Circa la specificità, in tal senso, della rappresenta-zione teatrale, vedi J. LOTMAN, “Semiotica della scena, p. 16: “Lo spettatore teatrale con-serva nei confronti dello spettacolo il punto di vista naturale, determinato dal rapporto ot-tico fra il suo occhio e la scena. Durante tutto il tempo dello spettacolo questa posizione non cambia.” Per un’esauriente analisi del modo in cui le categorie genettiane di voce e prospettiva subiscono variazioni nella transcodificazione dalle fonti ai drammi shakespea-reani, vedi AA.VV., Nel laboratorio di Shakespeare, vol. 1, e in particolare i capp. 7 (“La voce”) e 8 (“La prospettiva”).

19 La figura 3.1 è stata adattata da A.Y. NAPIER e C.A. WHITAKER, The Family Crucible, p. 62.

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costantemente applicazione in molti al-tri campi: dai corsi di comunicazione strategica, rivolti perlopiù a manager e docenti, frequentissimi nel mondo an-glosassone ma sempre più diffusi anche in Italia, alla supervisione nella gestione del personale in sistemi complessi (im-prese, ospedali, ecc.). Il sistema-famiglia, però, è almeno gerarchicamen-te l’unità sociale minima: essendo il più contiguo (biologicamente e affet-tivamente) alla singola persona, è quello che esercita su di essa l’influsso sociale più diretto, così come la dipendenza più

immediata dalla sfera fisica deriva dalle condizioni del corpo (inteso come “si-stema di organi”). Inoltre, la famiglia è il sistema nel quale di solito si realizza con maggiore intensità e frequenza il tipo di modalità di comunicazione di cui l’approccio sistemico si occupa, e cioè la “relazione faccia a faccia di persone appartenenti a gruppi duraturi”.20

Queste caratteristiche della famiglia come gruppo sociale, a mio giudizio, ci consentono anche di comprendere alcune delle ragioni per cui la famiglia sem-bra essere un luogo privilegiato non solo in Shakespeare ma, più in generale, per il genere drammatico, e viceversa del motivo che induce molti terapeuti del-la famiglia21 a misurarsi con insolita frequenza con i testi teatrali. “Il teatro”,

20 L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 26. 21 A parte l’ormai famosa analisi del “Who’s Afraid of Virginia Woolf” di Albee proposta da

WATZLAWICK in Pragmatics of Human Communication e le innumerevoli esemplificazio-ni tratte da testi teatrali alla quali i teorici della terapia familiare puntualmente ricorrono (sempre WATZLAWICK, per esempio, in una raccolta da lui curata sul costruttivismo, non ha esitato ad includere un saggio di ROLF BREUER—critico di letteratura inglese—sulla tri-logia di Beckett), mi pare significativo che un terapeuta come SALVADOR MINUCHIN, al termine della sua carriera di psicoterapeuta, abbia deciso di mettersi a scrivere drammi (ovviamente familiari), raccolti poi nel volume Family Kaleidoscope (Cambridge, Massa-chusetts and London: Harvard U.P., 1984), nell’introduzione del quale si legge: “Two

Fig. 3.1: Organizzazione gerarchica dei principali sistemi e sottosistemi umani

COMUNITÀ MONDIALE ALLEANZE NAZIONALI

NAZIONE STATO

REGIONE CITTÀ O COMUNITÀ

SOTTOGRUPPI DELLA COMUNITÀ (lavoro, amicizie)

FAMIGLIE ALLARGATE FAMIGLIE NUCLEARI

--------- PERSONA O ORGANISMO ---------SISTEMA DI ORGANI

ORGANO CELLULA

MOLECOLA ATOMO

PARTICELLA ATOMICA

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come spiega Frye opponendolo a epos, lirica e romanzo, “è una mimesi del dia-logo o della conversazione”,22 dunque un genere intrinsecamente sociale, non-ché strettamente vincolato alla comunicazione faccia a faccia; e, a differenza dell’epica (un altro genere tipicamente sociale), il teatro implica limiti logistici (sullo spazio, sul tempo, sul numero di attori) tali da rendere impraticabile la rappresentazione di sistemi sociali troppo estesi, se non a livello simbolico. Il sistema-famiglia, dunque, pare proporsi come l’opzione più immediata in grado di soddisfare tutti i requisiti che il teatro richiede, così come quella del teatro sembra essere la scelta più naturale—certo più della lirica e in parte anche più del romanzo—per chi voglia offrire una rappresentazione mimetica delle dina-miche familiari.

Tornando ora alla scuola di Palo Alto, ci sono due ultimi aspetti del loro mo-dello ai quali ritengo sia utile accennare. Anzitutto, l’idea di arbitrarietà della punteggiatura degli eventi. In tutte le situazioni di conflitto o di disagio, la pri-ma e più naturale reazione di chi tenta di “risolverle” è quella di cercarne le cause, l’origine. La psicoanalisi classica, in questo senso, ipotizzando momenti di forte discontinuità nel vissuto personale dei pazienti (dall’attraversamento delle fasi orale, anale ed edipica alla cosiddetta “scena primaria”) e individuan-do in alcuni di essi la causa scatenante delle dinamiche di rimozione, non fa ec-cezione. Essendo orientata al singolo individuo, inoltre, la psicoanalisi dà un’importanza relativa alla “realtà” dell’evento scatenante: ciò su cui si concen-tra è piuttosto il processo di rimozione. Ma che succede quando le persone in te-rapia sono due o più? Regolarmente, ognuna di loro ha un’opinione assai diver-sa circa l’individuazione dell’origine—e quindi del “responsabile”—del disa-gio. “Non ti dico con chi esco perché altrimenti diventi sospettoso”, può dire lei, individuando nella gelosia del marito l’origine di tutti i mali; “Ti controllo

years ago my wife and I began a new chapter: we took early retirement. Both of us, though still enjoying the challenge of teaching others, had the frustrating feeling that we ourselves where learning less. After much discussion we decided to take a year off to live in Lon-don. Settled there, we followed a life-long interest in normal families and pursued the study of the processes of divorce and remarriage. Pat began to play the oboe. I toyed with writing plays.” (p. 3).

22 N. FRYE, Anatomia della critica, p. 360.

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perché mi nascondi qualcosa”, replica il marito, individuando così nella reticen-za della moglie la causa del disagio coniugale. Chi ha ragione? Ma, soprattutto, ha senso chiedersi chi ha ragione? In una prospettiva sistemica, come quella adottata dalla scuola di Palo Alto, la vera causa del disagio non sta in un evento, bensì nella regola—implicita ma fortissima—condivisa dall’intera famiglia che stabilisce un rapporto di circolarità fra reticenza e sospetto. Proprio come il ter-mostato nel caso della temperatura di un ambiente del quale parlavamo all’inizio di questo capitolo, questa regola fa sì che quando la reticenza supera una certa soglia intervenga il sospetto (e, dunque, le domande che tendono a sciogliere la reticenza), ma non appena il sospetto raggiunge a sua volta una de-terminata soglia (con troppe domande, per esempio) intervenga di nuovo la reti-cenza. Stabilire chi per primo ha superato la soglia, e dunque come punteggiare gli eventi, è perciò un’operazione arbitraria e piuttosto inutile, se non addirittura dannosa (almeno per chi si pone come obiettivo la diminuzione del disagio, più che l’individuazione del “colpevole”).

Come intervenire, allora, in questi casi? Qui arriviamo al secondo aspetto che mi premeva affrontare: i terapeuti strategici ritengono che uno fra i sistemi più efficaci sia ricorrere alle prescrizioni paradossali. Per illustrarne il principio, consideriamo un caso tratto dalla realtà, e “preso in cura”—le virgolette sono d’obbligo, come si vedrà—a Palo Alto da Watzaliwick, Weakland e Fisch. Trat-ta una situazione forse meno frequente del conflitto coniugale appena illustrato, ma comunque abbastanza ricorrente (specie in Italia, aggiungerei, anche se qui è il caso di una famiglia americana) e, soprattutto, assai esemplificativa: “Una giovane coppia chiede una terapia coniugale perché la moglie sente di non poter più sopportare l’eccessiva dipendenza e sottomissione del marito ai suoi genito-ri”,23 recita il problema d’esordio. In prima istanza, dunque, parrebbe che l’origine del problema sia l’immaturità del marito. Nel giro di pochi minuti, pe-rò, i terapeuti vengono a sapere che il marito condivide pienamente il giudizio negativo circa l’interferenza dei propri genitori, e che la “vera” causa del pro-blema sta nell’impossibilità di evitare la loro invadenza: 23 Il caso è riportato in P. WATZLAWICK, J.H. WEAKLAND E R. FISCH, Change, pp.124-127,

dal quale sono tratte questa citazione e quelle che seguono.

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I genitori, cha abitavano in una città lontana 2500 Km, facevano quattro visite all’anno, ognuna della durata di tre settimane—e gli sposi erano giunti al punto di temere queste visite come cataclismi. […] La coppia afferma di non saper più che pesci pigliare. Hanno cercato con tutte le forze senza mai riuscirci di ottenere un minimo d’indipendenza, ma anche il più lieve tentativo di proteggersi dal dominio dei genitori viene interpretato come un segno di ingratitudine che a sua volta pro-voca un profondo senso di colpa nel marito e rabbia impotente nella moglie. Sono tentativi, tra l’altro, che danno luogo a scene ridicole in pubblico; per esempio, quando suocera e nuora implorano la cassiera di un supermercato di non prendere il denaro dell’altra ma il proprio, o quando padre e figlio arrivano proprio a lottare al ristorante per impossessarsi del conto non appena il cameriere lo porta al tavolo […]

Ma anche questa seconda ipotesi, e cioè che il comportamento dei genitori sia all’origine di tutto, descrive una sola faccia della medaglia, poiché il loro mal gradito interventismo è reso possibile proprio grazie agli sforzi che la cop-pia mette in atto, nel disperato tentativo di dimostrare la propria autonomia, per evitarlo: “avevano cercato di fare tutto quello che potevano perché i genitori trovassero il meno possibile da pulire, mettere in ordine, migliorare”. In altre parole, pur senza volerlo, la coppia tendeva a rendere le visite piuttosto allettan-ti, e gli sforzi—gratificanti, per i genitori—richiesti per essere aiutati assoluta-mente sostenibili. Dando per scontato che sarebbe stato inutile, se non contro-producente, suggerire alla coppia di chiedere in modo esplicito ai genitori di di-radare le visite (come imporrebbe un approccio lineare, che non tenga cioè con-to dei meccanismi di autorinforzo in atto nel sistema), i terapeuti decisero che era necessario intervenire direttamente sulla metaregola soggiacente, che po-tremmo riassumere in “essere bravi genitori (o essere bravi figli) è la cosa più importante del mondo”—così importante da rischiare e far rischiare una crisi coniugale. Prescrissero dunque alla coppia quanto segue:

Questa volta dovevano interrompere le pulizie di casa alcuni giorni prima della visita, fare in modo che si accumulassero quanti più panni sporchi era possibile, smettere di lavare le automobili e lasciare i serbatoi quasi vuoti, trascurare il giar-dino, svuotare il frigorifero e la dispensa. Non dovevano riparare nessun guasto (per esempio, rubinetti che perdevano, lampadine fulminate, ecc.). Non solo non dovevano impedire che i genitori pagassero i generi alimentari, i conti dei ristoran-ti, i biglietti del teatro, la benzina, ecc., ma anzi dovevano aspettare senza agitarsi minimamente finché i vecchi non tiravano fuori i soldi e non pagavano tutto quel-lo che c’era da pagare. […] Insistemmo soprattutto su un divieto: non dovevano tentare in nessun modo di far ammettere ai genitori che i figli hanno diritto alla lo-

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ro indipendenza. Dovevano accettare tutto ciò che i genitori facevano per loro co-me una cosa naturale e dovevano ringraziarli senza troppo calore.

È indubbiamente una prescrizione paradossale, in quanto all’apparenza invi-ta sia la coppia sia—indirettamente—i genitori a esasperare una situazione già difficile. I due coniugi, ricordano i terapeuti, accettarono di metterla in pratica soltanto perché erano veramente angosciati e perché erano consapevoli di avere ormai esplorato ogni altra possibile alternativa. Ma produsse i risultati attesi: la visita successiva fu assai più breve del solito, e il padre, prima di congedarsi, “aveva preso da parte il figlio e gli aveva detto con tono amichevole ma deciso che lui (il figlio) e la moglie erano stati troppo vezzeggiati […] e che era ormai tempo di comportarsi più da persone mature e di dipendere meno dai genitori.” Prescrivendo alla coppia di comportarsi da “cattivi figli” (cosa che, se non im-posta “dall’alto”, non avrebbero mai osato fare), si era così riusciti a permettere di ristrutturare completamente, e nel senso auspicato, il concetto di “bravi geni-tori”.

The Milan Approach

Ho volutamente intitolato questa sezione in inglese per evitare in partenza l’insorgere di un comprensibile equivoco, e cioè che la scuola di terapia familia-re di Milano sia nota e riconosciuta come autorevole soltanto in Italia. Nulla di più lontano dalla realtà: al contrario, è proprio in ambito nordamericano che la scuola di Milano, formatasi nel corso degli anni ‘70 e ‘80, ha i suoi più convinti estimatori, e un ampio spazio dedicato al Milan approach si può trovare in tutti i volumi di storia della terapia della famiglia, dal più volte citato Foundations of Family Therapy di Lynn Hoffman all’imponente Handbook of Family Therapy di Alan Gurman e David Kniskern.24

Per quali motivi? Può essere opportuno iniziare con un po’ di storia. Quasi tutti i più noti esponenti della scuola di Milano, da Mara Selvini Palazzoli (l’ispiratrice nonché la caposcuola) a Gianfranco Cecchin e Luigi Boscolo (che

24 A.S. GURMAN e D.P. KNISKERN (a cura di), Handbook of Family Therapy, New York:

Brunner/Mazel, 1981 (trad. it. a cura di Paolo Bertrando, Manuale di terapia della fami-glia, Torino: Bollati Boringhieri, 1995).

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attualmente la dirigono) sono, di formazione, psicoanalisti. Già verso la fine degli anni ’60, però, cominciarono a interessarsi alle idee del gruppo di Palo Al-to—e in particolare all’epistemologia di Bateson—e a trascorrere lunghi periodi negli Stati Uniti per lavorare fianco a fianco con i più famosi terapeuti strategici dell’epoca. Nel 1971, quattro di loro (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Giuliana Prata) decisero di formare un’équipe per condurre una “ricerca svolta a livello empirico […] nel tentativo di controllare la validità dell’ipotesi fonda-mentale di partenza basata sui modelli offerti dalla Cibernetica e dalla Pragma-tica della comunicazione umana: la famiglia è un sistema autocorrettivo, che si autogoverna mediante regole costituitesi nel tempo attraverso tentativi ed erro-ri.”25 Poiché appunto di ricerca si trattava, più che di terapia, cercarono di impo-starla con il maggior rigore possibile, definendo a priori alcune modalità piutto-sto rigide, da mantenere costanti per tutte le famiglie in trattamento: per esem-pio, la durata della terapia (dieci sedute, di solito a intervallo mensile); la se-quenza dei singoli incontri (pre-seduta, seduta vera e propria, discussione, con-clusione, verbale); il setting (due terapeuti nella sala di terapia, due dietro lo specchio, nella saletta di osservazione).

Questa sistematicità permise all’équipe di valutare con notevole obiettività quali fossero, indipendentemente dalle idiosincrasie e dal maggiore o minore “carisma del terapeuta”, le strategie di intervento più efficaci per indurre un cambiamento duraturo, nonché di formalizzarle al punto da soddisfare, pur en-tro certi limiti, un criterio scientifico essenziale: la ripetibilità. Fra le strategie così individuate e motivate, alcune in particolare hanno riscosso consensi tali da rendere quello del Milan approach un modello teorico di riferimento in ambito internazionale: l’uso sistematico della connotazione positiva del sintomo; il ri-corso alle ipotesi come strumento terapeutico; il ricorso metodico alle domande circolari (cioè domande che “definiscono una relazione”, e che di solito hanno la forma: “se si presentasse la condizione x, come pensa che reagirebbe il fami-liare y?”); l’importanza della “neutralità” del terapeuta nei confronti delle posi-

25 M. SELVINI PALAZZOLI, L. BOSCOLO, G. CECCHIN e G. PRATA, Paradosso e contropara-

dosso, 1975.

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zioni dei singoli clienti, intesa non tanto nel senso che il terapeuta deve essere imparziale, quanto nel sapersi collocare, rispetto al livello della famiglia, a un metalivello che gli permetta di agire sull’intero sistema; infine, ed è forse la strategia più sconcertante, la cosiddetta “prescrizione invariabile”, ossia una prescrizione paradossale studiata “a tavolino” che è sempre la stessa26 per tutte le famiglie con figli anoressici o psicotici, e teoricamente in grado—se “sommi-nistrata” nei tempi e nei modi indicati—di creare le condizioni indispensabili, sia nella famiglia che fra famiglia e terapeuti, per un intervento efficace. Già da questi brevissimi accenni si può intuire per quale motivo il Milan approach sia ritenuto l’approccio sistemico per eccellenza.

Nel corso degli anni ’80, oltre ad affinare e ampliare il proprio metodo di in-tervento, l’équipe di Milano si è dedicata soprattutto all’elaborazione di modelli e di metafore in grado di descrivere le possibili connessioni fra modalità fami-liari ed esiti psicotici, ossia, riassume Mara Selvini Palazzoli, “come connettere il disturbo della coppia genitoriale col disturbo del figlio”.27 La metafora princi-pale è quella del “gioco”, e da questa ne derivano numerose altre, alcune delle quali—“istigazione” e “imbroglio”—sono usate anche nel corso di questa tesi. Ma perché proprio il “gioco”, e cosa intendono, i terapeuti di Milano, con l’espressione “gioco familiare”?

Il termine “gioco” produce immediate associazioni con le idee di gruppo, squadra, soggetti (giocatori), posizioni (comando, gregario, attacco, difesa, ecc.), strategie, tattiche, mosse, abilità, alternanza di turni (quindi sequenza temporale). Abbiamo così la possibilità di disporre di un linguaggio molto legato alle relazioni interpersonali, in quanto scambi di comportamenti. Parole come imbroglio, istiga-zione, minaccia, promessa, seduzione, voltafaccia, cooperazione, vincere, perdere, stallo, sono molto legate alla necessità di descrivere vicende interumane.

[…] La metafora del gioco è risultata molto adatta a integrare le regole genera-li dell’interazione dei giocatori (ragionamento sistemico-olistico) con le mosse dei soggetti (ragionamento strategico). […] In questo senso, la metafora del gioco ci ha facilitato l’accesso a una visione che non separa i singoli dalle reciproche inter-

26 La prescrizione invariabile, con le frasi “esatte” da pronunciare, fu presentata per la prima

volta al Congresso Internazionale di Terapia Familiare tenutosi a Lione nel 1980, dove venne distribuita in fotocopia ai partecipanti. La relazione non venne mai pubblicata, ma la si può trovare in M. SELVINI PALAZZOLI et al., Giochi psicotici in famiglia, pp. 19-30.

27 M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. xiv.

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dipendenze, né separa l’interdipendenza dai singoli, ma considera i singoli come interdipendenti e tuttavia relativamente impredicibili, in quanto più o meno abili a effettuare, all’interno delle regole e conseguentemente delle mosse avversarie, tut-te le scelte rimaste possibili.28

Come si può intuire da quest’ultima precisazione circa la necessità di trovare un equilibrio fra prospettive esclusivamente orientate al sistema e prospettive esclusivamente orientate all’individuo, la terapia familiare, nel coso degli anni ’80, è diventata sempre meno dogmatica e più disponibile alla contaminazione, come vedremo nella sezione successiva. La scuola di Milano, in particolare, si è dedicata sempre di più all’integrazione, nel proprio modello, della cosiddetta “seconda cibernetica”, sottolineando la necessità che, all’idea di “neutralità”, si affianchi la consapevolezza da parte del terapeuta del suo essere inevitabilmente parte del sistema. Di conseguenza, alle strategie finalizzate a mantenere una prospettiva “binoculare”29 (dai co-terapeuti dietro allo specchio al concetto stes-so di “équipe”) si sono affiancate strategie volte a coinvolgere in modo costrut-tivo, nel corso degli interventi, le emozioni—e perfino gli stessi pregiudizi30—del terapeuta. In un certo senso, questa ennesima svolta può essere vista come un recupero dell’aspetto più tipicamente relazionale della psicoanalisi, e cioè della dinamica di transfert e controtransfert, ed è probabilmente un segno del fatto che la terapia familiare ha raggiunto la piena maturità: superata l’esigenza di definire la propria specificità per opposizione, può finalmente permettersi di assimilare, senza complessi di inferiorità, le intuizioni migliori degli approcci “concorrenti”.

Ultime tendenze: costruttivismo, seconda cibernetica ed emozioni

Per quanto diverse, le scuole di terapia familiare condividono tutte alcuni as-sunti basilari: l’importanza di intervenire sul nucleo familiare, e non solo sul-

28 Ibid., pp. 158-160. 29 Qui inteso nel senso indicato da G. BATESON in Mente e natura, pp. 93-122, e cioè una

prospettiva non solo più ricca di quella “monoculare”, ma di livello logico diverso, in quanto l’informazione alla quale dà accesso è la differenza fra due informazioni.

30 Sull’impiego consapevole, in terapia, dei pregiudizi del terapeuta, vedi G. CECCHIN, G. LANE e W.A. RAY, Verità e pregiudizi. Un approccio sistemico alla psicoterapia.

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l'individuo; la funzionalità del sintomo, inteso come meccanismo retroattivo at-to a preservare l’equilibrio dell'intero sistema (sintomo, quindi, non tanto “cau-sato da” quanto “finalizzato a” qualcosa); la consapevolezza che qualsiasi cam-biamento individuale coinvolge sempre l’intero sistema familiare. In seguito a-gli sviluppi teorici del costruttivismo e della seconda cibernetica31 (secondo la quale qualsiasi descrizione di un sistema deve comprendere anche l’osservatore del sistema stesso), come in parte si è già detto parlando della scuola di Milano, altri due principi basilari si sono aggiunti a quelli condivisi da più o meno tutte le scuole: a) la realtà della famiglia, il “come stanno realmente le cose”, è una costruzione sociale della famiglia stessa; b) nel corso della terapia, il sistema famiglia comprende anche il terapeuta, che quindi partecipa non solo all’interpretazione ma anche all'invenzione della realtà.

In ambito terapeutico, la svolta teorica segnata dal costruttivismo ha avuto una ricaduta immediata e assai concreta: se la realtà non è quell’entità oggettiva che si tende a credere ma dipende piuttosto dai punti di vista di chi la inventa, una situazione in apparenza senza speranza potrebbe esserlo, per l’appunto, solo in apparenza. Ciò significa che al terapeuta intento ad aiutare le famiglie ad u-scire da una situazione di stallo si prospetta un nuovo strumento di intervento, o meglio un nuovo obiettivo: ampliare il campo delle possibili “letture del mon-do” della famiglia stessa. In altre parole, “allenare” la famiglia a costruirsi realtà più accettabili. Interventi di ristrutturazione che vanno in questo senso sono ben esemplificati nell’opera di Mony Elkaïm,32 uno psicoterapeuta che individua l’origine dei doppi legami familiari nell'incompatibilità che si viene a creare tra la richiesta ufficiale esplicita ogni membro della famiglia (es. “voglio essere ac-cettato”) e la sua mappa del mondo (l’insieme delle sue credenze, per esempio “non posso che essere respinto”).

Più in generale, comunque, la terapia familiare degli anni ‘90 sembra essere orientata a scoperchiare quella che Watzlawick chiamava the black box, per

31 Vedi P. WATZLAWICK, La realtà inventata. Contributi al costruttivismo; H. VON

FOERSTER, Sistemi che osservano; E. MORIN, La conoscenza della conoscenza. 32 M. ELKAÏM, Se mi ami non amarmi.

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cominciare a prendere in considerazione da una parte la dimensione semantica delle relazioni—ossia le emozioni e la “storia familiare” (con i suoi miti, i suoi rituali e i suoi script)33—e dall’altra l’influenza del contesto sociale sul sistema familiare.34 Assegnare un ruolo alle emozioni può a prima vista apparire un pas-so indietro, un ritorno a una psicologia di taglio più introspettivo che comunica-zionale. In realtà, c’è una differenza sostanziale rispetto al passato: emozioni e narrazioni vengono ora considerate anzitutto nella loro dimensione intersogget-tiva, in base al principio che è solo nell’interazione con il contesto che esse pos-sono formarsi. L’idea della natura intersoggettiva delle emozioni, condivisa da studiosi di numerose discipline (per esempio, da filosofi come Francis Jacques35 e da sociologi come Thomas Scheff36), era presente già negli studi di Bateson37 e dei primi terapeuti della famiglia, i quali però tendevano a porla in secondo pia-no rispetto alla sfera più strettamente pragmatica dell’intersoggettività. Ma è proprio il parziale fallimento, in campo terapeutico, di teorie rigidamente prag-matiche come quella del double bind ad avere indotto la terapia familiare a riva-lutare l’importanza della dimensione diacronica (dunque, la narrazione) e dei significati (dunque, le emozioni).

33 Sui tentativi di integrare le emozioni nella prospettiva sistemica, vedi M. ANDOLFI et al.

Sentimenti e sistemi, dove sono raccolti i numerosi contributi presentati al primo convegno della European Family Therapy Association, dedicato appunto al ruolo giocato dalle emo-zioni in sistemi complessi come le culture, le istituzioni e, naturalmente, la famiglia. Sul concetto di “storia familiare” e, più in generale, sull’impiego delle tematiche narrative in terapia, vedi J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia.

34 Per un confronto appassionato fra queste due nuove tendenze e la terapia familiare delle origini, vedi R. DALLOS e A. URRY, “Abandoning our parents and grandparents: does so-cial construction mean the end of systemic family therapy?”.

35 Vedi F. JACQUES, Difference and Subjectivity. 36 T.J. SCHEFF, Microsociology: Discourse, Emotion, and Social Structure. 37 A questo proposito, mi pare significativo il fatto che nel volume Semiotica delle passioni

(a cura di I. PEZZINI) sia stato inserito un articolo di G. BATESON, “Emozioni e scienze so-ciali” (è l’unico contributo, in tutta la raccolta, non di un semiotico), dedicato proprio alla dimensione relazionale delle emozioni.

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Terapia della famiglia, letteratura e critica letteraria

Per quanto incompleta, la breve storia della terapia familiare che ho tentato di tracciare nelle sezioni precedenti dovrebbe essere sufficiente a suggerire un’analogia con quanto è avvenuto, più o meno negli stessi anni, nella critica letteraria. A questo riguardo, è indicativo il fatto che una terapeuta come Lynn Hoffman, per illustrare il passaggio dalla prima alla seconda cibernetica, si rife-risca esplicitamente al confronto fra New Criticism e Decostruzione.38 A dire il vero, questo riferimento non dovrebbe stupire più di tanto: per i terapeuti della famiglia, il confronto con la letteratura in senso lato (durante il periodo di training, per esempio, è pratica comune sottoporre agli studenti film e opere teatrali) e con la critica letteraria è un’attività tutt’altro che rara. E questo anche su un piano più strettamente teorico: come osserva Paolo Bertrando, “the inter-est in literary metaphors and methods, ideal for therapists who (in the USA) were less and less linked to psychiatry and medicine, led to involvement in lit-erary criticism, that became the means of introduction of postmodern ideas”.39

Assai diverso, invece, appare il panorama interdisciplinare visto dall’altro la-to della barricata: gli studi di critica letteraria che si rifanno esplicitamente alla terapia familiare sono—ancora—rarissimi. Il primo del quale sono a conoscenza è The Daughter’s Dilemma40 di Paula Marantz Cohen, un’affascinante percorso sulla figura della “figlia” nel romanzo inglese dell’Ottocento, basato in partico-lare sull’approccio strutturale. Striking at the Joints41 di John V. Knapp, invece, è un’introduzione alle opportunità offerte dalle “nuove psicologie” alla critica letteraria. Nel terzo capitolo, “Family Systems in Literature”, l’autore propone una lettura, basata sulla teoria dei sistemi familiari, di Sons and Lovers di D. H.

38 Vedi L. HOFFMAN, “Constructing realities: An art of lenses”, Family Process, 29, 1990. 39 P. BERTRANDO, “Commentary to Abandoning Our Parents and Grandparents: Does Social

Construction Mean the End of Systemic Family Therapy? by Rudi Dallos and Amy Urry”. 40 P. MARANTZ COHEN, The Daughter's Dilemma: Family Process and the Nineteenth-

Century Domestic Novel. Le opere esaminate dall’autrice sono Clarissa di S. Richardson, Mansfield Park di J. Austen, Wuthering Heights di E. Brontë, The Mill on the Floss di G. Eliot e The Awkward Age di H. James.

41 J.V. KNAPP, Striking at the Joints: Contemporary Psychology and Literary Criticism.

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Lawrence e di Call It Sleep di Henry Roth. Intento dichiarato del volume di Knapp è quello di denunciare l’immobilismo della critica ad orientamento psi-cologico e di suggerire alternative possibili (in particolare: la terapia familiare, il comportamentismo e il cognitivismo) per favorire una maggiore interazione, soprattutto in ambito accademico, tra social sciences e humanities. Infine, sem-pre a cura di John Knapp, è da segnalare l’importante raccolta di saggi—preceduti da un’introduzione dello stesso Knapp su “Family Systems Psycho-therapy, Literary Character, and Literature”—pubblicata nel 1997 in un numero monotematico di Style, intitolato Family Systems Psychotherapy and Litera-ture/Literary Criticism. Per quanto mi è riuscito di scoprire, si tratta del primo e per ora unico tentativo volto in modo esplicito a introdurre la teoria dei sistemi familiari nell’ambito degli studi letterari.

In nessuno dei tre lavori citati sono analizzati testi teatrali, né tanto meno opere di Shakespeare. Lo stesso Knapp mi ha però gentilmente anticipato che, nel volume di prossima uscita Reading the Family Dance (una raccolta di una dozzina di letture di opere letterarie basate sui modelli della terapia familiare, a cura di John V. Knapp e Ken Womack, in corso di stampa presso la Delaware University Press), sarà incluso un suo saggio su Hamlet. Sempre nella stessa raccolta, inoltre, sarà presente, in versione inglese, la lettura proposta nel quarto capitolo di questa tesi di The Taming of the Shrew. È evidente quanto sarebbe fuori luogo tentare di interpretare questi deboli segnali come sintomatici di un interesse per la teoria dei sistemi familiari che va diffondendosi nell’ambito del-lo studio dei testi drammatici. Certo è, però, che la terapia della famiglia ha rag-giunto una maturità tale da permetterle di proporsi, anche al di fuori del suo preciso ambito di intervento, come una preziosa risorsa di modelli, prospettive, terminologia e—aspetto da non sottovalutare, come ci insegna l’esperienza freudiana—metafore.

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Capitolo quarto

Terapeuti shakespeariani

Una delle numerose differenze fra persone e dramatis personae è che per queste ultime non ha senso parlare di terapia. Per quanto intenso il loro soffrire, non è possibile, né tantomeno auspicabile, tentare di alleviarlo. In altre parole, se per assurdo si riuscisse a fare di Hamlet un giovanotto sereno e pieno di vo-glia di vivere, si sarebbe compiuto un vero e proprio crimine estetico. È questo il motivo per il quale le letture psicologicamente orientate si avvalgono dei mo-delli cui fanno riferimento solo in parte: ne sfruttano, cioè, l'aspetto teoretico-descrittivo, ma non quello terapeutico-operativo.

Questa ragionevole cautela, che qui ovviamente condividiamo, ammette però almeno un’eccezione: il caso in cui una delle dramatis personae è essa stessa un terapeuta, o perlomeno agisce come tale. Per esempio, quando Sir Reilly, l’ospite misterioso di The Cocktail Party di Eliot, ricevendo Edward nel suo studio lo informa che

Indeed, it is often the case that my patients Are only pieces of a total situation Which I have to explore. The single patient Who is ill by himself, is rather the exception.1

e gli propone un colloquio a tre, invitando Lavinia a unirsi a loro, è chiaro che il suo modello terapeutico di riferimento è piuttosto distante da quello freu-diano ortodosso. Non solo le premesse teoriche (è raro che il malato sia uno sol-tanto) ma lo stesso setting (il colloquio a tre) sono assai più affini, in questo ca-so, al modello della terapia di coppia.

1 T. S. ELIOT, The Cocktail Party, p. 114.

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Nei drammi di Shakespeare, naturalmente, non s’incontrano terapeuti con tanto di targa sul portone e iscrizione all’albo. Ci sono però numerosi personag-gi che, con il loro agire e le loro parole, modificano profondamente la condizio-ne psicologica di altri. Alcuni di essi, poi, lo fanno consapevolmente e con un preciso obiettivo. Obiettivo che, almeno in certi casi, potremmo definire tera-peutico, in quanto finalizzato al raggiungimento di una situazione più sopporta-bile di quella di partenza.

Passando ora in rassegna alcuni di questi “terapeuti” shakespeareani, presen-terò brevemente tre diverse modalità di cambiamento, per concentrarmi poi su un quarto tipo di intervento terapeutico, quello più rilevante ai fini di questa te-si: il cambiamento innescato dalla comunicazione paradossale. Poiché si tratterà di accostamenti alquanto inconsueti, però, prima di proseguire è opportuno ren-derne esplicito lo scopo. Forse è più semplice cominciare elencando gli obiettivi che questo capitolo non si propone: anzitutto, non è mia intenzione offrire una chiave di lettura dei drammi nella loro interezza. Ancora, pur ponendo a con-fronto diverse modalità “terapeutiche” e i loro “esiti”, non intendo affatto mo-strare la maggiore o minore efficacia dell’una rispetto all’altra, né in ambito cri-tico né tanto meno in ambito clinico: sarebbe un’operazione tanto disonesta quanto ridicola, vista l’arbitrarietà che mi ha guidato nella scelta delle situazioni e la parzialità del punto di vista dal quale le illustrerò. Piuttosto, questo capitolo rappresenta una sorta di “scorciatoia metodologica” per affrontare ancora una volta la questione dell’applicabilità del modello della terapia familiare ai drammi di Shakespeare. Nei capitoli precedenti, ho tentato di dimostrare questa applicabilità sottolineando le affinità fra “l’oggetto di indagine” della terapia della famiglia—ossia le famiglie occidentali contemporanee—e le famiglie del-le finzioni shakespeareane. Qui seguirò invece il percorso inverso, partendo cioè non dai modelli descrittivi bensì dalle strategie di intervento: se riuscissimo a dimostrare che un determinato approccio terapeutico può dimostrarsi efficace tanto nei drammi familiari della realtà odierna quanto in quelli di Shakespeare, avremmo a disposizione un elemento prezioso a favore dell’applicabilità, in en-trambi i contesti, del modello sul quale tale intervento si fonda. Tale modello d’intervento, nel nostro caso, è quello della terapia strategica e paradossale. La

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scelta qui compiuta di accostarlo ad altri modelli terapeutici è dunque finalizza-ta esclusivamente a fornire esempi di “esiti falsificanti”—esiti che non è sempre immediato riconoscere in quanto tali—ai quali un simile esperimento potrebbe condurre.

L'autoanalisi: cambiare “overhearing oneself”

Il sintomo più rivelatore della potenziale presenza di un “terapeuta” in un dramma è il cambiamento nella percezione che un personaggio ha di sé e della propria situazione esistenziale. Ma quale tipo di cambiamento? Un cambiamen-to può avvenire in diversi modi. A questo proposito, è interessante ricordare come uno fra i tratti più innovativi di Shakespeare sia la sua abilità nel creare personaggi che cambiano da soli, “overhearing themselves”. Questa abilità, così ripetutamente riconosciutagli da essere ormai diventata un luogo comune, è de-finita da Harold Bloom come “the internalization of the self, [...] one of Shake-speare's greatest inventions, particularly because it came before anyone else was ready for it.”2 In cosa consista tale auto-cambiamento è ben descritto dallo stes-so Bloom nel saggio “The analysis of character” (saggio secondo il quale, nono-stante la citazione appena riportata, almeno un valido precursore della genialità shakespeariana pare esserci stato):

The origins of Shakespeare’s originality in the portrayal of men and women are to be found in the Canterbury Tales of Geoffrey Chaucer, insofar as they can be located anywhere before Shakespeare himself. Chaucer's savage and superb Pardoner overhears his own tale-telling as well as his mocking rehearsal of his own spiel, and through this overhearing he is emboldened to forget himself, and enthusiastically urges all his fellow-pilgrims to come forward to be fleeced by him. His self-awareness, and apocalyptically rancid sense of spiritual fall, are preludes to the even grander abysses of the perverted will in Iago and in Edmund. What might be called the character trait of negative charisma may be Chaucer’s invention, but came to its perfection in Shakespearean mimesis.3

Secondo Bloom, dunque, la perturbante originalità di Shakespeare, appena mitigata dal precedente chauceriano, consisterebbe nell’aver creato personaggi

2 H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 409. 3 H. BLOOM, Hamlet, p. x.

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con notevoli capacità di introspezione e auto-analisi. Hamlet e Iago, da questo punto di vista, sono probabilmente le due figure più emblematiche. Ciò non to-glie, però, che i suoi drammi siano popolati da altri—magari meno affascinan-ti—personaggi i quali, per cambiare, hanno bisogno di un po’ di aiuto dall’esterno. Chi sono? Chi li aiuta? In che modo? E, soprattutto, con quale suc-cesso?

L'analisi freudiana classica: cambiare ricordando il passato

Secondo il modello psicoanalitico classico, il cambiamento terapeutico av-viene diventando consapevoli di una realtà psichica prima ignorata. Tramite un lungo processo di rimozione delle rimozioni, una porzione repressa dell’inconscio affiora alla coscienza, mettendo così il paziente in grado di ge-stirla. Un processo, come ben sappiamo, che si realizza principalmente grazie a tecniche come la libera associazione, l’interpretazione dei sogni e la relazione con l’analista. Caratteristica fondamentale di tale processo è che il materiale psichico rimosso si riferisce al passato individuale—rispetto, per esempio, a quanto avviene nella terapia junghiana. Per essere curato, il paziente freudiano deve avere un passato, reale o intrapsichico che sia. Detto in modo brutale, deve esserci stato un periodo della sua vita nel quale aveva due o tre anni e si trovava in balìa di incontrollabili pulsioni sessuali. Caratteristica, questa, che un perso-naggio drammatico raramente soddisfa.4

Ma ciò che più qui ci interessa rilevare è che, pur presentando numerosi per-sonaggi aventi uno spessore psicologico e linguistico tale da rendere legittima e stimolante l’applicazione delle teorie psicoanalitiche, il canone shakespeariano lascia il compito interpretativo agli spettatori, ai lettori e, soprattutto, ai critici.

4 A questo proposito, è forse opportuno sottolineare come il modello freudiano ortodosso,

proprio per la sua ricchezza e complessità, sia comunque applicabile anche allo studio di personaggi senza un passato (tipicamente attraverso l'analisi simbolica del materiale oniri-co e linguistico). Vale anche la pena ricordare che, dall'inizio del ventesimo secolo ad og-gi, le teorie e le pratiche psicoanalitiche si sono costantemente evolute. Per un brillante re-soconto degli effetti di tale evoluzione sulla critica shakespeariana, si può fare riferimento al saggio di N. HOLLAND “Hermia’s Dream”, nel quale l’autore individua tre fasi chiave nello sviluppo della critica psicoanalitica e, per ognuna di esse, mostra una possibile ap-plicazione per la lettura di MND.

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Ciò preclude, com’è ovvio, ogni possibilità di assistere ad un intervento tera-peutico, che dovrebbe inevitabilmente realizzarsi sull’asse interno. Se anche, come alcuni critici concordano nel sostenere,5 la vita intrapsichica così come descritta da Freud è andata formandosi proprio all'epoca di—o, addirittura, gra-zie a—Shakespeare, per avere i primi terapeuti in grado di indagarla si è reso necessario attendere altri tre secoli. Quando, per esempio, Volumnia rivela a Virgilia alcuni particolari sul passato di Coriolanus—“When yet he was but tender-bodied and the only son of my womb...” (Cor, I.iii.5-6)—lo fa per con-vincere la nuora a darsi un po’ di contegno, e non certo per interrogarsi sul pur problematico carattere del figlio.

Non mancano, però, anche nel canone shakespeariano, situazioni almeno in parte assimilabili a quella del setting psicoanalitico.6 Una fra le più significative la si incontra in The Tempest, atto primo, scena seconda. Nei paragrafi successi-vi proverò ad evidenziare alcuni dei processi di cambiamento che la scena pre-senta. Non sarà in alcun modo una lettura in chiave psicoanalitica, bensì un’analisi delle strategie adottate da Prospero nella sua conversazione con Mi-randa. Strategie che, come spero di mostrare, hanno alcune affinità con quello che diventerà il modello operativo della psicoanalisi freudiana.

La scena si apre con Miranda in preda all’agitazione, addolorata per la sorte dei naufraghi, che chiede aiuto al padre. Prospero, dopo averla brevemente ras-sicurata sul presente, propone di spostare l’attenzione sul passato, e in particola-re sull’infanzia di Miranda. Al termine della conversazione, l’ancora perplessa Miranda, ubbidendo all’ordine di Prospero, si addormenta. Da un punto di vista

5 Vedi, per esempio, H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 58; S. GREENBLATT, “Psycho-

analysis and Renaissance Culture”, in S. GREENBLATT, Learning to Curse: essays in early modern culture.

6 Per una definizione di setting psicoanalitico, si può fare riferimento al primo volume del Trattato di psicoanalisi, a cura di ANTONIO ALBERTO SEMI: “Il setting si può definire co-me l'assetto relazionale analitico che lo psicoanalista deve assumere e conservare per tutta la durata del trattamento. È condizione fondamentale e insostituibile perché si possa fare della psicoanalisi. Come osserva Di Chiara [“Il setting analitico”, in Psiche, 8, 1971, p. 47], il setting «serve a consentire al paziente di realizzare esperienze che abbiano relazione con il proprio inconscio, con la propria infanzia, con i propri conflitti, e dove realizzare esperienze significa fare esperienza del transfert»." [corsivo mio].

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strettamente drammatico, la strategia qui messa in atto ha naturalmente lo scopo di fornire agli spettatori le informazioni necessarie per comprendere quanto sta per essere rappresentato. Anche ciò che avviene sull’asse interno, però, è degno di nota.

Anzitutto, per l’intimità e la ritualità della scena.7 L'incontro avviene davanti alla grotta di Prospero, un antro magico, quindi sulla soglia di un luogo che è al tempo stesso casa e “studio”. Miranda, dopo aver esposto il suo problema, aiuta il padre a togliersi il “magic garment”, che viene steso a terra, ed entrambi si siedono, creando così una cornice comunicativa—e terapeutica—ideale. Nelle letture critiche di The Tempest, la figura di Prospero diventa di volta in volta quella del mago, del regista, del portavoce di Shakespeare, del colonizzatore, del patriarca e via dicendo. All’inizio della seconda scena, invece, Prospero è soprattutto un padre, e l’incanto dell’azione è tale che il tentare di attribuirgli ruoli ulteriori quasi dispiace.

Il modo in cui si svolge il dialogo è però decisamente insolito. Per prima co-sa, è un raro caso, all’interno del corpus shakespeariano, di dénouement in una scena iniziale. Ancora, a differenza di quanto avviene in un dénouement classi-co, l’effetto immediato non è quello di rendere Miranda consapevole delle sue nobili origini—informazione che pare interessarle assai poco— bensì, almeno in apparenza, quello di rasserenarla al punto da farla addormentare. Inoltre, mentre per l’asse esterno è fondamentale che cosa viene raccontato, per quello interno l’accento sembra venire spostato su come viene raccontato. Larga parte degli scambi ha, infatti, contenuto metacomunicativo:

Miranda More to know Did never meddle with my thoughts.

[I.ii.21-22]

Prospero ’Tis time I should inform thee farther.

[I.ii.22-23]

7 A proposito dell'intimità, vale la pena osservare che, anche da un punto di vista stretta-

mente conversazionale, il rapporto fra Prospero e Miranda è, fra tutte le relazioni padre-figlia presenti in Shakespeare, quello più "denso": in sole 12 sequenze, infatti, presenta ben 66 scambi di turno a distanza zero (a "botta e risposta", cioè sequenze ABABAB...), 41 dei quali in questa scena. Per un confronto con la densità conversazionale di altre rela-zioni familiari shakespeariane, v. tabella C.6 in appendice.

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Prospero Sit down, For thou must now know farther.

[I.ii.32-33]

Miranda You have often Begun to tell me what I am, but stopped And left me to a bootless inquisition, Concluding “Stay; not yet”.

[I.ii.33-36]

Prospero The hour’s now come. The very minute bids thee ope thine ear, Obey, and be attentive.

[I.ii.35-38]

Miranda Please you, farther. [I.ii.65]

Prospero Miranda

Dost thou attend me? Sir, most heedfully.

[I.ii.78]

Prospero Miranda

Thou attend’st not! O good sir, I do.

[I.ii.87-88]

Prospero I pray thee mark me. [I.ii.88]

Prospero Miranda

Dost thou hear? Your tale, sir, would cure deafness.

[I.ii.106]

Miranda Alack, for pity! I, not rememb’ring how I cried out then, Will cry it o’er again; it is a hint That wrings mine eyes to ’t.

[I.ii.132-135]

Prospero Hear a little further, And then I’ll bring thee to the present business Which now’s upon ’s, without the which this story Were most impertinent.

[I.ii.135-138]

Prospero Well demanded, wench; My tale provokes that question.

[I.ii.139-140]

Prospero Now I arise. Sit still, and hear the last of our sea-sorrow.

[I.ii.170-171]

Prospero Here cease more questions. Thou art inclined to sleep; ’tis a good dullness, And give it way. I know thou canst not choose.

[I.ii.185-187]

Ciò che più colpisce sono le ossessive richieste di attenzione di Prospero:

“Obey, and be attentive”, “Dost thou attend me?”, “Thou attend’st not!”, “I pray thee mark me” e, ancora, “Dost thou hear?”. Come interpretarle? Secondo Da-vid Sundelson,8 ciò che il dialogo mette in scena è un’alternanza di dubbio e

8 David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”.

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rassicurazione, necessaria a Prospero per affrontare l’imminente separazione af-fettiva da Miranda, la quale è destinata a innamorarsi di Ferdinand. Mi pare una lettura condivisibile, soprattutto tenendo presente la sete di dimostrazioni affet-tive cui i padri shakespeariani—Lear in testa—vanno soggetti in prossimità del matrimonio delle figlie. Ma è una lettura che illumina un solo aspetto della con-versazione: l'ansia di Prospero.

Che dire, invece, dell'ansia di Miranda? In fin dei conti, ciò che vediamo ac-cadere in scena è che è lei a chiedere aiuto, ed è lei ad ottenerlo. Quello che ot-tiene, però, non è l’aiuto che ha richiesto. “If by your art, my dearest father, you have / Put the wild waters in this roar, allay them” (I.ii.1-2), lo supplica all’inizio. Prospero, invece, non muove un dito per calmare la tempesta. Tempe-sta sulla quale, peraltro, pare non avere un controllo completo: “But are they, Ariel, safe?” (I.ii.218), chiederà ad Ariel quando Miranda già dorme. Procrasti-nare la soddisfazione delle richieste altrui è una modalità tipica di Prospero: la possiamo osservare, per esempio, nel suo atteggiamento verso Ariel che chiede la libertà, o quando ordina a Ferdinand di raccogliere la legna. Prospero stesso ne è perfettamente consapevole e, ciò che più conta, lo fa per fini che si potreb-bero definire terapeutici: “lest too light winning / Make the prize light” (I.ii.454-5).

Con Miranda, Prospero adotta la medesima modalità, non solo riguardo alla tempesta, ma anche alle stesse spiegazioni: “You have often / Begun to tell me what I am, but stopped / And left me to a bootless inquisition, / Concluding «Stay; not yet»”, si lamenta Miranda all’inizio; la fine del dialogo—“Here cease more questions”—è però un ennesimo “not yet”. Perché questa ulteriore dila-zione? Ancora una volta, dal punto di vista dell’asse esterno lo scopo è eviden-te: se i flashback sono necessari per comprensione della storia, un eccesso di an-ticipazioni sarebbe drammaticamente deleterio. C’è però una spiegazione anche per quanto riguarda l'asse interno? Una lettura che renda giustizia alla verosimi-glianza di questo pur bizzarro dialogo?

Propongo di partire da un’ipotesi semplice e ingenua, almeno rispetto a quel-la di Sundelson: la comunicazione apparentemente fàtica di Prospero—i suoi “Dost thou hear?” e “Dost thou attend me?”—ha in realtà una funzione princi-

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palmente conativa, ed è segno di irritazione. Prospero è irritato non tanto perché Miranda non lo ascolta, quanto perché ciò che le sta dicendo pare non raggiun-gere l’effetto voluto. La stessa Miranda, confusamente consapevole della richie-sta del padre, si affanna infatti a rassicurarlo: “I, not rememb’ring how I cried out then, / Will cry it o’er again; it is a hint / That wrings mine eyes to ’t.”

Cosa vuole Prospero dalla figlia? Lasciando ora da parte gli scambi metaco-municativi, concentriamoci su ciò che le chiede sul piano del contenuto. La prima domanda è: “Canst thou remember / A time before we came unto this cell?” (I.ii.38-39). E, ancora: “By what? By any other house or person? / Of anything the image tell me that / Hath kept with thy remembrance.” (I.ii.42-44). Infine: “But how is it / That this lives in thy mind? What seest thou else / In the dark backward and abyss of time?” (I.ii.48-50). Fatte da Prospero, queste do-mande non hanno, è evidente, scopo informativo: a differenza di noi spettatori, Prospero sa benissimo come andarono le cose dodici anni prima, quando Mi-randa non aveva nemmeno tre anni. Il loro scopo sembra invece essere quello di aiutare Miranda ad intraprendere un viaggio a ritroso nel buio abisso del passa-to. Un passato traumatico per entrambi, “me and thy crying self” (I.ii.132).

In fatto di eventi traumatici, è il caso di ricordarlo, Miranda è un’ottima cliente: è perfino riuscita a elaborare il tentato stupro da parte di Caliban. Come si scoprirà poco più avanti nella stessa scena, impietosita dalla condizione di Caliban, Miranda si è impegnata in prima persona per aiutarlo. Ma una volta ri-cevuto un assaggio della sua vera natura—“thy vile race” (I.ii.360)—Miranda è stata in grado di affrontare la realtà, senza opporre particolari resistenze psico-logiche e senza rimanere invischiata nei sensi di colpa, al punto da rinfacciare a Caliban che la condizione di schiavo è esattamente quella che si merita.

Le recenti letture in chiave postcoloniale e neostoricista di questo episodio,9 pur raffinate e apprezzabili, tendono a distoglierci da una constatazione abba-

9 Vedi P. BROWN, “'This Thing of Darkness I Acknowledge Mine': The Tempest and the

Discourse of Colonialism” (in Political Shakespeare: New Essays in Cultural Materia-lism, a cura di J. DOLLIMORE e A. SINFIELD, Ithaca, N.Y.: Cornell U.P., 1985, pp. 48-71) e S. GREENBLATT, “Martial Law in the Land of Cockaigne” (in Shakespearean Negotia-tions, pp. 129-163).

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stanza ovvia: c’è un evidente parallelismo in quanto è accaduto fra Miranda e Caliban da una parte e fra Prospero e suo fratello Antonio dall’altra. Senza sof-fermarci, ora, ad analizzare le numerose affinità fra i due episodi, ci è qui suffi-ciente notare che si tratta di due eventi traumatici—di ingratitudine e violen-za—ai danni di Prospero e Miranda.

Come abbiamo detto, Miranda è stata in grado di elaborare positivamente il tentato stupro. Lo stesso non si può dire per l’altro episodio, e cioè il colpo di stato di Antonio e l’abbandono di Prospero e Miranda sul vascello, episodio che potremmo senza dubbio definire di tentato omicidio. In questo caso, Miranda era troppo piccola per riuscire a elaborare consciamente quanto stava accaden-do. L’episodio è stato così quasi completamente rimosso, e per dodici lunghi anni Miranda è riuscita a tirare avanti senza sapere nulla della sua infanzia. Cer-to, la curiosità c’era, come si evince dalle battute iniziali del dialogo con il pa-dre. Ma Prospero, come qualsiasi psicoanalista, sa bene che scavare in un passa-to traumatico non è una cura indolore: è fonte di grande sofferenza, un’impresa da intraprendere solo quando è veramente necessario.

Con l’arrivo di Antonio nei pressi dell’isola, però, quel momento è giunto: “’Tis time / I should inform thee farther”, come annuncia alla figlia. È ora che Miranda affronti la realtà, che lasci affiorare alla coscienza quelle immagini—“rather like a dream than an assurance” (I.ii.45)—che fino a quel momento ha conservato nell’inconscio. Ed è soprattutto ora che, messa al corrente dei fatti, capisca quanto anche in questo caso, come quando ha ridotto Caliban in schiavitù, l’agire di suo padre sia giusto e condivisibile: come Antonio lasciò loro in balìa del mare, ora Prospero lascia lui e i suoi compagni in balìa della tempesta. Torniamo per un istante agli enunciati metacomunicativi di prima, e consideriamoli, questa volta, inseriti nel loro immediato contesto verbale:

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• [...] Thy false uncle — Dost thou attend me? [...] Being once perfected how to grant suits [...]

• [...] now he [Antonio] was the ivy which had hid my princely trunk and sucked my verdure out on ’t. Thou attend’st not! [...] I pray thee mark me.

• [...] hence his [Antonio] ambition growing—Dost thou hear? [...] To have no screen between this part he played And him he played it for, he needs will be absolute Milan.

Ora, non c’è dubbio che le richieste d’attenzione di Prospero abbiano soprat-tutto lo scopo di tenere viva l’attenzione del pubblico. E forse, come propone Sundelson, esprimono una richiesta di affetto e gratificazione da parte di Pro-spero. Credo però che, occorrendo tutte in prossimità di considerazioni sul mal-vagio fratello, abbiano anche la funzione di elicitare in Miranda sdegno e desi-derio di vendetta, come viene reso esplicito in un'ulteriore domanda retorica: “tell me / If this might be a brother” (I.ii.118).

In fondo, la trama di The Tempest è proprio quella di un “revenge romance”, quindi non stiamo dicendo nulla di particolarmente strano o nuovo. Ciò che, per i nostri scopi, e alla luce di quanto visto fino ad ora, mi sembra invece degno di nota è che la strategia di Prospero si rivela un parziale insuccesso.

Fin dall’inizio, infatti, qualcosa sembra non andare per il verso giusto. Anzi-tutto, c’è il bizzarro fraintendimento che mette in dubbio la paternità di Prospe-ro (I.ii.52-59). È un episodio che lascia perplessi: non è particolarmente comico, non fornisce alcuna nuova informazione al pubblico e mette seriamente in peri-colo la gravità, anche ritmica, dei versi di Prospero ("Twelve year since, Miranda, twelve year since..."). Nella lettura di Sundelson, il fraintendimento finisce proprio per gettare un’ombra di dubbio sull’effettiva paternità di Prospe-ro: “Just as his own anxiety about impotence is projected onto a personified Mi-lan, these half-suppressed doubts of his wife’s chastity are related to the im-agery of his expulsion from the city [...]. The father and daughter flee together from a rejecting wife and mother.”10 A noi può essere sufficiente osservare che la reazione di Miranda è in qualche modo deviante: sposta, seppure per poco, il fuoco del discorso e ne mina la solennità. Questa tendenza allo spostamento si incontra anche, e più volte, nelle successive reazioni di Miranda, la quale, inve-

10 David Sundelson, “So Rare a Wonder’d Father: Prospero’s Tempest”, p. 36.

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ce di rimanere indignata per il comportamento criminale dello zio, continua a mettere in primo piano il suo essere stata di peso per il padre. Nell’unico caso in cui, messa con le spalle al muro dal “tell me if this might be a brother” di Pro-spero, non può fare a meno di esprimere un'opinione al riguardo, lo fa in modo sorprendentemente ambiguo:

I should sin To think but nobly of my grandmother. Good wombs have borne bad sons. [1.ii.118-120]

Il padre le chiede un giudizio sullo zio, e lei risponde con una—fin troppo cauta— litote sulla nonna e con una frase proverbiale che, essendo formulata al plurale, rischia di gettare in cattiva luce Prospero stesso, che si ritrova accomu-nato all’odiato Antonio. In fin dei conti, con la tempesta che tanto ha turbato Miranda, Prospero sta rendendo al fratello pan per focaccia: il plurale del pro-verbio non si può dire del tutto fuori luogo. Comunque sia, Prospero reagisce di nuovo in modo piuttosto brusco (“Now the condition”, I.ii.120) e, soprattutto, da questo momento in poi ben si guarda dal porre alla figlia ulteriori domande. Meglio andare dritti allo scopo:

Hear a little further, And then I’ll bring thee to the present business Which now’s upon ’s, without the which this story Were most impertinent. [I.ii.135-138]

Miranda, però, continua a opporre resistenza e a sublimare la voglia di ven-detta che Prospero pare determinato a far affiorare: il maggiore desiderio che la storia sembra suscitare in lei è quello di conoscere il buon Gonzalo.

È solo al termine del racconto che Miranda, non sollecitata, rivela il motivo della sua poca concentrazione:11

11 A questo proposito, si può osservare come sia possibile una lettura della dinamica della

conversazione "terapeutica" fra Prospero e Miranda anche in termini di transfert (da parte di Miranda, che trasla su Prospero, responsabile della tempesta presente, anche la respon-sabilità dell'abbandono in mare durante l'infanzia) e controtransfert (la reazione di Prospe-ro al transfert di Miranda).

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And now I pray you, sir— For still ’tis beating in my mind—your reason For raising this sea-storm. [I.ii.176-178]

La conversazione si chiude, così, in modo circolare: per tutta la sua durata, le emozioni di Miranda non hanno mai abbandonato la scena della tempesta, e la sua identificazione con i naufraghi—“O, I have suffered / With those that I saw suffer!” (I.ii.5-6)—è rimasta pressoché intaccata. Prospero, che a questo punto si è già alzato in piedi, risponde in modo piuttosto evasivo e le chiede di non fa-re altre domande. Pare rassegnarsi al fatto che la strategia analitica, basata sulla rievocazione del passato, non ha funzionato. Dovrà ricorrere a un’altra strategia, molto meno sofisticata ma già sperimentata e di sicuro successo. È giunto per lui il momento di togliersi di dosso i panni del proto-analista e tornare a quelli, nei quali si sente assai più a suo agio, di mago:

Here cease more questions. Thou art inclined to sleep; ’tis a good dullness, And give it way. I know thou canst not choose. (Miranda sleeps) [I.ii.185-187]

Viene da domandarsi: che razza di intervento è mai questo? Per tentare una risposta, vorrei proporre un’ultima analogia, fra l’arte di Prospero e uno stru-mento che risale agli albori della psicoanalisi: l’ipnosi. Da questo punto di vista, quasi tutto il dramma, popolato com’è di visioni e di personaggi pronti a ubbidi-re incondizionatamente alle parole di Prospero, potrebbe essere letto come una lunga suggestione ipnotica. Solo quasi, però. Non tutto il dramma. La conversa-zione discussa nelle pagine precedenti, per esempio, non rientrerebbe in quel quasi. Così come non vi rientrerebbero i famosi versi dell’epilogo—“Now my charms are all o’erthrown, / And what strength I have’s mine own, / Which is most faint”—da sempre interpretati metaforicamente come l’addio di Shakespe-are al teatro. Più in generale, però, l’epilogo può essere letto come la rinuncia all’esercizio di un potere—artistico, magico o terapeutico che sia—in qualche modo sentito come falso, disonesto, a vantaggio di un nuovo potere, magari meno spettacolare ma più autentico.

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Ora, è quantomeno curioso che una rinuncia di sapore straordinariamente simile la si possa ritrovare in una delle lezioni di introduzione alla psicoanalisi di Freud proprio a proposito dell’ipnosi, un’altra forma di “magia”:

Originariamente Breuer e io stesso abbiamo esercitato la psicoterapia con il mezzo dell’ipnosi; la prima paziente di Breuer era stata curata esclusivamente sot-to influsso ipnotico, e in un primo tempo anch’io seguii il metodo di Breuer. Con-fesso che il lavoro procedeva più facilmente e piacevolmente, oltre che in tempo molto più breve; ma gli esiti erano capricciosi e instabili, perciò alla fine abban-donai l’ipnosi. Questo stato riusciva a sottrarre alla percezione del medico proprio l’esistenza della resistenza. La respingeva indietro, sgombrando un certo campo per il lavoro analitico e ammassandola ai confini di esso, col risultato che la resi-stenza diventava impenetrabile, più o meno come il dubbio della nevrosi ossessi-va. Perciò potei anche affermare [in Per la storia del movimento psicoanalitico, 1914] che la psicoanalisi vera e propria ha avuto inizio con la rinuncia all'aiuto dell'ipnosi.12

Come l’ipnosi per Freud, la magia permette al lavoro di Prospero di procede-re in modo facile e piacevole. Quando si tratta di vincere la resistenza fisica di Ferdinand, sono sufficienti poche parole—“Come on; obey. / Thy nerves are in their infancy again, / And have no vigour in them.” (I.ii.486-488)—per farlo re-gredire allo stadio infantile.

Allo stesso modo, per vincere la resistenza psicologica di Miranda, un “Thou art inclined to sleep” è certo più sbrigativo di qualsiasi evocazione del passato. Ciò nonostante, Prospero decide di tentare un’altra soluzione. Perché? Il motivo è in fondo lo stesso che, tre secoli dopo, lascerà perplesso Freud circa l'ipnosi:

L'esercizio della terapia ipnotica implica una prestazione irrilevante sia da par-te del paziente che del medico. Questa terapia s'accorda perfettamente con la valu-tazione delle nevrosi che ancor oggi dà la maggior parte dei medici. Il medico dice al nervoso: “Lei non ha nulla, è solo un fatto nervoso, e perciò sono in grado di li-berarla dai suoi guai con due o tre parole in pochi minuti”. Ripugna però alla no-stra mentalità energetica l’idea che sia possibile muovere con uno sforzo esiguo un grosso peso, affrontandolo direttamente e senza l’aiuto esterno di strumenti a-datti.”13

In altre parole, si arriva a un punto in cui diventa necessario rinunciare alla magia, anche a costo di un parziale insuccesso, “lest too light winning / Make

12 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, p. 265. 13 Sigmund Freud, cit., p. 405.

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the prize light”. L’inizio della seconda scena del primo atto della tempesta è, in questo senso, un primo tentativo, per quanto fallimentare, di rinuncia: interve-nire su Miranda non con la suggestione ma riportando alla superficie un passato rimosso. Non con l’ipnosi, ma con l’analisi.

Il comportamentismo: cambiare simulando

Acquisire consapevolezza del proprio passato non è l’unico modo per avvia-re un processo di cambiamento. In numerosi casi, per esempio, può essere suffi-ciente simulare una situazione diversa da quella che la realtà presenta. Una stra-tegia d’intervento di questo tipo viene adottata dagli psicoterapeuti di orienta-mento comportamentista. Secondo Burrhus Frederic Skinner, il padre del beha-viourismo, le emozioni non sono la causa del comportamento: ne sono piuttosto la risposta involontaria. Poiché, però, un’emozione positiva tende a rafforzare il comportamento che l’ha generata—e viceversa—può essere possibile interveni-re sul comportamento agendo sull’emozione che esso genera, tipicamente con un premio o una punizione. La differenza più evidente rispetto alla terapia analitica è dunque che, secondo i comportamentisti, per modificare un comportamento non è necessario indagarne le origini: può essere sufficiente cambiarne le conseguenze. O, in altre parole, seguendo la terminologia di Skinner, spezzare la correlazione fra stimolo e risposta.

Come fare, però, per modificare le conseguenze emotive di un dato compor-tamento? Di solito, è l’ambiente che ci circonda e la nostra esperienza personale di esso a determinare se, in una certa situazione, è il caso di reagire con emo-zioni positive o negative. Se, per esempio, la reazione immediata di un bambino che bagna il letto la notte è quella di provare piacere in conseguenza allo svuo-tamento della vescica, questo piacere può agire da rinforzo, e favorire l’insorgere dell'enuresi. Come intervenire? Il classico metodo comportamentista è quello di porre un rivelatore d’umidità sotto le lenzuola, un rivelatore che atti-vi una suoneria abbastanza potente da svegliare immediatamente il bambino. In tal modo, alla piacevole sensazione di liberazione si sovrappone quella spiace-vole del risveglio forzato. Se la terapia è sufficientemente lunga—e magari aiu-tata da un rinforzo positivo, cioè una forma di gratificazione, quando al mattino

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il letto è ancora asciutto—la correlazione fra comportamento e emozione positi-va potrebbe spezzarsi, portando così alla scomparsa dell’enuresi. Non è qui mia intenzione esprimere un parere su una simile forma di terapia. Mi interessa in-vece sottolinearne due aspetti. Primo, non richiede alcuna indagine sui fattori psicologici e relazionali che possono aver causato il sintomo (insicurezze affet-tive, bisogno di attenzione, volontà di tenere unita la famiglia, ecc.). Secondo, l’intervento terapeutico si avvale di una temporanea finzione, una simulazione: crea un “mondo alternativo” nel quale, quando facciamo pipì a letto, suona un allarme che ci sveglia.

Cosa c’entra tutto ciò con il teatro di Shakespeare? Secondo Peter Murray, l’autore di Shakespeare's Imagined Persons,

Shakespeare’s understanding is close enough to behaviorism that an analysis employing radical behaviorism can illuminate his characters, showing how they are imagined persons. Of course if Shakespeare’s characters are in any terms psy-chologically valid and Skinner’s system is valid, a Skinnerean analysis will illu-minate the characters, and this may be seen as one way to state my thesis, but I also think Shakespeare’s texts bear the distinctive marks of a behaviorist way of thinking [...].14

Pur condividendo, almeno in parte, la tesi di Murray secondo la quale in molte occasioni il comportamento dei personaggi di Shakespeare può essere spiegato in termini comportamentisti, ciò che in questo capitolo vorrei trattare riguarda un argomento molto più circoscritto: c’è qualche proto-terapeuta com-portamentista, in Shakespeare? Come agisce? E, ancora, con quale successo?

Prima di tentare una risposta, prendiamo in considerazione un tipo di com-portamento, potenzialmente patologico, un po’ più complesso dell’enuresi: il “mal d'amore”. Come si potrebbe curare, in un’ottica comportamentista, un sog-getto disperatamente innamorato? Anzitutto, considerando l’innamorarsi come un comportamento. Più precisamente, un comportamento che, per quanto in ap-parenza possa condurre alla disperazione, in realtà produce conseguenze suffi-cientemente positive da rinforzarsi. Quali conseguenze? La più ovvia, certamen-te, è quella biologica: l’animale-uomo, nel periodo di massima fertilità, è incline

14 P.B. MURRAY, Shakespeare's Imagined Persons. The Psychology of Role-playing and Act-

ing, p. 16.

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a innamorarsi perché ciò aumenta la probabilità che si presentino occasioni d’accoppiamento. Infatti, sempre restando sul solo piano biologico, un uomo innamorato sembra offrire alla compagna maggiori garanzie come potenziale padre, garanzie tanto più gradite in quanto i cuccioli della specie umana sono, tra tutti i cuccioli, quelli che maggiormente necessitano di protezione e cure. In altre parole, la risposta biologica all’innamoramento tende ad essere l’accoppiamento. Pensare a un rinforzo più positivo di questo mi pare un compi-to arduo. D’altronde, nonostante l’abbondanza di esempi di innamorati non cor-risposti che si incontrano in letteratura, è facile immaginare che se anche nella vita reale fosse più frequente il fallimento amoroso degli innamorati che quello degli indifferenti, il mestiere di fioraio sarebbe estinto da tempo.

Ma innamorarsi non produce solo conseguenze biologiche, come tutti ben sappiamo o ricordiamo. Capita che—a volte? spesso?—l’innamorato trovi, o pensi di trovare, corrispondenza. E allora, nelle parole di Barthes (e corsivo mio), “[...] per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è an-dato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i miei desideri aboliti attra-verso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amo-rosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione—la contrazio-ne—dei due abbracci.”15 L’appagamento cui fa riferimento Barthes non è—non è soltanto, perlomeno—l’accoppiamento: è la potenzialità dell’abbraccio, della corrispondenza, appunto. Ed è un appagamento tale che “lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo”. Il meccanismo del rinforzo è qui più evidente e più ef-ficace che mai. Come inibirlo?

A dire il vero, più che come, verrebbe da chiedersi perché inibirlo: l’innamoramento non è come l’enuresi, non è un fenomeno patologico. Oppure lo è? Decidere cosa è patologico e cosa no, come ben ha illustrato Foucault a proposito della follia,16 è un’operazione più che mai dipendente dal contesto—storico, geografico, sociale o culturale che sia. Nel contesto che ci riguarda più

15 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, pp. 13-14. 16 M. Foucault, Histoire de la folie à l'àge classique.

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da vicino, per esempio, cioè nei drammi di Shakespeare, l’innamorarsi—pur quando potenzialmente corrisposto—è più volte definito come qualcosa da evi-tare a tutti i costi, se non proprio una manifestazione patologica da curare: basti pensare a Much Ado About Nothing o a Love’s Labour’s Lost.

Il dramma in cui il comportamento amoroso è apparentemente più osteggiato è senz’altro As You Like It, dove già nella seconda scena del primo atto Celia mette in guardia Rosalind dai pericoli dell’amore:

Rosalind From henceforth I will, coz, and devise sports. Let me see, what think you of falling in love?

Celia Marry, I prithee do, to make sport withal; but love no man in good earnest, nor no further in sport neither than with safety of a pure blush thou mayst in honour come off again. [I.ii.23-28]

Ovviamente, ammonimenti come quello di Celia—come del resto quelli nei quali ci si imbatte in Much Ado About Nothing e in Love’s Labour’s Lost—sono perlopiù ironici: la connotazione di scherzosa complicità che, perlomeno nelle commedie, permea il discorso amoroso è tale da ribaltarne completamente il si-gnificato. Ci sono, è vero, alcune eccezioni, la più notevole delle quali è la cau-stica e niente affatto ironica riflessione di Rosalind sul morir d’amore: “these are all lies. Men have died from time to time, and worms have eaten them, but not for love” (IV.i.92-94). Ciò che, comunque, qui più ci interessa è che in en-trambi i casi l’amore, almeno a livello letterale, tende a venire posto in relazione con la patologia.

L’equazione più esplicita fra innamoramento e malattia la incontriamo nel terzo atto di As You Like It, quando Rosalind-Ganymede e Orlando si incontra-no per la prima volta da quando sono entrati nella foresta di Arden. A parte le numerose traslazioni dal lessico medico dell’epoca—da “cast away my physic but on those that are sick” alla “quotidian of love”—quella che propone Rosa-lind si configura come un’autentica sintomatologia del mal d’amore, intercalata da un susseguirsi anaforico di osservazioni diagnostiche:

A lean cheek, which you have not; a blue eye and sunken, which you have not; an unquestionable spirit, which you have not; a beard neglected, which you have not [...] Then your hose should be ungartered, your bonnet unbanded, your sleeve

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unbottoned, your shoe untied, and everything about you demonstrating a careless desolation. But you are no such man.

Stando alla brillante diagnosi di Rosalind, se proprio Orlando è innamorato, lo è di se stesso. Forse un po’ ipocondriaco, diremmo noi, ma comunque in gra-do di andarsene a casa sulle sue gambe. Poiché, però, Orlando non si rasse-gna—non sarà davvero ipocondriaco?—e continua a insistere sull’insopportabile sofferenza che la sua condizione gli procura, l’arrendevole dottor Ganymede-Rosalind decide di prenderlo sul serio e, di fronte allo scetti-cismo di Orlando (“Did you cure any so?”), gli snocciola nientemeno che la per-la del proprio improvvisato curriculum professionale, con tanto di dettagli sul metodo terapeutico da lei seguito. Tutto ciò fa naturalmente parte della tortuo-sissima—soprattutto se confrontata con l’impressionante rapidità con la quale si concretizza l’amore fra Celia e Oliver—strategia di Rosalind per sedurre Orlan-do, ma la cura da lei proposta riveste per questo capitolo un interesse particola-re, quindi vale la pena riportarla per esteso:

Orlando Did you any cure any so?

Rosalind Yes, one; and in this manner. He was to imagine me his love, his mistress; and I set him every day to woo me. At which time would I, being but a moonish youth, grieve, be effeminate, changeable, longing and liking, proud, fantastical, apish, shallow, inconstant, full of tears, full of smiles; for every passion something, and for no passion truly anything, as boys and women are for the most part cattle of this colour—would now like him, now loathe him; then entertain him, then forswear him; now weep for him, then spit at him, that I drave my suitor from his mad humour of love to a living humour of madness, which was to forswear the full stream of the world and to live in a nook merely monastic. And thus I cured him, and this way will I take upon me to wash your liver as clean as a sound sheep's heart, that there shall not be one spot of love in 't.

Orlando I would not be cured, youth.

Rosalind I would cure you if you would but call me Rosalind and come every day to my cot, and woo me.

[III.ii.391-411]

Chiamami Rosalind e corteggiami: di nuovo, viene spontaneo chiedersi che razza di programma terapeutico sia mai questo. Prima di bollarlo troppo precipi-

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tosamente come un semplice espediente drammatico atto a preparare il terreno per le scene che seguiranno, però, può essere opportuno investigare se non ab-bia qualche affinità con pratiche terapeutiche del mondo reale. Certo, non ha nulla a che spartire con la psicoanalisi. Ma se pensiamo, per esempio, ai metodi che si ispirano allo psicodramma di Jacob L. Moreno, le affinità balzano subito agli occhi: esattamente come avviene nello psicodramma moreniano, infatti, la cura che Rosalind-Ganymede propone a Orlando si basa sull’espediente di far-gli recitare il ruolo dell’innamorato. E di farlo in un contesto protetto, cioè in una situazione nella quale tutti gli aspetti dell’essere innamorato—anche quelli più nascosti, più negativi—possano essere esplorati senza rischio, in quanto la controparte, l’io ausiliario, è il terapeuta.

Oscurato dalla vertiginosa alternanza di ruoli sessuali che il gioco di propo-sto da Rosalind implica (un attore maschio che interpreta un personaggio fem-minile travestito da uomo che gioca a recitare la parte di una donna), nelle lettu-re di As You Like It l’aspetto potenzialmente terapeutico passa di solito in se-condo piano.17 Ma ciò non può farci dimenticare che la finalità esplicita (non quella implicita, ovviamente) della messa in scena di Rosalind è essenzialmente terapeutica. Così come non possiamo ignorare che alla possibilità di influenzare il comportamento umano tramite una rappresentazione teatrale faranno affida-mento, pochi anni dopo Rosalind, l’Hamlet della “Mousetrap” e il Polonius del-la “nunnery scene”. In entrambi i casi, le modalità di base si fondano sulla tec-nica comportamentista per eccellenza: ricreare artificialmente un certo conte-sto—e, dunque, determinati stimoli—per elicitare particolari emozioni e reazio-ni. “[To frighten] with false fire”, come riassume brillantemente Hamlet (III.ii.254).

Ma la messa in scena di Rosalind, quella di Hamlet e quella di Polonius hanno anche un altro punto in comune: tutte e tre si rivelano un fallimento. O, perlomeno, sono assai poco efficaci. Polonius e Claudius non riusciranno a ca-pire se interpretare il comportamento di Hamlet come dettato da amore non cor-

17 Cfr. J.E. HOWARD, “Crossdressing, The Theatre, and Gender Struggle in Early Modern

England”.

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risposto per Ophelia o da altre cause:

King Claudius Love? His affections do not that way tend... [III.i.165]

Polonius But yet do I believe The origin and commencement of this grief Sprung from neglected love [III.i.179-181]

Hamlet, a sua volta, pur garantendo che, dopo quanto ha visto, prenderà le parole del fantasma per oro colato, non può fare a meno di cercare ulteriori con-ferme nelle impressioni di Horatio—“Didst perceive?... Upon the talk of the pois’ning?”—e nel confronto diretto con Gertrude. Conferme che, vale la pena notare, o non giungono o giungono in forma quantomeno implicita.

Tornando a Rosalind-Ganymede, anche lei, com’è ovvio, non riesce mini-mamente a scalfire l’ossessione amorosa di Orlando (benché, dobbiamo ammet-tere, è perlomeno capace di dissuaderlo dal devastare l’ambiente incidendo i suoi versi zoppicanti sulla corteccia degli alberi...). Certo, il suo è un caso parti-colare, visto che non ha alcun desiderio di raggiungere i risultati prospettati al paziente—un ipotetico “ordine degli psicologi della foresta di Arden”, da que-sto punto di vista, non esiterebbe un istante a radiarla dall’albo. Dobbiamo però tenere presente che la differenza fra “insuccesso infelice” e “insuccesso felice” è fortemente condizionata dalla differenza di genere drammatico: dal punto di vista dell’efficacia, sia nella commedia di Rosalind sia nella tragedia di Hamlet l’esito delle simulazioni è comunque un insuccesso.

Terapie strategiche brevi: cambiare con i paradossi18

Nelle sezioni precedenti abbiamo volutamente accostato due tecniche con-temporanee di induzione del cambiamento—una di impronta psicoanalitica, l’altra comportamentista—con altrettante modalità che si possono rinvenire nel teatro di Shakespeare. In entrambi i casi, queste tecniche, sulla scena, sembrano non funzionare. Ci occuperemo ora di una modalità che, invece, porta a un suc-

18 Una versione ridotta, e in inglese, della sezione che segue, appare come saggio autonomo,

dal titolo “Are Happy Families All Alike?”, in un volume di saggi su critica letteraria e te-rapia della famiglia curato da J.V. KNAPP e K. WOMACK, Reading the Family Dance, in corso di stampa presso la Delaware University Press.

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cesso talmente completo da risultare quasi imbarazzante. Poiché questa modali-tà mette in scena tecniche che hanno un riscontro diretto nella pratica della tera-pia familiare, la analizzeremo in maggior dettaglio di quanto non si sia fatto fi-no ad ora.

The Taming come “problem play”

Il “caso clinico” ci è offerto da un dramma piuttosto problematico: The Tam-ing of the Shrew. Insieme a The Merchant of Venice, infatti, The Taming of the Shrew è da molti considerato il vero “problem play” della nostra epoca: portan-do in scena il processo di sottomissione di una donna al proprio marito, questa un tempo tranquilla commedia entra, ai nostri giorni, violentemente in conflitto con le più radicate opinioni delle società occidentali in materia di discrimina-zione sessuale e ruolo della donna. In quanto spettatori e lettori eticamente con-sapevoli, nonché in quanto spettatrici e lettrici, troviamo difficile accettare che Shakespeare possa aver scritto questo dramma con lo scopo di farci divertire al-le spalle di un personaggio che non esiteremmo a definire una vittima. Non c’è dunque da stupirsi innanzi ai numerosi tentativi, portati avanti da molti critici contemporanei, di leggere The Taming in una prospettiva che possa consentire di apprezzare il dramma senza sentirsi offesi, colpevoli, o comunque a disagio.

Quali letture, dunque? Anzitutto, interpretazioni in chiave ironica: la critica femminista del dopoguerra, osserva Bretzius,19 ha fatto sempre più frequente-mente ricorso all’apparente ironia di The Taming al fine di rendere esplicito il discorso profondamente sovversivo che si cela nel dramma. E infatti abbiamo letture che sottolineano come la storia di Katherina sia, da un punto di vista nar-ratologico, una finzione di secondo livello20—una finzione nella finzione—e, di conseguenza, che “Shakespeare tames the taming by making us see it through the drunken, cozened eyes of a Cristopher Sly”.21 Secondo Karen Newman, per

19 S. BRETZIUS, Shakespeare in Theory: the Postmodern Academy and the Early Modern

Theater, p. 57. 20 J. DUSINBERRE, Shakespeare and the Nature of Women, p. 106. 21 Joel Fineman, “Fratricide and Cuckoldry: Shakespeare's Doubles”, in Schwartz and Kahn,

cit., p. 84.

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esempio, “the foregrounded female protagonist of the action and her powerful annexation of traditionally male discoursive domains distances us from that sys-tem by exposing and displaying its contradictions. Representation undermines the ideology about women that the play presents and produces, both in the in-duction and in the Katherina/Petruchio plot: Sly disappears as lord, but Kath-erina keeps talking”.22

Oltre a queste letture “revisioniste”, c’è poi un gruppo di letture basate su studi e analisi riguardanti la condizione femminile nel Rinascimento, studi e a-nalisi che la critica femminista degli ultimi anni, raccogliendo l’appello di Lynda Boose circa la necessità di teorizzare “a history that includes women”,23 ha notevolmente approfondito, rivelando aspetti sempre più sconcertanti in tema di abusi e violenze sulle donne. In queste letture, si sottolinea la possibilità che la rappresentazione di The Taming, agli albori del XVII secolo, potesse benis-simo essere interpretata come un atto di denuncia implicita. Come scrive la stes-sa Boose, “ironically enough, if The Taming of the Shrew presents a problem to male viewers, the problem lies in its representation of a male authority so suc-cessful that it nearly destabilizes the very discourse it so blatantly confirms”.24 Al fine di rendere più esplicita la potenzialità destabilizzante di un dramma co-me The Taming, le letture di questo tipo, applicando i metodi del new histori-cism e del cultural materialism, sono corredate di un’impressionante—in tutti i sensi—documentazione storiografica, come gli elenchi dettagliati sui metodi e gli strumenti di tortura usati nel Rinascimento per “domare” le bisbetiche in carne ed ossa,25 o carteggi riguardanti l’applicazione di una pratica brutale quale lo skimmington.26

22 K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 42. 23 L.E. BOOSE, “The Family in Shakespeare Studies; or—Studies in the Family of Shakespe-

areans; or—The Polics of Politics”, p. 735. 24 L.E. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds: Taming the Woman’s Unruly Mem-

ber”, p. 179. 25 Ibid. 26 K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 35.

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Dietro lo specchio

Gli studi, perlopiù di orientamento femminista, ai quali ho brevemente ac-cennato, oltre ad essere estremamente utili per la ricchezza della documentazio-ne storiografica, offrono anche interpretazioni secondo me assai convincenti. Vorrei però, a questo punto, proporre un modo piuttosto insolito—se non pro-prio originale—di guardare a The Taming, spostando cioè il centro del discorso da Katherina alla suo sistema familiare. La maggior parte dei saggi che ho cita-to, infatti, sembrano concentrarsi principalmente su due soli aspetti del dramma: il doppio livello di finzione e ciò che Boose chiama “Katherina’s self-deposition”—cioè, la scena finale—mentre la vita di Katherina all’interno della sua famiglia d’origine rimane costantemente relegata nell’ombra. Considerando che uno fra gli obiettivi più importanti promossi, e raggiunti, dalla critica fem-minista degli ultimi decenni è stato quello di dare la giusta enfasi al ruolo gioca-to nel teatro di Shakespeare dalle strutture familiari,27 questa parziale omissione mi pare un fenomeno piuttosto curioso. Probabilmente, una ragione che spieghi questo disinteresse per la famiglia di origine di Katherina può essere quella suggerita da Carol Neely, e cioè la “ricerca di modelli positivi”. Una ricerca che, come la stessa Neely riconosce, può comportare alcuni rischi: “the heroines tend to be viewed in a partial vacuum, unnaturally isolated from the rest of the play [...]”.28

Ponendo l’accento più sulle interazioni che sugli individui, invece, un ap-proccio basato sulla terapia familiare può offrire un valido antidoto al “vuoto innaturale” menzionato da Neely. Inoltre, come spero di poter dimostrare con il confronto che mi accingo a proporre, può anche contribuire a porre sotto una nuova luce quello che è certo il tratto più “oltraggioso” dell’intero dramma—vale a dire, il “taming” di Katherina. L’esperimento che propongo è dunque quello di assumere la posizione doppiamente distaccata che il prologo sembra 27 Vedi C. KAHN, “The Providential Tempest and the Shakespearean Family”; L.E. BOOSE,

“The Father and Bride in Shakespeare”. PMLA, 3, 97, 1982, pp. 325-347. 28 C. NEELY, “Feminist Modes of Shakespearean Criticism: Compensatory, Justificatory,

Transformational” (citata in B. VICKERS, Appropriating Shakespeare. Contemporary Critical Quarrels), p. 327.

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implicare semplicemente come un invito ad astenersi da giudizi morali su quan-to sta per accadere, e di prendere posto al fianco di Sly, come se fossimo cote-rapeuti o studenti di terapia familiare, dietro a quella cornice squisitamente tea-trale che è lo specchio unidirezionale.

Ciò che sta per accadere, in effetti, dal punto di vista clinico suscita indub-biamente un certo interesse: “what Shakespeare seems to have been doing in Shrew”, osserva Boose, “is conscientiously modelling a series of humane but ef-fective methods for behavioral modification.”29 La parola chiave, qui, è “modi-fication”, come lo stesso titolo del dramma sembra voler sottolineare: con il suo gerundio, è l’unico titolo tra tutti i drammi di Shakespeare a porre esplicitamen-te al centro dell’attenzione non uno o più protagonisti, l’esito o il genere, bensì un processo. Ma che tipo di modifica? Benché sembri una modifica del compor-tamento, non è raggiunta attraverso un approccio comportamentista (tipo quelli descritti nella sezione precedente), e soprattutto non coinvolge la sola Katheri-na, ma l’intero suo sistema familiare. Osserviamo dunque che genere di famiglia sta per fare la sua entrée al di là dello specchio.

I Minola: una famiglia in stallo

Entra Baptista con le sue due figliole. Le sue primissime parole sono per i corteggiatori di Bianca, la più giovane fra le due:

Gentlemen, importune me no farther, For how I firmly am resolved you know: That is, not to bestow my youngest daughter Before I have a husband for the elder. [I.i.48-51]

Nonostante la sua brevità, questo brano ci offre una notevole quantità di in-formazioni. Per cominciare con una constatazione ovvia, possiamo notare la di-stanza storica fra la nostra società e quella di Baptista. Primo, nel mondo di Baptista si suppone che i padri abbiano il diritto di concedere—o di trattenere—la mano delle proprie figlie quando qualcuno la chiede. Secondo, questo diritto è tranquillamente riconosciuto dagli stessi pretendenti, i quali che non si op-

29 L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, p. 198.

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pongono. Terzo, le figlie più vecchie devono sposarsi prima delle minori. Con-siderando queste banali differenze di prospettiva, è però importante capire quanto ampiamente fossero condivise: mentre sappiamo con certezza che c’è stato un tempo nel quale le prime due regole erano pressoché universalmente ri-conosciute (anche se, come abbiamo visto nel primo capitolo, all’epoca di Sha-kespeare le cose erano già notevolmente cambiate), la terza è un po’ più idio-sincratica. In effetti, come i dialoghi che seguono confermeranno, l’insistere sul voler far sposare Katherina per prima sembra essere dettato più da un desiderio personale di Baptista che da un’inviolabile regola sociale.

In ogni caso, se davvero è questo il suo desiderio, sembrano esserci ben po-che probabilità che possa venir soddisfatto: i due corteggiatori preferirebbero morire più che sposare Katherina. E la stessa Katherina pare tutt’altro che con-tenta per la decisione del padre:

I pray you, sir, is it your will To make a stale of me amongst these mates? [I.i.57-8]

Dietro al nostro specchio unidirezionale, ancora non abbiamo un’idea chiara della posizione di Katherina—sappiamo soltanto che Gremio la considera “too rough”, e che suo padre non darà il permesso alla sorella di sposarsi se prima non lo fa lei. Perciò, invece di imporre una qualsiasi interpretazione su quel che dice, suggerisco di osservare attentamente le sue primissime parole e di tentare qualche ipotesi di lavoro preliminare. Al livello della struttura della comunica-zione,30 possiamo notare che la domanda retorica di Katherina, benché si riferi-sca a Gremio e Hortensio, è diretta al padre. Se la sua ipotesi è corretta, la vo-lontà di Baptista sarebbe quella di “make a stale of her among those mates”. Mentre ‘mates’ si riferisce certamente a Gremio e a Hortensio, cosa intende Ka-therina con ‘stale’? La maggior parte degli interpreti31 propende per il significa-to di ‘decoy bird’, uccello da esca: quindi, metaforicamente, o una persona usata come esca per intrappolare qualcuno, o una prostituta, o uno zimbello (‘laugh-

30 Sul “livello della struttura della comunicazione”, vedi P. WATZLAWICK, J.B. BAVELAS e

D.D. JACKSON, Pragmatics of Human Communication, sezione 3.3. 31 Vedi le note nell’edizione Arden a cura di B. MORRIS, pp. 174-175.

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ing-stock’). In questo senso, Katherina sarebbe il piccione che Baptista usa per distrarre i due falchi corteggiatori dal più prezioso uccello Bianca. Se le cose stanno così, potremmo chiederci perché mai Baptista voglia tenere Bianca lon-tana dai suoi corteggiatori e, soprattutto, come possa confidare di avere una qualche speranza di successo, visto che né Gremio né Hortensio sembrano avere intenzione di lasciarsi distrarre da Katherina.

C’è, comunque, almeno un’altra possibile ipotesi. Al tempo di Shakespeare, ‘stale’ aveva anche il significato di ‘stallo’ (‘stalemate’),32 soprattutto quando usato in coppia con ‘mate’. In effetti, Hortensio non capisce per qual motivo Katherina abbia definito lui e Gremio ‘mates’—“mates’, maid? How mean you that?” (I.i.59). Egli suppone che Katherina volesse intendere “husbands”. Ma Katherina potrebbe aver voluto dire tutt’altro: come in una partita a scacchi, Baptista, vedendo che sta per subire uno scacco matto—cioè, è in procinto di cedere la figlia minore—sta usando Katherina per arrivare a uno stallo, una si-tuazione bloccata nella quale nessuno dei giocatori può vincere.

Benché anche questa ipotesi non sia in grado di spiegare l’avversione di Baptista all’idea di cedere Bianca, possiamo osservare che essa descrive in mo-do abbastanza accurato ciò che sta avvenendo nel dramma, per lo meno fino alla fine del primo atto: a) Gremio e Hortensio—come del resto Lucentio—vogliono sposare Bianca; b) per riuscirci, hanno bisogno dell’approvazione di Baptista; c) Baptista non sarà d’accordo fino a che uno di loro non accetterà di sposare Ka-therina; ma d) nessuno di loro è disposto a fare questo. Tenendo a mente queste due ipotesi—Katherina come “zimbello”, o come “agente bloccante”—e la do-manda ancora aperta sui moventi di Baptista, proseguiamo oltre, e andiamo a fa-re la conoscenza di Bianca, la sorella minore.

Baptista Gentlemen, that I may soon make good What I have said—Bianca, get you in. And let it not displease thee, good Bianca, For I will love thee ne’er the less, my girl.

Katherine A pretty peat! It is best Put finger in the eye, an she knew why.

32 Vedi O.E.D., “stale”, def. 6, e la nota nell’edizione Arden citata.

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Bianca Sister, content you in my discontent. [To Baptista] Sir, to your pleasure humbly I subscribe. My books and instruments shall be my company, On them to look and practise by myself. [I.i.74-83]

Ognuno dei personaggi di questo breve e vivace quadretto familiare sembra impaziente di mettere in atto il suo personalissimo show: Baptista mostra tene-rezza per la sua figlia più giovane, Katherina mostra gelosia e risentimento, Bianca mostra saggezza e rispetto per il padre.

Sto qui usando il verbo ‘mostrare’, al posto del verbo ‘essere’, di proposito: come avvertono gli autori di Paradosso e contro paradosso, quando ci si accin-ge a descrivere le interazioni familiari “l’uso del verbo essere” ci condanna “a pensare secondo il modello lineare, a fare punteggiature arbitrarie, [...] a postu-lare il momento causale perdendoci nei meandri di infinite ipotesi esplicative”,33 impedendoci così di tenere a mente che i giochi familiari sono appunto giochi, nel senso che si basano tanto sulla personalità di ognuno dei singoli membri quanto su un insieme di regole condivise. Se, per esempio, decidessimo di defi-nire Katherina come una donna che è bisbetica—come certo sembra essere—saremmo probabilmente indotti a tentare di giustificarla, o a ridere alle sue spal-le una volta che è stata “addomesticata”. Se, al contrario, ci limitiamo a osserva-re che mostra di essere bisbetica, la prima domanda che ci porremo sarà per-ché—o, meglio ancora, a che scopo.34

Volendo indagare lo scopo di un comportamento, pare ragionevole iniziare con l’osservarne gli effetti. Quali sono, dunque, gli effetti del quadretto di pri-ma? La dimostrazione di tenerezza da parte di Baptista obbliga letteralmente Bianca a ubbidire umilmente ai suoi desideri, cioè, a entrare in casa e starsene lontana dai suoi spasimanti. Al tempo stesso, provoca l’accesso di gelosia di Katherina. Inizialmente, a dire il vero, questo è diretto soltanto verso sua sorel-la, ma nei versi successivi Katherina diventa un po' più esplicita: “Why, and I trust I may go too, may I not? What, shall I be appointed hours, as though, be-like, I knew not what to take and what to leave? Ha?” (I.i.102-4). Riassumendo,

33 M. SELVINI PALAZZOLI et al., Paradosso e controparadosso, p.36. 34 P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 45.

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le parole di Baptista aiutano a stabilire—o meglio a rafforzare—un’alleanza in-trafamiliare: Baptista e Bianca contro Katherina.

Il profilo di questa alleanza è del tutto evidente nella reazione di Katherina: con il suo attacco, conferma la sorella minore nel ruolo di vittima, il padre in quello di difensore, e se stessa in quello che i terapeuti della famiglia chiamano paziente designato (“identified patient”)—il membro, cioè, che nell’opinione dei familiari ha bisogno di cambiare, di migliorare, di essere curato.

In effetti, per gli standard della cultura rinascimentale, il comportamento di Katherina è socialmente così inaccettabile che, alla fine, qualcuno dovrà per forza intervenire. Al tempo stesso, è importante sottolineare che il suo compor-tamento non sembra essere congenito, quanto piuttosto parte di una complessa strategia. Una strategia, come abbiamo già cominciato a vedere, alla quale ogni membro della famiglia offre il proprio contributo. Aggiungerei anche che, nella sua situazione attuale, Katherina non sembra particolarmente felice, anzi: l’impressione che dà è quella di una persona che sta soffrendo. Magari questa constatazione può apparire ovvia, eppure molti critici sembrano dimenticarla completamente quando giungono ad analizzare la scena conclusiva del dramma.

Lasciamo ora per un istante da parte Katherina, per dare un’occhiata agli ef-fetti della sobria reazione di Bianca. Per farlo, dobbiamo seguire la triade all’interno della loro casa. Il secondo atto comincia mostrandoci Bianca che, con le mani legate, implora Katherina di liberarla (II.i.1-7). È una scena alquan-to bizzarra: stanno semplicemente giocando? Chissà. In ogni caso, anche se il loro fosse semplicemente un gioco tra ragazze, non possiamo fare a meno di co-glierne la fin troppo evidente implicazione simbolica: Bianca ha le mani legate sia letteralmente che metaforicamente—cioè, nessuno può chiedere la sua ma-no—a causa del caratteraccio della sorella. A dire il vero, questa fuorviante spiegazione causa-effetto è una conseguenza del modo indiretto di comunicare di Baptista: come i corteggiatori di Bianca ben sanno, in realtà è Baptista che sta tenendo legate le mani di Bianca, ma poiché non lo dice mai esplicitamente, l’impressione è che la guastafeste sia Katherina.

Questa lettura simbolica sembra essere confermata dalle parole della stessa Katherina, la quale immediatamente stabilisce un nesso tra la strana scena

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d’apertura e i corteggiatori di Bianca: “Of all thy suitors here I charge thee tell / Whom thou lov’st best. See thou dissemble not” (II.i.8-9). In ogni caso, quale che sia la nostra ipotesi sulla lite tra Katherina e Bianca, certo non è soltanto un gioco innocente. Come i versi successivi rivelano, la posta in ballo è nienteme-no che i sentimenti più profondi di Katherina:

Bianca Believe me, sister, of all the men alive I never yet beheld that special face Which I could fancy more than any other.

Katherine Minion, thou liest. Is ’t not Hortensio?

Bianca If you affect him, sister, here I swear I’ll plead for you myself but you shall have him.

Katherine O then, belike you fancy riches more. You will have Gremio to keep you fair.

Bianca Is it for him you do envy me so? Nay, then, you jest, and now I well perceive You have but jested with me all this while. I prithee, sister Katherina, untie my hands.

Katherine (strikes her) If that be jest, then all the rest was so. [II.i.10-22]

Se mai ne abbiamo dubitato, questa sequenza incredibilmente mimetica—che Watzlawick definirebbe escalation complementare35—dovrebbe convincer-ci una volta per tutte che la rudezza di Katherina nei confronti degli uomini non è soltanto una questione di carattere: come Bianca ha perfettamente intuito, Ka-therina la invidia, e accetterebbe ben volentieri uno scambio di ruoli. Ma quel che Bianca sembra non aver indovinato è per l’affetto di chi Katherina la invi-dia così disperatamente. Ovviamente, né per quello di Hortensio né per quello di Gremio. Dev’essere qualcuno che, per lei, conta assai di più:

(Enter Baptista)

Baptista Why, how now, dame, whence grows this insolence? Bianca, stand aside.—Poor girl, she weeps.— Go ply thy needle, meddle not with her. (To Katherine) For shame, thou hilding of a devilish spirit, Why dost thou wrong her that did ne’er wrong thee? When did she cross thee with a bitter word?

Katherine Her silence flouts me, and I’ll be revenged.

35 Vedi P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, pp. 107-8.

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(She flies after Bianca)

Baptista What, in my sight? Bianca, get thee in.

(Exit Bianca)

Katherine What, will you not suffer me? Nay, now I see She is your treasure, she must have a husband. I must dance barefoot on her wedding day, And for your love to her lead apes in hell. Talk not to me. I will go sit and weep Till I can find occasion of revenge.

(Exit)

Baptista Was ever gentleman thus grieved as I? [II.i.23-37]

Katherina non potrebbe aver descritto la sua condizione in modo più esplici-to: Bianca è la preferita non solo dei corteggiatori, ma anche di suo padre, la persona del cui affetto Katherina mostra di avere più disperatamente bisogno. Inoltre, nel suo scatto di rabbia, diventa persino capace di riconoscere e di ver-balizzare il modo in cui il comportamento di Bianca la tormenta: attraverso il si-lenzio, cioè attraverso il suo comportamento eccessivamente rispettoso, da vit-tima sacrificale. Bianca, la “poor girl” che conosce “so well her duty to her eld-ers” e che non ha mai “fatto nulla di male”, interpreta quel ruolo che, in terapia familiare, si è soliti definire “provocatore passivo”.36

Giunti a questo punto, possiamo osservare che, benché risulterebbe estre-mamente difficile indovinare cosa accadrà, è abbastanza semplice descrivere come accadrà fra Baptista, Bianca e Katherina.37 Cerchiamo perciò di riassume-re le nostre ipotesi in una provvisoria cornice di riferimento: la famiglia Mìnola è intrappolata in un processo omeostatico, una situazione di stallo nella quale ogni mossa possibile sembra finire sempre nello stesso ineluttabile loop; e, ciò che è più importante, ogni membro della famiglia contribuisce ad alimentare questo processo. Il programma di Baptista, per esempio, è ben illustrato da Hor-tensio: 36 Vedi M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 173: “[È arduo] de-

finire il provocatore passivo: è facile scambiarlo per una vittima, chiuso com’è là nel suo angolino in fondo alla scacchiera dallo schieramento delle pedine dell’avversario. Ma è nella sua imperturbabilità (tic-tac, avanti e indietro, sempre la stessa mossa) che possiamo scorgere il suo peculiare potere di provocazione.”

37 Cfr. P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 185.

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He hath the jewel of my life in hold, His youngest daughter, beautiful Bianca, And her withholds from me and other more, Suitors to her and rivals in my love, Supposing it a thing impossible, For those defects I have before rehearsed, That ever Katherina will be wooed. Therefore this order hath Baptista ta’en: That none shall have access unto Bianca Till Katherine the curst have got a husband. [I.ii.117-126]

Potremmo ora tornare a chiederci perché, benché persuaso dell’impossibilità di trovare una via d’uscita, Baptista persista nell’imporre una simile condizione. Se però confrontiamo il suo comportamento con quello di tanti altri padri di fa-miglie monoparentali shakespeariane (Lear, Shylock, Brabantio, e Antiochus, per esempio), la sua volontà di trattenere Bianca si rivela tutt’altro che origina-le: i padri soli, per lo meno in Shakespeare, non hanno alcuna intenzione di ri-nunciare all’affetto della loro figlia preferita o unica. Persino quando sono ab-bastanza saggi da rassegnarsi, come nel caso di Prospero o di Simonides, sem-brano provare una sorta di piacere perverso nel sollevare le difficoltà più assur-de e, per quanto scherzose possano essere le intenzioni, nel sottoporre i futuri generi ai test più mortificanti.38 A questo proposito, vale la pena osservare come nella famiglia di Lear—che strutturalmente è la più simile a quella di Baptista, poiché in entrambe ci sono due o più figlie—Goneril e Regan, le figlie maggio-ri, mostrino un comportamento disfunzionale non tanto diverso da quello di Ka-therina, per non dire delle notevoli affinità fra il “she’s your treasure” di Kathe-rina e il “He always loved our sister most” (LrF, I.i.290) di Goneril. Insomma, Baptista sembra proprio essere invischiato nel doppio legame che affligge la maggior parte dei padri shakespeariani: vogliono la felicità delle loro figlie pre-dilette, ma non possono accettare l’idea di lasciarle andare. Il comportamento di Katherina si adegua a questo scopo paradossale in modo perfetto.

E Bianca? La sua è una posizione difficilmente invidiabile: se essere la figlia preferita può sembrare gratificante, comporta però un’enorme mole di respon-sabilità. È un ruolo, il suo, che richiede sia moderazione sia abilità strategica:

38 Vedi L. BOOSE, , “The Father and Bride in Shakespeare”, p. 340.

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non può disubbidire al padre ma, al tempo stesso, non può accontentarsi per sempre di “musica, strumenti e poesia”. La sua unica possibilità è imparare mol-to rapidamente come agire in modo indiretto.39 Perciò anche il suo ruolo di pro-vocatore passivo non va considerato un sintomo di innata malizia, ma piuttosto come la parte a lei assegnata entro l’insieme di regole della famiglia Minola—perlomeno fino a che The Taming rimane una commedia (se mai dovesse risol-versi in tragedia, conoscendo la sorte di personaggi come Cordelia è abbastanza facile supporre a quali mutamenti potrebbe andare incontro la strategia di Bian-ca). Non abbiamo, dunque, alcun motivo di stupirci per la scaltrezza del suo “despair not” (III.i.40-43) in risposta alla serrata corte di Lucentio.

Infine, abbiamo Katherina, il paziente designato. In apparenza, il suo stallo personale è abbastanza semplice da spiegare. Da una parte, se si sposa se ne de-ve andare, perdendo così ogni speranza di guadagnarsi l’affetto del padre. Inol-tre, andarsene vorrebbe anche dire perdere il controllo su Bianca e Baptista i quali, una volta liberati dalla sua fastidiosa presenza, potrebbero finalmente in-tendersela l’un l’altro—“to commune”, è il verbo che usa Baptista (I.i.101)—senza impedimenti. D’altra parte, restando e comportandosi come fa, sa perfet-tamente che non si guadagnerà comunque il favore del padre. In realtà, il gioco potrebbe essere più complesso: consciamente o meno, l’intrattabile Katherina è indirettamente utile alla strategia segreta di Baptista. Da un punto di vista si-stemico il suo sintomo non soltanto è funzionale all’omeostasi dell’intera fami-glia, ma è anche potenzialmente gratificante per la stessa Katherina. Incapace di

39 Sui rapporti diadici fra sorelle e le preferenze genitoriali, vedi F.J. SULLOWAY, Born To

Rebel. Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. Secondo Sulloway, la “nicchia della ribellione” è in genere occupata dai secondogeniti. Ma, “among sister dyads, some firstborns are distinctly non conforming, whereas some laterborns are distinctly conform-ing. These findings are restricted to pairs of sisters in two-child sibships” (p. 149). Questo tipo di anomalia, ben esemplificato dalle sorelle Minola, è legato alle interazioni fra “nic-chie familiari” e genere sessuale, nel senso che i primogeniti tendono anche ad assumere una posizione “mascolina”. Inoltre, scrive Sulloway, “absence of parental favor causes most offspring to adopt laterborn strategies” (p. 355), e questo pare essere ciò che accade nel caso di Katherina. A Bianca, benché naturalmente “nata per ribellarsi” (come infine mostrerà, una volta liberatasi dai vincoli familiari), è perciò concessa solo una forma indi-retta—“sly”—di ribellione.

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ottenere l’amore del padre, tenendo Bianca lontana da potenziali mariti Katheri-na può almeno sperare di diventarne la complice segreta.

Se le cose stanno davvero così, però, si tratta di un gioco troppo pericoloso per andare avanti a lungo. Come Katherina sta cominciando ad intuire, prima o poi Bianca riuscirà comunque a sposarsi, e lei si ritroverà condannata “to lead apes in hell” fino alla fine dei suoi giorni. E tutto ciò non sarà sufficiente a con-vincere Baptista a cambiare le sue preferenze. I terapeuti della Scuola di Milano hanno dato alle alleanze—o, più precisamente, coalizioni—segrete come questa fra Katherina e Baptista il nome di imbroglio,40 e hanno illustrato il modo in cui l’inevitabile processo di disillusione che vi fa seguito possa degenerare in parti-colari forme di psicosi. Ora, benché sia altamente improbabile che patologie come la schizofrenia o l’anoressia potessero annidarsi nella mente di una giova-ne donna elisabettiana, certo non mancavano altre più o meno gravi “malattie” mentali e, soprattutto, sociali tra le quali scegliere. Baptista ha dunque tutte le ragioni per domandarsi se “was ever gentleman thus grieved”: come ha minac-ciato, Katherina comincerà a isolarsi sempre più—“go sit and weep”—fino a che non troverà la sua “occasion of revenge”. E quale miglior vendetta che il fa-re continuare tutto in questo modo all’infinito? Nemmeno Hamlet sarebbe capa-ce di concepirne una altrettanto devastante.

L’ingresso in scena del dottor Petruchio e Milton H. Erickson

Come si è detto all’inizio di questo capitolo, un aspetto peculiare delle lettu-re orientate psicologicamente è che possono sfruttare solo in parte il sistema cui fanno riferimento: si devono per forza di cose limitare all’impianto teorico, mentre la pratica terapeutica non può che essere accantonata. In altre parole, se The Taming dovesse diventare una tragedia—una “revenge tragedy”, come Ka-therina sembra fantasticare—non ci sarebbe modo di evitarlo. Ma The Taming deve essere una commedia: come fare, allora, per districare in modo persuasivo la situazione pericolosamente invischiata dei Mìnola?

40 M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, cap. 5.

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Con una soluzione quanto mai appropriata, tramite l’entrata in scena di Pe-truchio il terapeuta lo mette a disposizione lo stesso Shakespeare. A dire il vero, il modo in cui Petruchio “addomestica” Katherina è di solito interpretato più come una forma di addestramento che di terapia: Katherina è “addomesticata” alla vita matrimoniale nel modo in cui un falco selvatico viene addestrato alla caccia.41 Questa analogia, per quanto possa offendere la nostra sensibilità, è chiaramente presente e continuamente sfruttata nel corso dell’intera opera, sia a livello lessicale che metaforico. È però un’analogia che non tiene conto della condizione iniziale dei due termini di confronto: mentre un falcone, prima di es-sere addestrato, è presumibilmente più libero e possibilmente più felice che do-po, Katherina, come abbiamo visto, parte da una situazione iniziale così doloro-sa che il suo addomesticamento può persino essere letto come una sorta di sal-vataggio.42 Da questo punto di vista, il nucleo centrale dell’opera—il “ta-ming”—è la storia di come Petruchio, una persona fuori dal sistema, riesce a ta-gliare i nodi intricati del gioco della famiglia Mìnola. Ciò che proporrò nelle pagine che seguono è un confronto fra i tratti terapeutici dell’intervento di Pe-truchio e le altrettanto bizzarre tecniche di uno dei maestri della terapia strategi-ca: Milton H. Erickson.

“Strategic therapy”, scrive Jay Haley in Uncommon Therapy: The Psychiat-ric Techniques of Milton H. Erickson, “is not a particular approach or theory but a name for those types of therapy where the therapist takes responsibility for di-rectly influencing people”.43 In altre parole, mentre secondo la psicologia dina-mica il cambiamento è innescato principalmente dalla presa di coscienza del pa-ziente, il terapeuta strategico non fa affidamento sull’esplorazione del sé e sull’insight. Il caso di Ruth, narrato dallo stesso Erickson in My Voice Will Go with You, è in questo senso emblematico:

41 Cfr. B. MORRIS (a cura di), The Taming of the Shrew, p. 125. 42 Vedi H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 29. 43 J. HALEY, Uncommon Therapy. The Psychiatric Techniques of Milton H. Erickson, p. 17.

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At Worcester Hospital, the superintendent remarked one day, “I wish some-body could find some way of handling Ruth.”

I inquired about Ruth, a very pretty, petite twelve-year-old girl, very winning in her ways. You couldn’t help liking her. She was so nice in her behavior. And all the nurses warned every new nurse who come to work there, “Keep away from Ruth. She’ll tear your dress; break your arm or your foot!”

The new nurses didn’t believe that of sweet, winsome twelve-year-old Ruth. And Ruth would beg the new nurse, “Oh, would you please bring me an ice-cream cone and some candy from the store?”

The nurse would do it and Ruth would accept the candy and thank the nurse very sweetly, and with a single karate chop break the nurse’s arm, or rip her dress off, or kick her in the shins, or jump on her foot. Standard, routine behavior for Ruth. Ruth enjoyed it. She also liked to tear the plaster off the walls periodically.

I told the superintendent I had an idea, and asked if I could handle the case. He listened to my ideas and said, “I think that will work, and I know just the nurse who’ll be glad to help you.”44

Erickson non chiede al sovrintendente il motivo del comportamento di Ruth. Semplicemente, ha un’idea, e vuole provare a metterla in pratica. Consideriamo ora la prima reazione di Petruchio alla presentazione di Katherina che gli fa Hortensio:

Hortensio, peace. Thou know’st not gold’s effect. Tell me her father’s name and ’tis enough, For I will board her though she chide as loud As thunder when the clouds in autumn crack. [I.ii.92-95]

Anche in questo caso non c’è alcun segno di interesse per i motivi che pos-sono aver portato Katherina a essere così intrattabile. Petruchio vuole una don-na che sia abbastanza ricca per essere sua moglie: per quanto bisbetica, sarà in grado di risolvere il caso. In che modo? Come Gremio correttamente prevede, “he’ll rail in his rope-tricks” (I.ii.110). “Rope-tricks”, in questo contesto, è un’espressione piuttosto ambigua: può essere una corruzione di Gremio per “rhetorics”, ma può anche significare qualcosa che ha a che fare con una gestua-lità scherzosa. O entrambe le soluzioni, mi verrebbe da suggerire: la strategia di Petruchio, come quella di Erickson, si basa tanto sull’uso metaforico quanto su quello performativo del linguaggio—si basa, cioè, sia sulle parole che sull’azione, come ora vedremo. 44 S. ROSEN (a cura di), My Voice Will Go with You. The Teaching Tales of Milton H. Erick-

son, M.D., pp. 229-230.

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La prima delle loro tecniche ha a che vedere con il timing. La terapia strate-gica, per essere efficace, non deve mai durare troppo a lungo—di solito dai cin-que ai dieci incontri—e dovrebbe essere piuttosto diretta. “You want therapy, you want it fast, you’re getting desperate”, scrive Erickson riportando alcune battute del primo incontro con una cliente, “Do you want me to give it to you in my way? Do you think you can take it? Because I can give it to you rapidly, thoroughly, effectively, but it will be a rather shocking experience”.45 L’intervista preliminare di Petruchio con Baptista è altrettanto diretta:

Petruchio And you, good sir. Pray, have you not a daughter Called Katherina, fair and virtuous?

Baptista I have a daughter, sir, called Katherina.

Gremio You are too blunt. Go to it orderly.

Petruchio You wrong me, Signor Gremio. Give me leave.

[…]

Signor Baptista, my business asketh haste, And every day I cannot come to woo. [II.i.42-115]

Fin dall’inizio, Petruchio mette in chiaro che il suo corteggiamento sarà piut-tosto diverso dal pattern tradizionale. Non procederà per gradi, “orderly”. Se non proprio una “uncommon therapy”, come minimo il suo intervento promette di essere un corteggiamento abbastanza fuori dal comune. Perciò, quando Bap-tista prova a opporre resistenza (“But for my daughter Katherina, this I know, / She is not for your turn”, II.i.62-63), non mi affretterei ad interpretare la rispo-sta di Petruchio come se fosse dettata semplicemente dall’umiltà che la situa-zione richiede: se le mie ipotesi precedenti sono corrette, il suo “I see you do not mean to part with her” (II.i.64) potrebbe essere assai più appropriato di quanto Baptista non pretenda (“Mistake me not”, II.i.66).

Per di più, una volta che i termini del matrimonio sono già stabiliti, per quanto in apparenza impaziente di liberarsi di Katherina, Baptista solleva un ul-teriore ostacolo: “Ay, when the special thing is well obtain’d, / That is, her love, for that is all in all” (II.i.128-129). Ora, non è stupefacente che proprio nel più

45 J. HALEY, Uncommon Therapy, p. 91.

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smaccatamente patriarcale fra i drammi di Shakespeare ci si vada ad imbattere in un padre così desideroso di rispettare l’autonomia decisionale della figlia? Pur rimanendo favorevolmente colpito dal suo apprezzabile sfoggio di sensibili-tà, non posso fare a meno di chiedermi se la considerazione di Baptista per i de-sideri di Katherina non nasconda anche una certa angoscia: se Katherina se ne va, Bianca potrà finalmente sposarsi, lasciandolo così completamente solo. In ogni caso, Petruchio sembra non condividere affatto le perplessità di Baptista—“For I am rough and woo not like a babe” (II.i.137)—e Baptista non può fare al-tro che acconsentire al suo desiderio di scambiare qualche parola con l’intrattabile Katherina (“have some chat with her”, II.i.162).

Il primo colloquio tra Katherina e Petruchio—un centinaio di versi di dialo-go brillante e ininterrotto—mette in scena quanto Petruchio già aveva anticipa-to: l’incontro fra “two raging fires” (II.i.132). La strategia di questo colloquio è già pianificata:

I'll attend her here, And woo her with some spirit when she comes. Say that she rail, why then I'll tell her plain She sings as sweetly as a nightingale. Say that she frown, I'll say she looks as clear As morning roses newly washed with dew. Say she be mute and will not speak a word, Then I'll commend her volubility, And say she uttereth piercing eloquence. If she do bid me pack, I'll give her thanks As though she bid me stay by her a week. If she deny to wed, I'll crave the day When I shall ask the banns, and when be married. But here she comes, and now, Petruccio, speak. [II.i.169-181]

Prima di soffermarci sulle caratteristiche terapeutiche del programma di Pe-truchio, può essere opportuno riprendere in mano il caso di Ruth: quale tattica aveva in mente Erickson per affrontare con successo l’intrattabile ragazzina?

One day I got a call. “Ruth is on a binge again.” I went to the ward. Ruth had torn the plaster off the wall. I tore off the bed clothes. I helped her destroy the bed. I helped her break windows. I had spoken to the hospital engineer before going to the ward; it was cold weather. Then I suggested, “Ruth, let’s pull that steam regis-ter away from the wall and twist off the pipe.” And so I sat down on the floor and we tugged away. We broke the register off the pipe.

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I looked around the room and said, “There’s nothing more we can do here. Let’s go to another room.”

And Ruth said, “Are you sure you ought to do this, Dr. Erickson?” I said, “Sure, it’s fun, isn’t it? I think it is.” As we walked down the corridor to another room there was a nurse standing in

the corridor. As we came abreast of her, I stepped over and ripped her uniform and her slip off so she stood in her panties and bra.

And Ruth said, “Dr. Erickson, you shouldn’t do a thing like that.” She rushed into the room and got the torn bedsheets, and wrapped them around the nurse.

She was a good girl after that.46 (230-231)

Potremmo chiederci come definire questo tipo di intervento: terapia, “ta-ming”, o che altro? Ma ciò che più ci dovrebbe interessare è un altro aspetto: come funziona? Forse Peter—uno dei fedeli servitori di Petruchio—una risposta l’avrebbe: “he kills her in her own humour” (IV.i.167). Ma se siamo alla ricerca di una razionalizzazione un po’ meno concisa della “logica” che sta dietro a si-mili cambiamenti comportamentali, ci conviene rivolgerci a Watzlawick: “If one person wants to influence another person’s behavior, there are basically only two ways of doing it. The first consists of trying to make the other behave differently. This approach [...] fails with symptoms because the patient has no deliberate control over this behavior. The other approach consists in making him behave as he is already behaving”.47 Questa seconda tecnica, nota come “prescrizione del sintomo”, è l’intervento basilare di tutti i trattamenti fondati sull’uso terapeutico dei paradossi. Diversamente da quanto avviene in una clas-sica terapia comportamentista, qui il cliente, invece di essere “punito” se man-tiene il comportamento sintomatico e “premiato” se l’abbandona, è invitato a non cambiare. Quindi la prescrizione del sintomo, invece di spezzare il legame tra comportamento e rinforzo, mina alla base le motivazioni profonde del com-portamento sintomatico: come ribellarsi, infatti, contro qualcuno che ci ordina di ribellarci senza incorrere in un paradosso?

Ciò che accade nel primo incontro tra Katherina e Petruchio è, da questo punto di vista, una sorta di terapia paradossale. Per cominciare, l’occasione stessa dell’incontro obbliga Katherina a ridefinire drasticamente la propria iden-

46 S. ROSEN (a cura di), My Voice Will Go with You, pp. 230-1. 47 P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 237.

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tità. Per la prima volta da quando è entrata in scena, a Katherina non è più con-cesso di limitasi al semplice ruolo di ostacolo tra Bianca e i suoi spasimanti: l’oggetto del desiderio, ora, è proprio lei. Secondo, Petruchio non adotta il lin-guaggio dell’amore cortese. Con apparente disappunto di lei, per esempio, Pe-truchio la chiama ‘Kate’ (II.i.185). E subito dopo si unisce a lei nel suo esube-rante ricorso a catene metaforiche oscene e giochi di parole. In questo modo, e-gli non solo stabilisce una differenza tra sé e gli altri corteggiatori, ma conferma anche il linguaggio di lei—e il suo comportamento—come appropriato.48 Infine, affermando di trovarla “passing gentle” (II.i.236), “pleasant, gamesome, passing courteous / But slow in speech” (II.i.239-240), Petruchio finisce indirettamente per prescrivere a Katherina proprio il suo sintomo: in altre parole la invita ad essere un po’ più bisbetica di quanto già non sia. Infatti, benché il suo discorso sia di solito interpretato semplicemente come ironico, il suo effetto performati-vo diventa evidente nella reazione di Katherina: se può essere vero che fino a questo punto “it is Kate who gets the best of her suitor”,49 da questo momento in poi lei sembra essere sempre più confusa.

Abituata com’è a sentirsi ordinare di essere “più carina”—dal padre, dalla sorella, da Hortensio, da Gremio, insomma da chiunque—ora non sa più cosa replicare. Inizialmente, cerca di porre fine a questa sempre più pericolosa con-versazione (“Go, fool, and whom thou keep’s command”, II.i.251). Poi, pur ma-scherandola con un po’ d’ironia, comincia a provare una sorta d’ammirazione per questo suo strano spasimante (“Where did you study all this goodly speech?”, II.i.256). Alla fine, persino suo padre non può fare a meno di notare che qualcosa è cambiato: “Why, how now, daughter Katherine? In your dumps?” (II.i.277), le chiede infatti Baptista. L’espressione che egli usa, “to be in one’s own dumps”, significa trovarsi in uno stato confusionale, e implica

48 In un contesto terapeutico, comunicare con il linguaggio del paziente richiede un’abilità

straordinaria, ma è un’abilità che a volte può diventare cruciale per l’esito della terapia stessa. Per un esempio stupefacente del modo in cui Erickson riusciva a sfruttare la sua capacità di parlare il linguaggio del paziente a fini terapeutici, vedi J. HALEY, Uncommon Therapy, pp. 120-121.

49 K. NEWMAN, Fashioning Femininity and English Renaissance Drama, p. 43.

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perplessità, stupore, disorientamento.50 Non esattamente la reazione che ci sa-remmo aspettati dalla “sharp-tongued” Katherina.

Però, per superare la fase di stallo, tutto ciò non è ancora sufficiente. Occorre qualcosa di più. Infatti, nonostante l’abilità di Petruchio, Katherina è ancora lungi dall’essere convinta: come ripete Gremio, “she says she’ll see thee hang’d first” (II.i.293). A questo punto, qualsiasi spasimante ragionevole probabilmen-te si arrenderebbe. Invischiata com’è nel “gioco senza fine” della sua famiglia, ogni consiglio fondato sulla ragionevolezza—come quello di Hortensio, “No mates for you / Unless you were of gentler, milder mould” (I.i.59-60), per e-sempio—risulterebbe pateticamente inefficace. Ma Petruchio, come già abbia-mo avuto modo di constatare, non è uno spasimante ragionevole, e sa fin troppo bene come districare un simile groviglio. Facendo ricorso a un classico espe-diente della comunicazione paradossale, dà scacco matto in appena due versi:

‘Tis bargain’d ‘twixt us twain, being alone That she shall still be curst in company. [II.i.297-298]

Si tratta di una mossa sorprendente, il cui nome tecnico, nel linguaggio della terapia familiare, è “controparadosso”. Una mossa il cui effetto è di coinvolgere Katherina in un nuovo tipo di “gioco senza fine”: se lei dovesse negare l’accordo, infatti, l’effetto che otterrebbe non sarebbe altro che quello di con-fermarlo.51 Per quanto possa sembrarci nient’altro che un trucco da quattro sol-

50 Vedi O.E.D., alla voce “dumps”, def. 1-2. 51 Il concetto di “gioco senza fine” è illustrato in dettaglio in P. WATZLAWICK et al., Prag-

matics of Human Communication, pp. 232-3: “To begin with a highly theoretical example, imagine the following. Two persons decide to play a game consisting of the substitution of negation for affirmation and vice versa in everything they communicate each other. Thus ‘yes’ becomes ‘no’, ‘I don’t want’ means ‘I want’, and so forth. It can be seen that this coding of their message is a semantic convention and similar to the myriad other conven-tions used by two people sharing a common language. It is not immediately evident, how-ever, that once this game is under way the players cannot easily revert to their former ‘normal’ mode of communication. In keeping with the rule of inversion of meaning, the message ‘Let’s stop playing’ means ‘Let’s continue.’ To stop the game it would be neces-sary to step outside the game and communicate about it. Such a message would clearly have to be constructed as a metamessage, but whatever qualifier were tried for this pur-pose would itself be subject to the rule of inversion of meaning and would therefore be useless. The message ‘Let’s stop playing’ is undecidable, for (1) it is meaningful both at the object level (as part of the game) and on the metalevel (as a message about the game);

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di, il punto di svolta della commedia si fonda esattamente su questo paradosso pragmatico. Katherina e suo padre, come del resto tutti gli altri personaggi in scena, rimangono letteralmente senza parole—“I know not what to say” (II.i.311), balbetta Baptista—e le nozze possono finalmente essere annunciate.

Il giorno delle nozze è ricco di suspense: lo sposo è in ritardo, e nessuno sa con certezza se arriverà o no. Essendo una situazione di incertezza condivisa, ci offre un osservatorio privilegiato per analizzare come i vari personaggi reagi-scono sotto pressione. L’effetto più spettacolare del ritardo di Petruchio è, senza ombra di dubbio, quello di mettere Baptista finalmente in grado di mostrare il suo affetto per Katherina:

Go, girl, I cannot blame thee now to weep, For such an injury would vex a saint, Much more a shrew of thy impatient humour. [III.ii.27-29]

Mai aveva avuto prima parole altrettanto gentili per sua figlia. Ma non è il solo a mostrare un atteggiamento inedito. Quando Petruchio rie-

sce infine a presentarsi alle nozze, la sua unica preoccupazione è per Katherina:

But where is Kate? Where is my lovely bride? [III.ii.90]

But where is Kate? I stay too long from her. [III.ii.108]

But what a fool am I to chat with you, When I should bid good morrow to my bride, And seal the title with a lovely kiss. [III.ii.119-121]

Possiamo interpretare queste parole come espressione di autentico amore? Non lo so. Per lo meno, hanno l’effetto di porre Katherina al centro dell’attenzione, e non più come la bisbetica di prima, bensì come la donna ama-ta. Per riassumere, l’effetto generale di questa strana cerimonia è che i pregiudi-zi di ciascuno vengono completamente rimessi in discussione: come dice Gre-mio, “Such a mad marriage never was before” (III.ii.180). Lo stesso sconcerto che le modalità delle nozze provocano può essere considerato, a tutti gli effetti,

(2) the two meanings are contradictory; and (3) the peculiar nature of the game does not provide for a procedure that would enable the players to decide on the one or the other meaning. This undecidability makes it impossible for them to stop the game once it is un-der way. Such situations we label games without end.”

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come parte di un processo terapeutico, poiché è proprio quando le cose comin-ciano ad essere come “non si sono mai viste prima” che le persone hanno l’opportunità di iniziare a mettere in dubbio le proprie più radicate convinzioni e di svilupparne di nuove. Finchè tutti sono confusi, i processi omeostatici sono sospesi, e il cambiamento può andare avanti.

Non appena le nozze hanno termine, Petruchio intraprende il passo più im-portante della sua strategia, cioè portare Katherina lontano dalla famiglia. Intra-prende questo passo con brutalità sconcertante—almeno secondo i nostri stan-dard. Al tempo stesso, però, pone la massima attenzione nel dirigere la sua ve-emenza verso chiunque eccetto che verso Katherina. Benché sia proprio lei l’unica che oppone apertamente una qualche resistenza, infatti, Petruchio impo-ne la sua volontà solo sugli altri, e lo fa attraverso un’ulteriore varietà di para-dosso: una ingiunzione paradossale. Minacciandoli con le parole: “Touch her whoever dare!” (III.ii.231), egli ordina loro di non fare ciò che non hanno alcu-na intenzione di fare. Ancora una volta, l’effetto principale del suo comporta-mento è di portare Katherina all’attenzione di tutti: ora non solo ha un marito, ma un marito pronto a combattere per lei.

Quel che accade nel quarto atto, con il trasferimento nella casa di campagna di Petruchio, è talmente brutale e bizzarro che stabilire una qualsiasi analogia fra l’agire di Petruchio e un qualsiasi tipo di trattamento terapeutico potrebbe sembrare un passo arrischiato. Lo stesso Harold Bloom, pur definendolo una te-rapia (“cure”), ne attenua prudentemente la portata sia tramite l’uso delle virgo-lette sia con l’aggiunta dell’aggettivo “phantasmagoric”.52 Ciò nonostante, se ri-pensiamo al caso di Ruth, le affinità fra la strategia di Erickson e quella di Pe-truchio diventano cospicue. Per esempio, il modo in cui Petruchio si avvale del-la complicità dei suoi servi è esattamente identico al modo in cui in cui Eri-ckson e l’infermiera collaborano: entrambi, cioè, fanno ricorso al comportamen-to sintomatico dei loro “pazienti”, amplificandolo al punto che sia a Ruth sia a Katherina non è lasciata altra scelta se non quella di assumere la posizione op-posta—vale a dire di comportarsi in modo “normale”. Il “Dr. Erickson, you

52 H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 31.

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shouldn’t do a thing like that” di Ruth sembra così echeggiare il “Patience, I pray you, ‘twas a fault unwilling” (VI.i.143) di Katherina innanzi ai maltratta-menti inflitti da Petruchio al suo servo. E persino la disumana tattica di ridurre alla fame non è completamente aliena alla psicoterapia strategica—non a quella di Erickson, perlomeno. Haley riporta un caso nel quale la madre di Joe, un bambino di otto anni gravemente disturbato, attenendosi rigorosamente alle det-tagliate istruzioni che Erickson le ha impartito, se n’è stata seduta con tutto il suo peso sopra il figlio per più di sei ore, a leggersi un libro:

With the chapter finally finished, the mother got up and so did Joe. He timidly asked for something to eat. His mother explained in laborious detail that it was too late for lunch, that breakfast was always eaten before lunch, and that it was too late to serve breakfast. [...] Unfortunately, he had missed his breakfast, therefore he had to miss his lunch. Now he would have to miss his dinner, but fortunately he could begin a new day the next morning.53

Petruchio, allo stesso modo, sta ben attento a non stabilire alcun collegamen-to esplicito tra la sua volontà e il lasciare Katherina affamata—così come con nessuna delle altre privazioni che le tocca subire. La sua “way to kill a wife with kindness” (IV.i.195), infatti, altro non è che un modo per inaugurare una rela-zione complementare con Katherina, prevenendo al tempo stesso l’escalation simmetrica che finirebbe altrimenti per innescarsi a causa del “mad and head-strong humour” (IV.1.196) di lei. Da un punto di vista rigorosamente etico, tutto questo è per noi ovviamente inaccettabile: perché deve essere Katherina quella che si deve rassegnare alla posizione di one-down? Occorre però anche dire che la strategia paradossale di Petruchio ha per lo meno un notevole vantaggio rela-zionale: autorizza Katherina ad illudersi che la battaglia che sta perdendo non è contro il marito, ma contro un nemico esterno—sia esso la sfortuna, il fato, o un assurdo insieme di regole. Detto altrimenti, permette a Katherina di sottometter-si mantenendo quel minimo di dignità che la sua ingiusta società consente alle donne. Non a caso, l’esibizione in pubblico della sua posizione di one-down comincia fin da subito a portarle qualche beneficio: persino Hortensio è ora di-

53 J. HALEY, Uncommon Therapy, pp. 215-216.

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sposto a prendere le sue parti: “Signor Petruchio, fie! You are to blame / Come, Mistress Kate, I’ll bear you company” (IV.iii.48-49).

Infine, ecco l’ultimo intervento, che a mio parere è anche il più sorprendente:

Petruchio Good Lord, how bright and goodly shines the moon!

Katherine The moon? The sun! It is not moonlight now.

Petruchio I say it is the moon that shines so bright.

Katherine I know it is the sun that shines so bright.

Petruchio Now, by my mother's son, and that's myself It shall be moon, or star, or what I list Or e’re I journey to your father's house. [IV.v.2-8]

Perché mai costringere Katherina a chiamare il sole ‘luna’? Questo sembra veramente un tentativo di condizionamento gratuito e intollerabile, un interven-to che, almeno potenzialmente, potrebbe portarla alla pazzia. C’è però da consi-derare che tutto ciò succede in una circostanza estremamente delicata: mentre stanno dirigendosi verso la casa di Baptista—quando, cioè, la “nuova” Katheri-na sta per essere riportata nel suo vecchio ambiente per la prima volta dopo le nozze, in un momento in cui la sua relazione con Petruchio è ancora assai preca-ria.

Ma consideriamo con attenzione lo scambio di battute. Il fatto che la stella a noi più vicina si chiami ‘sole’, come ci insegna Saussure, è piuttosto arbitrario. Più precisamente, è una delle tante convenzioni sociali di quella stessa società per la quale Petruchio, l’uomo che si è sposato indossando “unreverent robes”, ha mostrato di non avere alcun riguardo neppure durante le nozze—quella stes-sa società che, come Boose ha brillantemente mostrato, non avrebbe avuto la benché minima esitazione a issare Katherina su un “cucking-stool” per esporla al pubblico ludibrio.54 A queste convenzioni sociali, Petruchio vuole opporre le sue convenzioni personali, e pretende che la moglie le condivida, così che essi possano entrare in casa di Baptista non come due individui ma come una coppia unita. Al tempo stesso, l’apparente accettazione da parte di Katherina delle stra-vaganze del marito non sembra tanto un indice di subalternità, quanto il segno

54 Vedi L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, pp. 185-6.

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che ha finalmente trovato il modo per trattare con lui. E infatti il loro paradossa-le scambio di battute culmina con il sole che viene chiamato ‘sole’—non ‘luna’:

Katherine Forward, I pray, since we have come so far, And be it moon, or sun, or what you please. And if you please to call it a rush-candle, Henceforth I vow it shall be so for me.

Petruchio I say it is the moon.

Katherine I know it is the moon.

Petruchio Nay then you lie, it is the blessed sun.

Katherine Then, God be blessed, it is the blessed sun. [IV.v.12-18]

È qui fondamentale sottolineare che, benché il sole sia di nuovo il ‘sole’, la loro litigata è stata tutt’altro che inutile: ha portato a un nuovo tipo di sole. Non più quello di Petruchio, o di Katherina, o della società—bensì il sole della loro neonata famiglia. È precisamente attraverso processi come questo della nego-ziazione dei significati che le coppie, poco alla volta, diventano famiglie—e, se possibile, famiglie felici. Ognuna a suo modo.

Cos’è accaduto, dunque? Petruchio ha provato a se stesso di avere il potere di prendere decisioni su tutto. Al tempo stesso, Katherina ha scoperto che “farlo comportare come già si sta comportando” è un ottimo modo per fargli decidere ciò che lei vuole. Ed è proprio questo il motivo per il quale non mi persuadono le letture che finiscono per proclamare o Petruchio o Katherina “vincitore della contesa”: la loro negoziazione non è un gioco a somma zero, e il risultato è un successo per entrambi i contendenti. Se volessimo proprio trovare un vincitore, l’unico candidato possibile mi sembra essere la loro vita coniugale:

Katherine Husband, let’s follow to see the end of this ado.

Petruchio First kiss me, Kate, and we will.

Katherine What, in the midst of the street?

Petruchio What, art thou ashamed of me?

Katherine No, sir, God forbid; but ashamed to kiss.

Petruchio Why, then, let’s home again. Come, sirrah, let’s away.

Katherine Nay, I will give thee a kiss. Now pray thee, love, stay.

Petruchio Is not this well? Come, my sweet Kate. Better once than never, for never too late. [V.i.130-138]

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Qui, Katherina ha perfino deciso di tornare a rivolgersi a Petruchio usando la forma “thee”—che aveva abbandonato subito dopo le nozze.55 Come non essere d’accordo con Bloom quando afferma che “there is no more charming a scene of married love in all Shakespeare”56?

La seduta sta volgendo al termine. Prima di abbandonare il nostro posto die-tro lo specchio unidirezionale, ci viene offerta un’ultima interazione: la contro-versa scena della “self-deposition” di Katherina—il suo innumerevoli volte cita-to “place your hands below your husband’s foot” (V.ii.178). È, questo suo at-teggiamento, da interpretarsi nel senso del vecchio detto “the operation was a success, but the patient died”57? In altre parole, la “guarigione” le è costata l’identità, come sia la critica femminista di stampo neostoricista sia le letture “non-revisioniste” sembrano implicare? O dovremo forse leggere le sue ultime parole in senso ironico, come invece suggeriscono i “revisionisti”?58 Penso esi-sta una terza possibilità. Benché l’identità Katherina non sia mai stata tanto vi-tale quanto in quest’ultimo scorcio di dramma, il tropo appropriato, qui, non è l’ironia. Le sue parole non sono né vere né false: sono strategiche. Il loro signi-ficato, cioè, non va cercato al livello del contenuto—ciò che dicono—ma al li-vello della relazione—ciò che fanno. E cosa fanno? Le permettono di ottenere

55 Vale la pena notare che il modo in cui Shakespeare fa di volta in volta usare a Katherina la

forma arcaica e quella moderna del pronome personale di seconda persona è quanto mai sottile. Prima del matrimonio, Katherina si rivolge a Petruchio sia con il “you” sia, quando è alterata, con la forma “thou/thee” (per esempio: “Where did you study all this goodly speech” vs “Go, fool, and whom thou keep’st command”). Subito dopo le nozze, però, l’unica forma da lei usata nei suoi confronti è “you” (“Patience, I pray you...”, IV.i.142; “I pray you, husband...”, IV.i.154; “I dare assure you, sir, ...”, 4.3.186). Ma, una volta a Pa-dova, ritorna ad usare la forma “thee”, perlomeno quando si trovano a quattr’occhi. Ora, poiché si era soliti usare la forma “th-” tanto per convogliare disprezzo quanto intimità, specialmente se in opposizione alla forma “you”, (vedi J. MULHOLLAND, “‘Thou’ and ‘You’ in Shakespeare: a study in the second person pronoun”, pp. 34-43), ci sarebbero suf-ficienti elementi per interpretare il doppio passaggio di Katherina come un ulteriore sin-tomo dell’evoluzione del suo atteggiamento nei confronti di Petruchio: dal disprezzo alla sottomissione, e dalla sottomissione alla complicità.

56 H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 32. 57 Citato in P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 135. 58 Per un confronto fra “revisionists” e “non-revisionists” nella storia della critica di The

Taming, vedi S. BRETZIUS, Shakespeare in Theory, p. 59.

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finalmente vendetta sul padre: ora è lei la figlia favorita—“For she is chang’d, as she had never been” (V.ii.117)—ma non ha più bisogno del suo amore. Que-sto è un risultato che non sarebbe spiegabile se considerassimo The Taming un sadico processo di “behavioral modification”, come vorrebbe Boose,59 ma non si tratta nemmeno di semplice—per quanto sottile— opportunismo, come sem-bra invece suggerire Bloom.60 Se consideriamo l’evolversi dei fatti da un punto di vista sistemico—cioè osservando l’intera rete di relazioni, e non solo i singoli personaggi—ciò che è cambiato non è dentro Katherina, bensì fuori: nella sua nuova famiglia, essere bisbetici non serve più ad alcuno scopo—non è più un sintomo funzionale.

Vorrei concludere sottolineando un’ultima affinità fra quanto accade al ter-mine della commedia e le dinamiche tipiche dei sistemi umani. In un dramma teatrale, come nella vita reale, il cambiamento in un membro della famiglia im-plica necessariamente un cambiamento da parte di tutti gli altri membri. Bianca, lungi dall’essere l’insipida sorella che Bloom pretende ella sia,61 una volta libe-ratasi dalla responsabilità di essere la figlia favorita diventa finalmente capace di affermare i propri diritti in modo esplicito. E persino lo stesso Baptista, le cui preoccupazioni principali altro non erano che il denaro e Bianca, ora che non è più “thus grieved”, sembra essere più felice che mai di pagare le ventimila co-rone della scommessa e di invecchiare in solitudine.

59 L. BOOSE, “Scolding Brides and Bridling Scolds”, cit., p. 198. 60 H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 33. 61 Ibid., p. 29.

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Capitolo quinto

La disgregazione di una coppia

When a married couple reach the middle years of marriage, their difficulties have often become habitual patterns. Some-times the children are involved in their struggles, but often the presenting complaint is an acknowledge marital problem. A typical issue offered at this time is a power struggle between husband and wife over who should be the dominant one in the marriage. It is in the nature of all learning animals that they or-ganize in a hierarchy, and a continual question in marriage can be who is first and who is second in the hierarchy of a marital re-lationship. Some couples manage flexibility on this issue; at times and in some areas the wife is dominant, at other times or in other areas the husband is, and in many situations they func-tion as peers. A marriage in difficulty is usually one where the couple is able to function only in one way and there is discontent with that way. Sometimes, too, one of the spouses makes para-doxical demands on the other. Often a wife wants her husband to be more dominating—but she’d like him to dominate her the way she tells him to.1

JAY HALEY

Quando un terapeuta si accinge a seguire un caso, se viene a sapere che in passato il cliente ha già chiesto aiuto altrove, ne terrà debitamente conto, perlo-meno per tentare di offrire una soluzione diversa. Lo stesso vale allorché ci si trovi ad affrontare una coppia di coniugi letterari. Inizieremo dunque con un brevissimo accenno a qualche “precedente anamnestico”.

In analisi

I nostri due coniugi entrarono per la prima volta in terapia nel 1916. Trattan-dosi nientemeno che del re e della regina di Scozia, si rivolsero al migliore ana-

1 J. HALEY, Uncommon Therapy, p. 223.

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lista sulla piazza. Il luminare comprese al volo che si trattava di un caso dispera-to, se non altro perché entrambi i clienti erano deceduti da parecchi secoli. Il marito, ucciso in battaglia. La moglie, suicida. Ciò nonostante, l’analista non si perse d’animo. Con l’attenzione e la passione che sempre riservava a tutti i casi nei quali gli capitava di imbattersi, decise che valeva comunque la pena di ten-tare di capire cosa era accaduto. Il materiale a disposizione non si poteva certo dire abbondante o affidabile—una storia inverosimile di streghe e di spettri, qualche battuta qua e là fra i due coniugi, una breve sequenza ai confini con il sogno—ma altro non c’era. Alla fine, giunse ad avanzare l’ipotesi che il dram-ma della sfortunata coppia fosse probabilmente da imputarsi all’assenza di figli. Con rara onestà intellettuale, non mancò però di rilevare che quella conclusione lo lasciava alquanto perplesso: “Ma quali che siano questi motivi, che in così breve tempo fanno di un uomo ambizioso e pieno di incertezze un tiranno sfre-nato e della sua istigatrice dal cuore d’acciaio una donna malata e tormentata dai rimorsi, non si può secondo me indovinare”.2 Il caso rimaneva dunque inso-luto.

Caso e analisi sono rispettivamente il Macbeth di Shakespeare e la lettura che ne fa Freud in un breve saggio del 1916 sull’origine della nevrosi, genial-mente intitolato “Coloro che soccombono al successo”. Da allora, incoraggiate sia dal potente fascino dei personaggi e della vicenda sia dalla conclusione aperta di Freud, le letture psicoanalitiche di Macbeth non sono certo mancate. Tra le numerose chiavi d’interpretazione adottate, le due principali sono quelle che considerano Macbeth l’una un dramma edipico3 e l’altra un dramma intrap-sichico.4 Entrambe le direzioni erano già state additate, in forma più o meno e-

2 S. FREUD, “Coloro che soccombono al successo”, 1916, in S. FREUD, Opere, p. 642. 3 Vedi J. KROHN, “Addressing the oedipal dilemma in Macbeth”, p. 334: “Understanding

Macbeth as a drama about the ultimate oedipal crime of patricide rests partly on a view of Duncan as “father”, and partly on a specific view of Lady Macbeth in her relationship with Macbeth, namely a view of Lady Macbeth, as experienced by Macbeth, as a mother-wife. The oedipal theme is thus played out in the triangle of Macbeth, Duncan, and Lady Mac-beth.”

4 Vedi J. GROËN, “Women in Shakespeare with particular reference to Lady Macbeth”, p. 475: “Turning to the psychoanalytic interest in Lady Macbeth, we find that analysts have also continued to ponder over the enigmatic side of this figure. Ludwig Jekels, in particu-

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splicita, nel saggio di Freud. Ed entrambe comportano la necessità di una lettura a livello simbolico: da una parte, nel dramma non c’è traccia della madre di Ma-cbeth; dall’altra, Macbeth e Lady Macbeth, sebbene uniti da comuni ambizioni e da un solido vincolo matrimoniale, sono a tutti gli effetti due persone—per quanto dramatis personae—diverse.

Nella maggior parte delle interpretazioni psicoanalitiche, infine, la sterilità della coppia sembra essere considerata un dato di fatto, proprio come voleva Freud. Ma anche quest’ultima assunzione implica, se non una lettura simbolica, perlomeno una supposizione, poiché il dramma lascia aperta anche la seppur remota possibilità che qualche figlio ci sia.5 Curiosamente, invece, tende ad es-sere messa in secondo piano, se non proprio omessa, l’osservazione principale di Freud: i due, ma in particolar modo Lady Macbeth, soccombono all’apice del successo, proprio quando quella che sembrerebbe essere la loro massima ambi-zione—la corona—è soddisfatta. E di chi soccombe al successo, Freud scrive che “si ha davvero l’impressione che costoro non siano in grado di sopportare la loro felicità, dal momento che la connessione causale fra successo e malattia ri-sulta inequivocabile”.6

Dagli individui al sistema

Proporrò ora una lettura del dramma dei coniugi Macbeth in chiave sistemi-co-relazionale. È una lettura volutamente parziale, in quanto concentrata in mo-do pressoché esclusivo sulla relazione fra Macbeth e Lady Macbeth. È, inoltre, una lettura nella quale “la connessione fra successo e malattia” risulta tutt’altro

lar, tried to solve the riddle of Macbeth and his Lady in a number of articles (1926, 1933 and 1943), and it is not for nothing that one of his articles was entitled ‘The riddle of Shakespeare’s Macbeth’ (1943). The article could just as well have been called ‘The riddle of Lady Macbeth’. Even Freud does not succeed when he tries to fit her into his character type of ‘those who are wrecked by success’ (1916). However, what has always intrigued me is his comment that Ludwig Jekels, in a Shakespeare study, says that Shakespeare of-ten splits a character into two persons, each of whom by himself or herself is incompre-hensible unless he or she is entirely united wit the other person. This might also be the case with Macbeth and the Lady.”

5 Cfr. A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, pp. 463-5. 6 S. FREUD, Opere, p. 635.

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che “causale” o “inequivocabile” come vorrebbe Freud: poco utile, quindi, a spiegare perché Lady Macbeth giunge al suicidio e suo marito alla follia. In compenso, credo possa offrire ipotesi alternative su come si evolve la loro rela-zione, nonché sul motivo di alcuni avvenimenti minori, ma a prima vista altret-tanto inspiegabili, che si presentano nel corso della tragedia. Spero così di poter contribuire a mostrare come un approccio relazionale possa rivelarsi fecondo anche in un campo come la critica letteraria, campo nel quale i contributi della psicologia danno a volte l’impressione d’essersi fermati a Lacan, se non addirit-tura allo stesso Freud.

Come già si è fatto nel capitolo precedente, propongo di seguire i Macbeth da un punto di vista tipicamente “teatrale”, fingendo cioè di trovarsi dietro allo specchio unidirezionale della terapia della famiglia e quindi di osservare la cop-pia nell’evolversi del suo interagire, cogliendone le parole, gli atteggiamenti, le reazioni, le conseguenze. Con una differenza, però: mentre l’osservazione di Pe-truccio e Katherine si è concentrata prevalentemente su aspetti pragmatici e strategici, così come avveniva con i clienti in carne ed ossa agli esordi della te-rapia della famiglia, vorrei ora cercare di integrare nel mio metodo di analisi al-cuni fra gli sviluppi teorici di maggior rilievo della terapia familiare contempo-ranea, e in particolare lasciare più ampio spazio a considerazioni di tipo seman-tico, come possono essere quelle che riguardano la sfera emotiva. Manterrò in-vece inalterato il principio-guida, e cioè considerare la famiglia non come un aggregato di personalità fra loro indipendenti, bensì come un’unità, con le pro-prie modalità e le proprie emozioni. Un’unità entro la quale le modalità e le e-mozioni dei singoli individui risultano interdipendenti, in quanto inevitabilmen-te condizionate dal loro essere parte di un unico sistema.

Il primo incontro: la lettera

Nella pratica terapeutica, e in particolare in quella della terapia familiare, è assai raro che il primo incontro fra terapeuta e famiglia sia davvero un primo incontro. Di solito, il primo appuntamento è preceduto da qualche altra forma di contatto, per esempio la telefonata di uno dei membri della famiglia, o la pre-sentazione del collega dal quale ha avuto origine il cosiddetto “invio”. In altre

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parole, nell’istante in cui una coppia entra nel suo studio, il terapeuta ha già qualche pregiudizio su di essa (per esempio, può supporre che chi ha telefonato sia anche il più intenzionato, o la più intenzionata, a seguire la terapia), e ha già in mente qualche ipotesi preliminare, per quanto si possa impegnare ad affronta-re l’incontro con la maggiore imparzialità possibile.

Qualcosa di simile accade anche con i nostri due coniugi: il loro primo effet-tivo incontro sul palcoscenico avviene nella quinta scena del primo atto del dramma che li vede protagonisti, ma già nella seconda scena ci viene offerto un indizio su quale potrebbe essere la qualità della loro relazione, o almeno su co-me potrebbe essere percepita da chi li conosce. Macbeth, infatti, reduce da una battaglia durante la quale ha avuto occasione di mostrare tutto il proprio ardi-mento, viene definito da Ross come “Bellona’s bridegroom” (I.ii.54). È un epi-teto che si presta a numerose interpretazioni, dalla semplice circonlocuzione metaforica per “guerriero” fino a supporre che in realtà non sia riferito a Ma-cbeth.7 Assumendo che si riferisca a Macbeth—come sintassi e contesto sem-brano suggerire—il problema maggiore, dal punto di vista interpretativo, diven-ta stabilire in che modo segmentare nella frase il campo d’azione della metafora. Le possibilità sono tre: 1) è una costruzione puramente letterale (in tal caso, Macbeth dovrebbe avere una moglie di nome Bellona…); 2) l’intera costruzione è metaforica, e sta semplicemente a significare che Macbeth è un valoroso guer-riero; 3) la metafora riguarda prevalentemente il termine “Bellona”, e dunque Macbeth potrebbe essere letteralmente sposato con una metaforica “dea della guerra”. È interessante notare che la prima e la terza ipotesi, a differenza della seconda, si configurano come “proprietà S-necessarie” (vedi capitolo 2), e dun-que verificabili, o meglio falsificabili, in base alla conformazione del mondo della tragedia: in altre parole, se per assurdo scoprissimo che Macbeth non è sposato, avremmo la certezza che l’unica ipotesi valida è la seconda, che peral-

7 Vedi K. MUIR, Macbeth. The Arden Shakespeare, p. 10: “Granville-Barker suggests that Bel-

lona’s bridegroom may not be Macbeth. But though Shakespeare was condensing three campaigns into one, there would have been no point in making some other general respon-sible for the victory over Sweno, in defiance of his source.”

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tro è quella più probabile anche in base alla costruzione sintattica, introdotta dal determinativo “that”.

Al tempo stesso, il significato letterale dell’epiteto è abbastanza chiaro, e coinvolge due campi semantici: quello della guerra (“Bellona”) e quello del ma-trimonio (“bridegroom”). Poiché esiste un’evidente isotopia fra questi due nu-clei concettuali e l’universo tematico di Macbeth, possiamo perlomeno ricono-scere che la definizione offerta da Ross, quale che sia il suo significato figurato, pare essere insolitamente appropriata. In ogni caso, da “apprendisti terapeuti della famiglia”, sono tutte ipotesi di lavoro che è bene tenere in considerazione, così come un vero terapeuta della famiglia avrebbe qualche difficoltà nel giudi-care insignificante se una cliente, concordando il primo appuntamento, si rife-risse al coniuge definendolo “quel disgraziato del padre dei miei figli” invece che “mio marito”.

Macbeth compare per la prima volta nella terza scena, dove le tre streghe gli profetizzano il futuro (di questo avremo occasione di parlare più avanti). Nella scena successiva, la quarta, scopriamo che Macbeth in effetti è sposato, come egli stesso dichiara: “I'll be myself the harbinger, and make joyful / The hearing of my wife with your approach.” (I.iii.45-46). Questi due versi ci danno, indiret-tamente, anche un’altra informazione, e cioè che la lettera che Lady Macbeth avrà fra le mani nella scena successiva è stata inviata da Macbeth fra la terza e la quarta scena,8 dunque subito dopo l’incontro con le streghe. Questo dettaglio sul timing degli eventi, come vedremo, non è irrilevante.

La prima comunicazione fra i due coniugi avviene proprio tramite questa let-tera. Poiché si tratta del loro primo scambio, occorre considerarla con una certa attenzione. Anzitutto, pare assai significativo l’uso della lettera come canale di comunicazione, perché introduce una curiosa circolarità: Lady Macbeth ha fra le mani una lettera sia nella prima sia nell’ultima scena (V.i) in cui appare. Ciò

8 Questo perché nella lettera che Lady Macbeth riceve, come è reso evidente dalla sua rea-

zione all’annuncio del servitore, non vi è cenno dell’imminente arrivo di Duncan. A que-sto proposito, vedi W. DODD, “Letters in Drama (with some Shakespearean Examples)”, p. 51: “[The] only opportunity Macbeth could have had to write the letter is in the very brief interval, during which he returns from the battlefield to Duncan’s camp, between the end of I.iii and line 14 of the next scene.”

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dà motivo di supporre che scrivere e leggere siano modalità comunicative per lei non sporadiche. Il fatto che Macbeth abbia ritenuto urgente metterla al cor-rente di quanto gli è accaduto, e che lo abbia fatto con una lettera, sembra sug-gerire che, se mai questi due coniugi hanno un problema, questo non sia certo la famosa “difficoltà a comunicare”.

Lady Macbeth entra in scena leggendo la lettera ad alta voce. Considerando il contenuto della lettera, che non contiene alcuna nuova informazione per il pubblico, ciò sembra alquanto strano.9 Macbeth è indubbiamente il dramma più “economico” dell’intero canone. Perché mai inserirvi un passaggio in apparenza così ridondante sia per l’asse esterno sia per quello interno? C’è qualcosa di nuovo nella lettera che Lady Macbeth legge? Ebbene, sì. Per prima cosa, pos-siamo osservare che, definendo Lady Macbeth “my dearest partner of greatness” (I.v.10) ed esplicitando il motivo della comunicazione (“that thou mightst not lose the dues of rejoicing by being ignorant of what greatness is promised thee”, I.v.11-12), Macbeth conferma al pubblico la solidità del suo rapporto con la moglie e, al tempo stesso, le fa sapere che non ha alcuna intenzione di escluder-la da quanto gli sta accadendo: se il messaggio originale delle streghe era “sarai re”, lui lo traduce in “saremo la coppia regnante”.

Il coinvolgimento, vale la pena notare, è una modalità già riscontrata in Ma-cbeth, il quale non appena ha appreso della profezia si è premurato di tradurla, parlandone con Banquo, in “Your children shall be kings” (I.iii.84).10 E questo ci porta a considerare un’altra fondamentale informazione derivante dalla lettura

9 Cfr. A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, p. 31: “La lettera, non necessaria nella concatena-

zione delle azioni, visto che Macbeth sta per raggiungere di persona il castello in anticipo sul re, ha la funzione drammatica di presentare Lady Macbeth da sola, con le sue reazioni e le sue determinazioni”. Vedi anche W. DODD, “Letters in Drama (with some Shake-spearean Examples)”, p. 51: “[It] enables Lady Macbeth to express her misgivings about Macbeth’s lack of sound Machiavellian principles, and to reveal herself to the audience as one capable of chastising him with the value of her tongue. It is perhaps a little less obvi-ous that the use of the letter script contributes to connoting the opening scenes of the play with a feeling of precipitation.”

10 Circa questa modalità di Macbeth, è significativo un suggerimento di John Russell Brown per gli attori che si trovino a impersonarlo: “the actor must give an impression of words disguising thoughts” (J.R. BROWN, Shakespeare: The tragedy of Macbeth, p. 34).

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ad alta voce della lettera, e cioè l’omissione dell’ultima parte della profezia. Questa omissione, come il seguito del dramma confermerà, non è il frutto d’una distrazione: Macbeth non rivela mai alla moglie, né qui né quando Lady Ma-cbeth gli chiede esplicitamente una spiegazione del suo agire (III.ii.46), che le “sorelle fatali” hanno citato anche la stirpe di Banquo. Non è nemmeno pensabi-le che Macbeth ometta questo particolare ritenendolo irrilevante, poiché sarà proprio l’ultima parte della profezia a determinare buona parte delle sue azioni criminose. Siamo dunque costretti a rimettere in discussione le nostre ipotesi circa le motivazioni che possono aver indotto Macbeth a scrivere alla moglie: se in apparenza la lettera sembra avere funzione prevalentemente informativa, in realtà il sovrascopo deve essere un altro. Quale? Confidando nel fatto che Ma-cbeth e la moglie sembrano conoscersi piuttosto bene, un terapeuta della fami-glia, per rispondere a questa domanda, suggerirebbe probabilmente di concen-trarsi sugli effetti che la lettera produce. Osserviamoli, dunque:

Glamis thou art, and Cawdor, and shalt be What thou art promised. Yet do I fear thy nature. It is too full o' th' milk of human kindness To catch the nearest way. Thou wouldst be great, Art not without ambition, but without The illness should attend it. What thou wouldst highly, That wouldst thou holily; wouldst not play false, And yet wouldst wrongly win. Thou'dst have, great Glamis, That which cries “Thus thou must do” if thou have it, And that which rather thou dost fear to do Than wishest should be undone. Hie thee hither, That I may pour my spirits in thine ear And chastise with the valour of my tongue All that impedes thee from the golden round Which fate and metaphysical aid doth seem To have thee crowned withal. [I.v.14-29]

È una reazione tanto grandiosa poeticamente quanto sorprendente dal punto di vista psicologico: leggere che il marito le annuncia la possibilità di diventare re suscita in Lady Macbeth un sentimento di paura e scetticismo. Se ci pensia-mo, è una reazione quantomeno insolita, poiché ciò che Lady Macbeth teme non è la possibilità che la profezia possa rivelarsi sbagliata, bensì che il marito non sappia essere all’altezza della profezia! Se la reazione terminasse qui, verrebbe

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davvero da chiedersi chi mai glielo ha fatto fare, a Macbeth, di perdere tempo a scrivere una lettera per una moglie che lo stima così poco. Ma Lady Macbeth non si limita a svalutare il marito agli occhi del pubblico: l’effetto complessivo della lettera è quello di spingerla a prendere in mano la situazione. Le “sorelle fatali” hanno fornito il “metaphysical aid”; dell’aiuto quotidiano e concreto sarà lei stessa a farsene carico.

Se le cose stanno veramente così, il sovrascopo implicito della lettera di Ma-cbeth sembrerebbe essere quello di ottenere aiuto, e bisogna dargli atto che, al-meno per ora, sembra averlo perfettamente raggiunto. Affinché questo sia il gioco strategico di Macbeth, però, è necessario ipotizzare che egli fosse consa-pevole di due cose: a) che la moglie avrebbe probabilmente reagito in tal modo; b) di avere bisogno dell’aiuto della moglie. Ora, se è vero che dei Macbeth sap-piamo poco, è anche vero che sappiamo tutto. In altre parole, al contrario di quanto avviene per una coppia in terapia, non ci è data la possibilità di far loro domande, ma abbiamo la garanzia implicita che l’intera loro “vita” si svolge sotto i nostri occhi, per quanto alterata e distorta da problemi filologici ed er-meneutici. Dunque, è solo nel testo che possiamo sperare di trovare tracce dell’eventuale consapevolezza di Macbeth. Circa la possibile reazione di Lady Macbeth, il “Bellona’s bridegroom” di Ross, se inteso come un indizio del mo-do in cui la moglie di Macbeth è percepita dai membri del mondo interno della finzione, potrebbe avvalorare l’ipotesi che Macbeth stesso sappia bene quali ef-fetti susciterà la sua lettera, o perlomeno che sia consapevole del suo aspetto performativo. Ciò mi pare confermato anche dalla domanda retorica che Lady Macbeth porrà al marito dopo averlo visto esitare: “What beast was 't then / That made you break this enterprise to me?” (I.vii.47-48). Come a dire: sapevi bene che avrei reagito in questo modo, e allora perché coinvolgermi se non eri d’accordo?11 Quanto al senso di inadeguatezza di Macbeth, al suo essere consa-pevole di non poter riuscire da solo, oltre al tranciante giudizio della moglie, possiamo osservare come Banquo commenti il suo stupore attribuendolo

11 È qui opportuno sottolineare che l’apertura del rimprovero di Lady Macbeth, perlomeno

letteralmente, riguarda in modo esplicito il fatto che il marito l’ha coinvolta, e solo più a-vanti il discorso si allarga alla sua incoerenza.

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all’inesperienza (“New honours come upon him, / Like our strange garments, cleave not to their mould / But with the aid of use.”, I.iii.143-145) e come Ma-cbeth stesso associ le proprie esitazioni a una sorta di immaturità (“We are yet but young in deed.”, III.iv.143).

In attesa di trovare nuove conferme o eventuali smentite alle precedenti ipo-tesi, possiamo osservare che la peculiare qualità della comunicazione fra Ma-cbeth e la moglie è ulteriormente ribadita dalla sconcertante reazione di Lady Macbeth all’annuncio dell’arrivo del re da parte del messaggero: “Thou’rt mad to say it. / Is not thy master with him, who, were 't so, / Would have informed for preparation?” (I.v.29-31). Di nuovo, ritorna il tema del coinvolgimento: l’idea che il marito possa “non averla informata” è per Lady Macbeth sempli-cemente inconcepibile, al punto da provocare una violenta reazione nei confron-ti del messaggero, il quale si sente in dovere di giustificarsi ricorrendo all’immagine del compagno “almost dead for breath” (I.v.33).12 Ancora prima di assistere all’incontro fra i due coniugi, dunque, abbiamo già elementi sufficienti per la formulazione di un’ipotesi, per quanto vaga, sulla loro modalità relazio-nale. I Macbeth sembrano essere una coppia ad alto grado di “invischiamento”. Una coppia insolitamente paritaria, almeno per gli standard dell’epoca. Una coppia nella quale è dato per scontato che ci si deve tenere informati l’un l’altro su tutto ciò che accade, e che si deve agire insieme. Violare questa regola impli-cita provoca, perlomeno nella moglie, forti reazioni. Con l’omissione nella lette-ra e con il tardivo annuncio circa l’arrivo di Duncan, però, questa regola—intenzionalmente o meno—è già stata violata due volte.

La prima interazione verbale: “leave all the rest to me”

Le prime battute che i due coniugi si scambiano in scena si caratterizzano per la loro asimmetria: Lady Macbeth domina sia quantitativamente sia qualita-

12 Per una lettura completamente diversa della reazione di Lady Macbeth, vedi K. ELAM,

“«Thou’rt mad to say it»: Seven types of ineffability in Macbeth”, p. 190: “Naming the King seems to create as much difficulty in the play as murdering the King. […] So power-ful is the naming taboo that when the messenger innocently lexicalizes her secret object of discourse, she is appalled.”

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tivamente per tutta la durata del breve dialogo, mentre Macbeth si mostra quan-to mai laconico e schivo. Apparentemente, siamo davanti a quella che in lin-guaggio strategico viene definita una “relazione complementare”, cioè una rela-zione nella quale uno dei due partecipanti ha decisamente la posizione di one-down e l’altra quella di one-up. Una tale descrizione coincide con l’immagine proposta dalla maggior parte delle interpretazioni critiche: Macbeth l’usurpatore ambizioso ma incerto, Lady Macbeth l’istigatrice spietata. Quest’ultima apre l’incontro con parole che richiamano immediatamente quelle delle streghe—“Great Glamis, worthy Cawdor, / Greater than both by the all-hail hereafter” (I.v.52-53)—mentre Macbeth risponde in modo assai più dimesso (“My dearest love”), come se la trionfale accoglienza lo facesse sentire a disagio e cercasse quindi di spostare la conversazione su una dimensione più intima, più alla sua portata. Ancora, possiamo osservare come già fin dalle prime due battute venga affrontato il topos del “tenersi informati a vicenda”: Lady Macbeth, inconsape-vole dell’omissione del marito, esulta perché la lettera l’ha trasportata “beyond this ignorant present”; Macbeth, da parte sua, provvede immediatamente a porre rimedio alla sua seconda “omissione”, aggiornando la moglie sull’imminente ar-rivo del re. I temi, le emozioni e le modalità che, come questa del “tenersi in-formati”, già si erano presentati e riaffiorano ora nel corso del dialogo sono nu-merosi: l’inadeguatezza di Macbeth (“Your face, my Thane, is as a book...”, I.v.60), la necessità di dissimulare, la paura. Riguardo a tutti e tre, Lady Ma-cbeth si impone con decisione nel ruolo di aiutante: “Only look up clear. / To alter favour ever is to fear. / Leave all the rest to me.” (I.v.70-2).

L’unico segnale esplicito che lascia intravedere un minimo di assertività da parte di Macbeth riguarda la gestione del timing degli eventi: “We will speak further” (I.v.70). Si tratta di un segnale debole, ma da non sottovalutare, perché anche in questo caso ci troviamo innanzi a una modalità—quella di “dilazionare nel tempo”—che si ripresenterà più volte nel successivo corso degli eventi, e che già si è riscontrata in precedenza: “The interim having weighed it, let us speak / Our free hearts each to other ... Till then, enough.” (I.iii.153-6), ha infat-ti imposto Macbeth a Banquo dopo l’incontro con le streghe. C’è però un se-condo elemento che, per quanto implicito, contribuisce a insinuare il sospetto

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che Macbeth sia tutt’altro che subalterno alla moglie: è l’ironia drammatica soggiacente all’intero scambio fra i due. Lady Macbeth, infatti, considera il ma-rito “un libro aperto” e pretende di insegnargli come ci si deve comportare per “ingannare il mondo”, ma grazie alla lettera che lei stessa ha letto ad alta voce noi sappiamo che Macbeth le sta in realtà celando qualcosa. Proprio come la let-tera, la faccia di Macbeth è un “testo” che Lady Macbeth sa leggere benissimo, solo che non c’è scritto tutto.

In altre parole, il gioco al quale stiamo assistendo potrebbe essere assai più complesso di quanto non appaia, e se la relazione fra Macbeth e la moglie ha tutta l’aria di configurarsi come “complementare” ciò è da intendersi nel senso strettamente tecnico del termine:13 non indica, cioè, che uno è “debole” e l’altra è “forte”, bensì che il loro modo di relazionarsi prevede che uno si mostri debo-le e l’altro si mostri forte. Non è infatti un caso che Lady Macbeth finisca per dare voce esattamente a ciò il marito già aveva pensato per conto suo (“Why do I yield to that suggestion / Whose horrid image doth unfix my hair / And make my seated heart knock at my ribs / Against the use of nature?”, I.iii.133-6), e cioè all’idea di assassinare il re. Detto altrimenti: a volte si possono “fare cose” anche con il silenzio, oltre che con le parole.

La seconda interazione: cos’è un uomo?

Fino a questo punto, la nostra osservazione dei Macbeth si è limitata ad a-spetti pragmatici e strategici. Di conseguenza, etichette come one-up e one-

13 Come sottolinea puntualmente Paul Watzlawick, “there are two different positions in a

complementary relationship. One partner occupies what has been variously described as the superior, primary, or one-up position, and the other the corresponding inferior, secon-dary, or one-down position. These terms are quite useful as long as they are not equated with good or bad, strong or weak. A complementary relationship may be set by the social or cultural context (as in the cases of mother and infant, doctor and patient, or teacher and student), or it may be the idiosyncratic relationship style of a particular dyad. In either case, it is important to emphasize the interlocking nature of the relationship, in which dis-similar but fitted behaviors evoke each other. One partner does not impose a complemen-tary relationship on the other, but rather each behaves in a manner which presupposes, while at the same time providing reasons for, the behavior of the other: their definitions of the relationship fit.” (P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 69).

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down sono rimaste etichette vuote, semplici posizioni all’interno di un non me-glio definito gioco familiare. La seconda interazione verbale fra i due coniugi, assai più ricca della precedente in termini di negoziazione del significato, ci permetterà di cominciare a riempire queste etichette: vale a dire, ci metterà in grado di individuare le direzioni lungo le quali i Macbeth tendono a posizionar-si a vicenda—a con-porsi—come one-up o one-down. Prima di invitare la cop-pia a “rientrare in studio” (o in scena che dir si voglia) è però opportuno intro-durre in poche parole i principali presupposti teorici del modello al quale si ispi-rerà la mia analisi, e cioè il modello delle polarità semantiche familiari illustrato da Valeria Ugazio, una terapeuta della famiglia, nel volume Storie permesse, storie proibite.14 Essendo un modello orientato in modo esplicito all’analisi del-la conversazione familiare, è secondo me uno tra quelli che più facilmente si prestano a essere utilizzati per lo studio di testi drammatici.

Nel tentativo di superare il concetto di “mente umana come scatola nera” (postulato dai primi terapeuti della famiglia, ma ben presto rivelatosi insuffi-ciente da un punto di vista terapeutico) senza per questo rinunciare alla centrali-tà della dimensione relazionale rispetto a quella individuale, Valeria Ugazio propone anzitutto di considerare tre “proprietà della conversazione”:

1. Ciascun membro della famiglia costruisce la conversazione all’interno di una

struttura semantica di salienza condivisa, formata di regola da alcune polarità

semantiche.

2. È impossibile non definirsi, o meglio non con-porsi, rispetto a una dimensio-

ne semantica che è saliente nel proprio contesto relazionale.

3. Ciascun partner conversazionale, con-ponendosi rispetto alle dimensioni se-

mantiche rilevanti nel proprio gruppo, àncora la propria identità a quella de-

gli altri membri del gruppo e garantisce così, sin dall’inizio,

l’intersoggettività.

La prima proprietà, ponendo l’accento sulla condivisione della struttura se-mantica fra i membri di una stessa famiglia, è la logica conseguenza in ambito

14 V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite. Polarità semantiche familiari e psicopatolo-

gia.

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microsociale dell’assioma fondante del costruzionismo sociale:15 la “realtà” non è né un’entità oggettiva esistente a priori né una costruzione individuale, ma piuttosto si sviluppa nello spazio fra le persone, si costruisce nella relazione. Ogni famiglia, come ogni altro gruppo sociale, possiede dunque un proprio si-stema di coordinate semantiche per interpretare e definire la realtà, un sistema formato di regola da un certo numero di polarità e non altre. Per esempio, in una famiglia nella quale sia rilevante la polarità “intelligente/ottuso”, quando la figlia avvia una relazione con un uomo, nelle conversazioni familiari quest’ultimo tenderà a venire definito come “brillante”, o come “un po’ inge-nuo”, e comunque in base ai suoi successi o insuccessi scolastici e intellettuali. Se quello stesso uomo avviasse invece una relazione con una ragazza nella cui famiglia prevale la polarità “dare/prendere”, le definizioni e la conversazione tenderebbero ad articolarsi su concetti come l’altruismo, l’egoismo, o l’avarizia.

La seconda proprietà sottolinea invece l’impossibilità di sottrarsi al sistema di polarità del gruppo sociale di appartenenza. Questo carattere di inevitabilità è intrinseco alla natura stessa delle relazioni, e viene ben illustrato da Valeria U-gazio ripercorrendo il processo che porta alla loro formazione: “Quando due persone si incontrano per la prima volta iniziano—consapevolmente o no, poco importa—un processo di negoziazione della relazione reciproca che porta pro-gressivamente a restringere la gamma dei possibili comportamenti che caratte-rizzano la relazione. Man mano che la natura della relazione si definisce, alcune vie si aprono e di conseguenza altre si chiudono: ogni possibilità è anche un vincolo.”16 A questo proposito, è importante notare il ruolo fondamentale della dimensione diacronica nell’instaurarsi dell’impossibilità: è inevitabile con-porsi rispetto a una polarità semantica perché la formazione di una relazione coincide con il processo di selezione della polarità semantica stessa. In altre pa-role, il rapporto fra relazione e con-posizione non è di tipo lineare (causa-

15 Vedi K. GERGEN, “The social constructionist movement in modern psychology. Più in ge-

nerale, il costruzionismo sociale si rifà agli studi di M. FOUCAULT (L'archéologie du savoir, 1969) e di J. DERRIDA (Writing and Difference, 1978) sul processo di formazione del significato.

16 V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, p. 46.

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effetto), ma tipicamente circolare, e richiede tempo: se anche l’amore fra Orlan-do e Rosalind scocca come una scintilla, è solo tramite il loro con-porsi entro coordinate assiologiche—come, per esempio, quella “serio/faceto”—che la loro relazione può svilupparsi, e viceversa è solo nel processo di sviluppo della loro relazione nella foresta di Arden che tali coordinate possono delinearsi.

La terza proprietà, infine, mette in risalto il carattere intersoggettivo del con-cetto di identità.17 Vale a dire che anche i tratti individuali per eccellenza—il “carattere”, la “personalità”—sono in realtà fortemente dipendenti dal contesto, cioè dalle polarità semantiche dominanti all’interno del gruppo di appartenenza e dalla disposizione dei membri del gruppo rispetto ad esse. Ciò non significa semplicemente che, se una “posizione” è già occupata, non rimane che prender-ne un’altra. Trattandosi di processi circolari, infatti, quello che avviene è che, affinché una polarità semantica assuma rilevanza, è necessario che ci siano al-meno due persone in qualche modo disponibili ad occuparne i poli opposti. Fra i concetti di polarità e di posizionamento, dunque, non vi è un rapporto gerarchi-co, ma piuttosto un rapporto di reciprocità.

Queste tre proprietà possono apparire al tempo stesso troppo ovvie e troppo astratte per avere una qualsiasi utilità nell’analisi di un testo drammatico. In re-altà, tenendo presente che si riferiscono a un ambito estremamente circoscrit-to—la conversazione—ci si accorge ben presto che il punto di vista da esse suggerito è assai meno vago di quanto sembri, e che proprio il dialogo dramma-tico offre un ottimo banco di prova per verificarne o falsificarne la produttività. Le domande alle quali, analizzando la seconda interazione verbale fra Macbeth e Lady Macbeth, cercherò ora di rispondere saranno dunque: attorno a quali po-larità semantiche si sviluppa il loro dialogo? Come si con-pongono, i due co-niugi, rispetto a tali polarità? Su quali parametri si basano, per definire il “mon-do”? E attorno a quali emozioni sembra ruotare il loro rapporto di coppia?

Anzitutto, possiamo osservare che lo scambio di battute inizia in modo pale-semente simmetrico, anche da un punto di vista strettamente retorico:

17 Sull’intersoggettività del concetto di “persona”, anche a livello di “persone grammaticali”,

vedi F. JACQUES, Difference and Subjectivity, e in particolare il capitolo “A Communica-tional Approach to the Person”.

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MACB. How now? What news?

LADY M. He has almost supped. Why have you left the chamber?

MACB. Hath he asked for me?

LADY M. Know you not he has?

MACB. We will proceed no further in this business. [I.vii.28-31]

Cinque domande in cinque battute. Già Wilson Knight aveva notato come Macbeth sia forse l’opera con più alta densità di domande dell’intero canone shakespeareano.18 Ma qui siamo di fronte a un fenomeno assai particolare: una sequenza di domande alle quali si risponde con domande, alcune delle quali—per la precisione, le due di Lady Macbeth—estremamente cariche di sottintesi e di rimprovero. È uno scambio ad alto tasso mimetico: come in un tipico prelu-dio a una lite fra coniugi del mondo reale, si fa ampio uso di domande illegitti-me19 (Lady Macbeth, infatti, sa benissimo perché il marito ha abbandonato la cena, così come Macbeth è perfettamente consapevole che Duncan ha chiesto di lui), e la dimensione del contenuto (i motivi, i fatti) passa in secondo piano ri-spetto a quella della relazione (i giudizi, i rimproveri, le strategie di attacco e di difesa). Chiunque fra gli spettatori abbia un minimo di esperienza diretta nel campo delle relazioni familiari, ascoltando per la prima volta questo breve scambio non avrà alcuna difficoltà a prevedere che le battute successive non a-vranno per argomento la cena con Duncan, bensì il rapporto fra Macbeth e Lady Macbeth.

Il tentativo da parte di Macbeth di mantenere il dialogo su un piano simme-trico—che, da quanto abbiamo visto nella prima interazione, non è la modalità più frequente fra i due coniugi—termina con la violenta reazione di Lady Ma-cbeth (I.vii.35-45), nella quale la tensione relazionale dello scambio viene resa esplicita da una similitudine carica di connotati erotico-sentimentali (“From this time / Such I account thy love”). Macbeth, vuoi perché incapace di reggere la potenza d’urto della reazione della moglie vuoi perché—come le ipotesi fino ad

18 G.W. KNIGHT, “Macbeth and the metaphysic of evil”, 1930. 19 Su domande legittime e domande illegittime, vedi H. VON FOERSTER, Sistemi che osserva-

no, pp. 130-1: “Definirò domanda illegittima quella domanda di cui si conosca già la ri-sposta […]”.

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ora formulate sembrano suggerire—ritiene tatticamente più proficuo adottare una posizione one-down, asseconda il ritorno alla modalità complementare (“Prithee, peace.”, I.vii.45). Ed è esattamente a questo punto, e cioè quando la modalità apparentemente più consona alla coppia si ristabilisce, che viene in-trodotta e negoziata una definizione assai sintomatica delle polarità semantiche salienti per i Macbeth: la definizione di “uomo”.

MACB. Prithee, peace. I dare do all that may become a man; Who dares do more is none.

LADY M. What beast was ‘t then That made you break this enterprise to me? When you durst do it, then you were a man; And to be more than what you were, you would Be so much more the man. [I.vii.45-51]

A un primo sguardo, le contrastanti definizioni di Macbeth e Lady Macbeth possono apparire semplicemente opposte, e dunque giocarsi su un’unica polarità semantica. Già, ma quale polarità? A un esame più attento, la questione si mo-stra assai più complicata: le polarità semantiche attorno alle quali le definizioni dei due coniugi si collocano sembrano essere almeno due.20 Lo schema riportato in figura 5.1, la cui struttura è adattata dal modello di Mony Elkaïm (un altro te-rapeuta della famiglia) sui doppi legami reciproci,21 può aiutare a chiarire la si-tuazione.

La struttura del modello di Elkaïm è intrinsecamente circolare, e può dunque essere letta a partire da qualsiasi punto. Cominceremo dal “programma ufficia-le” di Macbeth, formulato in I.vii.31-35 e riassumibile in “voglio essere uomo”. In questo suo programma, “essere uomo” può essere identificato con “essere mi-te” (o innocente, o buono), la qualità che Macbeth, nel monologo di apertura (I.vii.1-28), ha riconosciuto a Duncan, e che gli impedisce di procedere oltre. La

20 La compresenza di più polarità semantiche non solo è contemplata dal modello di V.

UGAZIO, ma sembra anzi essere la norma: “[…] In altre famiglie sono rilevanti altre polarità, e in tutte le famiglie sono salienti più polarità” [corsivo dell’autrice], Storie permesse storie proibite, p. 49.

21 Vedi M. ELKAÏM, Se mi ami non amarmi, pp. 19-36.

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verbalizzazione di questa definizione è appunto quella esplicitata alla moglie: “I dare do all that may become a man; Who dares do more is none.”

Come abbiamo visto, però, Lady Macbeth interpreta questa definizione in base alla sua “mappa del mondo”, che è riassumibile in “senza il mio aiuto, non sarai mai uomo”. Secondo questa prospettiva, che pone l’accento non più sulla mitezza bensì sull’incapacità di osare, la definizione di uomo offerta da Ma-cbeth potrebbe essere riformulata in “essere bambino”. Ciò entra in contrasto con quello che pare essere il “programma ufficiale” di Lady Macbeth, la quale vuole che il marito sia uomo a modo suo, e cioè intendendo per “uomo” un ma-schio adulto e virile, come sottolineato dalla sua ingiunzione: “When you durst do it, then you were a man; and to be more than what you were, you would be so much more the man.” A questo proposito, possiamo osservare la natura del doppio legame di Lady Macbeth: ordinando al marito di essere più “adulto”, lo pone implicitamente nella condizione di bambino. Se Macbeth si mostrerà più uomo (accogliendo, dunque, il tratto locutorio dell’enunciato della moglie), in tal caso avrà ubbidito, confermando così la sua subalternità. Se, al contrario, di-subbidirà (accogliendo così, il tratto illocutorio dell’enunciato), rifiutando di mostrarsi uomo confermerà comunque la definizione di Lady Macbeth (vedi fi-gura 5.2).

Programma ufficiale di Macbeth

“I dare do all that may become a man;who dares do more is none.”

“When you durst do it, then you were a man; and to be more than what you were,

you would be so much more the man.”

Voglio essere uomo

(I.vii.31-35)

Programma ufficiale di

Lady M.

Voglio che tu sia uomo

Mappa del mondo di Lady M.

Senza il mio aiuto, non sarai mai uomo

Mappa del mondo di Macbeth

Per essere uo-mo, devo ucci-

dere Duncan.

Uomo = Violenza

Uomo = Mitezza Uomo = Bambino

Uomo = Virilità

Fig. 5.1

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In ogni caso, così come l’enunciato di Macbeth contribuisce a rafforzare la “mappa del mondo” della moglie, anche l’enunciato di Lady Macbeth non trova o-stacoli ad inserirsi nella “mappa del mon-do” di suo marito, che ben sappiamo con-templare l’omicidio di Duncan. Non dob-biamo infatti dimenticare che, sebbene il

suo “programma ufficiale” preveda la mitezza, Macbeth ha già lasciato trapelare la possibilità del ricorso alla violenza (benché mostrandosi disgustato all’idea) per realizzarsi pienamente come uomo. In altre parole, anche quello formulato da Macbeth è un doppio legame: se vuole essere un re amato e ammirato come Duncan, deve inevitabilmente eliminare quest’ultimo, ma questo stesso atto gli precluderà la possibilità di essere amato e ammirato.22

Doppi legami reciproci a parte (sui quali ritorneremo fra breve), i due aspetti per il momento più rilevanti che lo schema ci aiuta a cogliere sono: a) la circola-rità dei comportamenti dei due coniugi, intrappolati in un meccanismo ad auto-rinforzo per il quale non ha alcun senso cercare il responsabile; b) un indizio sulle polarità semantiche attorno alle quali si organizzano le loro letture del mondo, e cioè la contrapposizione “mitezza/violenza” da una parte e quella “bambino/adulto” dall’altra.

Occorre, a questo punto, chiedersi: di quali polarità semantiche queste oppo-sizioni possono essere un sintomo? Premesso che la segmentazione in polarità è relativamente arbitraria (in fondo, è un’operazione affine a quella di segmenta-zione della realtà in campi semantici), cercando due polarità che possano dar ragione delle coppie di opposizioni appena identificate, penso che potremmo ipotizzare la polarità bene/male da una parte, e quella dipendenza/indipendenza dall’altra. Oltre al pregio di essere sufficientemente astratte, queste due polarità

22 Cfr. J. KOTT, Shakespeare Our Contemporary, pp. 92-3: “Macbeth has killed the king, be-

cause he could not accept a Macbeth who would be afraid to kill a king. But Macbeth who has killed cannot accept the Macbeth who has killed. Macbeth has killed in order to get rid of a nightmare. But it is the necessity of murder that makes the nightmare.”

“Non com-portarti da bambino!”

FIG. 5.2 Atto locutivo, sul contenuto:

“Sii ardito!”

Atto illocutivo, sulla relazione:

“Ubbidisci!”

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hanno il vantaggio di essere state ampiamente esplorate in ambito clinico23 e, soprattutto, di avere connotazioni emotive facilmente individuabili. Come sotto-linea Valeria Ugazio, “tutte le polarità semantiche hanno un nucleo emotivo”,24 e questo ci permetterà di mettere a confronto le emozioni caratteristiche delle polarità appena ipotizzate con quelle presenti nel testo shakespeareano.

Circa la polarità bene/male, Valeria Ugazio nota che “le emozioni che stanno alla base [di questa polarità semantica] sono colpa/innocenza e disgu-sto/godimento dei sensi… Ciò significa che la conversazione si organizza pre-feribilmente intorno a episodi che mettono in gioco cattiveria, malvagità, deli-berata volontà di fare il male… ma anche bontà, purezza, innocenza… Grazie a questi processi conversazionali, i membri di queste famiglie si sentiranno, e sa-ranno considerati, buoni, puri, incontaminati o, al contrario, cattivi, corrotti, spietati; troveranno persone disposte a salvarli, a redimerli, a elevarli o, al con-trario, intenzionate a far loro violenza, a iniziarli al vizio, a perderli, a sedur-li…”.25

Prima di proseguire, forse non è superfluo sottolineare che le osservazioni di Ugazio sulle famiglie nelle quali tale polarità è particolarmente saliente si basa-no, per l’appunto, su “odierne famiglie reali” (per la precisione, su un corpus di una trentina di casi da lei seguiti), e non su casi letterari, né tantomeno su casi del periodo elisabettiano. Al tempo stesso, ritengo ci siano ben pochi dubbi sul fatto che il leit-motif delle definizioni fino a questo punto proposte da Macbeth nei suoi monologhi e nei suoi dialoghi stia proprio nella contrapposizione fra le emozioni registrate da Valeria Ugazio, e che le “persone da lui trovate” (una in particolare, ovviamente… ma anche le tre sorelle fatali, Banquo, Duncan e pa-recchie altre che verranno) condividano molti dei tratti qui elencati. Il pensiero

23 Basti pensare, per esempio, al concetto di “senso di colpa” nell’analisi freudiana per quan-

to riguarda la polarità bene/male; e alle mille forme terapeutiche che si basano sul concetto di “auto-aiuto” (per esempio, l’associazione degli alcoolisti anonimi, o le comunità per tossicodipendenti)—tutte finalizzate allo sviluppo, in un contesto protetto, di un certo gra-do di autonomia—per quanto riguarda la polarità dipendenza/indipendenza.

24 V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, p. 49. 25 Ibid., p. 185-187.

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stesso di Macbeth, in questo primo atto perennemente in bilico fra sanguinarie visioni omicide e immagini di straordinaria intensità, come quella della “pity, like a naked new-born babe” (I.vii.21) o delle lacrime che affogano il vento, sembra prendere forma dall’opposizione fra bene e male. Non a caso, Macbeth è forse, tra i drammi shakespeareani, quello nel quale l’ascendenza delle morality plays è più evidente.26

Per quanto riguarda la polarità dipendenza/indipendenza, invece, “le emo-zioni che stanno alla base di questa polarità sono paura/coraggio… Ciò signifi-ca che la conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno a episodi dove la paura, il coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di e-splorazione e di indipendenza svolgono un ruolo centrale… In queste famiglie ci sarà chi è così dipendente e bisognoso di protezione da avere bisogno di qualcuno che lo accompagni per affrontare anche le situazioni più consuete del-la vita quotidiana. Ma più di un membro della famiglia, all’opposto, avrà dato e continuerà a dare prova di particolare autonomia.”27

Paura e coraggio, anche volendosi riferire soltanto all’elevato numero di oc-correnze delle parole appartenenti al loro campo semantico,28 sono certamente l’altra dimensione emotiva prevalente in Macbeth. Altrettanto palese, come ve-dremo nel secondo atto durante l’omicidio di Duncan, è l’importanza rivestita dalle dinamiche di “richiesta/offerta di aiuto”, forse il gioco familiare che più di ogni altro caratterizza i coniugi Macbeth rispetto alle altre coppie del canone shakespeareano. Ciò che invece, offuscato dalla grandiosità di alcuni eventi, può essere meno evidente è quanto il topos della dipendenza influenzi, come scrive Ugazio, “anche le situazioni più consuete della vita quotidiana”. Eppure è

26 Cfr. D. FARLEY-HILLS, “Macbeth come morality play”, pp. 91-103. 27 V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, pp. 136-137. 28 Vedi, per esempio, A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, pp. xxvi-xxvii: “Il suo [di Macbeth]

fare è tragico e orribile perché il suo immaginare è tragico e orribile. Molto vasto è pertan-to il campo semantico dell’immaginario, riferito quasi totalmente a Macbeth, sempre col-mo di paura e di orrore. Come conferma statistica della rilevanza straordinaria della paura nell’eroe malvagio per eccellenza quale a prima vista pare essere Macbeth, si noterà che, come sostantivo e come verbo, fear e to fear presentano ben 35 occorrenze, la più alta fre-quenza relativa nel canone.”

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proprio nelle situazioni più comuni che il pattern relazionale fra Macbeth e Lady Macbeth può essere colto con maggior chiarezza—perlomeno da noi spettatori contemporanei, più allenati a fare ipotesi sulle relazioni di coppia in base alle “piccole cose” (chi apre la porta di casa agli ospiti? chi li intrattiene?) che in base all’esecuzione di un regicidio. Ebbene, sarà un caso, ma nella sesta scena del primo atto Macbeth non compare—“Where's the Thane of Cawdor?” domanda Duncan (I.vi.20)—ed è Lady Macbeth a fare gli “onori di casa”. E, presumibilmente, da quanto possiamo inferire dalle battute che i due si scam-biano nella scena successiva, è sempre lei a rimanere con gli ospiti durante la cena. Tale modalità si presenterà più volte nel corso del dramma, ed è sintoma-tica della tendenza di Macbeth a delegare alla moglie (o ad altri, come per e-sempio i tre assassini di Banquo) non solo il “lavoro sporco”, ma anche le più consuete relazioni sociali.

Prima di passare alle interazioni successive, vorrei infine osservare come la polarità semantica dipendenza/indipendenza (e quindi le emozioni pau-ra/coraggio), benché alla base del modo in cui Lady Macbeth—per ora—definisce la realtà, sia condivisa nella conversazione da entrambi i coniugi. In-fatti, sebbene durante il monologo Macbeth abbia mostrato di essere assillato da preoccupazioni di carattere etico, durante le battute che scambia con la moglie finisce per accettare totalmente la sua “mappa del mondo”, e l’unico parametro di valutazione diventa il “fattore rischio”:

MACBETH If we should fail?

LADY M. We fail! But screw your courage to the sticking-place And we'll not fail.

La terza interazione: “these deeds must not be thought after these ways”

Le nostre ipotesi, a questo punto del dramma, descrivono una coppia che comunica molto e in modo prevalentemente complementare, ma al tempo stesso con segreti latenti che contraddicono una lettura semplicistica che veda Lady Macbeth in posizione di one-up e il marito in quella di one-down. Da un punto di vista semantico, le polarità salienti della loro conversazione sono quella be-

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ne/male (che sembra condizionare soprattutto Macbeth) e quella dipenden-za/indipendenza. Le emozioni che ci attendiamo da loro, dunque, dovrebbero avere a che fare da una parte con le opposizioni “colpa/innocenza” e “disgu-sto/godimento dei sensi”, dall’altra con l’opposizione “paura/coraggio”. Le loro azioni, infine, si presume che saranno orientate ad atti particolarmente nobili o malvagi e da strategie di richiesta, offerta o rifiuto di aiuto e collaborazione. Il secondo atto, portando in scena non solo conversazioni ma anche azioni e rea-zioni dei due coniugi, ci permetterà di mettere alla prova tali ipotesi.

L’apertura della seconda scena del secondo atto è, in questo senso, quanto mai rivelatrice: “That which hath made them drunk hath made me bold” (II.ii.1), esordisce Lady Macbeth riferendosi all’ubriacatura, programmata in preceden-za, delle due guardie del corpo di Duncan. Tutto, persino il vino, può assumere connotati diversi in base alla polarità semantica d’elezione, e se per le guardie significa il passaggio dalla sobrietà all’ubriachezza, per Lady Macbeth—che vi-ve immersa in una polarità le cui emozioni-chiave sono paura e coraggio—comporta la differenza fra l’essere pavidi e l’essere audaci. E di audacia, in que-sta scena, i due coniugi ne avranno un notevole bisogno.

L’omicidio avviene fuori scena, e quando Macbeth ritorna la moglie lo acco-glie, significativamente, con un “My husband!” (II.ii.13). Ciò è molto appro-priato: Macbeth, finalmente, ha mostrato di saper passare dalle intenzioni ai fat-ti (“I have done the deed”, II.ii.14), di essere diventato un autentico “Bellona’s bridegroom”, e può quindi per la prima volta essere riconosciuto da Lady Ma-cbeth come marito—il tipo di marito che lei voleva. I versi che seguono metto-no in atto una vivace battaglia per la definizione di quanto è accaduto, defini-zione che si gioca in modo assai esplicito fra le due polarità semantiche ipotiz-zate. Proviamo dunque ad analizzarli in dettaglio:

MACBETH I have done the deed. Didst thou not hear a noise?

LADY M. I heard the owl scream and the crickets cry. Did not you speak?

MACBETH When?

LADY M. Now.

MACBETH As I descended?

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LADY M. Ay.

MACBETH Hark! Who lies i' th' second chamber?

LADY M. Donalbain. [II.ii.14-18]

In questo primo scambio, caratterizzato da estrema concitazione e da una se-rie di botta e risposta perlopiù monosillabici, l’emozione dominante è chiara-mente la paura. La pertinenza delle risposte è indice della cooperazione fra i due, cooperazione resa possibile dal fatto che Macbeth, messi temporaneamente da parte i suoi scrupoli morali, condivide qui con la moglie un comportamento basato sulla polarità dipendenza/indipendenza. Trascorso il primo istante di ten-sione, però, Macbeth volge lo sguardo alle proprie mani sporche di sangue, e la polarità bene/male prende subito il sopravvento:

MACBETH This is a sorry sight.

LADY M. A foolish thought, to say a sorry sight.

MACBETH There's one did laugh in 's sleep, and one cried “Murder!” That they did wake each other. I stood and heard them. But they did say their prayers and addressed them Again to sleep.

LADY M. There are two lodged together.

MACBETH One cried “God bless us” and “Amen” the other, As they had seen me with these hangman's hands. List'ning their fear I could not say “Amen” When they did say “God bless us.”

LADY M. Consider it not so deeply.

MACBETH But wherefore could not I pronounce “Amen”? I had most need of blessing, and “Amen” Stuck in my throat.

LADY M. These deeds must not be thought After these ways. So, it will make us mad.

MACBETH Methought I heard a voice cry “Sleep no more, Macbeth does murder sleep” the innocent sleep, Sleep that knits up the ravelled sleave of care, The death of each day's life, sore labour's bath, Balm of hurt minds, great nature's second course, Chief nourisher in life's feast.

LADY M. What do you mean?

MACBETH Still it cried “Sleep no more” to all the house, “Glamis hath murdered sleep, and therefore Cawdor Shall sleep no more, Macbeth shall sleep no more.”

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LADY M. Who was it that thus cried? Why, worthy thane, You do unbend your noble strength to think So brain-sickly of things. Go get some water And wash this filthy witness from your hand. [II.ii.18-45]

Rispetto alle battute immediatamente precedenti, la distanza emozionale fra i due è qui abissale. Mano a mano che Macbeth si abbandona all’orrore e al di-sgusto per il crimine commesso, e lascia che il rimorso—e, quindi, la polarità bene/male—prenda il sopravvento, Lady Macbeth comincia a reagire squalifi-cando le sue percezioni: “foolish thought”, “consider it not so deeply”, “these deeds must not be thought after these ways”, “to think so brain-sickly of things”, infatti, sono tutte considerazioni che non riguardano ciò che il marito afferma, bensì la capacità stessa del marito di afferrare e descrivere la realtà.29 Ciò a cui stiamo assistendo, dunque, è un attacco portato avanti sul piano meta-comunicativo, ma Macbeth pare non rendersene conto, e continua il suo discor-so sul piano del contenuto. Da qui la sensazione di incomunicabilità che le bat-tute sembrano convogliare.

Perché mai, viene da chiedersi, Lady Macbeth dovrebbe mostrarsi così sprezzante con il marito proprio ora che egli ha mostrato il suo “valore”? La mia ipotesi è che si tratti di una dinamica ben nota a chiunque si occupi di terapia della famiglia: quando il “paziente identificato” tende a dare segni di “miglio-ramento” (nel nostro caso, l’autonomia raggiunta da Macbeth sia nell’azione criminosa sia, soprattutto, nella reazione emotiva), qualcun altro in famiglia comincia a stare peggio, ad opporre resistenza, e l’intero sistema familiare—per il quale il sintomo rivestiva una funzione omeostatica—rischia di entrare in cri-si.30 Il fatto che Macbeth si sia rivelato in grado di compiere il regicidio ha in-

29 Nell’ambito degli studi sulla comunicazione familiare, questa frequentissima modalità di

comunicazione viene definita disconferma. Ecco come la descrive lo psicoterapeuta R.D. LAING: “[…] no matter how [a person] feels or how he acts, no matter what meaning he gives his situation, his feeling are denuded of validity, his acts are stripped of their mo-tives, intentions and consequences, the situation is robbed of its meaning for him, so that he is totally mystified and alienated.” (The Self and Others, Further Studies in Sanity and Madness, pp. 135-6).

30 Vedi L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 296: “Uno dei primi segnali per i ricercatori che un sintomo psichiatrico poteva essere un fenomeno familiare fu il fatto

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trodotto un turbamento nell’equilibrio della coppia, poiché vengono a mancare i presupposti per confrontarsi sulla sua inettitudine e sul suo bisogno di aiuto, sottraendo così margine d’azione e di argomentazione alla moglie e lasciando a Macbeth stesso la possibilità di leggere gli eventi secondo la polarità a lui più affine.

Un errore, un segno di incapacità da parte di Macbeth, sarebbe a questo pun-to provvidenziale, poiché permetterebbe alla relazione di riportarsi su binari co-nosciuti. E un errore è stato commesso:

LADY M. Why did you bring these daggers from the place? They must lie there. Go, carry them, and smear The sleepy grooms with blood.

MACBETH I’ll go no more. I am afraid to think what I have done, Look on ‘t again I dare not.

LADY M. Infirm of purpose! Give me the daggers. The sleeping and the dead Are but as pictures. ‘Tis the eye of childhood That fears a painted devil. If he do bleed I’ll gild the faces of the grooms withal, For it must seem their guilt. [II.ii.46-55]

Quale repentina trasformazione! Non appena Lady Macbeth individua una falla nell’azione del marito, la conversazione può procedere secondo il pattern ormai abituale, la comunicazione fra i due riprende, e la polarità dominante tor-na ad essere quella della dipendenza/indipendenza, mantenuta con tenacia da Lady Macbeth ridefinendo la reazione del marito in soli termini di paura, e mai di colpa. Coraggio e paura, così, sono nuovamente le emozioni salienti, e Lady Macbeth può finalmente ricorrere a modalità e metafore che riportano Macbeth nel ruolo di “bambino”: dandogli, cioè, un ordine (e, quindi, l’occasione di di-subbidire) e associando “fear” a “eye of childhood”. Ma c’è di più: dopo tanti interventi verbali, Lady Macbeth ha infine occasione di offrire un aiuto concre-to, quell’intervento “non metafisico”—“leave all the rest to me”—che aveva promesso (e imposto) a Macbeth fin dalla loro prima interazione.

spesso notato che se il disturbo del paziente designato migliorava, altri problemi potevano nascere.”

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Quando sviene Lady Macbeth?

A questo punto, tutti gli ostacoli che separavano la coppia dalla corona sono stati eliminati. In teoria, non rimane loro altro da fare che godersi il compimen-to—per quanto assai forzato—della profezia delle streghe. In realtà, come gli spettatori e Macbeth ben sanno, si tratta di un risultato parziale, sul quale in-combe un’enorme ombra. Ma per quanto è dato di sapere a Lady Macbeth, lei e suo marito sono davvero all’apice del successo, proprio come li vuole Freud. Lady Macbeth, in particolare, oltre a essere in procinto di diventare regina di Scozia, ha tutte le ragioni per ritenere di aver confermato in modo definitivo il proprio ascendente sul marito, e dunque il suo successo è doppiamente corona-to. Eppure, è proprio nella scena immediatamente successiva all’omicidio che ci è data occasione di assistere al suo primo segno di cedimento: Lady Macbeth sviene.

Lo svenimento di Lady Macbeth è già di per sé un fatto piuttosto incongruo e ambiguo. Alcuni commentatori lo interpretano come una messa in scena—un preteso svenimento—avente lo scopo di aiutare (ancora una volta) Macbeth ad uscire da una situazione assai critica. Altri, come Bradley, sono più propensi a cogliere in questo cedimento il primo sintomo di una spirale di rimorsi che la porterà al sonnambulismo e al suicidio.31 A prima vista, le ipotesi fino ad ora qui formulate parrebbero accordarsi meglio con uno svenimento preteso, soprat-tutto se finalizzato ad aiutare Macbeth, che con un improvviso quanto immoti-vato pentimento. Eppure, fra le motivazioni fornite da Bradley a favore dello svenimento autentico ce n’è una che, perlomeno in una lettura come quella qui proposta, non può essere sottovalutata: “she would not willingly have run the risk of leaving her husband to act his part alone”.32 Oltre ad essere un’osservazione assai sottile, riassume in modo egregio il tipo di relazione co-niugale che ho tentato di illustrare nelle pagine precedenti. Ma c’è anche un al-tro dato decisamente a favore dello svenimento autentico: come scopriremo

31 A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, p. 343. 32 Ibid., p. 458.

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nell’atto conclusivo del dramma, Lady Macbeth finirà comunque, e senza ombra di dubbio, per “soccombere”, come dice Freud. Ora, o si opta per un’interpretazione secondo la quale il cedimento avviene all’improvviso (o fuo-ri scena), oppure, se si ritiene che sia l’esito di un processo del quale la tragedia rende conto, lo svenimento nel secondo atto sembra essere un ottimo candidato per segnare l’inizio di una crisi—il punto di svolta.

Il principale problema dell’interpretazione di Bradley, a mio parere, non sta nell’inverosimiglianza delle motivazioni, quanto nella loro astrazione dal conte-sto. Se si afferma che Lady Macbeth sviene perché inizia a provare rimorsi, non si può poi al tempo stesso sostenere che il suo provare rimorsi è confermato dal fatto che sviene, come sembra suggerire Bradley: sarebbe una dimostrazione troppo circolare, che finirebbe per non spiegare alcunché. Se mai una giustifica-zione per lo svenimento di Lady Macbeth esiste, questa va cercata tenendo con-to dei contesti relazionali e situazionali entro i quali avviene.

Propongo, quindi, di ripercorrere brevemente gli eventi che conducono al grido “Help me hence, ho!” e alla successiva perdita di sensi. Macduff, uscito di scena per andare a chiamare Duncan, rientra gridando “O horror, horror, hor-ror!” e annunciando il più sacrilego degli assassinii (II.iii.62-73). Macbeth e Lennox si precipitano nella stanza del re per constatare con i propri occhi la tra-gedia. Nel frattempo, entrano in scena Lady Macbeth e Banquo. Alla notizia del regicidio, Lady Macbeth ha una reazione divenuta famosa per la sua inopportu-nità—“Woe, alas! What, in our house?” (II.iii.86-87)—ma in realtà assoluta-mente coerente con quanto sappiamo del suo sistema di polarità semantiche.33 Seccamente rimbrottata da Banquo con il suo “Too cruel anywhere”, Lady Ma-cbeth assiste, senza mostrare segni di cedimento, al rientro del marito e di Len-nox e al loro terribile resoconto. In fin dei conti, ciò che stanno descrivendo è materia a lei ben nota, no? Oppure no? Ecco i cruciali versi immediatamente precedenti lo svenimento: 33 Cfr. K. ELAM, “«Thou’rt mad to say it»: Seven types of ineffability in Macbeth”, p. 204:

“Lady Macbeth, at Macduff’s announcement of the non-news regarding the King’s mur-der, produces what appears to be an almost comically inappropriate and inadequate re-sponse, brief, elliptical and oblique, making no reference to the event or to her emotional state and expressing only proprietorial concern over the venue”.

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LENNOX Those of his chamber, as it seemed, had done 't. Their hands and faces were all badged with blood, So were their daggers, which, unwiped, we found Upon their pillows. They stared and were distracted. No man's life was to be trusted with them.

MACBETH O, yet I do repent me of my fury That I did kill them.

MACDUFF Wherefore did you so?

MACBETH Who can be wise, amazed, temp'rate and furious, Loyal and neutral in a moment? No man. Th' expedition of my violent love Outran the pauser, reason. Here lay Duncan, His silver skin laced with his golden blood, And his gashed stabs looked like a breach in nature For ruin's wasteful entrance; there the murderers, Steeped in the colours of their trade, their daggers Unmannerly breeched with gore. Who could refrain, That had a heart to love, and in that heart Courage to make 's love known?

LADY M. Help me hence, ho! [II.iii.101-118]

A quanto pare, qualcosa di cui Lady Macbeth poteva non essere a conoscen-za c’è: suo marito ha ucciso le guardie. Rispetto all’enormità di quanto accadu-to, questo può apparire un particolare irrilevante. Se però consideriamo la tacita regola della coppia (il “tenersi informati” affrontato nelle sezioni precedenti), la reazione spropositata di Lady Macbeth all’annuncio dell’inatteso arrivo di Dun-can (I.vii.47-48), la sua avversione alle variazioni rispetto ai piani concordati (2.2.46-48) e il fatto che, nel pur dettagliatissimo piano del regicidio (da lei stessa predisposto), l’uccisione delle guardie non fosse affatto contemplata, non ci è difficile intuire come questa iniziativa personale di Macbeth possa essere considerata, nell’economia della coppia, un’ennesima violazione. Più grave an-cora, la nuova definizione di “uomo” qui offerta da Macbeth (II.iii.108-109) si prefigura come una vera e propria sfida alla moglie, sfida ulteriormente sottoli-neata dalla frase che precede lo svenimento e che riprende—volutamente?—un precedente accostamento di Lady Macbeth fra coraggio e amore: “Who could refrain, / That had a heart to love, and in that heart / Courage to make 's love known?”

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Questa improvvisa rivelazione del marito mette radicalmente in crisi tutti gli equilibri della coppia e le loro stesse “mappe del mondo” per ben tre ragioni:

1. L’uccisione delle guardie è la prima—di una lunga serie—azione delit-tuosa che Macbeth progetta e porta a termine senza bisogno dell’aiuto della moglie.

2. Al tempo stesso, è un’azione strategicamente saggia (come riconoscerà Lennox in 3.6.14).

3. Infine, è un’azione che rientra perfettamente nella definizione di “agire da uomo” secondo i parametri Lady Macbeth. Anzi, ci rientra fin troppo.

È importante sottolineare il “fin troppo”, perché è proprio l’esagerazione la chiave che ci permette di comprendere fino a che punto la rivelazione di Ma-cbeth possa aver sconvolto la moglie. Proviamo, infatti, a riconsiderare il dop-pio legame nel quale Lady Macbeth costringe il marito (vedi figura 5.2). A quanto pare, Macbeth ha escogitato un modo per uscirne: comportandosi in mo-do troppo ardito, è riuscito a “ubbidire disubbidendo”, soddisfacendo così l’ingiunzione ad essere adulto sia sul piano del contenuto sia su quello della re-lazione. Si tratta di una mossa strategica affine a quella nota come “amplifica-zione del sintomo”, alla quale i terapeuti della famiglia a volte ricorrono per sbloccare pattern relazionali particolarmente resistenti al cambiamento. Ma qui non siamo nel contesto protetto di una terapia, anzi: siamo nel bel mezzo di una fra le più violente tragedie mai scritte. Il rischio immediato al quale la coppia va incontro è quello dell’isolamento: Lady Macbeth senza più nessuno da “accudi-re”, Macbeth senza più nessuno che lo aiuti. Se la lettura fino ad ora proposta ha qualche validità, dunque, non c’è da stupirsi che Lady Macbeth perda i sensi proprio in questo esatto frangente del dramma: ha appena scoperto che il “mo-stro” da lei creato si è ormai completamente sottratto al suo controllo.

La quarta interazione: “Be innocent of the knowledge, dearest chuck”

Nel terzo atto assistiamo alle prime conseguenze del crollo della relazione fra Macbeth e la moglie. Nella prima scena, completamente all’insaputa di Lady Macbeth, che sta perdendo il suo ruolo di “aiutante/dominatrice”, Macbeth si

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rivolge ai tre assassini per commissionare loro l’omicidio di Banquo e di Flean-ce. La scena successiva si apre proponendoci una situazione tanto inedita quan-to prevedibile: Lady Macbeth, ora regina, si presenta giù di tono, delusa per la “dubbia gioia” nella quale è ormai condannata a sopravvivere. Quando il mari-to, su sua esplicita richiesta (“Say to the King I would attend his leisure / For a few words”, III.ii.3-4), la raggiunge, la prima domanda che ella gli pone è sin-tomatica della svolta impressa al loro rapporto dalla recente crisi: “How now, my lord, why do you keep alone” (III.ii.10). Il processo che li condurrà a un progressivo isolamento è dunque già ampiamente avviato, e risulta qui amplifi-cato dal fatto che Lady Macbeth, pur condividendo—perfino a livello lessica-le—le angosce del marito, non ne venga da lui resa partecipe. Pensano gli stessi pensieri, ma ciascuno li pensa per proprio conto.

In effetti, l’intera seconda scena del terzo atto, se considerata come uno stu-dio sul linguaggio allusivo e sulla reticenza fra coniugi, è un vero capolavoro, impregnata com’è di sospetti non esplicitati, di intenzioni appena accennate e subito occultate, di tentativi di comunicazione abortiti sul nascere.34 Benché i due coniugi si riferiscano, con locuzioni vaghe e metaforiche, a un non meglio precisato senso di incompiutezza (“Naught's had, all's spent, / Where our desire is got without content”, dice Lady Macbeth; e il marito le fa eco con “We have scorched the snake, not killed it”), il cono d’ombra attorno al quale si sviluppa il dialogo—il nucleo semantico che dà coesione lessicale e coerenza psicologica all’intero scambio—è evidentemente Banquo. Sintomatica, per esempio, la do-manda d’esordio di Lady Macbeth (“Is Banquo gone from court?”, III.ii.1). Per-fide, invece, le due allusioni di Macbeth (“Let your remembrance / Apply to Banquo...”, III.ii.31-32; “Thou know’st that Banquo and his Fleance lives...”, III.ii.38), entrambe volutamente lasciate in sospeso dal magistrale “Be innocent

34 A questo proposito, è curioso che due grandi registi come Polanski e Welles, nei loro ri-

spettivi Macbeth cinematografici, abbiano scelto—discostandosi dalla stage direction co-munemente adottata—di lasciare Lady Macbeth a fianco del marito quando egli pronuncia il famoso monologo della prima scena del terzo atto (quello nel quale si riferisce in modo esplicito al “problema Banquo”). In tal modo, la sottigliezza psicologica della seconda scena, e più in generale della relazione fra Macbeth e Lady Macbeth, risulta notevolmente penalizzata.

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of the knowledge, dearest chuck, / Till thou applaud the deed” (III.ii.46-47)—la risposta con la quale Macbeth, privando di ogni valore due precedenti afferma-zioni della moglie (rispettivamente, “Thy letters have transported me beyond / This ignorant present”, I.v.55-56; e “Leave all the rest to me”, I.v.72), conquista definitivamente la posizione di one-up.35

Circa quest’ultimo verso, vale la pena soffermarci un istante sull’uso di “chuck”, poiché usato in questo contesto è un termine perlomeno insolito: senti-re Macbeth rivolgersi alla sua istigatrice dal cuore di pietra—come la vorrebbe Freud—con un “pulcino mio” (o “cocca”, come alcuni hanno tradotto) certo non passa inosservato! Vivian Salmon, in un saggio sull’inglese colloquiale elisabettiano, annota “chuck” fra i termini usati per esprimere affetto, aggiungendo però che “non è comunemente usato con le mogli e gli amici intimi”.36 Secondo me, qui non si tratta né di una “spia di volgarità” né di una semplice espressione di affetto: a livello performativo-strategico, l’uso di “chuck” sottolinea e rafforza il rovesciamento complementare della posizione di Macbeth da one-down a one-up. Nelle tragedie, Shakespeare lo impiega altre tre volte, e sempre in circostanze assai particolari: due volte in bocca a Othello (“What promise, chuck?”, III.iv.49; “Pray you, chuck, come hither”, IV.ii.25) per rivolgersi a Desdemona quando già è completamente in preda alla gelosia, convinto del tradimento; e una volta in Antony and Cleopatra (“No, my chuck. Eros, come, mine armour, Eros!”, IV.iv.2). Quest’ultima occorrenza, in particolare, si presenta in una situazione curiosamente simile a quella di Macbeth, e nella quale l’uso di “chuck” sembra quanto meno inopportuno. Antony, ormai sull’orlo del baratro, sta preparandosi a una battaglia che sarà sì vittoriosa, ma che prelude alla sua sconfitta definitiva. Cleopatra cerca di calmarlo adottando una strategia squisitamente “ladymacbethiana”: “Sleep a lit-tle” (IV.iv.1). E anche qui il “chuck” della replica di Antony sottolinea un 35 Non a caso, è proprio in questo esatto punto del dramma che W. EMPSON individua il salto

di livello nell’evoluzione di Macbeth “into a new, into the accustomed, readiness for mur-der” (Seven Types of Ambiguity, 1930; per la citazione, vedi il capitolo “Ambiguity of the first type” nella raccolta antologica curata da D. LODGE, 20th Century Literary Criticism, London, p.149).

36 V. SALMON, “L’inglese colloquiale elisabettiano nelle commedie di Falstaff”, in K. ELAM (a cura di), La grande festa del linguaggio, pp. 242-243.

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della replica di Antony sottolinea un ribaltamento di posizione, per quanto tem-poraneo, da one-down a one-up.

La domanda da porsi, a questo punto, mi pare debba essere: come si è resa possibile una simile inversione dei rapporti di potere? Se questa fosse un’analisi focalizzata sui personaggi come individui, la risposta avrebbe probabilmente a che fare con: a) la capacità acquisita da Macbeth di mantenere segreti tali da permettergli di muoversi indipendentemente dalla moglie; e b) l’incipiente “ammorbidimento” di Lady Macbeth, che comincia a cedere ai rimorsi. Entram-be queste spiegazioni rimangono valide anche nell’ambito di un’analisi relazio-nale, ed è interessante osservare come riflettano le due polarità semantiche di-pendenza/indipendenza e bene/male. Non sono, però, sufficienti a offrire una lettura che tenga conto del contesto relazionale entro il quale avviene il cam-biamento. In altre parole, come sono collegate fra loro queste due notevoli va-riazioni della “danza familiare” dei Macbeth? Ritengo che gli elementi e le ipo-tesi fino ad ora raccolte ci permettano di avanzare qualcosa di più di una sem-plice supposizione: il “gioco” non può più andare avanti come prima perché so-no venuti a mancare i presupposti per una regola fondamentale della coppia, e cioè quella che prevede che Lady Macbeth aiuti e che Macbeth si lasci aiutare.

Se ripercorriamo con attenzione il dialogo della seconda scena, infatti, non avremo difficoltà ad accorgerci che, nonostante l’evidente panico del quale en-trambi sono preda, Lady Macbeth non è mai in grado di condividere con Ma-cbeth la propria fragilità e la propria debolezza. Cosa la blocca? O meglio, quale strategia adotta per impedirsi di aprire il proprio cuore al marito? Proviamo a ri-leggere i punti pragmaticamente salienti dei suoi interventi:

• Things without all remedy Should be without regard. What's done is done.

• Come on, gentle my lord, Sleek o'er your rugged looks, be bright and jovial Among your guests tonight

• You must leave this.

• But in them nature's copy's not eterne.

• What's to be done?

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Se ne isoliamo l’aspetto performativo, questi versi sembrano dire tutti la stessa cosa: “eccomi, sono qui per aiutarti”. La loro straordinaria somiglianza ci dà un’idea quasi “quantitativa” della rigidità del pattern relazionale dei Ma-cbeth:37 l’unica modalità con la quale Lady Macbeth sa rapportarsi al marito è quella dell’offerta di aiuto. Ma il problema è che ora Macbeth non ha più biso-gno dell’aiuto della moglie. La situazione, per lei, si sta facendo estremamente pericolosa: non solo sta scoprendo di essere diventata inutile, ma addirittura ri-schia di “perdere il posto”, cioè non le è più consentita quella posizione di “in-dipendente”—lungo l’asse semantico dipendenza/indipendenza—che rappre-sentava la sua nicchia familiare d’elezione. Lady Macbeth, se vuole sopravvive-re, dovrà tentare di “riciclarsi”.

Già, ma cosa significa “riciclarsi” nell’ambito di un “mercato del lavoro” dalle alternative così ridotte come quello dell’economia familiare? Consideran-do le polarità salienti della famiglia Macbeth, significa che a Lady Macbeth non rimarrà altro che cercare una collocazione lungo l’unico altro asse semantico da loro condiviso, e cioè quello bene/male. Il processo sarà ragionevolmente lungo e, considerando i suoi “precedenti penali”, c’è da supporre che Lady Macbeth tenterà l’impossibile pur di evitare una ridefinizione del proprio ruolo in base a parametri etici, ma è un processo che pare aver già avuto inizio. D’altro canto, se la posizione di “cattivo” verrà occupata da Lady Macbeth, anche Macbeth si ritroverà in parte spodestato, ed è ragionevole attendersi un suo sempre più de-ciso spostamento verso la polarità semantica indipendenza/dipendenza, ed an-che questo è un fenomeno che in una certa misura abbiamo già potuto apprezza-re. La conferma di questi sconvolgimenti, se conferma ci sarà, ci verrà offerta dalla redistribuzione delle emozioni familiari fra i due coniugi.

37 Circa la rigidità delle loro modalità, possiamo qui notare un fenomeno già rilevato in pre-

cedenza, e cioè come Lady Macbeth tenda a verbalizzare ciò che Macbeth ha già deciso per proprio conto: “But in them nature's copy's not eterne”, dice, infatti, riferendosi a Ban-quo e Fleance.

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Hecate, l’isotopia dell’esclusione e le profezie autoavverantesi

Prima di proseguire, vorrei proporre una breve digressione su alcune drama-tis personae che, pur non essendo direttamente coinvolte nella relazione coniu-gale dei Macbeth, la influenzano e la riflettono in modo singolare: le streghe. Possiamo cominciare mettendo in rilievo un banale parallelismo: sia nella scena d’apertura sia nel terzo atto le streghe “anonime” sono tre, proprio come gli as-sassini. Il ruolo che svolgono rispetto all’azione, però, è assai diverso: il loro agire, infatti, si limita perlopiù all’annunciare il futuro e, di conseguenza, incita-re Macbeth. Ciò le rende, dunque, funzionalmente più affini a Lady Macbeth (con la quale condividono anche un certo modo di esprimersi, come abbiamo osservato), e per la precisione alla Lady Macbeth del primo atto.

Nella quinta scena del terzo atto, alle tre streghe anonime se ne aggiunge una quarta, il cui nome è già echeggiato due volte nella parole di Macbeth (in II.i.52 e in III.ii.42): Hecate. Si tratta di una scena che la maggior parte dei filologi tende ad attribuire a Middleton—o, perlomeno, non a Shakespeare—per ragioni legate a testimonianze dell’epoca, allo schema metrico e, soprattutto, alla pre-senza di una canzone ripresa da (o prestata a?) The Witch dello stesso Middle-ton.38 Non mancano, comunque, pareri di segno diverso, come per esempio quello di Serpieri, il quale sottolinea la funzionalità della scena sia all’impianto drammatico sia a quello tematico dell’intera tragedia.39

Non avendo competenze in campo filologico, mi astengo dall’avanzare ipo-tesi personali circa il problema dell’attribuzione. C’è però un aspetto della rela-zione fra Hecate e le altre streghe che riprende, esplicitandola ed amplificando-la, una modalità già riscontrata in Lady Macbeth. Poiché, per il tipo di analisi che sto conducendo, questa ripetizione si viene a configurare come una sorta di isotopia relazionale, ritengo valga la pena dedicarvi attenzione. Ecco dunque i bizzarri versi con i quali Hecate si rivolge alle sue tre “colleghe” in occasione del suo prorompente ingresso in scena:

38 Cfr. K. MUIR (a cura di), Macbeth, pp. xxxii-xxxv. 39 Vedi A. SERPIERI (a cura di), Macbeth, pp. 116-117.

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Have I not reason, beldams as you are? Saucy and over-bold, how did you dare To trade and traffic with Macbeth In riddles and affairs of death, And I, the mistress of your charms, The close contriver of all harms, Was never called to bear my part Or show the glory of our art? And, which is worse, all you have done Hath been but for a wayward son, Spiteful and wrathful, who, as others do, Loves for his own ends, not for you. [III.v.2-13]

Hecate, evidentemente, è furiosa, come intuisce la prima strega al solo ve-derla apparire (“Why, how now, Hecate? You look angerly.”, III.v.1). Il motivo per cui è così arrabbiata è uno soltanto: è stata esclusa. Esclusa da che cosa? Esclusa dal “fare la sua parte” (“to bear my part”). Detto altrimenti, le tre “sorel-le fatali” hanno preso un’iniziativa senza renderla partecipe, e questo, a quanto ci è dato di capire, viola le norme che regolano il loro rapporto con Hecate. Già, perché Hecate è, come lei stessa si definisce, “the mistress of your charms / the close contriver of all harms”. Ora, chiunque sia l’autore di questi versi e per quanto possa essersi scostato dal piede trocaico caratteristico della parlata delle altre streghe, penso gli si possa dare atto di essersi mantenuto straordinariamen-te coerente con i passi di danza della coreografia emotiva che Macbeth e Lady Macbeth hanno allestito sin dal primo atto. Anche Macbeth, come le tre streghe, ha avuto l’insolenza di “trafficare in affari di morte” senza coinvolgere la mo-glie. E Lady Macbeth, la quale ha più volte fatto notare al marito di essere “the mistress of [his] charms” e la “close contriver of all harms”, sembra non aver gradito l’esclusione più di quanto l’abbia gradita Hecate. Magari sta persino cominciando a sospettare che egli agisca “for his own ends, not for [her]”. Cer-to, questa è null’altro che una fragile ipotesi, così come potrebbe essere solo una fortuita coincidenza se l’ultimissima battuta che sentiremo pronunciare da Lady Macbeth (“Come, come, come, come...”, V.i.64) sembra riprendere la can-zone con la quale Hecate esce di scena (“I come, I come, I come, I come...”, III.v.40). Rimane il fatto che la comparsa e l’intervento di Hecate contribuisco-

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no, anche su un piano stretta-mente emozionale, a conferire ulteriore unità al dramma.

A conclusione di questa ra-pida incursione nella dimensio-ne “magica” di Macbeth, vorrei considerare le affinità—questa volta tutt’altro che fortuite—fra le ultime due profezie del primo atto e un fenomeno, ben noto nell’ambito della terapia della famiglia, noto come “profezia auto-avverantesi”. “The self-fulfilling prophecy,” scrive Paul Watzlawick, “from the interactional viewpoint, is perhaps the most interesting phenomenon in the area of punctuation. A self-fulfilling prophecy maybe regarded as the communicational equivalent of «begging the question». It is behavior that brings about in others the reaction to which the behavior would be an appropriate reaction. For instance, a person who acts on the prem-ise that «nobody likes me» will behave in a distrustful, defensive, or aggressive manner to which others are likely to react unsympathetically, thus bearing out his original premise.”40

La profezia relativa al “diventare re” e quella sulla stirpe di Duncan potreb-bero essere considerate self-fulfilling prophecies? E, in caso positivo, cosa si-gnificherebbe ciò? Per tentare di rispondere, proviamo a partire considerando il ruolo della profezia sul “diventare re” secondo un modello ormai classico, quel-lo attanziale mitico di Greimas (vedi Fig. 5.3).41 È una rappresentazione assai particolareggiata, ma il suo livello di astrazione è talmente elevato da farla risultare a mio avviso poco utile per comprendere come funziona la profezia. Se da una parte è evidente che le streghe hanno funzione destinante sull’asse del sapere, in che modo aiutano Macbeth sull’asse del potere, visto che non in-

40 P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communiation, pp. 98-99. 41 La figura è tratta da A. SERPIERI, Retorica e immaginario, p. 205.

Destinatore(streghe)

Destinatario(Macbeth)

SAPERE

Oggetto (regno)

VO

LE

RE

Soggetto (Macbeth)

Aiutante(streghe)

Oppositore (Duncan)

POTERE

Fig. 5.3: la profezia delle streghe secondo il modello attanziale mitico di Greimas (da Serpieri, Retorica e immaginario, 1986)

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tervengono mai? La metà superio-re dello schema proposto in figu-ra 5.4, eviden-ziando la circo-larità fra la pro-fezia (quindi, il sapere) e il suo

compimento (il potere), offre una possibile spiegazione: Macbeth crede di esse-re destinato a diventare re (e teme di dover far ricorso alla violenza), quindi si comporta con la moglie di conseguenza—cioè, scrivendole—e quest’ultima re-agisce aiutandolo a (o imponendogli di) diventare re. Analoga, e forse più chia-ra, è la dinamica che sottende al compimento della terza profezia: in questo ca-so, è evidente come proprio il timore di perdere la corona sia la causa scatenante delle (re-)azioni che condurranno Macbeth a perderla.

La quinta interazione: “Are you a man? Ay, and a bold one!”

Da un punto di vista strettamente relazionale, la quarta e ultima interazione fra i due coniugi (il banchetto: atto terzo, scena quarta) non propone alcunché di nuovo. La comunicazione continua a basarsi su tattiche alle quali ormai siamo abituati, e le polarità semantiche soggiacenti a definizioni ed emozioni sono an-cora bene/male e dipendenza/indipendenza. Ciò non significa, però, che all’interno della coppia non avvenga alcun cambiamento: di cambiamenti, come vedremo, ce ne sono eccome. Piuttosto, significa che i cambiamenti si sviluppa-no entro una cornice di riferimento—un metalivello, dunque—che è sempre la stessa dall’inizio del dramma. Poiché, come si è detto nel secondo capitolo, è esattamente su questa “coerenza di secondo livello”, più che sulle singole azio-ni, che si fonda la possibilità di una mimesi delle relazioni familiari, propongo di porre comunque la dovuta attenzione anche a quest’ultima interazione, e in particolare all’individuazione di pattern ricorrenti e variazioni inattese.

PROFEZIA 2: “sarò re”

(RE-) AZIONE: scrivere a Lady M.

REAZIONE: “devi uccidere il re”

PROFEZIA 3: “non rimarrò re”

(RE-) AZIONE: uccidere i rivali

REAZIONE: tutti in guerra contro me

Fig. 5.4: le profezie delle streghe secondo il modello della self-fulfilling prophecy

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Le battute di esordio, nel loro avvicendarsi di turn-taking senza sorprese, condensano in pochi versi la modalità relazionale paradigmatica dei Macbeth:

Banquet prepared. Enter Macbeth as King, Lady Macbeth as Queen, Ross, Lennox, Lords, and attendants. [Lady Macbeth sits]

MACBETH You know your own degrees; sit down. At first and last The hearty welcome.

LORDS Thanks to your majesty. They sit

MACBETH Ourself will mingle with society And play the humble host. Our hostess keeps her state, But in best time we will require her welcome.

LADY M. Pronounce it for me, sir, to all our friends, For my heart speaks they are welcome. [III.iv.1-7]

Macbeth, come sempre impacciato quando costretto a muoversi in società, rivolge a Lady Macbeth una richiesta di aiuto, tentando di delegarle il “benve-nuto”—non subito, “in best time”... e anche questa dilazione non dovrebbe sor-prenderci. Lady Macbeth, seppure con l’impareggiabile cortesia verso gli ospiti che già in altre occasioni ha avuto modo di mostrare, gli rifiuta esplicitamente l’aiuto richiesto. Dunque, una variazione (il rifiuto) entro un frame abituale (la richiesta di aiuto). Questo doppio livello del comportamento è tipico di un gruppo sociale come la famiglia, di un gruppo, cioè, che è al tempo stesso un aggregato di individualità e un’unità dotata di regole proprie. A tal proposito, è interessante osservare come ciò che dall’esterno può “funzionare” come un gar-bato scambio di convenevoli, visto alla luce delle regole intrinseche alla fami-glia possa rivelarsi un condensato di frasi pungenti, sfide, rancori e vendette. Detto altrimenti, l’atto linguistico che si cela dietro al “Pronounce it for me” di Lady Macbeth può essere tradotto sia come un neutrale “lascio a te l’onore, ca-ro” sia come “credevi di non avere più bisogno del mio aiuto, eh? Bene, vedia-mo un po’ come te la cavi da solo…”.

Comunque sia da intendere il rifiuto di Lady Macbeth, i versi immediata-mente successivi ci dimostrano che, senza il suo aiuto, gli esiti sono quanto me-no deludenti. Il primo assassino, infatti, rivela a Macbeth che il piano per sop-primere Banquo e Fleance è parzialmente fallito. La reazione relativamente composta di Macbeth appare quasi sorprendente. In realtà, anche in questo caso

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assistiamo all’ennesima messa in atto della tattica del rimandare: “Get thee gone. Tomorrow / We’ll hear ourselves again” (III.iv.30-31).

Il resto della scena ci offre infine la rappresentazione di quello che, senza timore di esagerare, possiamo definire un autentico episodio psicotico. Quale che sia la natura dello spettro di Banquo (allucinazione? fenomeno soprannatu-rale?), infatti, il plateale comportamento di Macbeth durante il banchetto pre-senta caratteristiche tipicamente egodistoniche, portandolo per esempio a rifiu-tare contro ogni evidenza il fatto che il posto a lui riservato è libero, e a perdere completamente l’autocontrollo nonostante la presenza dei nobili di Scozia. Premetto che sono alquanto restio ad applicare categorie diagnostiche della psi-chiatria contemporanea all’analisi di un personaggio teatrale di una tragedia che ha ormai quattro secoli, così come mi lascia assai perplesso il ricorso al concet-to di “patologia” per comportamenti ovviamente dettati da esigenze puramente drammatiche. Ciò che, in questo caso particolare, mi spinge ad osare più del so-lito è che il testo stesso trabocca di riferimenti diretti al disturbo mentale di Ma-cbeth. E non tanto perché Macbeth dichiara di avere una “strange infirmity” (III.iv.85) e viene definito dalla moglie “quite unmanned in folly” (III.iv.72), quanto per l’atmosfera di imbarazzo—“If much you note him / You shall offend him” (III.iv.55-56)—che si crea attorno al suo modo di comportarsi, segnalata dal tentativo disperato, portato avanti da Lady Macbeth, di ridurre la gravità dell’episodio riconducendolo a un’assai poco convincente condizione di “nor-malità”: “My lord is often thus” (III.iv.52), “The fit is momentary” (III.iv.54), “Think of this, good peers, / But as a thing of custom” (III.iv.95-96).

Alla fine, anche Lady Macbeth deve rassegnarsi ad ammettere apertamente che la situazione è divenuta insostenibile (“You have displaced the mirth, broke the good meeting / With most admired disorder”, III.iv.108-109), e si trova co-stretta a congedare brutalmente gli invitati:

I pray you, speak not. He grows worse and worse. Question enrages him. At once, good night. Stand not upon the order of your going, But go at once. [III.iv.116-119]

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Conoscendola (e ormai possiamo dire di conoscerla piuttosto bene), non è difficile percepire quale senso di sconfitta e umiliazione traspaia da questi versi, sublimi per il loro realismo e per il carattere di urgenza che trasmettono. Lei, la “sweet remembrancer” (III.iv.36) dal contegno impeccabile, l’ospite irreprensi-bile e talmente attenta alle formalità da reagire con un “What, in our house!” al-la notizia dell’omicidio di Duncan, proprio lei è ora obbligata a supplicare i convitati di ignorare l’etichetta (“Stand not upon the order of your going”) pur di allontanarli nel più breve tempo possibile.

Macbeth, dunque, è a questo punto “ufficialmente” malato. Già, ma di che genere di malattia? E, soprattutto, a quale funzione adempiono i suoi sintomi nell’ambito dell’economia familiare? Per tentare un’ipotetica risposta alla prima domanda, invece di ricorrere troppo precipitosamente al capiente ombrello della schizofrenia (una “diagnosi” sotto molti punti di vista esagerata per un uomo che, pur fra mille difficoltà, continuerà a portare avanti un compito complesso come è quello di gestire un regno), propongo di dare una breve occhiata ai tre tratti salienti della sintomatologia classica del cosiddetto disturbo ossessivo-compulsivo:

A Ossessioni come definite da 1, 2, 3 e 4: 1 pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche

momento nel corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia e disagio marcati;

2 i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale;

3 la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o im-magini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni;

4 la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessive sono un prodotto della propria mente.

Compulsioni come definite da 1 e 2: 1 comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare),

o azioni mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione, o secondo regole che devono essere applicate rigidamen-te;

2 i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il di-sagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.

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B In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o le compulsioni sono eccessive o irragionevoli.

C Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tem-po (più di un’ora al giorno), o interferiscono significativamente con le nor-mali abitudini della persona, con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività o relazioni sociali usuali.42

Ora, anche senza ricordare episodi platealmente compulsivi come il riferi-mento al lavaggio del sangue dalle mani (II.ii.57-61), penso si possa riconoscere che vi è un notevole margine di sovrapponibilità fra questi sintomi e il compor-tamento di Macbeth, in particolare per quanto riguarda il suo continuo oscillare fra stati allucinatori e periodi di iperattività, una forma di coazione a ripetere che lo porta, in una spirale inarrestabile, a reagire ai rimorsi con la violenza e al-la violenza con i rimorsi. Al tempo stesso, se pur si giungesse a “incasellare” Macbeth nella definizione di ossessivo-compulsivo, non credo si sarebbe fatto alcun passo avanti nell’interpretazione di quanto avviene sulla scena. Ciò che mi pare assai più significativo è che la nevrosi ossessivo-compulsiva pare sia una manifestazione patologica tipica delle famiglie nelle quali la polarità se-mantica bene/male abbia una rilevanza primaria: “[Nelle] famiglie al cui inter-no si sviluppano organizzazioni a orientamento ossessivo-compulsivo, […] al centro della dinamica emotiva vi è la contrapposizione fra bene e male. La pola-rità semantica critica è «buono/cattivo». Tale polarità è, in queste famiglie, sa-liente”,43 scrive Ugazio. E aggiunge un’osservazione che, a mio parere, ben si presta a descrivere le rare manifestazioni di “bontà” presenti in Macbeth, sia nel contesto della coppia regale sia, più in generale, in personaggi dal comporta-mento non sempre ineccepibile, come per esempio Banquo (il quale, pur essen-do, in quanto leggendario capostipite di James I, teoricamente l’eroe “topico” di questa tragedia senza eroi, non fa nulla per impedire il regicidio e l’ascesa al trono di Macbeth): “Ciò che contraddistingue queste famiglie non sono soltanto la polarità «bene/male» e i processi schismogenetici di cui è oggetto, ma soprat-tutto l’adesione a una concezione «sottrattiva» della bontà: buono è chi rinuncia

42 AA.VV., Mini DSM-IV. Criteri diagnostici. pp. 230-2. 43 Vedi V. UGAZIO, Storie permesse storie proibite, cap. 5, “La semantica del sacrificio: la

nevrosi ossessivo-compulsiva”, p. 185.

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all’espressione dei propri desideri e interessi, chi si sacrifica, chi si allontana dalla dinamica «pulsionale», e non chi è disponibile, accogliente, garbato e ge-neroso verso gli altri. Cattivo è invece chi sa esprimere la propria sessualità e le proprie «pulsioni» aggressive”.44

Tornando ora alla “strange infirmity” di Macbeth, se la si considera da una prospettiva meno psichiatrica e più sistemica occorre partire dall’ipotesi che un sintomo non è mai soltanto una somma di comportamenti provocati da cause più o meno note: un sintomo è anzitutto funzionale al sistema. Più esattamente, ten-de a svolgere una funzione omeostatica, cioè aiuta a lasciare le cose come stan-no. C’è qualche traccia, nella scena del banchetto, di questa tendenza all’omeostaticità? Possiamo iniziare con l’osservare che il “sofferto” congedo di Lady Macbeth (III.iv.116-119) del quale si è parlato poc’anzi, a ben guardare, non è per lei così umiliante come potrebbe a prima vista apparire: poiché tutti gli invitati sono stati testimoni diretti della follia di Macbeth e degli sforzi della moglie per arginarne le conseguenze, il comportamento di Lady Macbeth duran-te il banchetto, in realtà, risulta—ai loro come ai nostri occhi—pressoché eroi-co. In fin dei conti, si potrebbe dire che ce l’ha messa tutta. Dunque, l’effetto immediato della “malattia” di Macbeth è stato quello di concedere alla moglie l’ennesima—forse l’ultima—possibilità di intervenire in suo aiuto. Non a caso, anche in questa scena la “sweet remembrancer” coglie l’occasione per ridefinire le angosce il marito come puerilità e trattarlo come un infante: “O, these flaws and starts, / Impostors to true fear, would well become / A woman's story at a winter's fire / Authorized by her grandam. Shame itself, / Why do you make such faces?” (III.iv.62-66). Non solo: di nuovo, ci è data l’opportunità di assi-stere a una lotta serrata per la definizione del significato di “uomo”—ormai il vero e proprio leit-motif della coppia.

Rispetto al primo atto, però, Macbeth è ora decisamente più assertivo: alla domanda retorica “Are you a man?”, non esita ad abbandonare l’asse di riferi-mento bene/male e, accogliendo la sfida della moglie, a ridefinirsi secondo le

44 Ibid., p. 186. Per i “processi schismogenetici”, cioè i processi di differenziazione progres-

siva del comportamento che portano a relazioni simmetriche o complementari, vedi G. BATESON, Verso un’ecologia della mente, pp. 101-114.

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emozioni caratterizzanti della polarità dipendenza/indipendenza, ossia paura e coraggio: “Ay, and a bold one, that dare look on that / Which might appal the devil” (III.iv.57-59). Di questa progressiva dislocazione fra polarità semanti-che—Macbeth sempre più orientato verso la dipendenza/indipendenza, Lady Macbeth lentamente costretta a misurarsi con la polarità bene/male—si era già avuto qualche presagio nel secondo atto (vedi sezione “La quarta interazione”). Ciò che qui risulta quanto mai evidente è la con-posizione, l’intersoggettività:

LADY M. You have displaced the mirth, broke the good meeting With most admired disorder.

MACBETH Can such things be And overcome us like a summer's cloud, Without our special wonder? You make me strange Even to the disposition that I owe, When now I think you can behold such sights And keep the natural ruby of your cheeks When mine is blanched with fear. [III.iv.108-115]

Il senso di alienazione di Macbeth non è dovuto—o meglio, non è dovuto soltanto—all’apparizione di Banquo: è l’assenza di emozioni nel volto della moglie a lasciarlo sconcertato e a fargli sperimentare una sorta di crisi d’identità. Il segreto che alcune scene addietro gli aveva permesso di rivolgersi a Lady Macbeth con paternalistica superiorità—“Be innocent of the knowledge, dearest chuck”—ora gli si ritorce contro e contribuisce ad aggravare la sua con-dizione di isolamento. Condizione qui amplificata dal fatto che la stessa appari-zione, in quanto visibile solo a Macbeth, agisce come un ulteriore elemento di divisione, emarginandolo dal resto dei convitati e, in particolare, dalla moglie.

“Se non sopportate la solitudine, non sposatevi”45

Nell’analisi di Freud, il “successo” che porta Lady Macbeth al tracollo è la corona: pur di ottenerla, ella ha sacrificato “la sua stessa femminilità, senza ri-flettere a quale parte decisiva questa è destinata quando successivamente si trat-terà di sostenere l’obiettivo della sua ambizione.”46 Circa questa interpretazione,

45 C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, p. 111. 46 S. FREUD, Opere, p. 637.

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l’aspetto che più mi lascia perplesso è che, nella conversazione fra i due coniu-gi, il tema dei figli—o dell’assenza di figli—non sembra avere particolare rilie-vo: anzi, considerando la sua potenziale importanza rispetto al plot, si configura piuttosto come un tabù, più che come un leit-motif. Certo, c’è l’invito a “genera-re solo figli maschi”, ma è formulato prima dell’omicidio di Duncan. E anche nel monologo in cui Macbeth si tormenta per il “barren sceptre in my grip, / Thence to be wrenched with an unlineal hand, / No son of mine succeeding” (III.i.63-65), la sterilità cui egli allude pare essere non tanto legata alla sfera sessuale (ossia, l’impossibilità di avere un figlio) quanto politica (l’impossibilità di fare sì che un eventuale figlio possa ereditare il trono).

Trovo invece assai convincente l’osservazione di Freud circa il “successo”: Lady Macbeth, in effetti, soccombe all’apice del successo. Solo che il suo suc-cesso non è tanto la corona—quella, fin dall’inizio, è più un’ambizione del ma-rito che sua—quanto l’essere riuscita a fare del marito l’uomo da lei desiderato. Come lui stesso le fa sapere al termine della scena del banchetto, la trasforma-zione è giunta a un punto di non ritorno: “I am in blood / Stepped in so far that, should I wade no more, / Returning were as tedious as go o'er. / Strange things I have in head that will to hand, / Which must be acted ere they may be scanned” (III.iv.135-139). Al pari della seconda serie di profezie delle “sorelle fatali”, pe-rò, il successo di Lady Macbeth cela un insidia. Come recita la citazione di a-pertura di questo capitolo, “often a wife wants her husband to be more dominat-ing, but she’d like him to dominate her the way she tells him to”: Macbeth, in-vece, sembra essere diventato troppo indipendente per dominare—la moglie, gli altri e gli eventi—seguendo le indicazioni di Lady Macbeth.

Il compimento delle “strange things” che egli ha in mente, per esempio, av-viene sullo sfondo dell’unico atto—il quarto—nel quale Lady Macbeth non compare mai in scena. Il suo periodo di assenza è delimitato in modo tale da suggerire l’idea di un lungo sonno agitato: l’avevamo lasciata a Forres mentre si accingeva ad andare a dormire insieme al marito e la ritroviamo a Dunsinane, questa volta sola, alzarsi dal letto in stato di sonnambulismo. A scanso d’equivoci circa la precarietà delle sue condizioni di salute, Shakespeare ce la mostra attraverso gli occhi di un dottore tanto onesto e riservato nella diagno-

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si—“This disease is beyond my practice” (V.i.56)—quanto competente e accor-to nella prescrizione. “Look after her. / Remove from her the means of all an-noyance, / And still keep eyes upon her” (V.), suggerisce alla dama di compa-gnia. È come se il prezzo pagato per scalzare il marito dalla posizione di “pa-ziente designato” sia stato quello, altissimo, di sostituirsi al lui nello scomodo ruolo.

Come si comporta, Lady Macbeth, in questa sua “slumbery agitation” (V.i.11)? Tramite uno straziante re-enactment, rievoca le conversazioni con Macbeth, esaltandone i due temi cruciali: la dinamica dell’offerta di aiuto e le ossessioni. Da una parte, infatti, continua a immaginare il marito al suo fianco, a trattarlo come un bambino e a offrirgli consigli e assistenza nel modo che le co-nosciamo: “No more o' that, my lord, no more o' that. You mar all with this starting” (V.i.41-43), “Wash your hands, put on your nightgown, look not so pale” (V.i.59-60), e ancora “To bed, to bed. There's knocking at the gate. Come, come, come, come, give me your hand. What's done cannot be undone. To bed, to bed, to bed” (V.i.63-65). D’altra parte, l’immedesimazione con il coniuge—e la conseguente confusione di ruoli—è così intensa da dare l’impressione che el-la si sia come appropriata del disturbo ossessivo-compulsiva di Macbeth: “What is it she does now? Look how she rubs her hands”, si domanda il dottore, e la dama di compagnia gli spiega che “It is an accustomed action with her, to seem thus washing her hands. I have known her continue in this a quarter of an hour” (V.i.25-29).

Che cosa le è accaduto, nell’arco di così poco tempo,47 per ridurla in questo stato? Proverò qui a formulare un’ipotesi generale, in chiave sistemico-relazionale, che tenga conto di tutto ciò che si è osservato fino ad ora. Lady Ma-cbeth, come abbiamo più volte notato, tende a definire la realtà in termini di di-pendenza/indipendenza: nel rapporto con il marito, l’importante ruolo a lei as-segnato è sempre stato quello dell’aiutante-protettrice, ruolo che implicava per Macbeth la posizione di “dipendente” (quindi infantile, bambino, pauroso). La

47 Sulla durata dell’azione, a dire il vero, i pareri sono piuttosto discordi: Freud assumeva

una settimana o poco più; altre letture concedono fino a qualche mese.

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progressiva assunzione dell’iniziativa da parte di Macbeth ha avuto l’effetto di lasciarla spiazzata, di mettere in crisi la con-posizione della coppia e quindi la sua stessa identità. L’unico “luogo” nel quale Lady Macbeth serve ancora è il mondo dei sogni: nel suo travagliato isolamento onirico, può permettersi di con-tinuare ad aiutare e mostrare il suo coraggio. Nel mondo della realtà, cadute le premesse della polarità dipendenza/indipendenza, l’unica altra polarità semanti-ca con la quale può misurarsi e definirsi è quella bene/male. Ma questo compor-ta che, al contrario di quanto avveniva in passato, Lady Macbeth è ora costretta a misurarsi e definirsi in base a parametri etici: l’“undaunted mettle” (I.vii.73) del primo atto ha ceduto il posto a un “fraught bosom of that perilous stuff / Which weighs upon the heart” (V.iii.46-47). Non c’è dunque da stupirsi se, in preda a un’emozione da lei sempre ignorata come il rimorso, cominci ora a mo-strare sintomi di tipo ossessivo-compulsivo.

Non dobbiamo però dimenticare che tale spostamento avviene all’interno di un sistema—la coppia—che va oltre l’individualità di Lady Macbeth. Infatti, come più o meno tutti i critici hanno notato, ciò a cui assistiamo nel corso del dramma (e, in modo esplicito, nell’ultimo atto), più che uno spostamento, è un rovesciamento. Il segnale più rivelatore di tale inversione dei ruoli è che, per la prima volta dall’inizio della tragedia, Macbeth si mostra preoccupato per la mo-glie e tenta di aiutarla. Naturalmente, lo fa a modo suo, ossia senza intervenire in prima persona (“How does your patient, doctor?”, V.iii.39), bensì delegando l’incarico (“Cure her of that”, V.iii.41). Al progressivo spostamento della mo-glie verso la polarità semantica bene/male ha corrisposto l’adozione, da parte di Macbeth, della polarità dipendenza/indipendenza. Solo che, mentre Lady Ma-cbeth era “indipendente” come lo è una madre nei confronti di un figlio biso-gnoso di cure, Macbeth diventa “indipendente” nel modo in cui un bambino di-venta adulto: ciò che gli è necessario per definirsi tale non è tanto qualcuno da aiutare, quanto il distacco da una figura genitoriale sempre più fragile, alla qua-le garantire assistenza senza però eccessivo coinvolgimento. A livello emozio-nale, possiamo osservare come, ora che è asserragliato con il suo sempre più scarno seguito nella roccaforte di Dunsinane, non ci siano più spettri e allucina-zioni originati dai sensi di colpa a tormentarlo, bensì un esercito in carne ed os-

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sa che genera in lui emozioni di malcelata paura e coraggio incosciente. Ma-cbeth, a questo proposito, è indubbiamente “cresciuto”. Non è più il suo volto ad essere “blanched with fear” (III.iv.115), ma piuttosto quello dei suoi sudditi, ai quali può ordinare, anch’egli in un re-enactment di scambi cui già abbiamo assistito, “Go prick thy face and over-red thy fear” (V.iii.16).

Dinamiche di aiuto, coinvolgimento cercato o evitato, mezze verità (come quelle sul bosco di Birnam e sul “nato di donna”): tutte le modalità relazionali caratteristiche dei Macbeth continuano a riproporsi in queste ultime scene. Per-sino la tendenza di Macbeth a rimandare trova eco nella sublime reazione all’annuncio della morte della moglie. Nonostante le disposizioni del dottore, infatti, Lady Macbeth è riuscita comunque a togliersi la vita (“as 'tis thought, by self and violent hands / Took off her life”, V.xi.36-37), e il primo pensiero con il quale Macbeth accoglie la notizia, benché in apparenza bizzarro, è esattamen-te quello che più volte gli ha permesso di affrontare—o meglio di non affrontare subito—i momenti critici, ossia la dilazione: “She should have died hereafter. / There would have been a time for such a word. / Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow…” (V.V.16-18).

Infine, anche l’altra notevole anomalia della reazione di Macbeth alla morte della moglie—e cioè il sorprendente distacco emotivo con il quale subito la a-strae nella categoria generale dell’assurdità del tempo e della vita—risulta più comprensibile, se considerata alla luce della nuova con-posizione della coppia. Secondo il modello di Ugazio, i soggetti che, come la Lady Macbeth dei primi atti e il Macbeth dell’ultimo, vengono a occupare la posizione di indipendente, “per mantenere questa posizione escludono, o contengono il più possibile, i comportamenti emotivi ed espansivi che li condurrebbero a percepirsi come di-pendenti dagli altri, e quindi a perdere la valutazione positiva di sé. Il manteni-mento dell’autostima e del sentimento di competenza ed efficacia personale è pagato al prezzo di evitare il coinvolgimento emotivo, che viene avvertito come distruttivo e limitante le capacità di funzionamento individuale.”48 Ma c’è di più: tale strategia, in ambito clinico, viene definita “a orientamento claustrofo-

48 V. UGAZIO, Storie permesse, storie proibite, p. 148.

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bico” (poiché nelle sue manifestazioni più esasperate può sfociare in una sinto-matologia claustrofobica), e ciò pare essere quanto mai appropriato alla situa-zione del Macbeth dell’ultimo atto: solo (non c’è più Lady Macbeth a sostener-lo) e assediato. Scena dopo scena, l’esercito nemico si stringe attorno a lui per cerchi concentrici, fino al fatale duello con Macduff. La vista del bosco di Bir-nam che si avvicina, il desiderio e l’impossibilità di una via di fuga (“Were I from Dunsinane away…”, sospira il dottore; “Arm, arm, and out. / If this which he avouches does appear / There is nor flying hence nor tarrying here”, ordina Macbeth), l’efficace similitudine dell’orso al palo (“They have tied me to a stake. I cannot fly, / But bear-like I must fight the course”): tutte immagini che contribuiscono a convogliare la sensazione di una situazione claustrofobica.

Per concludere, vorrei sottolineare come la dinamica di rovesciamento appena descritta, in fin dei conti, non sia molto diversa da quello che generazioni di lettori e di spettatori di Macbeth non hanno faticato a riconoscere. Anche nella casistica delle emozioni non vi è alcunché di particolarmente nuovo. Ritengo però che il punto di vista sistemico che qui si è cercato di adottare permetta di cogliere con maggiore evidenza che le emozioni e le polarità semantiche in gioco non sono patrimonio individuale dell’uno o dell’altro personaggio, bensì una sorta di griglia familiare condivisa, tramite la quale definire e sperimentare se stessi e il mondo, lungo le cui direttrici, e non altre, Macbeth e Lady Macbeth—un significativo sottoinsieme di ciò che Harry Berger chiama community of the play49—devono reciprocamente posizionarsi.

49 H. BERGER, Making Trifles of Terrors. Redistributing Complicities in Shakespeare, p.108:

“The community is a group of speakers placed in relation to each other by differences of gender and generation, of social rank and political status, and of position in households, families, and extended families. Their interactions are mediated by these roles, their atti-tudes and projects heavily influenced by the assumptions and expectations, the constraints and opportunities, that adhere to the roles. The community of the play, thus understood, has recently come into prominence through the efforts of the new psychoanalytical critics who focus attention on family, gender, and generation, treating characters less as autono-mous individual psyches (the focus of the older psychoanalytical approach) and more as subjects whose “selves” include the “others” to whom they are bound and opposed by the reciprocal positionality of their institutional roles.”

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Capitolo sesto

Scene di triangolazione

Tombs show what the family wanted the world to see; the plays show what they might have preferred to conceal.1

CATHERINE BELSEY

Tra i numerosi punti di contatto fra psicodinamica e terapia della famiglia, quello più evidente è che entrambi gli orientamenti identificano nel triangolo madre-padre-figlio/a l’unità fondante dei propri modelli. Nella teoria psicodina-mica, la natura di tale triangolo è anzitutto intrapsichica, riferendosi principal-mente alle fantasie erotiche tipiche di una fase evolutiva di un solo membro del-la triade: il figlio o la figlia. Questa distinzione sessuale ha invece un’importanza assai limitata nella teoria dei sistemi familiari, secondo la quale il triangolo ha natura anzitutto extrapsichica: i vertici della triade, in questo ca-so, rappresentano individui, e ciò che li collega è una rete di messaggi e allean-ze. In entrambe le teorie, poi, si ritiene che la configurazione triangolare non sia semplicemente una struttura, bensì che dia origine a un particolare processo, la triangolazione: “La prima nozione clinica che viene in mente quando si pensa al triangolo primario,” scrivono Elisabeth Fivaz-Depeursinge e Antoinette Cor-boz-Warnery, “è quella di triangolazione. È interessante notare che tale concetto viene utilizzato sia nella teoria psicodinamica che in quella dei sistemi familiari. Nella prima, il termine fa riferimento all’esperienza edipica soggettiva del bam-bino di esclusione dalla relazione dei genitori. Nella seconda, fa riferimento all’aspetto problematico in cui un bambino viene preso nella relazione conflit-

1 C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in

Early Modern Culture, p. 95.

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tuale dei suoi genitori al fine di deviarne la tensione.”2 Ciò che, per questa tesi, mi pare particolarmente rilevante circa la triangolazione—intesa nel senso della terapia familiare—è il suo carattere normativo: “La triangolazione è un proces-so che si verifica in tutte le famiglie, in tutti i gruppi sociali, come forma di inte-razione a due che porti all’esclusione di un terzo o agisca direttamente contro di lui.”3

In tutte le famiglie, dunque, dovrebbe essere possibile osservare tale proces-so. Poiché si tratta di una dinamica interazionale non solo assai significativa ma anche ben definita e relativamente semplice da individuare, la triangolazione si prospetta come un parametro privilegiato per poter esprimere una valutazione circa il livello di mimeticità delle relazioni familiari nel teatro shakespeareano. L’analisi di scene di triangolazione familiare, perciò, era uno degli obiettivi che mi ero prefisso quando iniziai a progettare questo lavoro di tesi. Ben presto, pe-rò, mi sono imbattuto in un ostacolo che sinceramente non avevo considerato: nonostante la straordinaria abbondanza di strutture familiari nel corpus shake-speareano (vedi capitolo 2), le triadi di dramatis personae legate fra loro in triangoli primari sono piuttosto rare, e in particolare sono rarissime le scene di compresenza fra madri, padri e figli.

Se pensiamo per un istante alla quantità—e all’importanza—di altre relazio-ni familiari (padri/figli, fratelli/sorelle, mogli/mariti), la cosa potrebbe lasciarci piuttosto perplessi. Le spiegazioni, in realtà, non mancano, e le più convincenti sono a mio giudizio quelle che hanno a che fare con: a) la difficoltà di rappre-sentare in modo efficace ruoli di donne adulte servendosi di attori maschi;4 b) la relativa irrilevanza del triangolo primario sul piano macrosociale (l’equazione

2 E. FIVAZ-DEPEURSINGE e A. CORBOZ-WARNERY, Il triangolo primario, p. 18. 3 L. HOFFMAN, Principi di terapia della famiglia, p. 36. 4 Vedi il secondo capitolo di questa tesi. Sull’impiego dei boy actors per i ruoli femminili,

vedi A. GURR, The Shakespearean Stage 1574-1642, pp. 68 e 95. Vedi anche J. KOTT, Shakespeare Our Contemporary, p. 258: “On the Elizabethan stage female parts were acted by boy actors. That was a limitation, as theatre historians well know. Female parts in Shakespeare are decidedly shorter than male parts. Shakespeare was well aware of the limitations of boy actors. They could play girls; with some difficulty they could play old women. But how could a boy act a mature woman?”.

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fra autorità patriarcale e autorità regale, condensata nella descrizione del mari-to/padre come “a king in his own house”,5 si rispecchia infatti in modo assai più immediato nelle strutture diadiche, come padre/figli e marito/moglie, più che nella triade padre/madre/figli), irrilevanza che determina un ridimensionamento delle possibili connotazioni politiche insite nella rappresentazione di un dram-ma familiare; c) lo “svantaggio drammatico” insito nell’adottare una struttura che, se proposta in modo mimetico, contempla tra i suoi effetti la tendenza all’omeostaticità (in quanto la triangolazione è naturalmente orientata alla ridu-zione del tasso di conflittualità), a spese quindi della drammaticità dell’azione. 6

In ogni caso, alcune scene di compresenza fra tutti e tre i membri di triangoli primari ci sono. Poiché il tipo di approccio da me adottato si fonda principal-mente sull’analisi delle interazioni—verbali e non—più che del plot o delle strutture, è su queste scene che mi concentrerò nel presente capitolo. Nella ta-bella che segue ho elencato quelle che mi è riuscito di individuare,7 divise in quattro categorie.

5 WILLIAM GOUGE, Of domesticall duties, 1622, p. 258 (citato da M. INGRAM, Church

courts, sex and marriage in England, p. 143). 6 Un’ipotesi ulteriore, basata su presupposti psicoanalitici e riferita solo ai primi drammi,

viene avanzata da C.L. BARBER: “Shakespeare’s earlier work is shaped by a very strong identification with the cherishing role of the parents of early infancy. This is the role the poet adopts in cherishing the young man addressed in the sonnets. Such relationship is grounded most deeply in very early modes of relations, dyadic rather than triadic.” (C.L. BARBER, “The family in Shakespeare’s Development: Tragedy and Sacredness”, p. 190).

7 Ho incluso nella tabella anche due scene (quella di Cymbeline e quella di Hamlet) nelle quali uno o più membri del triangolo sono “morti”, nel senso che appaiono e parlano in qualità di “spettri”. Questo perché, ai fini di un’analisi relazionale, l’essere vivi o morti è una proprietà irrilevante rispetto alla capacità dell’individuo di interagire, sia con modalità verbali sia con modalità non verbali. Il fatto, poi, che in Hamlet uno dei membri della triangolazione rimanga escluso dalla relazione—è il caso di Gertrude, alla quale è preclusa la percezione di Old Hamlet—non mi pare sufficiente per ridefinire la relazione triadica come due relazioni diadiche. Anzitutto, è vero solo in una direzione, poiché Old Hamlet percepisce Gertrude perfettamente. Ma, soprattutto, come mostrerò nel corso del capitolo, l’irrompere in scena di Old Hamlet ha conseguenze dirette sull’andamento della conversa-zione fra Hamlet e Gertrude. In ogni caso, trattandosi di dramatis personae, e non di per-sone, il criterio della compresenza in scena è indubbiamente soddisfatto anche dalla triade Hamlet-Gertrude-Old Hamlet.

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Categoria Opera Madre Padre Figlio/a Sce-

na

Err Abbess Egeon Antipholus Of Ephesus Antipholus Of Syracuse

5.1

H5 Queen Isabel King Charles Catherine Dauphin

5.2

Per Thaisa Pericles Marina 22 Wiv Mistress Page Page Anne 5.5

Scene finali di ricongiungimento,

denouement, e happy ending

Wt Hermione Leontes Perdita 5.3 Cym Mother Sicilius First Brother

Second Brother Posthumus

5.5

R3 Queen Elizabeth King Edward Dorset Gray

2.1

3H6 Queen Margaret King Henry Prince Edward 2.5 Per Thaisa Pericles Marina 10,11

Altre scene senza conflittualità

all’interno della triade

Cor Virgilia Coriolanus Young Martius 5.3 R2 Duchess Of York York Aumerle 5.2,

5.3 Wiv Mistress Page Page Anne 3.4

Scene di conflittopadre-figlio/a, con coalizione

fra madre e figlio/a

Rom Capulet's Wife Capulet Juliet 3.5, 4.2

3H6 Queen Margaret King Henry Prince Edward 1.1 Wt Hermione Leontes Mamillius 1.2,

2.1

Scene di conflittomarito-moglie,

con triangolazionesul figlio Ham Gertrude Ghost Hamlet 3.4

Nella prima categoria, figurano scene e relazioni che, pur appartenendo a

sottogeneri drammatici diversi, sono notevolmente omogenee fra loro. Dal pun-to di vista della posizione da esse occupate nella sequenza narrativa, si tratta di scene finali. Dal punto di vista tematico, almeno per quanto riguarda la triade, sono tutti classici happy ending, orchestrati attorno a topoi tipici della comme-dia, come quello del matrimonio felice (è il caso di Henry V e di The Merry Wi-ves of Windsor) o quello del dénouement e relativo ricongiungimento familiare. In un precipitarsi di eventi che farebbe impallidire d’invidia autori televisivi e conduttori di programmi tipo Chi l’ha visto, The Comedy of Errors ci propone una Abbess che si rivela essere Emilia e ritrova marito e figli; Pericles, una sa-cerdotessa che si scopre essere la moglie (e la madre) da anni data per morta (anch’ella in un naufragio...) nonché l’immancabile ricongiungimento fra padre e figlia; The Winter’s Tale, infine, non esita a ricorrere a una scena di “resurre-zione” pur di riunire una figlia e una moglie al padre (e marito) rinsavito e pen-

Page 229: Shakespeare e la terapia della famiglia

225

tito. Come osserva Catherine Belsey a proposito di quest’ultimo finale, “fami-lies fail, but we continue to believe in the ideal of the family”.8 Ideale accurata-mente tenuto a distanza di sicurezza da ogni potenziale rischio, aggiungerei io, e non solo per l’improbabilità dei ricongiungimenti: un terzo tratto comune a mol-te di queste scene, infatti, è che dal punto di vista relazionale i membri delle triadi primarie intrattengono rapporti piuttosto tiepidi e convenzionali (perlo-meno rispetto all’eccezionalità della situazione in cui si trovano), quasi a sugge-rire che, per ricominciare a vivere insieme nel migliore dei modi, sia opportuno imparare fin da subito a controllare le proprie manifestazioni emotive.

Le scene che ho raggruppato nella seconda categoria, al contrario delle pre-cedenti, si svolgono entro contesti drammaticamente critici: ossia, in prossimità della morte dei protagonisti, o comunque in momenti di pericolo estremo. Al pari delle scene della categoria precedente, però, non presentano un tasso di conflittualità degno di nota fra i protagonisti del triangolo primario. In altre pa-role, le difficoltà ci sono, ma sono esterne alla triade. Posthumus, in una scena di problematica attribuzione,9 riceve in forma di visione la pietosa visita dei ge-nitori e dei fratelli, mentre è in attesa di venire giustiziato; più che di un triango-lo (o pentagono) primario, si tratta di un coro familiare, con tanto di musica in sottofondo.10 In Richard III, Elizabeth e Dorset sono accorsi al capezzale di King Edward praticamente soltanto per sentirsi rivolgere la stessa richiesta di pacificazione destinata agli altri nobili; per quanto riguarda la conversazione familiare, l’unico aspetto rilevante pare essere l’ambiguità filologica del verso II.i.19, con il quale il re si rivolge al figlio direttamente (“you, son Dorset”) nel Folio e indirettamente (“your son Dorset”)—mediando sulla moglie, quindi—

8 C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden. The Construction of Family Values in

Early Modern Culture, p.121. 9 Sul problema dell’attribuzione di questa scena, vedi J.M. NOSWORTHY (a cura di),

Cymbeline, The Arden Shakespeare, pp. xxxiii-xxxvii. 10 Per un’interpretazione psicoanalitica della visione di Posthumus, vedi M. SKURA, “Inter-

preting Posthumus’s Dream from Above and Below: Families, Psychoanalysts, and Liter-ary Critics”, secondo il quale “[the] dream can be interpreted either as a revelation of the divine forces in human affairs, or as a revelation of the family matrix that underlies all human experience.” (p. 211).

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nei quarto. Anche nel secondo atto di 3 Henry VI la comunicazione entro la triade primaria—formata da Queen Margaret, King Henry e Prince Edward, re-duci dagli scambi burrascosi dell’atto precedente, di cui parleremo più avanti—si riduce a pacifiche, per quanto concitate, esortazioni alla fuga. Altrettanto conversazionalmente povere sono le due scene di compresenza fra Thaisa, Peri-cles e Marina al momento della nascita di quest’ultima: la prima (scena 10 o Prologo del terzo atto, a seconda dell’edizione) è un dumb show del parto; e an-che nella scena successiva, con Thaisa creduta morta e Marina appena venuta alla luce, non c’è occasione per alcuno scambio. Assai più importante è l’ultimo caso elencato, ossia la terza scena del quinto atto di Coriolanus: qui la comuni-cazione familiare, oltre ad essere copiosa, raggiunge un apice d’intensità emoti-va che non ha eguali nel resto del dramma. Ma anche qui la triade primaria—Virgilia, Coriolanus e Young Martius—riveste un ruolo marginale, schiacciata com’è da una parte dall’ingombrante diade Volumnia-Coriolanus, e dall’altra dal conflitto interiore fra pubblico e privato che sta lacerando lo stesso Coriola-nus. Per quanto riconducibile a una scelta fra famiglia e politica (la prima signi-ficativamente associata alla sfera dell’istintualità animale, più che delle emo-zioni umane: “I'll never / Be such a gosling to obey instinct, but stand / As if a man were author of himself / And knew no other kin”, V.iii.34-37), è un conflit-to che riguarda in modo appena periferico il rapporto fra Coriolanus e la moglie o il figlio, come illustra bene il crescendo—forse non del tutto esente da una certa dose di autocompiacimento—di Volumnia, da Virgilia a Young Martius per culminare su se stessa:

Daughter, speak you, He cares not for your weeping. Speak thou, boy. Perhaps thy childishness will move him more Than can our reasons. There's no man in the world More bound to 's mother, yet here he lets me prate Like one i' th' stocks. [V.iii.156.161]

Eppure, nonostante la causa prima del conflitto sia esterna alla triade, il bre-vissimo intervento di Virgilia—e di Young Martius—ci dà comunque occasione di assistere all’ineluttabilità del ricorso alla triangolazione:

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VOLUMNIA If I cannot persuade thee Rather to show a noble grace to both parts Than seek the end of one, thou shalt no sooner March to assault thy country than to tread— Trust to 't, thou shalt not—on thy mother's womb That brought thee to this world.

VIRGILIA Ay, and mine, That brought you forth this boy to keep your name Living to time.

Y. MARTIUS A shall not tread on me. I'll run away till I am bigger, but then I'll fight.

CORIOLANUS Not of a woman's tenderness to be Requires nor child nor woman's face to see. I have sat too long.

He rises and turns away [V.iii.121.132]

Forse è solo un caso, ma nel testo di Plutarco,11 al quale questa scena si man-tiene quanto mai aderente, gli interventi di Virgilia e di Young Martius non ci sono. E che tipo di scelta compie Shakespeare al momento di inserirli? Scartan-do senza indugio la possibilità che far appello direttamente al legame coniugale possa rivelarsi una tattica sufficientemente efficace (e credibile, aggiungerei), Shakespeare opta per la strategia più ovvia e comune possibile—almeno agli occhi di una platea a noi contemporanea: l’immediata deviazione sul legame genitoriale, e quindi il coinvolgimento del figlio. Mutatis mutandis, è più o me-no la stessa strategia alla quale ognuno di noi dimostra di saper ricorrere allor-ché, sentendoci trascurati dal proprio compagno o compagna, facciamo osserva-re loro che, passando troppo tempo al lavoro e troppo poco in famiglia, stanno trascurando i figli, costringendo così questi ultimi a prendere posizione in una battaglia che non è la loro. A dire il vero, l’intervento di Virgilia, per quanto debole e sintetico, è assai più raffinato di una semplice triangolazione quotidia-na, poiché innesta sul legame genitoriale la questione dell’onore, alla quale Co-riolanus è altrettanto—se non più—sensibile. La dinamica relazionale, però, non cambia: Young Martius non rimane insensibile al tentativo di coinvolgi- 11 PLUTARCO, “The Life of Caius Martius Coriolanus”, nella traduzione (dal francese: la tra-

duzione dal greco al francese è di JAMES AMYOT) di THOMAS NORTH, Lives of Noble Gre-cians and Romanes, 1579, in P. BROCKBANK (a cura di), Coriolanus, The Arden Shake-speare.

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mento, e reagisce pronunciando l’unica battuta concessagli nel dramma. Si tratta di una battuta al tempo stesso comica e mimetica, come spesso avviene in Sha-kespeare nei rari casi in cui i bambini prendono la parola (si pensi, per esempio, al figlio di Macduff in Macbeth, o a William Page in The Merry Wives of Win-dsor). Se l’effetto immediato che ottiene è quello di stemperare—per quanto impercettibilmente—la tensione drammatica, dal punto di vista della triangola-zione l’intervento di Young Martius gli permette di sottrarsi al seppur debole conflitto fra i genitori: detto altrimenti, è un rarissimo esempio di comunicazio-ne nella quale il livello della relazione (riassumibile in: voi discutete pure quan-to volete, ma lasciatemene fuori) e il livello del contenuto (“I'll run away till I am bigger”) coincidono. La conseguenza meno immediata—ma dal punto drammatico altrettanto importante—è invece quella di soffocare sul nascere un sub-plot che, a metà del quinto atto, potrebbe rivelarsi deleterio per l’economia narrativa della tragedia. Young Martius, infatti, non è destinato né a morire, come il Mamillius di The Winter Tale, né a sostenere una parte attiva, come lo Young Lucius di Titus Andronicus, ma più semplicemente a farsi da parte, a sot-trarsi.

Conflitti fra padri e figli: “Here comes your father. Tell him so yourself”

Cosa sarebbe accaduto se Young Lucius fosse stato già sufficientemente a-dulto per mantenere la sua promessa—“I'll run away till I am bigger, but then I'll fight”—e si fosse posto in aperto conflitto con il padre? Come si sarebbe po-tuta comportare Virgilia? Sono domande oziose, ovviamente, e non è certo mia intenzione offrire una risposta. Può però essere interessante vagliare le possibili alternative, confidando sul fatto che, se riferite alla sola triade primaria, non so-

P M

F

Figura 6.1: Triadi con almeno una situazione conflittuale (adattata da L. Hoffman)

Caso A: alleanza madre-padre

P M

FCaso B: coalizione

madre-figlio

P M

FCaso C: nessuna

alleanza

P M

F Caso D:

triangolazione

P: padre M: madre F: figlio/a

= alleato = avversario

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no poi tante. Considerando un unico parametro binario, come può essere l’opposizione ‘alleato’ vs ‘avversario’, le combinazioni “geometricamente” ot-tenibili sono infatti soltanto quattro (vedi figura 6.1): Virgilia potrebbe (a) prendere le parti del marito, (b) del figlio, (c) di nessuno dei due, o (d) di en-trambi.

Da un punto di vista strettamente pragmatico, però, solo le prime due possi-bilità rappresentano triadi “congrue”, nel senso che entrambe schematizzano la situazione di un “nemico” comune a due “alleati”. Il caso C, per esempio, po-tendosi tradurre in “il nemico del mio nemico è mio nemico”, descrive una si-tuazione di totale isolamento piuttosto insolita, quanto meno in ambito familiare (la terapia della famiglia assegna a questa configurazione l’etichetta di “fami-glia disimpegnata”). Ancora più incongruo è il caso D, la cui espressione verba-le ha la forma: “il nemico del mio amico è mio amico”.12 Incongruo, ma non im-possibile: è infatti la configurazione che meglio descrive una situazione di triangolazione in senso stretto, come vedremo nella prossima sezione di questo capitolo.

Ora, tralasciando inutili ipotesi su Virgilia, vorrei piuttosto concentrami su scene di compresenza nelle quali il conflitto è effettivamente presente, per cer-care di capire se ci sono configurazioni che tendono a prevalere, in quali circo-stanze, e con quali esiti. Il motivo che mi induce a questo tipo di indagine è piuttosto ovvio: nella misura in cui le relazioni familiari fra i personaggi shake-speareani hanno qualità mimetica, è ragionevole attendersi che in situazioni fa-miliari analoghe fra loro tenderanno a svilupparsi configurazioni simili. Non so-lo: poiché il caso della triangolazione (in senso stretto) è ritenuto, dai terapeuti della famiglia, quello potenzialmente più patologico—in quanto implica sempre un livello di comunicazione implicito, un segreto, una qualche forma di ambiva-lenza o di tradimento della fiducia—sarebbe interessante valutarne l’impatto all’interno dei drammi in cui esso si presenta.

12 Le regole di congruenza delle triadi qui illustrate, così come la figura, sono trattate in L.

HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, pp.125-150.

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Riguardo alle scene in cui il conflitto fondamentale sia quello fra genitori e figli (e limitandoci, come impone il metodo di analisi qui adottato, a quelle sce-ne nelle quali ci sia compresenza fra i membri del triangolo primario), il primo aspetto che salta agli occhi è che si tratta sempre di conflitti con la figura pater-na. Un caso emblematico, sia per il modo in cui rappresenta l’opposizione fra valori politici e valori familiari sia per la dinamica dei rapporti di potere fra ses-si, è la breve ma intensa crisi familiare, portata in scena nell’ultimo atto di Ri-chard II, fra il duca di York, sua moglie e il figlio Aumerle. La configurazione dei loro rapporti è chiaramente quella illustrata dal caso B, e cioè una solida co-alizione fra madre e figlio. Ciò che mi pare particolarmente significativo circa questa scena è la circolarità dei rapporti di alleanza, che sembrano sostenersi e amplificarsi a catena in un crescendo magistrale, più che essere originati da una causa precisa e oggettiva. Quando Aumerle raggiunge i genitori, che stanno par-lando con rassegnazione e relativa tranquillità dell’ascesa al trono di Bolin-gbroke, non si intravede alcun conflitto esplicito fra i membri della triade. L’unico, debole, segnale di una potenziale alleanza latente è il possessivo singo-lare usato (ben due volte) dalla duchessa of York per salutare l’ingresso del fi-glio—“Here comes my son Aumerle” (V.ii.41) e “Welcome, my son” (V.ii.46).13 Il saluto del duca, del tutto indiretto, è invece sintomatico del distacco emotivo nei confronti di Aumerle:

Aumerle that was; But that is lost for being Richard's friend, And, madam, you must call him “Rutland” now. I am in Parliament pledge for his truth And lasting fealty to the new-made King. [V.ii.41-45]

Possiamo notare come il duca non perda occasione per infierire su Aumerle, ricordandogli il ducato perduto (a causa della sua amicizia per Richard) e il fat-to di esser stato costretto ad intervenire in prima persona per garantire la sua fe-deltà a Bolingbroke, il nuovo sovrano. Per quanto riguarda il contributo dello stesso Aumerle alla conversazione, si tratta perlopiù di risposte insoddisfacenti,

13 Nella realtà, la duchessa di York, seconda moglie del duca di York, era solo la matrigna di

Aumerle. Dalle battute di questa scena è però evidente che, nel dramma, ne è la madre.

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all’insegna della delusione per la situazione politica, del distacco, e dell’insofferenza per la curiosità dei genitori (mi pare emblematica, in questo senso, la ridondanza di negazioni nel verso “Madam, I know not, nor I greatly care not”, V.ii.48). Fino a questo punto, il conflitto è solo latente. Le ostilità vengono ufficialmente aperte soltanto con la scoperta, da parte del Duca, della lettera sul complotto ordito ai danni di Bolingbroke. Da quest’istante in poi, la tensione subisce un’escalation, com’è naturale, ma la configurazione delle alle-anze non presenta alcuna novità inattesa: semplicemente, e con il contributo di tutti i partecipanti, si irrigidisce.

AUMERLE I do beseech your grace to pardon me.

It is a matter of small consequence, Which for some reasons I would not have seen.

YORK Which for some reasons, sir, I mean to see. I fear, I fear!

DUCHESS OF YORK What should you fear? 'Tis nothing but some bond that he is entered into For gay apparel 'gainst the triumph day.

YORK Bound to himself? What doth he with a bond That he is bound to? Wife, thou art a fool. Boy, let me see the writing.

AUMERLE I do beseech you, pardon me. I may not show it.

YORK I will be satisfied. Let me see it, I say.

(He plucks it out of Aumerle's bosom, and reads it)

Treason, foul treason! Villain, traitor, slave!

DUCHESS OF YORK What is the matter, my lord?

YORK Ho, who is within there? Saddle my horse. – God for his mercy, what treachery is here!

DUCHESS OF YORK Why, what is it, my lord?

YORK Give me my boots, I say. Saddle my horse. – Now by mine honour, by my life, my troth, I will appeach the villain.

DUCHESS OF YORK What is the matter?

YORK Peace, foolish woman.

DUCHESS OF YORK I will not peace. What is the matter, son?

AUMERLE Good mother, be content. It is no more Than my poor life must answer.

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DUCHESS OF YORK Thy life answer?

YORK Bring me my boots. I will unto the King.

(His man enters with his boots)

DUCHESS OF YORK Strike him, Aumerle! Poor boy, thou art amazed.

[V.ii.60-87]

È un tipico scambio ad escalation simmetrica: più York si infuria, più la mo-glie prende le parti del figlio, pur non sapendo minimamente di cosa si stia par-lando (“'Tis nothing but some bond…”; “What is the matter?”). Ciò provoca, a sua volta, le reazioni violente di York nei confronti della stessa moglie (“Wife, thou art a fool”; “Peace, foolish woman”), il che non fa altro che intensificare la coalizione fra lei e Aumerle (“Good mother, be content”; “Poor boy, thou art amazed”). Il culmine viene raggiunto con il ricorso—a quanto pare, quasi una regola, in Shakespeare, per situazioni conflittuali di questo tipo—ai temi dell’incertezza della paternità e del parto, ossia con un riferimento alle due e-sperienze oggettivamente più escludenti che si possano immaginare nell’ambito di una coalizione madre-figlio contro il marito-padre: “Hadst thou groaned for him / As I have done thou wouldst be more pitiful. / But now I know thy mind: thou dost suspect / That I have been disloyal to thy bed, / And that he is a bas-tard, not thy son.” (V.ii.102-106). Sarà solo grazie a un intervento esterno alla triade—l’intercessione dello stesso Bolingbroke nella scena successiva—che il conflitto si potrà, almeno parzialmente, sanare.

Circa quest’ultimo intervento, vale la pena osservare brevemente come fun-ziona, perché le tre strategie in esso adottate ne fanno un piccolo cammeo di te-rapia familiare. Per prima cosa, Bolingbroke riesce ad allentare l’ormai insoste-nibile tensione emotiva ricorrendo all’umorismo:

KING HENRY What shrill-voiced suppliant makes this eager cry?

DUCHESS OF YORK A woman, and thy aunt, great King; 'tis I. Speak with me, pity me! Open the door! A beggar begs that never begged before.

KING HENRY Our scene is altered from a serious thing, And now changed to “The Beggar and the King”. [V.iii.73-78]

Questa è forse la mossa più importante: grazie al reframing da “serious thing” alla ballata, lascia intravedere la possibilità di un cambiamento, e quindi

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del perdono, come coglie subito York (“If thou do pardon…”). La seconda tatti-ca terapeutica messa in atto—consciamente o meno, poco importa—da Bolin-gbroke è quella di connotare positivamente il comportamento di entrambi i ge-nitori: la rigidità etica di York (definito dalla moglie “hard-hearted man”) viene tradotta in termini di lealtà (“O loyal father of a treacherous son”), così come la parzialità senza ritegno della duchessa (“Thou frantic woman, what dost thou make here? / Shall thy old dugs once more a traitor rear?”, le si rivolge York) è anch’essa giudicata da Bolingbroke un comportamento appropriato (“Your mother well hath prayed”). Terza e ultima tattica è la prescrizione finale: York uscirebbe di scena indebolito e perdente, in quanto il figlio è stato perdonato, ma assegnandoli il compito di far convergere le forze a lui fedeli su Oxford, Bo-lingbroke lo rivaluta agli occhi della moglie come proprio principale alleato. È proprio grazie a queste piccole—ma efficaci—alchimie relazionali che il cam-biamento risulta persuasivo, permettendoci così di assistere all’uscita di scena della triade—e alla conclusione del subplot—ragionevolmente persuasi che il loro conflitto si sia, almeno per ora, positivamente risolto.

Le occasioni di conflitto fra padri e figlie, in Shakespeare, sono numerose, ma avvengono tutte, praticamente senza eccezioni, in un’unica fase della vita familiare: all’avvicinarsi del matrimonio della figlia. Anche le rare scene, indi-viduate in tabella, in cui la madre è presente alla conversazione rientrano in questa casistica. Come si comportano, le madri, in tali frangenti? In modo cu-riosamente simile, ma al tempo stesso nient’affatto semplice da schematizzare, poiché i loro interventi, seppur brevissimi, sono quanto mai ambigui. In genera-le, potremmo dire che tendono inizialmente a salvaguardare il rapporto di tiepi-da complicità con le figlie, ma sempre subordinandolo alla relazione con i ri-spettivi coniugi. Una cosa è certa: nessuna di loro si sognerebbe di sostenere le ragioni della figlia con la determinazione mostrata dalla duchessa di York nei riguardi di Aumerle.

Nel terzo atto di The Merry Wives of Windsor, Mistress Page promette ad Anne (la quale è piuttosto sconsolata all’idea di doversi sposare con Slender, come le impone, con un improbabile inciso, il padre: “Now, Master Slender.—Love him, daughter Anne.—Why, how now?”, III.iv.65-66) di trovarle un parti-

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to migliore (“I seek you a better husband”, III.iv.83), riferendosi però al dottor Caius, e non certo a Fenton come desidererebbe Anne. La sua promessa, quindi, non è da intendersi come un’alleanza con la figlia, quanto piuttosto come una forma di antagonismo nei confronti del marito. In questo senso, la configurazio-ne di alleanze della famiglia Page si potrebbe ricondurre al caso C della figura 6.1: ossia, una famiglia disimpegnata, come in effetti il main plot—ponendo a confronto la distratta fiducia di Master Page con la gelosia morbosa di Master Ford—sembra confermare. In realtà, Mistress Page si spinge perfino ad affer-mare che concederà ad Anne l’ultima parola nella scelta dello sposo, ma lo fa in modo indiretto e ambiguo, ossia rivolgendosi a Fenton e lasciando intendere che il suo vero scopo è quello di sbarazzarsi della fastidiosa presenza di quest’ultimo, più che di lasciare la figlia libera di decidere:

Come, trouble not yourself, good Master Fenton. I will not be your friend nor enemy. My daughter will I question how she loves you, And as I find her, so am I affected. Till then, farewell, sir. She must needs go in. Her father will be angry. [III.iv.88-93]

L’unica emozione qui seriamente presa in considerazione è la collera di Master Page.

Nel terzo atto di Romeo and Juliet ci si imbatte in una situazione del tutto simile a quella appena descritta, solo che in questo caso la triade protagonista non si presenta affatto come una famiglia disimpegnata. Le famiglie disimpe-gnate, perfettamente funzionali al plot di una commedia farsesca, mal si adatta-no a condurre in modo credibile a un epilogo tragico, perlomeno nel mondo del-la finzione (nella realtà, almeno in quella odierna, è purtroppo facile immagina-re una Anne appena un poco più fragile sviluppare qualche sintomo in grado di portare su di sé l’attenzione dei genitori…). Nella famiglia di Juliet, invece, le emozioni sono intense, e hanno un peso determinante sulla relazione fra i mem-bri della triade. Seppur giocato attorno all’equivoco sul “villain Romeo” (III.v.80) e sul motivo per il quale Juliet lo vorrebbe a portata di mano, il dialo-go iniziale fra lei e la madre è sintomatico, se non di complicità, quantomeno di un rapporto di attenzione:

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CAPULET'S WIFE Why, how now, Juliet?

JULIET Madam, I am not well.

CAPULET'S WIFE Evermore weeping for your cousin's death? [III.v.68-69]

Ma non appena Juliet confida la sua profonda avversione all’idea del suo “careful father”, e cioè il matrimonio con Paris, ecco che la madre subito si ri-trae dalla relazione, interrompendo brutalmente la comunicazione: “Here comes your father. Tell him so yourself, / And see how he will take it at your hands” (III.v.124-125). La conversazione che ne segue (presenti Capulet, sua moglie, Juliet e la Nurse) è, anche soltanto dal punto di vista del turn taking, straordina-riamente ben architettata per convogliare con il massimo dell’efficacia la moda-lità relazionale caratteristica dei Capulet. Anzitutto, possiamo notare che il pa-dre esordisce comunicando con Juliet in modo indiretto, cioè mediando sulla moglie e scaricando su di lei, con il ripetuto ricorso—ipocrita? almeno stando alla scena precedente, parrebbe aver deciso tutto da solo14—ai pronomi plurali (ricorso non condiviso dalla moglie), parte della responsabilità del famigerato accordo con Paris:

CAPULET How now, wife? Have you delivered to her our decree?

CAPULET’S WIFE Ay, sir, but she will none, she gives you thanks. I would the fool were married to her grave.

CAPULET Soft, take me with you, take me with you, wife. How, will she none? Doth she not give us thanks? Is she not proud? Doth she not count her blest, Unworthy as she is, that we have wrought So worthy a gentleman to be her bride? [III.v.137-145]

A questo punto, pur mitigando l’impatto del suo intervento con quella che Capulet definisce sprezzantemente “chopped logic”, è Juliet la prima a trovare il coraggio di avviare il confronto in modalità diretta. La sua precisazione, lungi

14 Cfr. III.iv.13-16.: “I think she will be ruled / In all respects by me. Nay, more, I doubt it

not. / Wife, go you to her ere you go to bed. / Acquaint her here of my son Paris’ love”. Più in generale, possiamo osservare che Capulet non è solito usare il plurale maiestatis, quindi il ricorso ai pronomi plurali di prima persona sembra qui finalizzato a condividere con la moglie (o, ma mi pare più improbabile, con Paris) la scomoda responsabilità della decisione.

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dall’essere un mero sofisma, coglie esattamente il cuore del problema, che è poi il problema shakespeareano—e rinascimentale—per eccellenza per quanto ri-guarda i rapporti intergenerazionali (vedi capitolo 1), e cioè la distinzione fra ubbidienza e gratitudine filiale. Secondo Capulet, i due concetti sono equivalen-ti. Secondo Juliet, in questo senso una degna precorritrice di Cordelia, una figlia può provare gratitudine—e, forse, anche amore—per il proprio padre pur non avendo la benché minima intenzione di piegarsi alle sue assurde pretese.

E la madre? Nel corso del violentissimo attacco del marito a Juliet, intervie-ne due volte, allorquando la reazione di Capulet raggiunge l’apice dell’aggressività verbale, cercando di calmarlo: “Fie, fie, what, are you mad?” (III.v.157) e “You are too hot” (III.v.175). Al pari della temeraria intromissione della Nurse (“You are to blame, my lord, to rate her so.”, III.v.169), si tratta in entrambi i casi di interventi di contenimento rivolti esclusivamente all’aspetto illocutorio della sfuriata del marito, e non certo al suo contenuto. In altre parole, la madre di Juliet sembra non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di potersi schierare dalla parte della figlia, ed esattamente come nel caso di Mi-stress Page analizzato poc’anzi l’unica emozione che pare turbarla è la collera del marito. In effetti, da quando ha pronunciato il fatidico “Tell him so your-self”, la signora Capulet non ha più rivolto la parola alla figlia. La battuta che sancisce la sua uscita di scena—“Talk not to me, for I'll not speak a word. / Do as thou wilt, for I have done with thee.” (III.v.202-203)—è in questo senso una fra le più inesorabili dell’intero canone: più ancora dell’ira di Capulet, che al-meno ha posto delle condizioni, segna il definitivo isolamento di Juliet dalla re-te delle alleanze familiari.

In un’analisi di King Lear, confrontando la situazione di Lear con quella di Giobbe, Harold Bloom a un certo punto si domanda: “[what] would Lear’s wife have said, had she accompanied her royal husband onto the heath?”15 Chissà. Visti i precedenti in fatto di triangoli fra padri, madri e figlie, comunque, pare di intuire che perfino la presenza di un’eventuale Lady Lear avrebbe potuto rive-larsi insufficiente a garantire l’happy ending.

15 H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 70.

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Triangolazioni: “O cursed spite, that ever I was born to set it right!”

Nei casi passati in rassegna nella sezione precedente, il conflitto principale è fra un genitore—il padre—e un figlio o una figlia. In tali situazioni, è alla ma-dre che rimane la possibilità, o forse sarebbe più corretto dire l’incombenza, di decidere quale alleanza privilegiare. Dunque, è lei il “bersaglio” esplicito delle triangolazioni, come è reso evidente dal ruolo di mediatrice conversazionale imposto alla signora Capulet nella scena di Romeo and Juliet appena esaminata. In tali circostanze, la differenza fra figli maschi e figlie femmine parrebbe esse-re significativa. In effetti, se mai si dovesse trarre una generalizzazione di sapo-re freudiano dai pochi casi trattati fino ad ora, verrebbe spontaneo supporre che il triangolo edipico eserciti la sua influenza non tanto nella psiche dei figli quanto in quella delle madri: irremovibili quando si tratta di preservare un le-game privilegiato con i figli, restie e sfuggenti quando invece si tratta risponde-re a un appello delle figlie in conflitto con i propri padri.16

Limitandosi invece a più caute ipotesi extrapsichiche, ciò che possiamo os-servare è che, quando il conflitto riguarda padri e figli o figlie, le madri possono non solo allearsi con i primi (come nel caso della madre di Juliet) o con i secon-di (come nel caso della duchessa di York), ma anche sottrarsi alla triangolazione (come nel caso di Mistress Page). Situazione assai diversa è invece quella nella quale il conflitto principale sia fra i genitori: in tal caso, evitare il coinvolgi-mento diventa per i figli un’impresa praticamente impossibile.

Dovendo elencare i giovani shakespeareani ai quali la possibilità di sottrar-si—dai triangoli familiari come da quelli politici—sia negata in partenza, il no-me di Prince Edward, figlio di Henry VI e di Queen Margaret, figurerebbe cer-tamente fra i primi della lista. La sua condizione appare alquanto fragile sin dall’inizio di 3H6: terreno di negoziazione fra un padre disposto a venderlo po-liticamente pur di regnare in pace e una madre combattiva e determinata a tutto pur di evitare tale disonore, Prince Edward si trova nella posizione più emble-

16 A questo proposito, cfr. Hamlet III.ii.104-105, laddove alla richiesta di Gertrude (“Come

hither, my good Hamlet. Sit by me.”) Hamlet oppone un rifiuto, preferendo sedersi accan-to a Ophelia (“No, good-mother, here's mettle more attractive.”).

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matica che si possa immaginare per impersonare lo stato di crisi conseguente al sovvertimento dell’ordine sociale e familiare, sovvertimento qui rappresentato da una parte dall’interruzione della successione dinastica e dall’altra dall’inversione dei rapporti di potere fra uomo e donna. Nella prima scena del dramma, Queen Margaret si trova in una situazione assai simile a quella della duchessa di York in Richard II e a quella di Virgilia—per quanto rovesciata, poiché qui spetta a lei ergersi a paladina dell’onore—nella scena di Coriolanus analizzata in precedenza: tutte e tre, cioè, tentano di convincere i rispettivi mari-ti a tornare sui propri passi, a cambiare idea. In che modo? Pur dotata di tutt’altra tempra rispetto a Virgilia, Queen Margaret ricorre alla stessa strategia e agli stessi argomenti suoi e della duchessa di York, e in particolare all’esperienza del parto:

Ah, wretched man, would I had died a maid And never seen thee, never borne thee son, Seeing thou hast proved so unnatural a father. Hath he deserved to lose his birthright thus? Hadst thou but loved him half so well as I, Or felt that pain which I did for him once, Or nourished him as I did with my blood, Thou wouldst have left thy dearest heart-blood there Rather than have made that savage Duke thine heir And disinherited thine only son. [I.i.217-226]

Oltre al topos che potremmo chiamare dello “Hadst thou felt that pain”, pos-siamo notare come, nei momenti critici della vita familiare, i personaggi shake-speareani mostrino una spiccata tendenza a fantasticare un’impossibile “riscrit-tura” della propria storia in termini che prevedono la cancellazione della fami-glia stessa, o perlomeno di alcuni membri di essa: in questo senso, il “would I had died a maid” di Margaret è perfettamente equivalente al “Wife, we scarce thought us blest / That God had lent us but this only child, / But now I see this one is one too much” (Rom, III.v.164-166) di Capulet.

Anche nel caso di Queen Margaret, come nei due precedenti, la rievocazione della sofferenza del parto avviene in presenza del figlio, ma qui il coinvolgi-mento di quest’ultimo è assai più lacerante, poiché ciascuno dei genitori tenta di

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coalizzarsi con Prince Edward sottraendolo—anche fisicamente—alla sfera di influenza dell’altro, come ben illustrano le battute che seguono:

KING HENRY Gentle son Edward, thou wilt stay with me?

QUEEN MARGARET Ay, to be murdered by his enemies.

PRINCE EDWARD (to King Henry) When I return with victory from the field, I'll see your grace. Till then, I'll follow her.

QUEEN MARGARET Come, son, away—we may not linger thus.

Exit with Prince Edward [I.i.260-264]

Fortunatamente per la salute mentale del povero Prince Edward—direbbe un terapeuta della famiglia—la ricerca di un’alleanza avviene in modo quanto mai esplicito, ma la violenza psicologica del dialogo non è per questo meno intensa, soprattutto se si pensa alla frase con la quale Queen Margaret si inserisce fra la domanda del padre e la risposta del figlio, squalificando completamente il mari-to sia come guerriero sia, soprattutto, come genitore.

Il coinvolgimento di Prince Edward, a ben guardare, è solo in parte una triangolazione in senso stretto, poiché egli stesso è direttamente coinvolto nel conflitto fra Queen Margaret e Henry VI: in quanto legittimo erede al trono, ha un interesse oggettivo a privilegiare un’alleanza con la madre. Non solo: oltre all’interesse, ha anche la maturità e la forza necessarie per poter esprimere la propria opinione al riguardo. Assai più tragica—nonché per molti aspetti straor-dinariamente moderna—è invece la posizione di un altro giovane personaggio shakespeareano: Mamillius. “As The Winter’s Tale indicates”, scrive Catherine Belsey al riguardo, “the most helpless victims of parental love-turned-to-hate are the children, who cannot be held to blame. Mamillius, allowed to charm the audience at the beginning of the play, is not restored to life in the end.”17 Nella lettura di Belsey, a dire il vero, l’indicazione che il dramma offre riguardo agli effetti perniciosi del conflitto genitoriale su Mamillius parrebbe essere di natura principalmente simbolica: “Unpredicted and arbitrary, sexual jealously disman-

17 C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in

Early Modern Culture, p. 127.

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tles a marriage; the unaccountable rage of Leontes violently displaces parental care, as Mamillius dies of grief and his newborn sister is exposed to die”.18

Ora, mentre pare indubbio che la morte di Mamillius sia da ricondursi al do-lore per la condizione della madre (“The prince your son, with mere conceit and fear / Of the Queen's speed, is gone”, III.ii.143.144), non mi sentirei di sostene-re, come sembra suggerire Belsey, che il cambiamento di cui egli si rende pro-tagonista nella prima parte del dramma sia così imprevedibile e occasionato so-lo dalla gelosia di Leontes. Il dilemma di Mamillius, al contrario, mi pare profi-larsi sin dalle prime battute che lo si ode scambiare in scena, ed è il dilemma di chi—come accade ai bambini—si trova in una posizione troppo debole per sot-trarsi all’ambivalente pressione della triangolazione. Sua madre ha appena stret-to la mano di Polixenes, quand’ecco che Leontes, il quale dall’inizio della scena ha totalmente ignorato la presenza del figlio (mentre non gli è sfuggito il gesto della moglie, gesto che la gelosia ha ingigantito al punto da trasformarlo in un “paddling palms and pinching fingers”, I.ii.117), subito si ricorda di lui con una domanda che, a un bambino, deve parere curiosamente bizzarra, ma il cui nu-cleo semantico, subito reso esplicito agli spettatori, è esattamente quello già os-servato nelle precedenti scene di triangolazione: l’incertezza della paternità.

LEONTES Mamillius, art thou my boy?

MAMILLIUS Ay, my good lord.

LEONTES I' fecks, Why, that's my bawcock. What? Hast smutched thy nose? They say it is a copy out of mine. Come, captain, We must be neat—not neat, but cleanly, captain. And yet the steer, the heifer, and the calf Are all called neat.—Still virginalling Upon his palm?—How now, you wanton calf— Art thou my calf?

MAMILLIUS Yes, if you will, my lord.

LEONTES Thou want'st a rough pash and the shoots that I have, To be full like me. Yet they say we are Almost as like as eggs. Women say so, That will say anything. But were they false As o'er-dyed blacks, as wind, as waters, false

18 Ibid., p. 102.

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As dice are to be wished by one that fixes No bourn 'twixt his and mine, yet were it true To say this boy were like me. Come, sir page, Look on me with your welkin eye. Sweet villain, Most dear'st, my collop! Can thy dam—may 't be? [I.ii.121-139]

Mi pare evidente che questa delirante sovrapposizione fra monologo interio-re e dialogo è destinata anzitutto all’asse esterno. Ciò non toglie che abbia un effetto anche su Mamillius, che si trova involontariamente ad essere “arruolato” dal padre in una battaglia della quale non ha la benché minima consapevolezza. Anche lo scambio successivo, con le sue frequenti connotazioni relative alla vi-ta militare, sembra insistere sul tema del reclutamento:

LEONTES Mine honest friend, Will you take eggs for money?

MAMILLIUS No, my lord, I'll fight.

LEONTES You will? Why, happy man be 's dole!—My brother, Are you so fond of your young prince as we Do seem to be of ours?

POLIXENES If at home, sir, He's all my exercise, my mirth, my matter; Now my sworn friend, and then mine enemy; My parasite, my soldier, statesman, all. He makes a July's day short as December, And with his varying childness cures in me Thoughts that would thick my blood.

LEONTES So stands this squire Officed with me. We two will walk, my lord, And leave you to your graver steps. Hermione, How thou lov'st us show in our brother's welcome. Let what is dear in Sicily be cheap. Next to thyself and my young rover, he's Apparent to my heart. [I.ii.162-178]

Un tratto distintivo della triangolazione è che, al contrario di un’innocua manifestazione di affetto genitoriale, viene attuata solo quando serve. E quando serve, Mamillius, a Leontes? Stando alle stage directions, sembra risultare utile alla sua strategia soprattutto quando Hermione è in scena. Non appena questa se ne va, infatti, ecco che Leontes si affretta a congedare il figlio, non senza un ul-timo tentativo di insinuare in lui avversione nei confronti della madre (“Go play, boy, play. Thy mother plays, and I / Play too; but so disgraced a part,

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whose issue / Will hiss me to my grave. Contempt and clamour / Will be my knell. Go play, boy, play.”, I.ii.188-191). A questo punto, mi pare ci siano suffi-cienti indizi per avanzare l’ipotesi che il ruolo di Mamillius nell’economia del dramma non sia semplicemente quello di vittima designata, ma anche quello di strumento passivo usato da Leontes nella sua guerra totale contro la moglie: sot-traendoglielo, le dà un consistente assaggio delle punizioni esemplari che l’attendono.

Ciò che accade in un punto cruciale della scena successiva sembra conferma-re la lettura ora proposta:

LEONTES (To Hermione) Give me the boy. I am glad you did not nurse him. Though he does bear some signs of me, yet you Have too much blood in him.

HERMIONE What is this? Sport?

LEONTES (to a Lord) Bear the boy hence. He shall not come about her. Away with him, and let her sport herself With that she's big with, (to Hermione) for 'tis Polixenes Has made thee swell thus.

Credo che nessun altro dialogo shakespeareano—e, per quanto ne so, nessu-na opera letteraria precedente—sia in grado di offrire una rappresentazione più cruda ed esplicita di ciò che si intende attualmente con l’espressione “bambino conteso” e, più in generale, di strumentalizzazione dei figli.

Un ultimo aspetto degno di nota della triangolazione di cui Mamillius è og-getto mi pare essere che anche Hermione, pur con tutt’altro stile, a modo suo usa il figlio. Nel terzo atto, rivolgendosi a Leontes, definisce Mamillius “My second joy, / And first fruits of my body”, e si lamenta perché “from his pres-ence / I am barred, like one infectious.” (III.ii.95-97). Ovviamente, data la situa-zione in cui si trova, non ci è difficile credere alla sincerità dei suoi sentimenti. Ma ciò non ci impedisce di ricordare che le sue prime parole riguardo a Mamil-lius, quando ancora la quotidianità della vita familiare non era oscurata da mi-nacce di morte, furono quelle rivolte alle dame di compagnia: “Take the boy to you. He so troubles me / 'Tis past enduring.” (II.i.1.2). Con questo, non intendo certo suggerire che Hermione abbia una parte di “responsabilità”: quale madre non ha il diritto a desiderare un istante di tregua, soprattutto se in stato di gravi-

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danza e perciò presumibilmente assillata da un figlio geloso? Ma proprio quest’ultimo aspetto—la gelosia per la sorellina in arrivo—potrebbe essere con-siderato un ulteriore tassello che contribuisce a rendere insostenibile la posizio-ne di Mamillius all’interno della famiglia. Dunque, un Mamillius “allowed to charm the audience at the beginning of the play”, come vorrebbe Belsey? In parte, forse, sì. Ma con tutte le ambiguità e le sfumature di un’opera che, pur densa di eventi meravigliosi, dal punto di vista delle relazioni familiari è una fra le più mimetiche di tutto Shakespeare.19

Ci resta ora da affrontare un’ultima scena di triangolazione: la ben nota clo-set scene di Hamlet. Sotto numerosi punti di vista, è una scena di triangolazione assolutamente peculiare: anzitutto, uno dei due genitori non è più in vita (alme-no in senso strettamente biologico, poiché per il resto pare essere più vitale di molti altri personaggi); secondo aspetto anomalo, solo il figlio può udire e vede-re il padre, il che crea una situazione nella quale la triangolazione è pressoché inevitabile, poiché colloca Hamlet in una posizione di mediazione non solo fra padre e madre, ma anche fra il mondo dei vivi e quello dei non vivi (anche se non ancora del tutto morti);20 infine, il rapporto fra Hamlet e Gertrude è, fra tut-te le relazioni madre-figlio, quello conversazionalmente più ricco di tutto il ca-none shakespeareano (vedi tab. C.6 in appendice). A tutto ciò si deve aggiunge-re, naturalmente, la particolarità della situazione stessa: Gertrude, almeno agli occhi di Hamlet e del Ghost, è una madre che sembra aver tradito—non si sa bene fino a che punto: quando ha avuto inizio la sua relazione con Claudius? è

19 Cfr. H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, pp. 639-40: “Wilson Knight,

subtly evading his own inveterate transcendentalism, judged the play’s deity to be neither biblical nor classical, but rather what he called «Life itself», rightly testifying to The Win-ter’s Tale’s naturalism, marvellous in its scope. Realism is a very difficult term to employ in discussions of imaginative literature, but to me The Winter’s Tale is far more realistic than Sister Carrie or An American Tragedy. Dreiser is more the romancer, while Shake-speare is the truest poet of things as they are.”

20 Stephen Greenblatt, per esempio, lo colloca in una sorta di rappresentazione teatrale del Purgatorio, rappresentazione intesa a restituire al pubblico—seppure solo in forma di fin-zione—quello spazio, tipicamente cattolico, di mediazione fra vita e morte che il Puritane-simo stava in tutti i modi cercando di eliminare (cfr. S. GREENBLATT, Hamlet in Purga-tory, 2001).

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stata complice nell’omicidio?—il marito. Dunque, come nel caso di The Win-ter’s Tale, ci troviamo davanti a una scena di triangolazione originata da un so-spetto di tradimento da parte della moglie ai danni del marito.

Riguardo quest’ultimo aspetto, è interessante osservare quanto di frequente, in Shakespeare, le tragedie di coppia tendano a lasciare uno spazio aperto, per quanto ridotto, al dubbio, all’ambiguità, al mistero (si pensi al rapporto fra De-sdemona e Cassio, o a quello fra Hermione e Polixenes). Ciò raggiunge l’apice in Hamlet, che se visto come un romanzo giallo lascerebbe i propri lettori al-quanto perplessi circa il coinvolgimento effettivo di Gertrude. Ed è proprio que-sto stato di incertezza, di assenza di “prove oggettive di colpevolezza”, a costi-tuire il contesto comunicazionale della closet scene e, più in generale, il leit mo-tif delle interpretazioni su Hamlet: è o non è in grado di agire? E se lo è, cosa lo conduce a una situazione di stallo che permetterebbe al dramma di protrarsi, in una rappresentazione puntualmente fedele, per circa sei ore?

Ognuno ha le proprie proposte, spesso in contraddizione l’una con l’altra. Coleridge individuava il motivo dell’esitazione di Hamlet in una “great, an al-most enormous, intellectual activity, and a proportionate aversion to real action consequent upon it”.21 A.C. Bradley, nella sua magistrale lettura sulle cause del-la melancholy di Hamlet, si oppone a tale interpretazione suggerendo scherzo-samente che possa essere frutto di una proiezione della nevrosi dello stesso Co-leridge, “for it is downright impossible that the man we see rushing after the Ghost, killing Polonius, dealing with the King’s commission on the ship, board-ing the pirate, leaping into the grave, executing his final vengeance, could ever have been shrinking or slow in an emergency. Imagine Coleridge doing any of these things!”22 La psicoanalisi, prima con Freud poi con Ernest Jones, scavan-do tanto nel presente di Shakespeare23 quanto nell’infanzia di Hamlet,24 vi rin-

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viene inesorabilmente un conflitto edipico represso. Goddard, non meno sarca-stico di Bradley, replica a sua volta che “it is as if Hamlet, of all characters in literature, were specifically created not to be understood by the Freudian psy-chology.”25 E che dire della querelle fra chi vede in Hamlet anzitutto il protago-nista di una revenge tragedy—“the slow avenger of his father’s death”,26 come recita l’accurata definizione di Hazlitt—e chi, invece, come Girard,27 l’emblema dell’assurdità della vendetta?

La qualità e la quantità di questi e innumerevoli altri interventi, succedutisi negli ultimi quattro secoli, costituiscono al tempo stesso una risorsa preziosa e un ostacolo non da poco per chi, volente o nolente, si ritrovi come me a dover aggiungere il proprio, per quanto modesto e ininfluente, contributo. La difficol-tà principale, a mio modo di vedere, non sta tanto nell’evitare di scrivere qual-cosa di già scritto—ritengo infatti che sia pressoché inevitabile, avendo a che fare con Hamlet, rassegnarsi in partenza a dover limitare in modo radicale le proprie ambizioni di originalità—quanto nel fatto che il filtro costituto da tante interpretazioni autorevoli, sedimentatesi l’una sull’altra nel corso dei secoli, ci

21 S.T. COLERIDGE, “Hamlet”, 1819 (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 21). 22 A.C. BRADLEY, Shakespearean Tragedy, p. 110. 23 Cfr. S. FREUD, The Interpretation of Dreams, 1900: “Hamlet was written immediately af-

ter the death of Shakespeare’s father, that is, under the immediate impact of his bereave-ment and, as we may well assume, while his childhood feelings about his father had been freshly revived.” (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 41).

24 Cfr. E. JONES, Hamlet and Oedipus, 1949: “We have here the reason why it is impossible to discuss intelligently the state of mind of anyone suffering from a psychoneurosis, whether the description is of a living person or an imagined one, without correlating the manifestations with what must have operated in his infancy and is still operating. That is what I propose to attempt here.” (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 53).

25 H.C. GODDARD, The Meaning of Shakespeare, 1951 (in H. BLOOM, a cura di, Hamlet, p. 108).

26 W. HAZLITT, Characters of Shakespeare’s Plays, 1817 (in H. BLOOM, a cura di, p. 15). 27 Cfr. R. GIRARD, “Hamlet’s Dull Revenge”: “We can make sense out of Hamlet just as we

can make sense out of our world, by reading both against revenge. This is the way Shake-speare wanted Hamlet to be read and the way it should have been read long ago.” (in H. BLOOM, a cura di, p. 185).

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allontana e ci rende quanto mai scettici rispetto alle intuizioni che la nostra e-sperienza personale di vita, e in particolare di vita in famiglia, potrebbe offrirci.

Con il fine dichiarato di riconquistare un poco di libertà (per quanto artifi-ciosa) di movimento, propongo dunque di partire da due considerazioni, di fon-te autorevolissima l’una quanto di fonte sconosciuta l’altra, assai distanti nel tempo, ma in un certo senso stranamente affini. La prima è del dottor Johnson, il quale, nel 1765, faceva un’osservazione in netto contrasto con quelle, assai in voga in tempi più recenti, di chi vede in Hamlet l’attore, il regista, lo sceneggia-tore e perfino il creatore di se stesso e del suo dramma: “Hamlet is, through the whole play, rather an instrument than an agent.”28 L’altra è invece di una classe di anonimi studenti della nostra epoca, a mio giudizio ottimi rappresentanti di una notevole percentuale degli odierni spettatori e lettori shakespeareani “non professionisti”, così come la riporta la loro docente di letteratura all’Indiana University: “They see [Hamlet] as the product of a dysfunctional family long before they see him as a tragic hero.”29

Cosa accomuna queste due definizioni? O, detto, altrimenti, in quale luogo “Hamlet come strumento” e “Hamlet come prodotto di una famiglia disfunzio-nale” possono sovrapporsi? Per rispondere, vorrei cominciare riportando un ca-so clinico dei nostri tempi, trattato alcuni anni fa dall’équipe milanese di terapia della famiglia guidata da Maria Selvini Palazzoli, e riportato con un titolo che, se riferito a Hamlet, penso riuscirebbe a riscuotere un’approvazione pressoché unanime da parte degli interpreti shakespeareani del XX secolo: “Il custode del buon costume”. Il resoconto è un po’ lungo, ma credo valga la pena riportarlo senza eccessivi tagli, lasciando ai lettori la libertà di decidere—magari con il te-sto di Hamlet a fianco—anche sulla rilevanza di particolari a prima vista super-flui:

Il caso che qui presentiamo fu per certi lati perfino eccitante. Si trattava di una coppia sulla quarantina, che chiedeva aiuto per un figlio unico di diciott’anni, da alcuni mesi dimesso dal reparto psichiatrico di un ospedale, in cui era stato ricove-

28 S. JOHNSON, The Plays of William Shakespeare, 1765 (in H. BLOOM, a cura di, p. 7). 29 J.A. SPECTOR, “Anne Tyler’s Dinner at the Homesick Restaurant: A Critical Feast”, p.

310.

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rato per una crisi psicotica acuta definita come confusionale. Il ragazzo, che già precedentemente alla crisi aveva lasciato la scuola, le amicizie, l’attività sportiva, viveva letteralmente incollato ai genitori, specialmente alla madre. I genitori pos-sedevano e conducevano insieme un’azienda commerciale […]. Erano entrambi di bell’aspetto, ma il personaggio di gran lunga più interessante era la moglie. Non solo essa non dimostrava affatto la sua età, ma (senza risultare ridicola) si vestiva e si pettinava come un’adolescente un po’ perduta, diffondendo intorno a sé (im-possibile capire come, ma i maschi dell’équipe lo avvertivano benissimo anche at-traverso lo specchio [unidirezionale]) un clima di erotismo peccaminoso.30

Incerti sul da farsi, i terapeuti optarono come prima mossa per un tradiziona-le intervento di rinforzo dei confini intergenerazionali, ossia prescrissero alla coppia un certo numero di uscite serali a due, senza alcun coinvolgimento del figlio. Ma questa prescrizione incontrò una certa resistenza:

Inaspettatamente, trattandosi di una coppia elegante che sfoggiava importanti relazioni mondane, il marito sollevò contro le sparizioni obiezioni a non finire: non sapeva darsi pace per le possibili angosce di Dario [il figlio], e con vari prete-sti e contrattempi ne procrastinò l’esecuzione. Ciò ci fece sospettare il timore da parte del marito che le sue sparizioni con la moglie disgustassero Dario; e soprat-tutto che quel figlio onnipresente gli facesse molto comodo. […] L’esplosione psicotica di Dario era stata preceduta da un episodio patetico: il suo amico e coe-taneo, che frequentava la loro casa, si era preso una cotta travolgente per sua ma-dre. Poco dopo suo padre aveva avuto un attacco coronarico. Ipotizzammo che e-gli non si sentisse affatto sicuro che quel biondo ragazzo non turbasse la pace di sua moglie.

Lo stile provocatorio della donna ci parve consistere proprio in questo: nessu-no […] riusciva a capire cosa mai si nascondesse sotto quei lunghi capelli ricciuti, dietro lo sguardo languido di quei drammatici occhi scuri. Era innamorata? Era indifferente? Voleva peccare? Non aveva peccato? ... Così Dario, dopo un breve periodo di comportamenti inusitati durante il quale cercò di angosciare la madre frequentando un gruppo di balordi, aveva deciso di assumersi in proprio, con i comportamenti psicotici, il controllo di una situazione familiare costantemente in “zona di luce rossa”.

Come psicotico, Dario era una guardia del corpo efficientissima. La sua gior-nata era la seguente: si alzava al mattino alla stessa ora dei genitori, con loro pren-deva la prima colazione e con loro si trasferiva nell’azienda, dove occupava un piccolo scrittoio accanto a quello della madre. Lì trascorreva senza far nulla l’intera giornata. Impossibile farlo uscire con amici, mandarlo al cinema, indurlo a riprendere qualche attività sportiva. Se gli capitava di stare qualche ora in casa so-lo con la madre, le ronzava intorno come a spiarla…31

30 M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 138. 31 Ibid., pp. 138-139.

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A scanso d’equivoci premetto subito che non è certo mia intenzione suggerire che Dario possa essere considerato un epi-gono di Hamlet—se non nella misura in cui, come vorrebbe Bloom, tutti noi un po’ lo siamo… Le differenze individuali, è e-vidente, sono incommensurabili, a partire dal fatto che il padre di Dario è vivo e ve-

geto (anche se reduce da un attacco coronarico…), al contrario del padre di Hamlet. Ciò che mi pare rilevante è piuttosto l’affinità, fra i due “casi”, a livello di contesto relazionale. Una rappresentazione schematica di tale contesto è quella descritta dal caso D della figura 6.1 (riportato in figura 6.2 con le linee di alleanza/conflitto adattate alla situazione di Hamlet): una situazione, cioè, “in cui due genitori in conflitto aperto o dissimulato tentano entrambi di procacciar-si la simpatia o l’appoggio del figlio contro l’altro”, scrive Lynn Hoffman. E aggiunge un’annotazione, tutt’altro che marginale, che mi pare colga perfetta-mente la sublime complessità emotiva della closet scene: “Un genitore starà dal-la parte del bambino contro l’altro e a volte è difficile determinare se sia in maggiore difficoltà il bambino o l’altro coniuge.”32

Tornando ora al dottor Johnson e agli studenti di letteratura dell’Indiana University, la corrispondenza fra “Hamlet come strumento” e “Hamlet come prodotto di una famiglia disfunzionale” dovrebbe essere più chiara, e si tratta ancora una volta di un fenomeno tipicamente circolare: a) Hamlet serve al padre

32 L. HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, p. 146. A proposito di “triangoli perver-

si”—o inammissibili, come li chiama Hoffman, è interessante osservare che in Hamlet so-no almeno due: considerando anche Claudius, infatti, si ottengono due “triadi congrue” (Old Halmet-Hamlet-Claudius e Old Hamlet-Gertrude-Claudius), ossia riassumibili nella formulazione “il nemico del mio amico è mio nemico”, e due “triadi incongrue” (Old Ha-mlet-Hamlet-Gertrude e Claudius-Gertrude-Hamlet), riassumibili nella formulazione “il nemico del mio amico è mio amico”. L’aspetto che mi pare rilevante di questo tipo di rap-presentazione è che individua correttamente, basandosi soltanto su coordinate strutturali, le posizioni critiche (o “a rischio”, se si preferisce), e cioè quelle dei due personaggi che si ritrovano ad essere “amici” di due “nemici”: rispettivamente, Hamlet (benvoluto da un pa-dre e da una madre in conflitto) e Gertrude (benvoluta da un marito—Claudius—e da un figlio in conflitto).

FIG. 6.2 - IL TRIANGOLO “PERVERSO”

OLD HAMLET GERTRUDE

HAMLET

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per punire il fratello assassino e, inevitabilmente, per quanto in modo indiretto, la moglie; b) questo suo dover essere utile a qualcuno che lo ama (Old Hamlet) per danneggiare una persona che lo ama altrettanto (Gertrude) pone Hamlet in una stato di potenziale dissociazione, uno stato nel quale le sole possibili alter-native paiono essere, secondo la teoria dei sistemi familiari, il “ritirarsi nel re-gno del sogno ad occhi aperti, della fantasia, dell’arte o, per citare manifesta-zioni più patologiche, nella schizofrenia o nella paranoia”;33 c) “to put an antic disposition on” (I.v.173) è l’alternativa “scelta” da Hamlet, ma è al tempo stesso lo strumento che meglio gli permetterà di portare a termine il compito affidato-gli dal padre, quindi di servire.

A questo proposito, vorrei sottolineare due aspetti. Anzitutto, non mi con-vince quanto scriveva il dottor Johnson circa la “feigned madness” di Hamlet, e cioè che “he does nothing which he might not have done with the reputation of sanity”:34 come minimo, il suo comportamento crea sconcerto e causa disagio, sia nel rapporto fra Claudius e Gertrude sia più in generale nell’ambiente di cor-te. Sono infatti la sua melancholy e le sue bizzarrie—il suo ostinato comportarsi da “paziente designato”—a guastare la felicità coniugale di Claudius e, soprat-tutto, di Gertrude. In questo senso, The Mousetrap, indipendentemente dal suo successo o meno (vedi capitolo 4) come cartina al tornasole della colpevolezza di Claudius, è un esempio fra tanti di quella serie di efficaci “strategie di distur-bo” che costituiscono, a mio avviso, non tanto un’esitante preparazione alla vendetta quanto, piuttosto, la vendetta stessa—per quanto, parafrasando Hazlitt, una “slow vengeance”. E, proprio per questa sua agonizzante lentezza—“This physic but prolongs thy sickly days” (III.iii.96), riconoscerà lo stesso Hamlet—assai più terribile della deludente vendetta finale. Il secondo aspetto della follia di Hamlet che mi preme porre in rilievo riguarda il suo rapporto con i compor-tamenti psicotici “autentici”. La distinzione fra “follia simulata” e “follia vera”, almeno da un punto di vista sistemico, non è affatto così netta, anzi: se si consi-dera il sintomo non tanto come una conseguenza (magari dipendente da fattori

33 Ibid., p. 115. 34 S. JOHNSON, The Plays of William Shakespeare, 1765 (in H. BLOOM, a cura di, p. 7).

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genetici o ambientali) quanto come un comportamento funzionale, finalizzato a qualche scopo, la follia è in un certo senso sempre simulata. Jay Haley, per e-sempio, parla a questo proposito di “the art of being schizophrenic”,35 e lo stes-so Gregory Bateson, nel suo “A Theory of Play and Fantasy”,36 aveva messo in luce le affinità fra i processi soggiacenti alla formazione delle metafore e quelli in atto nella comunicazione caratteristica degli schizofrenici. La differenza, semmai, è che nel caso dei sintomi “autentici” non si è liberi di decidere quando interrompere la simulazione: il contesto, e in particolare il contesto familiare, non lo permetterebbe.

E Hamlet? È libero, Hamlet, di abbandonare la sua “antic disposition” e di affrontare apertamente, ossia parlandone con Gertrude in modo esplicito, i dub-bi e i conflitti che lo assillano? L’occasione gli si offre—su invito di Gertrude (tramite Polonius: “My lord, the Queen would speak with you, and presently”, III.ii.362-363)—precisamente con la closet scene. Ben determinato ad andare senza troppi giri di parole al cuore del problema, pur contenendosi entro i limiti premurosamente tracciati dal padre nel primo atto (“I will speak daggers to her, but use none”, III.ii.385), Hamlet accetta il confronto.

Sin dalle prime battute, si delinea come un’escalation simmetrica ad altissi-ma tensione. Nello spazio di una ventina di versi, assistiamo, nell’ordine, a: a) un attacco esplicito, da parte di Gertrude, sul piano del contenuto (“Hamlet, thou hast thy father much offended”, III.iv.9); b) un contrattacco altrettanto du-ro, da parte di Hamlet, giocato sulla definizione di “padre”, che Gertrude vor-rebbe comprendesse “il marito della madre” mentre per Hamlet ciò è inaccetta-bile (“Mother, you have my father much offended”, III.iv.10); c) con un sinto-matico abbandono del ‘thou’ per un più distaccato ‘you’, il dialogo si sposta sul piano della relazione, diventando così un meta-scambio sull’appropriatezza del-le reciproche battute (Gertrude: “Come, come, you answer with an idle tongue”; Hamlet: “Go, go, you question with a wicked tongue”, III.iv.11-12); d) uno

35 L. HOFFMAN, Foundations of Family Therapy, p. 119. 36 G. BATESON, “A Theory of Play and Fantasy; a Report on Theoretical Aspects of the Pro-

ject for Study of the Role of Paradoxes of Abstraction in Communication”, 1955 (in G. BATESON, Steps to an Ecology of Mind).

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scambio di minacce (Gertrude: “I'll set those to you that can speak”; Hamlet: “You shall not budge. You go not till I set you up a glass...”, III.iv.18-19); e) un omicidio!

Il fatto che Hamlet e Gertrude, nonostante l’ingombrante presenza del cada-vere di Polonius, continuino a dialogare imperterriti è un segnale non trascura-bile dell’importanza che il loro scambio riveste. La morte di un personaggio tutt’altro che marginale come Polonius, in altre circostanze e in altri drammi, sa-rebbe infatti stata più che sufficiente per decretare il raggiungimento di un cli-max tale da indurre quanto meno una variazione nel programma narrativo. Ma in queste prime battute si può osservare anche un altro fenomeno che, nelle pre-cedenti analisi di scene di triangolazione, già abbiamo incontrato (vedi sezione su 3H6 in questo capitolo), ossia la tendenza, nei momenti critici, alla “riscrittu-ra” della storia familiare: “You are the Queen, your husband's brother's wife. / But—would you were not so—you are my mother” (III.iv.15-16), risponde in-fatti Hamlet allo “Have you forgot me?” di Gertrude.

Il dialogo procede poi con quello che Janet Adelman definisce “Hamlet’s at-tempt to [...] recover the fantasied presence of the asexual mother of childho-od”,37 e che io, in modo meno azzardato, mi limito a considerare un tentativo da parte di Hamlet di ricreare—perlomeno in termini emotivi—la triade primaria: ossia, inducendo in Gertrude il senso di colpa (“Such an act / That blurs the grace and blush of modesty...”, III.iv.39-40), stabilendo un confronto fra Old Hamlet e Claudius a favore del primo (“Look here upon this picture, and on this...”, III.iv.52) e, infine, cercando di elicitare in lei qualche segno di emozio-ne (“O shame, where is thy blush?”, III.iv.72), Hamlet tenta di riavvicinare la madre al padre, o perlomeno al ricordo del padre (“Remember me”, I.v.91, era stata la consegna dello spettro al momento dell’addio).

La domanda da porsi, a questo punto, mi pare essere: perché Hamlet si accolla un compito simile? Non certo per adempiere al giuramento fatto al padre, il quale era stato assai esplicito al proposito (“Leave her to heaven, / And to those thorns that in her bosom lodge / To prick and sting her.”, I.v.86-88). 37 J. ADELMAN, Suffocating Mothers. Fantasies of Maternal Origin in Shakespeare’s Plays,

p. 33.

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those thorns that in her bosom lodge / To prick and sting her.”, I.v.86-88). Per preparare Gertrude a quanto sta per accadere? Nemmeno, visto che nella scena precedente, quando Hamlet ha avuto occasione di uccidere Claudius, questa motivazione non lo ha nemmeno sfiorato. Per autentico “disgusto”, allora? Vale a dire, perché considera l’adulterio della madre socialmente e religiosamente i-nammissibile? Questa è di sicuro una delle possibili ragioni, come dimostrano i numerosi riferimenti alle “reazioni” del Cielo e della Terra (“Heaven's face doth glow, / Yea, this solidity and compound mass / With tristful visage, as against the doom, / Is thought-sick at the act”, III.iv.47-50). D’altronde, è ben noto quanto il double standard maschilista—secondo il quale l’adulterio da parte di donna era un “delitto” così grave da corrispondere non tanto al veniale adulterio da parte di uomo quanto, piuttosto, all’omicidio—fosse comunemente accettato dalla popolazione maschile dell’epoca.

A questo riguardo, poiché il differente atteggiamento sociale fra epoca elisa-bettiana e epoca odierna potrebbe sollevare giustificate perplessità circa il punto di vista sistemico qui adottato, penso sia interessante riportare quanto osservano i terapeuti dell’équipe di Milano sul fenomeno della prevalenza di coalizioni contro la madre:

Un dato clinico su cui ci siamo a lungo interrogati è il seguente: perché mai ri-leviamo una netta prevalenza di coalizioni del paziente designato con il padre con-tro la madre anche nelle psicosi a insorgenza adolescenziale o giovanile? [vs psi-cosi a insorgenza infantile, per le quali la spiegazione esula almeno in parte da fat-tori culturali] Quali potrebbero essere le ragioni culturali che spiegano questo ri-proporsi del medesimo schema prevalente, che vede il figlio solidarizzare con un padre ritenuto succube di una madre prevaricatrice? Non ci sembra che nei ruoli dei due genitori con figli già adolescenti siano presenti differenze così significati-ve da giustificare questo dato. Ci pare, invece, che un motivo possa essere il se-guente: nella nostra società è più coerente con gli stereotipi sessuali (gender-role) aspettarsi che il provocatore attivo sia il padre, a causa del modello tradizionale dell’uomo forte e dominatore, sia dei privilegi maschili non ancora scomparsi.38

38 M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, pp. 201-202. Sui concetti di

provocatore passivo e provocatore attivo, vedi capitolo 4 (sezione su The Taming of the Shrew). In generale, possiamo identificare il provocatore attivo nel coniuge con compor-tamento apertamente aggressivo e/o provocante (in Hamlet, Gertrude), e quello passivo nel coniuge più defilato, e in apparenza succube degli eventi, ma in realtà anch’egli parte-cipe al conflitto (in Hamlet, ovviamente Old Hamlet).

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A quanto pare, benché la terapia della famiglia abbia iniziato a studiare il fe-nomeno del coinvolgimento dei figli nei conflitti coniugali oltre tre secoli e mezzo dopo la prima rappresentazione di Hamlet, gli stereotipi sessuali non sembrano—purtroppo—essere cambiati abbastanza da rendere l’approccio qui adottato totalmente anacronistico... Maria Selvini Palazzoli e i suoi colleghi proseguono poi annotando un ulteriore pattern che tende a riproporsi nella triangolazione fra genitori e figli, e si tratta di un pattern estremamente illumi-nante per la nostra lettura della closet scene:

Ora, nei casi in cui nello stallo di coppia è il padre a ricoprire il ruolo del pro-vocatore attivo, possiamo sì registrare nel figlio che si intromette la comparsa di comportamenti disturbanti, ma raramente essi sono di tipo psicotico. [...] Invece, nelle nostre famiglie con un paziente designato psicotico, c’è un doppio fattore di confusione: anzitutto il provocatore passivo è il padre (contrariamente alle aspetta-tive connesse al gender-role), il quale seduce il figlio e lo istiga contro la madre. In più, al momento della resa dei conti, quello stesso padre non “osa” appoggiare la decisione del figlio di ribellarsi a sua madre. Anzi, solidarizza con lei, biasi-mandolo.39

Al momento della resa dei conti... solidarizza con lei, biasimandolo. Nessuna delle letture nelle quali che mi è fino ad ora capitato di imbattermi è riuscita a convincermi pienamente circa la motivazione, sull’asse interno, del bizzarro in-tervento del Ghost a metà della closet scene. Certo, per quanto concerne l’asse esterno, l’improvvisa apparizione del vecchio re—magari “in his night gowne”, come vorrebbe l’intrigante stage direction del malconcio Q1, e magari interpre-tato dallo stesso Shakespeare—è un coup de théâtre senza uguali. Così come è ovvio il legame sintagmatico fra evocation (l’elogio del padre da parte di Ham-let) e visitation. L’imperativo d’esordio (“Do not forget”), a sua volta, instaura indubbiamente una continuità con il “Remember me” del primo atto, e insieme al verso circa la vendetta ancora incompiuta (“This visitation Is but to whet thy almost blunted purpose”) rende plausibile la prima parte dell’intervento. Ma lo spettro non si limita ad apparire e a ricordare il lavoro ancora da compiere:

39 Ibid., pp. 202-203.

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But look, amazement on thy mother sits. O, step between her and her fighting soul. Conceit in weakest bodies strongest works. Speak to her, Hamlet. [III.iv.102-105]

Come spiegare questa “intrusione” nel primo scambio profondo—per quanto teso—fra Hamlet e Gertrude? E perché dire a qualcuno, in questo caso al figlio, di fare ciò che già sta facendo da qualche minuto, ossia di parlare alla madre? Considerando il solo punto di vista di Old Hamlet, la spiegazione parrebbe semplice e lineare: lo spettro è preoccupato per la precaria condizione psicolo-gica di Gertrude, e non potendo intervenire in prima persona delega l’incarico al figlio. Ma quali possono essere le conseguenze—che Old Hamlet ne sia consa-pevole o meno—di un simile intervento sull’intera triade, e in particolare sulla relazione fra Hamlet e Gertrude? Per tentare una risposta, riporto qui una delle regole, già incontrata nel quarto capitolo, sull’induzione del cambiamento: “If one person wants to influence another person’s behavior, there are basically only two ways of doing it. The first consists of trying to make the other behave differently. [...] The other approach consists in making him behave as he is al-ready behaving”.40 Qual è l’effetto paradossale di questo secondo approccio? Anzitutto, un’alienazione dell’arbitrio e della spontaneità: d’ora in poi, il collo-quio di Hamlet con la madre sarà in qualche modo viziato, poiché risulta inseri-to—perlomeno nella mente di Hamlet, il quale a differenza di Gertrude ha visto e udito il padre—entro un contesto di ingiunzione (“Speak to her, Hamlet”). Non a caso, la domanda che egli le rivolge immediatamente dopo l’intervento del padre (“How is it with you, lady?”) è piuttosto “fuori tono” rispetto al serra-to e violento dialogo che la precede.

Un secondo effetto, ed è ciò che mi ha indotto a definire l’intervento del Ghost come un’intrusione, è l’ingerenza nella relazione madre-figlio. Green-blatt, cogliendone il lato positivo, osserva: “To be sure, this ghost has appeared not to his wife but to the son from whom he demands vengeance. Yet what we see—what Hamlet sees not only here but also, in his imagination, again and

40 P. WATZLAWICK et al., Pragmatics of Human Communication, p. 237.

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again—is a gesture of spousal tenderness and solicitude”.41 Pur trovandomi so-stanzialmente d’accordo con questa lettura, ritengo che evidenzi solo una faccia della medaglia. Proviamo infatti a pensare per un istante alla situazione in cui si trova Hamlet in questo frangente: benché tormentato dai dubbi e dal senso di colpa per non aver ancora attuato la vendetta, il suo duro attacco a Gertrude—per quanto discutibile—è comunque inteso a difendere l’onore del padre, oltre che a tentare di recuperare quello della madre. Detto altrimenti, Hamlet, pur nel-la sua apparente inconcludenza, è sempre stato, dal primo atto fino ad ora, un fedele alleato del padre. Tutto ciò a costo di notevoli sacrifici, non ultimo la simulazione dello stato di pazzia. E a questo punto che fa il Ghost? Non solo lo biasima, ma addirittura trova modo di solidarizzare con la madre—quella stessa “seeming-virtuous queen” (I.v.46) che ad appena un mese, “A little month” (I.ii.147), dalla morte del marito era già a letto con colui che lo aveva ucciso.

Che tipo di situazione è questa? Propongo di affidarci un’ultima volta alla consulenza dell’équipe della scuola sistemica di Milano:

[...] Battezzammo tale fenomeno ricorrente col nome di “imbroglio”. [...] Pre-cisamente vogliamo significare l’intero vortice dei comportamenti-comunicazione che i vari membri della famiglia si scambiano a partire da una certa mossa che punteggiamo come iniziale. In tale nostra accezione, il termine acquista un signifi-cato composito, a metà tra quello del termine anglosassone “imbroglio”, che indi-ca solo intrico e confusione, e quello del medesimo termine italiano, che invece allude alla truffa vera e propria. Vediamo di darne una definizione il più possibile precisa.

Per imbroglio intendiamo un processo interattivo complesso che sembra strut-turarsi ed evolversi attorno a una specifica tattica comportamentale messa in atto da un genitore, caratterizzata dall’ostentare come privilegiata una relazione diadi-ca intergenerazionale (genitore-figlio) che di fatto non è tale. Questo nel senso che il presunto privilegio non è effettivamente autentico, ma bensì strumento di una strategia mirata contro qualcuno [...]42

Il problema dell’imbroglio è che, prima o poi, affiora. Proprio come lo spet-tro di Old Halmet nella closet scene. E quando viene percepito in quanto tale, nei migliori dei casi l’effetto è un’amara disillusione: scoprire che il “genitore del cuore”, più che amarci, ci sta usando, magari proprio per ristabilire un rap-

41 S. GREENBLATT, Hamlet in Purgatory, p. 224. 42 M. SELVINI PALAZZOLI et al., I giochi psicotici nella famiglia, p. 70.

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porto privilegiato con l’altro genitore—quello che gli interessa davvero, quello che noi, da fedeli alleati, abbiamo così accanitamente tormentato. Nei casi più sfortunati, può accadere che la disillusione abbia un esito di tipo psicotico.

Ora, nonostante gli otto morti che possiamo contare quando la tragedia giun-ge al termine, non mi pare che il caso di Hamlet sia uno di quelli “sfortunati”. Non sono nemmeno così sicuro che la dinamica dell’istigazione/imbroglio sia alla base del dramma della triade: troppi sono gli aspetti che, per attenermi al taglio dato a questo capitolo, non ho preso in considerazione, a partire dal fon-damentale ruolo di Claudius. Eppure, non posso fare a meno di notare, con Ha-rold Bloom, come l’atteggiamento di Hamlet nei confronti del padre subisca, nell’ultima parte del dramma, un notevole cambiamento: “Certainly he is no longer haunted by his father’s ghost. It may be that the desire for revenge is fad-ing in him. In all of act V he does not speak once of his dead father directly. There is a single reference to «my father’s signet» which serves to seal up the doom of those poor schoolfellows, Rosencrantz and Guildenstern, and there is the curious phrasing of «my king» rather than «my father» in the half-hearted rhetorical question the prince addresses to Horatio”.43 Nella misura in cui l’analisi delle dinamiche interne alla triade qui proposta è plausibile, alla base del distacco emotivo di cui parla Bloom parrebbe proprio esserci la disillusione di Hamlet conseguente al bizzarro intervento del Ghost, tanto sollecito a privi-legiare la relazione con il figlio quando si tratta di chiedergli aiuto quanto rapi-do a ridimensionarla nel momento in cui l’aiuto si rivela controproducente. In altre parole, se Hamlet può, sotto numerosi punti di vista, essere considerato l’apogeo della fortunata tradizione delle revenge tragedies, mi pare si possa dire che con il dramma della triade primaria Old Hamlet-Gertrude-Hamlet si inaugu-ra il genere—altrettanto fortunato e altrettanto tragico, sul palco dei teatri come tra le mura domestiche—della instigation tragedy.

43 H. BLOOM, Ruin the Sacred Truths, p. 56.

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Conclusioni

Famiglie in Shakespeare, famiglie nel teatro

JONATHAN Why, I vow […], they lifted up a great green cloth and let us look right into the next neighbor’s house. Have you a good many houses in New-York made so in that ‘ere way?

JENNY Not many; but did you see the family?

JONATHAN Yes, swamp it; I see’d the family.

JENNY Well, and how did you like them?

JONATHAN Why, I vow they were pretty much like other fami-lies;there was a poor, good-natured, curse of husband, and a sad rantipole of a wife.

[…]

JENNY Well, Mr. Jonathan, you were certainly at the play-house.

JONATHAN I at the play-house!Why didn’t I see the play then?

ROYALL TYLER, The Contrast, III.i

Come il Mr. Jonathan di The Contrast1, ciò che ho “visto” nel corso di que-sta tesi è stata “la” famiglia, e in particolare la famiglia nei drammi di Shake-speare. Giunto alle conclusioni, è forse il momento di ampliare un po’ la pro-spettiva, o perlomeno di esplicitarne i limiti, che mi sembrano essere essenzial-mente due: primo, Shakespeare non parla solo di famiglie; secondo, non solo Shakespeare parla di famiglie.

Cominciamo dal secondo punto: il frequente ricorso alla struttura ‘famiglia’ non è una prerogativa del teatro di Shakespeare. Come ho cercato di illustrare

1 The Contrast, portata in scena per la prima volta (e con notevole successo di pubblico) al

John Street Theater di New York City il 16 aprile 1787, è considerata la prima commedia americana.

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nel secondo capitolo, la famiglia si presta ottimamente a soddisfare una fra le esigenze principali del teatro in generale: consentire agli spettatori, in un tempo relativamente breve e con mezzi espressivi estremamente vincolati, l’accesso al mondo della finzione. Proponendosi come un sistema sociale del quale chiun-que ha esperienza diretta, la rete delle relazioni familiari rappresenta infatti una sorta di palinsesto pragmatico e semantico noto a priori: per creare tensione drammatica, dunque, non è necessario “partire da zero”, ma sarà sufficiente in-trodurre un limitato numero di differenzeossia, di significati. È come se la famiglia portasse “in dote” una quantità di informazioni assai maggiore degli al-trio quanto meno di molti altrisistemi relazionali.

Un’irriverente “dimostrazione per assurdo” può forse chiarire cosa intendo. Uno fra i tratti più ambigui di The Merchant of Venice è la motivazione che spinge Antonio a rischiare la vita per consentire a Bassanio di corteggiare Por-tia. Persino un campione di self-confidence come Harold Bloom sembra nutrire qualche perplessità al riguardo: “Antonio is dark matter, and requires some con-templation if his adversary Shylock is to be properly understood. Antonio lives for Bassanio and indeed is willing to die for him, and mortgages his pound of flesh to Shylock solely so that Bassanio can deck his good looks out in order to wive it wealthily in Belmont,” 2 osserva incredulo. E giunge infine a concordare, fatto piuttosto insolito per Bloom, con quanti intravedono nella generosità di Antonio motivazioni sessuali: “Antonio, though he is in Belmont, will go to bed alone… Bassanio, we have to assume, is bisexual, but Antonio clearly is not, and his homoeroticism is perhaps less relevant than his sadomasochism, the doom-eagerness that could allow him to make so mad a contract with Shylock.”3 Omosessualità, dunque? O sadomasochismo? Oppure, semplice amicizia? O, ancora, il “mad contract” di Antonio vuole essere un segno della carità cristiana in opposizione all’avidità dell’usuraio ebreo Shylock? Non saprei. E credo che a Shakespeare, in fondo, non interessasse più di tanto rendere trasparenti le moti-vazioni di Antonio: l’importante è che, drammaticamente, il suo gesto “funzio-

2 H. BLOOM, Shakespeare. The Invention of the Human, p. 179. 3 Ibid., p. 179.

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ni”. Ciò che invece voglio sottolineare è che, se Shakespeare avesse ritenuto ne-cessario offrire una motivazione convincente, questo gli avrebbe richiesto tem-po: difficilmente i 185 versi della prima scena del primo atto sarebbero stati suf-ficienti. A meno di… non ricorrere a un altro tipo di relazione, semanticamente più densa della semplice friendship. Detto altrimenti, se l’elenco delle dramatis personae recitasse “Antonio, a merchant; Bassanio, his son…”, non ci sarebbe praticamente altro da aggiungere, allo stesso modo in cui non c’è necessità di alcun chiarimento per comprendere l’angoscia di Shylock alla scoperta della fu-ga di Jessica, anzi: ciò che introduce una “differenza” significativa, in quest’ultimo caso, è esattamente l’opposto, e cioè la relativa tiepidezza delle motivazioni affettive rispetto a quelle materiali.

Questo breve esempio, per quanto banale, può aiutarci a comprendere alcune delle ragioni per le quali il teatroda Sofocle ed Euripide a Arthur Miller e Ha-rold Pinter, diciamo, passando per autori del calibro di Racine, Ibsen e Pirandel-lomostra una così spiccata tendenza al ricorso alle strutture familiari. Ciò sembra valere, almeno in parte, anche per i contemporanei di Shakespeare: basti pensare, per esempio, a opere come The Malcontent (1604) di John Marston, The Duchess of Malfi (1623) di John Webster o Women Beware Women (1620-7) di Thomas Middleton. La stessa The Spanish Tragedy (1592) di Thomas Kyd, seppur in modo assai più stilizzato e lineare di quanto non avvenga in Shakespeare, fa affidamento a una fitta rete di relazioni familiari.

Certo, non mancano le eccezioni: il Doctor Faustus di Christopher Marlowe ne è un esempio eclatante. Ed è proprio confrontando un’eccezione come Doc-tor Faustus con il dramma shakespereano ad esso forse più affine, Macbeth, che ritengo si possa cogliere, se non l’originalità di Shakespeare nel reclutare intere famiglie, perlomeno la sua originalità nell’impiegarle. Per illustrare ciò che in-tendo, propongo di cominciare osservando il rapporto esistente fra Doctor Fau-stus e le Moralities, così come lo illustra Robert Weimann: “It was in Mar-lowe’s plays that the serious hero, through a new realism in the interplay of spe-ech and action, first moved to the foreground as an essentially individual and dynamic (as opposed to an allegorical and static, or unchanging) figure… The profound originality of Faustus’ monologue lies primarily in the fact that it

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represents, although necessarily in abbreviated form, an intellectual process that involves an empirically significant image of change and movement in thought or attitude. Even though this speech [Weimann si riferisce qui al monologo di apertura, “Settle thy studies Faustus, and begin…”] condenses years of restless soul-searching, the course of Faustus’ thoughts and ambitions is not described, declaimed, or didactically evaluated, but rather dramatically recreated.”4 Sem-plificando un poco, Marlowe riesce a integrare in un unico personaggio i tratti più mimetici di figure essenzialmente comiche tipo quella del “Vice” e lo spes-sore intellettuale di discorsi che in precedenza erano riservati alla prosa più alti-sonante e convenzionale. Il risultato è una nuova forma di rappresentazione dell’individuo, al tempo stesso più mimetica e più drammatica di quanto non avvenisse in precedenza.

Ciò che Shakespeare riesce a realizzare con l’invenzione di una coppia come quella di Macbeth e Lady Macbeth è qualcosa di simile: ma invece di limitarsi a un individuo, lo realizza in un intero sistema, e in particolare in un sistema fa-miliare. E la differenza che questa scelta introduce, come ho tentato di dimo-strare nel quinto capitolo opponendo una lettura sistemica alle letture intrapsi-chiche, non sta semplicemente nel numero di “partecipanti”. Anzitutto, la diade, rispetto al singolo individuo, permette di ricorrere al dialogo, incrementando così sia le potenzialità mimeticheche il monologo inevitabilmente finisce per turbaresia quelle drammatiche.5 Inoltre, trattandosi di una diade familiare, la relazione fra Macbeth e Lady Macbeth innesca una serie di “giochi strategici” al

4 R. WEIMANN, Shakespeare and the Popular Tradition in the Theater. Studies in the Social

Dimension of Dramatic Form and Function, pp.200-201. 5 A questo proposito, mi pare assai condivisibile, nonché applicabile in larga misura anche

al teatro elisabettiano, un’osservazione di Stanislavsky (in E. BENTLEY, a cura di, The The-ory of the Modern Stage) circa la difficoltà che incontra il singolo attorerispetto a due o piùnel tenere viva l’attenzione del pubblico: “Experience has taught me that an actor can hold the attention of an audience by himself in a highly dramatic scene for at most seven minutes (that is the absolute maximum!). In a quiet scene the maximum is one minute (this, too, is a lot!). After that the diversity of the actor’s means of expression is not sufficient to hold the attention of the audience, and he is forced to repeat himself with the result that the attention of the audience slackens until the next climax which requires new methods of presentation. But, please, note that this is true only in the cases of geniuses!” (p. 225).

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tempo stesso imprevedibili e accessibili. Questo perché, se da una parte la rela-zione fra due o più individui è intrinsecamente più esposta all’imprevisto di quanto non sia un’unica mente in dialogo con se stessa (come poteva immagina-re, Lady Macbeth, il modo in cui il marito si accingeva a diventare “uomo”?), d’altra parte quello delle dinamiche familiarie persino della teatralità delle dinamiche familiariè un ambito nel quale gli spettatori sono ferratissimi fin dall’infanzia.6 Sono proprio le relazioni familiari, infatti, la prima esperienza sociale di ognuno di noi, e molto spesso sono anche fra le primissime forme di finzione alle quali, già da bambini, prendiamo parte in quanto attori consapevoli (a differenza di quanto avviene con il mondo intrapsichico, per esempio), come sembra testimoniare il brano tratto dal diario di John Dee con il quale ho con-cluso il primo capitolo“Arthur Dee and Mary Herbert, being but three year old the eldest, did make as it were a show of childish marriage, of calling each other husband and wife…”.

A proposito dell’imprevedibilità intrinseca in alcuni dialoghi shakespearea-ni, William Dodd propone una definizione che mi pare estremamente esplicativa e assai pertinente a quanto appena detto: “Shakespeare sometimes imagines dia-loguesin this case [la prima scena di King Lear] between Lear, Cordelia, and Kentas what I define … as sites of emergence. In such emergences personal interaction suddenly comes to the verge of a breakthrough, or a breakdown, or simply and tragically loses its thread. […] We can expect personal interactions

6 Cfr. J. BYNG-HALL, Le trame della famiglia, pp. 48-49: “I bambini trascorrono una gran

quantità di tempo a osservare attentamente ciò che accade nella famiglia. Dalla loro posi-zione di spettatori, essi osservano quanto accade tra i familiari che si trovano sul palcosce-nico in quel momento. […] Quando osservano gli avvenimenti che hanno luogo sul «pal-coscenico», i bambini possono mettersi nei panni di chi è percepito come agente oppure nei panni di chi viene agito, e immaginare cosa significhi essere in quel ruolo in quel mo-mento. Passando da una prospettiva all’altra, il bambino giunge a comprendere alcuni dei motivi che sottostanno all’interazione, vedendoli dal punto di vista di un’altra persona. Le esperienze «sul palcoscenico» contemplano da un lato l’essere agito e dall’altro il suo con-trario, intraprendere un’azione. E, ancora una volta, osservare ciò che gli spettatori pensa-no di ciò che sta accadendo e prestare attenzione a come il «pubblico» reagisce agli avve-nimenti. […] Il bambino alla fine impara a essere un attore e a riflettere sull’evento e sul significato dell’evento per se stesso e per gli altri. Si chiariscono ai suoi occhi i motivi che sono alla base delle azioni di ogni persona e questo gli offre la possibilità di riconoscere lo script in cui potrà essere coinvolto.”

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to give rise to outcomes that are not predictable on the basis of the separate knowledge and intentions of the individual actors. Speakers, of course, can use their power to try to control or to distort an interaction, but they can never com-pletely remove its contingency, since the production of meaning and reference is always a shared activity.”7 La mia impressione, basata sia sui risultati numeri-ci presentati nel secondo capitolo sia sui dialoghi analizzati nei capitoli succes-sivi, è che la variabile che maggiormente determina il “sometimes” cui fa rife-rimento Dodd sia esattamente la famiglia. Con ciò non intendo dire che i sites of emergence possano presentarsi solo nell’ambito delle relazioni familiari: sem-plicemente, esse ne accrescono la probabilità, e questo perché la famiglia stessa è, ed era, uno straordinario site of emergence.8 In altre parole, non credo sia un caso se il grande “imprevisto” che dà origine all’azione di King Learil love test e la conseguente reazione di Cordeliaavviene tra un padre e una figlia. Così come non è casuale se uno fra gli episodi più “imprevedibili” (e più gusto-si) che i cicli delle Mystery Plays ci hanno lasciato sia il famoso alterco fra No-ah e sua moglie.9 E ancora, per rimanere nell’ambito della tradizione popolare, quando Robert Weimann, per illustrare l’opposizione fra i concetti di locus e platea, individua nelle battute di comico disappunto di Joseph l’unica scena di Joseph’s Return nella quale “the anachronism approach the standards and ex-perience of the audience”,10 pur senza esplicitarlo porta l’esempio di una rela-zione di coppia.

Anche in quest’ultimo caso, dunque, le relazioni familiari si propongono come un territorio comune idealeuna chiave d’accesso, una plateaal mon-do della finzione. La famiglia viene cioè “usata” dal teatro in modo analogo a

7 W. Dodd, “Impossible Worlds: What Happens in King Lear, Act 1, Scene 1?”, p. 487. 8 Cfr. C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in

Early Modern Culture, p. xiii: “In the course of the sixteenth century in England… family values became the object of intense propaganda, and of the anxiety that the reconstruction of any value system necessarily creates.”

9 Vedi per esempio The Flood, in R BEARLE e P.M. KING (a cura di), York Mystery Plays, pp. 21-32.

10 R. WEIMANN, Shakespeare and the Popular Tradition in the Theater. Studies in the Social Dimension of Dramatic Form and Function,, p. 82.

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quello in cui altre forme di “finzione” la usano. Le Sacre Scritture, per esempio. O, per rimanere ai tempi di Shakespeare, il role-playing familiare di Queen Eli-zabeth, la quale spessissimo ricorreva all’efficace tattica di presentarsi ai suoi sudditi ricorrendo alla figura della “Virgin Mother”, se non addirittura come “natural mother”11.

Queste considerazioni ci riportano, indirettamente, all’altro grande limite della prospettiva di questa tesi, e cioè che Shakespeare non parla solo di fami-glie. In effetti, nonostante il particolare punto di vista qui adottato, ritengo che sarebbe assurdamente riduttivo definire Shakespeare come “Poet of the Family”:12 la varietà dei temi trattati nei suoi drammi copre praticamente l’intera sfera dell’esperienza umana, dagli aspetti più individuali a quelli macrosociali. Come si concilia, allora, l’ovvietà di questa affermazione con il fitto intreccio di relazioni familiari sia al livello della composizione delle dramatis personae sia, soprattutto, al livello della conversazione? Per usare una formula sintetica, po-trei dire che la famiglia non è tanto l’argomento quanto il modo del teatro di Shakespeare.

Ciò che intendo mettere in rilievo con questa pur discutibile generalizzazio-ne è che la famiglia, oltre a facilitare l’accessibilità alla finzione, è il sistema re-lazionale sul quale si basa uno fra i tratti più peculiari dei drammi di Shakespea-re: quell’apparente assenza di “moral purpose” che gli contestava Samuel Jo-hnson nella sua Preface to Shakespeare del 1765 e che io tradurrei, invece, con il termine eticamente neutrale di ‘complessità’. Passando, infatti, da una compo-sizione delle dramatis personae essenzialmente fondata sull’individuo—come, per esempio, le Moralities, con i loro “Everymen” in balia di conflitti decisa-

11 Vedi, per esempio, S. GREENBLATT, Renaissance Self-Fashioning. From More to

Shakespeare, p. 168: “«And so I assure you all,» she told Commons in 1563, «that, though after my death you may have many step-dames, yet shall you never have a more natural mother than I mean to be unto you all.»”. A proposito del role-playing come tattica di acquisizione e mantenimento del potere, non posso fare a meno di rilevare, almeno di sfuggita, la sua notevole longevità ed efficacia: basti pensare, per esempio, al ricorso a immagini come quella del “presidente operaio” adottata da Silvio Berlusconi durante la campagna elettorale del 2001.

12 Cfr. C.L. BARBER, “The Family in Shakespeare’s Development”, p. 195: “If I were writing this essay in 1876 instead if 1976, it would be called «Shakespeare: Poet of the Family».”

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264

mente più intrapsichici che interpersonali e inseriti in casting allegorici che ri-mandano al limite alla struttura archetipica freudiana (con i Vices al posto dell’es, le Virtues al posto del super-io e Mankind, naturalmente, al posto dell’io)—ad una composizione fondata sulla famiglia, concetti etici come “re-sponsabilità” e “colpa”, o “bene” e “male”, non vengono semplicemente “redi-stribuiti”. Piuttosto, la loro ricollocazione al livello delle relazioni interpersonali comporta un vero e proprio salto di livello logico: ciò che prima poteva essere descritto in termini lineari, visto in un contesto più ampio assume tratti tipica-mente circolari. Ecco allora che la Katherine di The Taming non è più vittima—o carnefice—in quanto shrew: è l’intera sua famiglia di origine, Katherine com-presa, a perpetuare una strategia entro la quale a Katherine spetta il ruolo di shrew. Lo stesso sembra valere per Macbeth e Lady Macbeth: l’istigazione è una modalità della coppia, è condivisa da entrambi i suoi membri, per cui una lettura che si limiti ad assegnare a Lady Macbeth il ruolo di “istigatrice”—come se l’istigare facesse parte del suo patrimonio genetico—rischia di non cogliere le strategie messe in atto da Macbeth per “istigarla a farsi istigare”.

Carl Whitaker, a questo proposito, sostiene che “l’aggressività sia sempre equivalente, da entrambe le parti. [...] Anche l’amore è pari. [...] L’amore è sempre uguale da entrambe le parti. In amore ci si ama allo stesso modo, si scambiano solo i ruoli: una volta uno chiede ancora amore e l’altro rifiuta, e vi-ceversa. [...] Un partner lo proclama a gran voce, l’altro lo nega, ed è la stessa cosa. Idem per l’odio. Lui può dire: «Ti detesto più di qualsiasi cosa al mondo». Lei può essere tranquilla e riservata, ma la rabbia è la stessa: mentre uno la e-sprime più apertamente, l’altro la occulta.”13 Non saprei dire fino a che punto la posizione di Whitaker sia da intendersi provocatoriamente e quanto invece ri-fletta le dinamiche delle famiglie reali. Ritengo, comunque, che la sua descri-zione ben si adatti a molte famiglie shakespeareane: come scrive Catherine Bel-sey a proposito di Hamlet, “tragedy stems from the commitment the family elic-its. Both in Genesis and Shakespeare, love and hate are inextricably entwined; and the greater the emotional investment, the greater the potential disruption of

13 C.A. WHITAKER, Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, pp. 112-113.

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the security and stability.”14 Più in generale, in rapporti di coppia come quello fra Katherine e Petruchio, Macbeth e Lady Macbeth, Othello e Desdemona, ma anche in rapporti intergenerazionali come quello fra Gloucester ed Edmund, o nelle triangolazioni discusse nel settimo capitolo, la peculiare circolarità delle relazioni familiari viene rappresentata a un insolito livello di complessità, e ciò contribuisce in modo determinante a quella “profondità psicologica” che spesso si tende invece ad attribuire ai singoli personaggi.15

E la terapia della famiglia?

Come si integra in tutto ciò la terapia della famiglia? A quali conclusioni mi ha portato l’impiego delle sue teorie come chiave di lettura privilegiata delle re-lazioni familiari in Shakespeare? Per rispondere, conviene riprendere un pas-saggio della definizione di Dodd: “We can expect personal interactions to give rise to outcomes that are not predictable on the basis of the separate knowledge and intentions of the individual actors.” Bene: se c’è un aspetto della teoria dei sistemi familiari che, nei precedenti capitoli, penso di essere riuscito a illustrare è la sua programmatica diffidenza verso qualsiasi ipotesi che sia basata sull’individuo in quanto tale. Allargando sistematicamente la prospettiva dal contenuto alla relazione, affidandosi a metafore come quelle del “gioco” e della “strategia familiare”, sostituendo al concetto di “paziente” quello di “paziente designato”, indagando dei sintomi non le cause bensì le finalità e, infine, impo-nendosi sempre di considerare l’individuo come “individuo nel siste-ma”quindi, contestualizzandolola terapia della famiglia si è rivelata, per la mia esperienza di lettore, un eccellente strumento per avvicinarmi alla dimen-sione psicologica dei drammi di Shakespeare evitando, al tempo stesso, di veni-re risucchiato dalla “tentazione dell’analisi del carattere”.

14 C. BELSEY, Shakespeare and the Loss of Eden: The Construction of Family Values in

Early Modern Culture, p. 174. 15 Cfr. G. TAYLOR, Reinventing Shakespeare: A Cultural History from Restoration to the

Present, p. 404: “Shakespeare’s characterization has been acclaimed more often than any other feature of his art. Claims that Shakespeare’s portraiture surpassed every other drama-tist’s began in the Restoration and continue into our own day.”

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Paradossalmente, sono giunto alla conclusione che guardare alle famiglie di Shakespeare attraverso lo specchio unidirezionale della terapia della famiglia aiuta a non dimenticare che le dramatis personae, lungi dall’essere “individui quasi reali”, sono anzitutto le parti di un sistema di relazioni. Dell’intero siste-ma, la terapia della famiglia prende esplicitamente in considerazione solo un sottosistema, la famigliao, come avviene in questa tesi, alcune diadi e alcune triadi familiari. Ciò non pregiudica la possibilità che la teoria, i metodi e la ter-minologia da essa messe a disposizione possano rivelarsi proficue anche appli-cate a sistemi sociali più ampi. Lo stesso metodo di analisi numerica presentato nel secondo capitolo, metodo i cui presupposti sono derivati in larga parte dalla teoria dei sistemi familiari, una volta definite nuove modalità di relazione po-trebbe essere applicato a innumerevoli altri sistemi: per esempio, sostituendo (o integrando) le relazioni diadiche familiari con relazioni diadiche di potere o, più in generale, politiche (del tipo “x è suddito di y”, o “x è rivale di y”, ecc.) non dovrebbe essere difficile produrre ulteriori statistiche orientate alla relazione, più che all’individuo.

Circa quest’ultimo punto, infine, penso sia utile esplicitare le due direzioni che eventuali sviluppi futuri della ricerca fino a qui condotta potrebbero segui-re. Anzitutto, un’estensione del campo di applicazione—sia dell’approccio ba-sato sulla terapia della famiglia sia del metodo di indagine numerico orientato alle relazioni—a testi drammatici di altri autori e di altre epoche. Oppure, come accennavo nel precedente paragrafo, un ampliamento della tipologia di relazio-ni, uscendo quindi dal solo ambito familiare. Questa seconda possibilità, poi, penso potrebbe rivelarsi interessante da esplorare anche dal semplice punto di vista metodologico: come l’approccio narratologico, infatti, si fonda su catego-rie relazionali, ma ciò che definisce la relazione non è più il rapporto fra perso-naggio e percorso narrativo, bensì quello fra due o più personaggi. Una prospet-tiva, dunque, che a mio parere ben si adatta al genere drammatico,16 nonché po- 16 Uso qui l’aggettivo “drammatico” nel senso in cui lo intende Martin Esslin, e cioè per de-

finire una sorta di meta-genere “unique among the representational arts in that it represents ‘reality’ by using real human being and often also real object, to create its fictional uni-verse.” (M. ESSLIN, The Field of Drama: How the Signs of Drama Create Meaning on Stage and Screen, p. 29).

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tenzialmente in grado di correggere alcune delle numerose semplificazioni alle quali l’applicazione tout court della narratologia, nata per descrivere altre tipo-logie testuali, spesso conduce.

Per concludere, torniamo un istante al nostro Mr. Jonathan, in quale, convin-

to di aver visto “la famiglia del vicino”, si domanda esterrefatto “Why didn’t I see the play then?” Questa tesi di dottorato può in fin dei conti essere letta come un tentativo di dimostrare la pertinenza della sua domanda. Ora che è terminata, la mia speranza è che sia riuscita a suggerire anche qualche risposta.

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Appendice A

Abbreviazioni dei titoli delle opere

In tutte le tabelle delle appendici, le abbreviazioni dei titoli delle opere, per motivi di coerenza con il database dei testi della Oxford Edition, sono quelle ri-portate in tabella A.1. In tale tabella, è riportata anche la corrispondenza con le abbreviazioni suggerite dall’MLA Style Manual (le discrepanze sono indicate da un asterisco) e la classificazione in sottogeneri adottata per le analisi numeriche.

Tabella A.1 – Abbreviazioni e generi

Abbr. Titolo MLA Genere MND A Midsummer Night’s Dream MND Comedy AIT * All Is True (Henry VIII) H8 History AWW All’s Well That Ends Well AWW Dark comedy Ant Antony and Cleopatra Ant Roman tragedy AYL As You Like It AYL Comedy Cor Coriolanus Cor Roman tragedy Cym Cymbeline King of Britain Cym Romance Ham Hamlet Prince of Denmark Ham Tragedy H5 Henry the Fifth H5 History 1H4 Henry the Fourth, Part 1 1H4 History 2H4 Henry the Fourth, Part 2 2H4 History 1H6 Henry the Sixth, Part 1 1H6 History

RDY * Henry the Sixth, Part 3 3H6 History CYL * Henry VI, Part 2 2H6 History

JC Julius Caesar JC Roman tragedy Jn King John Jn History

LrF King Lear [The Folio Text] LrF Tragedy LrQ King Lear [The Quarto Text] LrQ Tragedy R2 King Richard the Second R2 History R3 King Richard the Third R3 History

LLL Love’s Labour’s Lost LLL Comedy MM Measure for Measure MM Dark comedy

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Abbr. Titolo MLA Genere Ado Much Ado About Nothing Ado Comedy Oth Othello Oth Tragedy Per Pericles, Prince of Tyre Per Romance Rom Romeo and Juliet Rom Tragedy Err The Comedy of Errors Err Comedy Tim The Life of Timon of Athens Tim Roman tragedy MV The Merchant of Venice MV Comedy Wiv The Merry Wives of Windsor Wiv Comedy Shr The Taming of the Shrew Shr Comedy Tmp The Tempest Tmp Romance Mac The Tragedy of Macbeth Mac Tragedy TGV The Two Gentlemen of Verona TGV Comedy TNK The Two Noble Kinsmen TNK Romance WT The Winter’s Tale WT Romance Tit Titus Andronicus Tit Roman tragedy Tro Troilus and Cressida Tro Dark comedy TN Twelfth Night TN Comedy

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Appendice B

Statistiche sui singoli personaggi

Tutti i dati riportati in questa e nella successiva appendice sono stati ottenuti con un software, da me sviluppato, dedicato all’analisi di dati numerici riguar-danti le interazioni familiari. Il corpus sul quale è stata condotta l’analisi è la versione digitale—per la precisione, il CD-ROM dell'Andromeda Interactive Ltd.—dei drammi nell’edizione della Oxford University Press, pubblicata nel 1988 a cura di Stanley Wells e Gary Taylor.1

Tabella B.1 - Chi parla per almeno per 500 versi (o linee)2

Play Character N_LINES N_UTTERANCES LINES/UTTERANCESHam HAMLET 1375 342 4.02Oth IAGO 1082 272 3.98R3 RICHARD GLOUCESTER 1081 296 3.65H5 KING HARRY 1032 147 7.02Cor CORIOLANUS 882 189 4.67Oth OTHELLO 873 274 3.19MM DUKE 846 194 4.36Tim TIMON 845 210 4.02Ant ANTONY 825 203 4.06R2 KING RICHARD 748 99 7.56LrF LEAR 723 180 4.02JC BRUTUS 721 193 3.74Mac MACBETH 703 146 4.82

1 Per King Lear, del quale l’edizione Oxford presenta sia il testo del Quarto che del Folio,

ho provato a usare entrambe le versioni, senza però ottenere differenze significative nei ri-sultati numerici. I dati qui presentati si riferiscono, comunque, alla versione del Folio.

2 Poiché il software identifica ogni speaker basandosi direttamente sulle informazioni forni-te dai testi digitalizzati, sono stato costretto a correggere a posteriori i dati riguardanti al-cuni personaggi che hanno uno o più “alias”, e in particolare: in 2H4, PRINCE HARRY cor-risponde a KING HARRY; in Cor, MARTIUS corrisponde a CORIOLANUS; in LLL, PRINCESS corrisponde a QUEEN; in R2, KING RICHARD corrisponde a RICHARD e BOLINGBROKE cor-risponde a KING HENRY; in R3, RICHARD GLOUCESTER corrisponde a KING RICHARD; in RDY, EDWARD corrisponde a KING EDWARD, GEORGE corrisponde a GEORGE OF CLARENCE e RICHARD corrisponde a RICHARD OF GLOUCESTER. Per la corrispondenza ver-si/linee, mi sono basato su quella suggerita dall’edizione Oxford.

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Tit TITUS 703 117 6.01AYL ROSALIND 690 201 3.43WT LEONTES 682 126 5.41Ant CLEOPATRA 669 204 3.28Tmp PROSPERO 653 114 5.732H4 SIR JOHN 640 182 3.521H4 SIR JOHN 619 152 4.07Rom ROMEO 612 163 3.75Per PERICLES 611 122 5.01LLL BIRON 595 160 3.72Cym INNOGEN 592 118 5.02TNK PALAMON 591 141 4.19Shr PETRUCCIO 585 158 3.70Cor MENENIUS 582 163 3.571H4 PRINCE HARRY 579 170 3.41MV PORTIA 574 117 4.911H4 HOTSPUR 555 102 5.44Rom JULIET 539 118 4.57Tro TROILUS 536 132 4.06Ham KING CLAUDIUS 525 101 5.20Jn BASTARD 522 89 5.87TNK ARCITE 518 134 3.87JC CASSIUS 505 139 3.63

Tabella B.2 - Chi prende parola più spesso?

Play Character N_UTTERANCES N_LINES LINES/UTTERANCESHam HAMLET 342 1375 4.02R3 RICHARD GLOUCESTER 296 1081 3.65Oth OTHELLO 274 873 3.19Oth IAGO 272 1082 3.98Tim TIMON 210 845 4.02Ant CLEOPATRA 204 669 3.28Ant ANTONY 203 825 4.06AYL ROSALIND 201 690 3.43MM DUKE 194 846 4.36JC BRUTUS 193 721 3.74Cor CORIOLANUS 189 882 4.672H4 SIR JOHN 182 640 3.52LrF LEAR 180 723 4.021H4 PRINCE HARRY 170 579 3.41Oth DESDEMONA 167 389 2.33Cor MENENIUS 163 582 3.57Rom ROMEO 163 612 3.75LLL BIRON 160 595 3.72Shr PETRUCCIO 158 585 3.70Tro CRESSIDA 153 298 1.951H4 SIR JOHN 152 619 4.07TN SIR TOBY 152 347 2.28Tro PANDARUS 152 392 2.58TGV VALENTINE 149 388 2.60H5 KING HARRY 147 1032 7.02TGV PROTEUS 147 444 3.02Mac MACBETH 146 703 4.82AWW PAROLES 142 377 2.65TNK PALAMON 141 591 4.19JC CASSIUS 139 505 3.63Wiv SIR JOHN 137 446 3.26Ado BENEDICK 134 434 3.24Ado DON PEDRO 134 321 2.40RDY KING EDWARD 134 426 3.18TNK ARCITE 134 518 3.87Tro TROILUS 132 536 4.06

Page 277: Shakespeare e la terapia della famiglia

273

A proposito di queste ultime due tabelle (B.5 e B.6), il criterio che ho adottato per stabilire

il coinvolgimento o meno in una relazione familiare è, inevitabilmente, arbitrario. In particola-

re, ho deciso di definire “coinvolto in (almeno) una relazione familiare” ogni parlante che in-

trattenga, con uno o più altri parlanti dello stesso dramma, almeno una delle 36 relazioni elen-

cate in tabella C.1. Come si potrà notare consultando tale tabella, sono considerate solo le re-

lazioni più “nucleari” (per esempio, non è presente la relazione tra le due mogli di due fratelli,

ma entrambe sono considerate come cognate dell’altro fratello). Non sono considerati i “fi-

danzati” (es. Romeo e Juliet prima del terzo atto), ma gli “amanti”—nel senso in cui oggi si

definisce una persona come “il proprio compagno” o “la propria compagna”—sì, a patto che

si tratti di un legame consolidato e reciproco (per esempio, Titania e Bottom non sono consi-

derati amanti, Aaron e Tamora sì). Com’è inevitabile, in molti casi si tratta di scelte discutibi-

li. Il principio al quale ho cercato di attenermi è stato quello, piuttosto largo, di considerare

“relazione familiare” ogni relazione “di sangue” (quindi, anche i figli illegittimi) e/o “legale”,

nonché le relazioni sentimentali tra coppie che vivono, o potrebbero ragionevolmente vivere,

sotto lo stesso tetto (quindi, gli “amanti”). In ogni caso, tutte le relazioni che, ai fini

dell’analisi numerica, sono state considerate come familiari sono riportate nell’appendice C.

Tabella B.4 Il sesso che parla di più

GENDER N_LINES PERCENTAGE

FEMALES 19821 17.90

MALES 90904 82.10

TOTAL 110725 100.00

Tabella B.5 Il sesso più rappresentato

tra chi è coinvolto in almeno una relazione familiare

GENDER N_DD_PP PERCENTAGE

FEMALES 96 30.38

MALES 220 69.62

TOTAL 316 100.00

Tabella B.6 Il sesso che parla di più

tra chi è coinvolto in almeno una relazione familiare

GENDER N_LINES PERCENTAGE

FEMALES 16138 26.94

MALES 43760 73.06

TOTAL 59898 100.00

Tabella B.3 Il sesso più rappresentato GENDER N_DD_PP PERCENTAGE

FEMALES 179 12.34

MALES 1271 87.66

TOTAL 1450 100.00

Page 278: Shakespeare e la terapia della famiglia

274

Tabella B.7 - Distribuzioni per genere di dramma in base al sesso e al coinvolgimento o meno in relazioni famigliari3

ComediesDark

comedies HistoriesRoman

tragedies Romances Tragedies

DD.PP. 21 5 16 10 20 11

WITHOUTFEMALES

LINES 1881 140 613 210 309 530

DD.PP. 157 55 365 235 117 122

RELATIVESMALES

LINES 9842 5520 14300 8294 5203 3985

DD.PP. 178 60 381 245 137 133TOTAL

LINES 11723 5660 14913 8504 5512 4515

DD.PP. 24 9 28 8 15 12

WITHFEMALES

LINES 4576 1771 3043 1488 2877 2383

DD.PP. 43 13 83 19 30 32

RELATIVESMALES

LINES 8644 1895 12579 4854 6708 9080

DD.PP. 67 22 111 27 45 44TOTAL

LINES 13220 3666 15622 6342 9585 11463

3 Per la ripartizione dei drammi nei sei sottogeneri, vedi Appendice A.

Page 279: Shakespeare e la terapia della famiglia

Appendice C

Tabelle e statistiche sulle relazioni diadiche

La differenza formale più evidente della terapia familiare rispetto ad altri modelli di terapia è che il soggetto di indagine primario non è un individuo, bensì una relazione. Di questo ho dovuto ovviamente tenere conto sia nella let-tura dei singoli drammi (vedi capitoli 4, 5 e 6) sia nell’analisi numerica sul cor-pus shakespeareano in generale (vedi capitolo 2). Ma cosa significa analizzare numericamente un corpus di relazioni? Quale tipo di dati è richiesto?

GRANDMOTHERGRANDFATHER

AUNT-IN-LAW UNCLE-IN-LAW

AUNTUNCLE

STEPMOTHERSTEPFATHER

D.P.

MOTHERFATHER

COUSIN

SISTER BROTHER

WIFE HUSBAND

SISTER-IN-LAWBROTHER-IN-LAW

NIECE NEPHEW

DAUGHTER-IN-LAW SON-IN-LAW

DAUGHTERSON

GRANDDAUGHTERGRANDSON

NIECE-IN-LAWNEPHEW-IN-LAW

LOVER

ILLEGIT. DAUGHTERILLEGITIMATE SON STEPDAUGHTER

STEPSON

MOTHER-IN-LAWFATHER-IN-LAW

STEPSISTER STEPBROTHER

FIGURA C.1 – LE 36 RELAZIONI FAMILIARI DIADICHE CONSIDERATE

Page 280: Shakespeare e la terapia della famiglia

276

Così come per uno studio basato sugli individui può essere utile sapere quanti versi e quali parole un personaggio pronuncia, se gli oggetti di indagine sono le relazioni familiari le domande che sarà opportuno porsi saranno doman-de tipo: quanti e quali padri ci sono, nei drammi Shakespeare? Quali sono i ruo-li familiari più rappresentati nelle commedie? Quanti versi e quali parole una moglie pronuncia?

Rispondere a simili domande comporta problemi assai diversi—e notevol-mente più complessi—da quelli che occorre affrontare per le corrispondenti domande sulle singole dramatis personae. Anzitutto, un problema di scelta: mentre quello degli individui è un insieme chiuso e ben definito, l’estensione dell’insieme delle relazioni familiari dipende da quali relazioni si decide di prendere in considerazione. Si tratta, inevitabilmente, di una decisione arbitra-ria. Le relazioni qui considerate sono le 36 relazioni diadiche illustrate in figura C.1 ed elencate nelle tabelle che seguono.

Ancora, un individuo è sempre e comunque un individuo—per quanto possa affermare “I am not what I am”—mentre un fratello, per esempio, può benissi-mo essere anche un padre, un figlio e uno zio. Di conseguenza, la definizione dell’identità del soggetto di studio non è più data da fattori biofisici (per esem-pio, il corpo dell’individuo, o dell’attore), bensì dalla relazione stessa. Ciò comporta che ad ogni singolo individuo possano corrispondere più identità.1 Per fare un esempio concreto, questo significa che, contando i versi pronunciati da un personaggio, sarà necessario distinguere se li sta pronunciando “da madre”, o “da moglie”, o altro ancora.

Questo ci conduce ad affrontare un ulteriore ostacolo. Se il conteggio classi-co di versi, battute, scene e parole—come, per esempio, quello delle tabelle nell’appendice B—è relativamente semplice, ciò è dovuto al fatto che i testi in versione elettronica specificano in modo univoco, per ogni battuta, chi è il par-lante. Un’analisi conversazionale centrata sulle relazioni, però, implica anche sapere chi è l’ascoltatore. Questo dato, purtroppo, nelle edizioni elettroniche

1 Per le numerose e interessanti implicazioni filosofiche di una simile definizione di identi-

tà, vedi F. JACQUES, Difference and subjectivity: dialogue and personal identity, New Ha-ven, London: Yale University Press, 1991.

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277

manca. Avendo deciso di condurre l’indagine sull’intero corpus shakespearea-no—si parla di oltre 100.000 linee di testo!—sono stato così costretto a ricorre-re a metodi indiretti per stabilire in modo automatico la possibile identità dell’ascoltatore. Questi metodi, illustrati più avanti (vedi tabelle C.5.1-17 e C.6), sono piuttosto pionieristici, e non sempre affidabili. In compenso, la note-vole mole del campione permette di ridurre considerevolmente l’incidenza di eventuali errori.

Un altro aspetto che ho dovuto considerare è che le relazioni, al contrario dell’identità del singolo personaggio, non sono stabili, ma evolvono nel tempo. Un caso tipico è quello dei matrimoni: se nel corso di un dramma due personag-gi si sposano, si avrà la nascita di due nuove relazioni diadiche (“X è moglie di Y” e “Y è marito di X”). Questa discontinuità sull’asse diacronico si deve riflet-tere, com’è ovvio, anche sui dati numerici: se, per esempio, si stanno contando le battute che Katherine e Petruchio si scambiano da moglie e marito, occorrerà iniziare il conteggio a partire dal quarto atto, e non prima. Tutti i dati qui ripor-tati tengono conto di questo fattore (per i confini diacronici delle relazioni, vedi le colonne From e To delle tabelle C.2.1-36).

Prima di passare alle tabelle, un’ultima precisazione: per ragioni dovute all’algoritmo di analisi testuale che ho sviluppato, sono state considerate solo le relazioni diadiche i cui membri siano entrambi speakers, cioè pronuncino alme-no una battuta nel corso del dramma. Ciò comporta, per fare un esempio concre-to, che personaggi come Fulvia di Antony and Cleopatra siano rimasti esclusi, e di conseguenza che relazioni diadiche come “Antony è marito di Fulvia” non siano contemplate.

Infine, un invito alla collaborazione. Le tabelle che seguono sono il dato di partenza di tutte le statistiche di questa tesi: nella misura in cui contengono er-rori, anche le statistiche saranno falsate. So per esperienza che tali tabelle non sono affatto esenti da errori e omissioni, a volte anche macroscopiche. Invito perciò le lettrici e i lettori a segnalarmeli, inviando un e-mail a: [email protected]. Grazie di cuore.

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Tabella C.1 - Relazioni diadiche nel corpus shakespeareano2

Tipo di relazione(x R y) Numero

Scene in cuic'è compresenza Elenco di riferimento

MOTHER 35 67 Tabella C.2.1

FATHER 92 177 Tabella C.2.2

DAUGHTER 35 86 Tabella C.2.3

SON 89 152 Tabella C.2.4

GRANDMOTHER 8 8 Tabella C.2.5

GRANDFATHER 2 3 Tabella C.2.6

GRANDDAUGHTER 3 3 Tabella C.2.7

GRANDSON 7 8 Tabella C.2.8

SISTER 32 81 Tabella C.2.9

BROTHER 136 251 Tabella C.2.10

WIFE 67 161 Tabella C.2.11

HUSBAND 67 161 Tabella C.2.12

AUNT 2 2 Tabella C.2.13

UNCLE 47 95 Tabella C.2.14

NIECE 12 21 Tabella C.2.15

NEPHEW 37 76 Tabella C.2.16

SISTER-IN-LAW 39 32 Tabella C.2.17

BROTHER-IN-LAW 59 66 Tabella C.2.18

MOTHER-IN-LAW 10 15 Tabella C.2.19

FATHER-IN-LAW 30 28 Tabella C.2.20

DAUGHTER-IN-LAW 18 18 Tabella C.2.21

SON-IN-LAW 22 25 Tabella C.2.22

STEPMOTHER 3 2 Tabella C.2.23

STEPFATHER 1 3 Tabella C.2.24

STEPDAUGHTER 1 2 Tabella C.2.25

STEPSON 3 3 Tabella C.2.26

STEPSISTER 2 2 Tabella C.2.27

STEPBROTHER 20 24 Tabella C.2.28

AUNT-IN-LAW 10 12 Tabella C.2.29

UNCLE-IN-LAW 1 2 Tabella C.2.30

NIECE-IN-LAW 2 1 Tabella C.2.31

NEPHEW-IN-LAW 9 13 Tabella C.2.32

ILLEGITIMATE_DAUGHTER 0 0 —

ILLEGITIMATE_SON 3 6 Tabella C.2.33

COUSIN 42 86 Tabella C.2.34

LOVER 12 48 Tabella C.2.35

TOTALS 958 1740

2 La natura diadica delle relazioni qui elencate implica che, per ogni relazione del tipo “x R

y” (dove x e y sono due personaggi), ne esista una corrispondente del tipo “y R x”. Ciò si-gnifica che ogni relazione è contata due volte. Se si vuole ottenere il numero complessivo di relazioni, dunque, occorre dividere il totale per due.

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279

Tabella C.2.1 - Elenco delle relazioni mother - “x è madre di y”

Play x y from toAWW COUNTESS BERTRAM 0.0.0 7.0.0AWW WIDOW DIANA 0.0.0 7.0.0Cor VIRGILIA YOUNG MARTIUS 0.0.0 7.0.0Cor VOLUMNIA CORIOLANUS 0.0.0 7.0.0Cym MOTHER FIRST BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym MOTHER POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym MOTHER SECOND BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym QUEEN CLOTEN 0.0.0 7.0.0H5 QUEEN ISABEL CATHERINE 0.0.0 7.0.0H5 QUEEN ISABEL DAUPHIN 0.0.0 7.0.0Ham QUEEN GERTRUDE HAMLET 0.0.0 7.0.0Jn CONSTANCE ARTHUR 0.0.0 7.0.0Jn LADY FALCONBRIDGE BASTARD 0.0.0 7.0.0Jn LADY FALCONBRIDGE FALCONBRIDGE 0.0.0 7.0.0Jn QUEEN ELEANOR KING JOHN 0.0.0 7.0.0Mac LADY MACDUFF MACDUFF'S SON 0.0.0 7.0.0Per THAISA MARINA 0.10.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK AUMERLE 0.0.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK HARRY PERCY 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH DORSET 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH GRAY 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN MARGARET GHOST OF PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY QUEEN MARGARET PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET'S WIFE JULIET 0.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE'S WIFE ROMEO 0.0.0 7.0.0Tit TAMORA CHIRON 0.0.0 7.0.0Tit TAMORA DEMETRIUS 0.0.0 7.0.0WT HERMIONE MAMILLIUS 0.0.0 7.0.0WT HERMIONE PERDITA 2.2.0 7.0.0Wiv MISTRESS PAGE ANNE 0.0.0 7.0.0Wiv MISTRESS PAGE WILLIAM 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.2 - Elenco delle relazioni father - “x è padre di y”

Play x y from to1H4 KING HENRY JOHN OF LANCASTER 0.0.0 7.0.01H4 KING HENRY PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.01H4 NORTHUMBERLAND HOTSPUR 0.0.0 7.0.01H6 MASTER GUNNER BOY 0.0.0 7.0.01H6 RENE’ MARGARET 0.0.0 7.0.01H6 SHEPHERD JOAN 0.0.0 7.0.02H4 KING HENRY CLARENCE 0.0.0 7.0.02H4 KING HENRY GLOUCESTER 0.0.0 7.0.02H4 KING HENRY PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.02H4 KING HENRY PRINCE JOHN 0.0.0 7.0.0AYL DUKE FREDERICK CELIA 0.0.0 7.0.0AYL DUKE SENIOR ROSALIND 0.0.0 7.0.0Ado LEONATO HERO 0.0.0 7.0.0CYL CLIFFORD YOUNG CLIFFORD 0.0.0 7.0.0CYL SALISBURY WARWICK 0.0.0 7.0.0CYL YORK EDWARD 0.0.0 7.0.0CYL YORK RICHARD 0.0.0 7.0.0Cor CORIOLANUS YOUNG MARTIUS 0.0.0 7.0.0Cym CYMBELINE ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym CYMBELINE GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Cym CYMBELINE INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym SICILIUS FIRST BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym SICILIUS POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym SICILIUS SECOND BROTHER 0.0.0 7.0.0

Page 284: Shakespeare e la terapia della famiglia

280

Err EGEON ANTIPHOLUS OF EPHESUS 0.0.0 7.0.0Err EGEON ANTIPHOLUS OF SYRACUSE 0.0.0 7.0.0H5 KING CHARLES CATHERINE 0.0.0 7.0.0H5 KING CHARLES DAUPHIN 0.0.0 7.0.0Ham GHOST HAMLET 0.0.0 7.0.0Ham POLONIUS LAERTES 0.0.0 7.0.0Ham POLONIUS OPHELIA 0.0.0 7.0.0Jn KING JOHN PRINCE HENRY 0.0.0 7.0.0Jn KING PHILIP LOUIS THE DAUPHIN 0.0.0 7.0.0LrF GLOUCESTER EDGAR 0.0.0 7.0.0LrF GLOUCESTER EDMOND 0.0.0 7.0.0LrF LEAR CORDELIA 0.0.0 7.0.0LrF LEAR GONERIL 0.0.0 7.0.0LrF LEAR REGAN 0.0.0 7.0.0MND EGEUS HERMIA 0.0.0 7.0.0MV GOBBO LANCELOT 0.0.0 7.0.0MV SHYLOCK JESSICA 0.0.0 7.0.0Mac BANQUO FLEANCE 0.0.0 7.0.0Mac KING DUNCAN DONALBAIN 0.0.0 7.0.0Mac KING DUNCAN MALCOLM 0.0.0 7.0.0Mac MACDUFF MACDUFF'S SON 0.0.0 7.0.0Mac SIWARD YOUNG SIWARD 0.0.0 7.0.0Oth BRABANZIO DESDEMONA 0.0.0 9.0.0Per ANTIOCHUS DAUGHTER 0.0.0 7.0.0Per KING SIMONIDES THAISA 0.0.0 7.0.0Per PERICLES MARINA 0.10.0 7.0.0R2 JOHN OF GAUNT BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 YORK AUMERLE 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE DAUGHTER 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD DORSET 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD GRAY 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY KING HENRY PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY YORK EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY YORK GEORGE 0.0.0 7.0.0RDY YORK RICHARD 0.0.0 7.0.0RDY YORK RUTLAND 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET JULIET 0.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE ROMEO 0.0.0 7.0.0Shr BAPTISTA BIANCA 0.0.0 7.0.0Shr BAPTISTA KATHERINE 0.0.0 7.0.0Shr VINCENTIO LUCENTIO 0.0.0 7.0.0TGV ANTONIO PROTEUS 0.0.0 7.0.0TGV DUKE SILVIA 0.0.0 7.0.0TNK JAILER JAILER'S DAUGHTER 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit TITUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tmp ALONSO FERDINAND 0.0.0 7.0.0Tmp PROSPERO MIRANDA 0.0.0 7.0.0Tro CALCHAS CRESSIDA 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM PARIS 0.0.0 7.0.0Tro PRIAM TROILUS 0.0.0 7.0.0WT LEONTES MAMILLIUS 0.0.0 7.0.0WT LEONTES PERDITA 2.2.0 7.0.0WT OLD SHEPHERD CLOWN 0.0.0 7.0.0WT POLIXENES FLORIZEL 0.0.0 7.0.0Wiv PAGE ANNE 0.0.0 7.0.0Wiv PAGE WILLIAM 0.0.0 7.0.0

Page 285: Shakespeare e la terapia della famiglia

281

Tabella C.2.3 - Elenco delle relazioni daughter - “x è figlia di y”

Play x y from to1H6 JOAN SHEPHERD 0.0.0 7.0.01H6 MARGARET RENE’ 0.0.0 7.0.0AWW DIANA WIDOW 0.0.0 7.0.0AYL CELIA DUKE FREDERICK 0.0.0 7.0.0AYL ROSALIND DUKE SENIOR 0.0.0 7.0.0Ado HERO LEONATO 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN CYMBELINE 0.0.0 7.0.0H5 CATHERINE KING CHARLES 0.0.0 7.0.0H5 CATHERINE QUEEN ISABEL 0.0.0 7.0.0Ham OPHELIA POLONIUS 0.0.0 7.0.0LrF CORDELIA LEAR 0.0.0 7.0.0LrF GONERIL LEAR 0.0.0 7.0.0LrF REGAN LEAR 0.0.0 7.0.0MND HERMIA EGEUS 0.0.0 7.0.0MV JESSICA SHYLOCK 0.0.0 7.0.0Oth DESDEMONA BRABANZIO 0.0.0 9.0.0Per DAUGHTER ANTIOCHUS 0.0.0 7.0.0Per MARINA PERICLES 0.10.0 7.0.0Per MARINA THAISA 0.10.0 7.0.0Per THAISA KING SIMONIDES 0.0.0 7.0.0R3 DAUGHTER CLARENCE 0.0.0 7.0.0Rom JULIET CAPULET 0.0.0 7.0.0Rom JULIET CAPULET'S WIFE 0.0.0 7.0.0Shr BIANCA BAPTISTA 0.0.0 7.0.0Shr KATHERINE BAPTISTA 0.0.0 7.0.0TGV SILVIA DUKE 0.0.0 7.0.0TNK JAILER'S DAUGHTER JAILER 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA TITUS 0.0.0 7.0.0Tmp MIRANDA PROSPERO 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA PRIAM 0.0.0 7.0.0Tro CRESSIDA CALCHAS 0.0.0 7.0.0WT PERDITA HERMIONE 2.0.0 7.0.0WT PERDITA LEONTES 2.0.0 7.0.0Wiv ANNE MISTRESS PAGE 0.0.0 7.0.0Wiv ANNE PAGE 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.4 - Elenco delle relazioni son - “x è figlio di y”

Play x y from to1H4 HOTSPUR NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.01H4 JOHN OF LANCASTER KING HENRY 0.0.0 7.0.01H4 PRINCE HARRY KING HENRY 0.0.0 7.0.01H6 BOY MASTER GUNNER 0.0.0 7.0.02H4 CLARENCE KING HENRY 0.0.0 7.0.02H4 GLOUCESTER KING HENRY 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE HARRY KING HENRY 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE JOHN KING HENRY 0.0.0 7.0.0AWW BERTRAM COUNTESS 0.0.0 7.0.0CYL EDWARD YORK 0.0.0 7.0.0CYL RICHARD YORK 0.0.0 7.0.0CYL WARWICK SALISBURY 0.0.0 7.0.0CYL YOUNG CLIFFORD CLIFFORD 0.0.0 7.0.0Cor CORIOLANUS VOLUMNIA 0.0.0 7.0.0Cor YOUNG MARTIUS CORIOLANUS 0.0.0 7.0.0Cor YOUNG MARTIUS VIRGILIA 0.0.0 7.0.0Cym ARVIRAGUS CYMBELINE 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN QUEEN 0.0.0 7.0.0Cym FIRST BROTHER MOTHER 0.0.0 7.0.0Cym FIRST BROTHER SICILIUS 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS CYMBELINE 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS MOTHER 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS SICILIUS 0.0.0 7.0.0Cym SECOND BROTHER MOTHER 0.0.0 7.0.0

Page 286: Shakespeare e la terapia della famiglia

282

Cym SECOND BROTHER SICILIUS 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF EPHESUS EGEON 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF SYRACUSE EGEON 0.0.0 7.0.0H5 DAUPHIN KING CHARLES 0.0.0 7.0.0H5 DAUPHIN QUEEN ISABEL 0.0.0 7.0.0Ham HAMLET GHOST 0.0.0 7.0.0Ham HAMLET QUEEN GERTRUDE 0.0.0 7.0.0Ham LAERTES POLONIUS 0.0.0 7.0.0Jn ARTHUR CONSTANCE 0.0.0 7.0.0Jn FALCONBRIDGE LADY FALCONBRIDGE 0.0.0 7.0.0Jn KING JOHN QUEEN ELEANOR 0.0.0 7.0.0Jn LOUIS THE DAUPHIN KING PHILIP 0.0.0 7.0.0Jn PRINCE HENRY KING JOHN 0.0.0 7.0.0LrF EDGAR GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0MV LANCELOT GOBBO 0.0.0 7.0.0Mac DONALBAIN KING DUNCAN 0.0.0 7.0.0Mac FLEANCE BANQUO 0.0.0 7.0.0Mac MACDUFF'S SON LADY MACDUFF 0.0.0 7.0.0Mac MACDUFF'S SON MACDUFF 0.0.0 7.0.0Mac MALCOLM KING DUNCAN 0.0.0 7.0.0Mac YOUNG SIWARD SIWARD 0.0.0 7.0.0R2 AUMERLE DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R2 AUMERLE YORK 0.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R2 HARRY PERCY DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 DORSET KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 DORSET QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 GHOST OF PRINCE EDWARD QUEEN MARGARET 0.0.0 7.0.0R3 GRAY KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 GRAY QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0RDY EDWARD YORK 0.0.0 7.0.0RDY GEORGE YORK 0.0.0 7.0.0RDY PRINCE EDWARD KING HENRY 0.0.0 7.0.0RDY PRINCE EDWARD QUEEN MARGARET 0.0.0 7.0.0RDY RICHARD YORK 0.0.0 7.0.0RDY RUTLAND YORK 0.0.0 7.0.0Rom ROMEO MONTAGUE 0.0.0 7.0.0Rom ROMEO MONTAGUE'S WIFE 0.0.0 7.0.0Shr LUCENTIO VINCENTIO 0.0.0 7.0.0TGV PROTEUS ANTONIO 0.0.0 7.0.0Tit CHIRON TAMORA 0.0.0 7.0.0Tit DEMETRIUS TAMORA 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit YOUNG LUCIUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tmp FERDINAND ALONSO 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS PRIAM 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR PRIAM 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS PRIAM 0.0.0 7.0.0Tro PARIS PRIAM 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS PRIAM 0.0.0 7.0.0WT CLOWN OLD SHEPHERD 0.0.0 7.0.0WT FLORIZEL POLIXENES 0.0.0 7.0.0WT MAMILLIUS HERMIONE 0.0.0 7.0.0WT MAMILLIUS LEONTES 0.0.0 7.0.0Wiv WILLIAM MISTRESS PAGE 0.0.0 7.0.0Wiv WILLIAM PAGE 0.0.0 7.0.0

Page 287: Shakespeare e la terapia della famiglia

283

Tabella C.2.5 - Elenco delle relazioni grandmother - “x è nonna di y”

Play x y from toCor VOLUMNIA YOUNG MARTIUS 0.0.0 7.0.0Jn QUEEN ELEANOR ARTHUR 0.0.0 7.0.0Jn QUEEN ELEANOR BLANCHE 0.0.0 7.0.0Jn QUEEN ELEANOR PRINCE HENRY 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK DAUGHTER 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK DORSET 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK GRAY 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.6 - Elenco delle relazioni grandfather - “x è nonno di y”

Play x y from toPer KING SIMONIDES MARINA 0.10.0 7.0.0Tit TITUS YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.7 - Elenco delle relazioni granddaughter - “x è nipote di y”

Play x y from toJn BLANCHE QUEEN ELEANOR 0.0.0 7.0.0Per MARINA KING SIMONIDES 0.10.0 7.0.0R3 DAUGHTER DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.8 - Elenco delle relazioni grandson - “x è nipote di y”

Play x y from toCor YOUNG MARTIUS VOLUMNIA 0.0.0 7.0.0Jn ARTHUR QUEEN ELEANOR 0.0.0 7.0.0Jn PRINCE HENRY QUEEN ELEANOR 0.0.0 7.0.0R3 DORSET DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 GRAY DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0Tit YOUNG LUCIUS TITUS 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.9 - Elenco delle relazioni sister - “x è sorella di y”

Play x y from to1H4 LADY PERCY MORTIMER 0.0.0 7.0.0Ant OCTAVIA CAESAR 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Err ADRIANA LUCIANA 0.0.0 7.0.0Err LUCIANA ADRIANA 0.0.0 7.0.0H5 CATHERINE DAUPHIN 0.0.0 7.0.0Ham OPHELIA LAERTES 0.0.0 7.0.0LrF CORDELIA GONERIL 0.0.0 7.0.0LrF CORDELIA REGAN 0.0.0 7.0.0LrF GONERIL CORDELIA 0.0.0 7.0.0LrF GONERIL REGAN 0.0.0 7.0.0LrF REGAN CORDELIA 0.0.0 7.0.0LrF REGAN GONERIL 0.0.0 7.0.0MM ISABELLA CLAUDIO 0.0.0 7.0.0

Page 288: Shakespeare e la terapia della famiglia

284

R3 QUEEN ELIZABETH RIVERS 0.0.0 7.0.0RDY LADY GRAY RIVERS 0.0.0 7.0.0Shr BIANCA KATHERINE 0.0.0 7.0.0Shr KATHERINE BIANCA 0.0.0 7.0.0TN VIOLA SEBASTIAN 0.0.0 7.0.0TNK EMILIA HIPPOLYTA 0.0.0 7.0.0TNK HIPPOLYTA EMILIA 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA PARIS 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA TROILUS 0.0.0 7.0.0Wiv ANNE WILLIAM 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.10 - Elenco delle relazioni brother - “x è fratello di y”

Play x y from to1H4 JOHN OF LANCASTER PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.01H4 MORTIMER LADY PERCY 0.0.0 7.0.01H4 NORTHUMBERLAND WORCESTER 0.0.0 7.0.01H4 PRINCE HARRY JOHN OF LANCASTER 0.0.0 7.0.01H4 WORCESTER NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.02H4 CLARENCE GLOUCESTER 0.0.0 7.0.02H4 CLARENCE PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.02H4 CLARENCE PRINCE JOHN 0.0.0 7.0.02H4 GLOUCESTER CLARENCE 0.0.0 7.0.02H4 GLOUCESTER PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.02H4 GLOUCESTER PRINCE JOHN 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE HARRY CLARENCE 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE HARRY GLOUCESTER 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE HARRY PRINCE JOHN 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE JOHN CLARENCE 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE JOHN GLOUCESTER 0.0.0 7.0.02H4 PRINCE JOHN PRINCE HARRY 0.0.0 7.0.0AYL DUKE FREDERICK DUKE SENIOR 0.0.0 7.0.0AYL DUKE SENIOR DUKE FREDERICK 0.0.0 7.0.0AYL JAQUES OLIVER 0.0.0 7.0.0AYL JAQUES ORLANDO 0.0.0 7.0.0AYL OLIVER JAQUES 0.0.0 7.0.0AYL OLIVER ORLANDO 0.0.0 7.0.0AYL ORLANDO JAQUES 0.0.0 7.0.0AYL ORLANDO OLIVER 0.0.0 7.0.0Ado ANTONIO LEONATO 0.0.0 7.0.0Ado LEONATO ANTONIO 0.0.0 7.0.0Ant CAESAR OCTAVIA 0.0.0 7.0.0CYL EDWARD RICHARD 0.0.0 7.0.0CYL RICHARD EDWARD 0.0.0 7.0.0CYL STAFFORD STAFFORD'S BROTHER 0.0.0 7.0.0CYL STAFFORD'S BROTHER STAFFORD 0.0.0 7.0.0Cym ARVIRAGUS GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Cym ARVIRAGUS INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym FIRST BROTHER POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym FIRST BROTHER SECOND BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS FIRST BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS SECOND BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym SECOND BROTHER FIRST BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym SECOND BROTHER POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF EPHESUS ANTIPHOLUS OF SYRACUSE 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF SYRACUSE ANTIPHOLUS OF EPHESUS 0.0.0 7.0.0Err DROMIO OF EPHESUS DROMIO OF SYRACUSE 0.0.0 7.0.0Err DROMIO OF SYRACUSE DROMIO OF EPHESUS 0.0.0 7.0.0H5 DAUPHIN CATHERINE 0.0.0 7.0.0H5 GLOUCESTER KING HARRY 0.0.0 7.0.0

Page 289: Shakespeare e la terapia della famiglia

285

H5 KING HARRY GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0Ham GHOST KING CLAUDIUS 0.0.0 7.0.0Ham KING CLAUDIUS GHOST 0.0.0 7.0.0Ham LAERTES OPHELIA 0.0.0 7.0.0MM CLAUDIO ISABELLA 0.0.0 7.0.0Mac DONALBAIN MALCOLM 0.0.0 7.0.0Mac MALCOLM DONALBAIN 0.0.0 7.0.0Oth BRABANZIO GRAZIANO 0.0.0 9.0.0Oth GRAZIANO BRABANZIO 0.0.0 9.0.0R2 JOHN OF GAUNT YORK 0.0.0 7.0.0R2 YORK JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 RIVERS QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0RDY EDWARD GEORGE 0.0.0 7.0.0RDY EDWARD RICHARD 0.0.0 7.0.0RDY EDWARD RUTLAND 0.0.0 7.0.0RDY GEORGE EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY GEORGE RICHARD 0.0.0 7.0.0RDY GEORGE RUTLAND 0.0.0 7.0.0RDY MONTAGUE WARWICK 0.0.0 7.0.0RDY RICHARD EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY RICHARD GEORGE 0.0.0 7.0.0RDY RICHARD RUTLAND 0.0.0 7.0.0RDY RIVERS LADY GRAY 0.0.0 7.0.0RDY RUTLAND EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY RUTLAND GEORGE 0.0.0 7.0.0RDY RUTLAND RICHARD 0.0.0 7.0.0RDY WARWICK MONTAGUE 0.0.0 7.0.0TN SEBASTIAN VIOLA 0.0.0 7.0.0TNK JAILER JAILER'S BROTHER 0.0.0 7.0.0TNK JAILER'S BROTHER JAILER 0.0.0 7.0.0Tit BASSIANUS SATURNINUS 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit SATURNINUS BASSIANUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tmp ALONSO SEBASTIAN 0.0.0 7.0.0Tmp ANTONIO PROSPERO 0.0.0 7.0.0Tmp PROSPERO ANTONIO 0.0.0 7.0.0Tmp SEBASTIAN ALONSO 0.0.0 7.0.0Tro AGAMEMNON MENELAUS 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS PARIS 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR PARIS 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS CASSANDRA 0.0.0 7.0.0

Page 290: Shakespeare e la terapia della famiglia

286

Tro HELENUS DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS PARIS 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro MENELAUS AGAMEMNON 0.0.0 7.0.0Tro PARIS CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro PARIS DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro PARIS HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro PARIS HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro PARIS TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS PARIS 0.0.0 7.0.0Wiv WILLIAM ANNE 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.11 - Elenco delle relazioni wife - “x è moglie di y”

Play x y from to1H4 LADY PERCY HOTSPUR 0.0.0 7.0.02H4 LADY NORTHUMBERLAND NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.0AIT ANNE KING HENRY 4.1.0 7.0.0AIT QUEEN KATHERINE KING HENRY 0.0.0 4.0.0AWW HELEN BERTRAM 2.3.172 7.0.0AYL AUDREY TOUCHSTONE 5.4.135 7.0.0AYL CELIA OLIVER 5.4.135 7.0.0AYL PHOEBE SILVIUS 5.4.135 7.0.0AYL ROSALIND ORLANDO 5.4.135 7.0.0Ado BEATRICE BENEDICK 5.5.0 7.0.0Ado HERO CLAUDIO 5.5.0 7.0.0Ant OCTAVIA ANTONY 2.3.0 7.0.0CYL DUCHESS GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0CYL QUEEN MARGARET KING HENRY 1.1.0 7.0.0CYL SIMPCOX'S WIFE SIMPCOX 0.0.0 7.0.0Cor VIRGILIA CORIOLANUS 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym MOTHER SICILIUS 0.0.0 7.0.0Cym QUEEN CYMBELINE 0.0.0 7.0.0Err ABBESS EGEON 0.0.0 7.0.0Err ADRIANA ANTIPHOLUS OF EPHESUS 0.0.0 7.0.0H5 HOSTESS PISTOL 0.0.0 7.0.0H5 QUEEN ISABEL KING CHARLES 0.0.0 7.0.0Ham QUEEN GERTRUDE GHOST 0.0.0 1.0.0Ham QUEEN GERTRUDE KING CLAUDIUS 1.0.0 7.0.0JC CALPURNIA CAESAR 0.0.0 7.0.0JC PORTIA BRUTUS 0.0.0 7.0.0LrF CORDELIA FRANCE 1.1.259 7.0.0LrF GONERIL ALBANY 0.0.0 7.0.0LrF REGAN CORNWALL 0.0.0 7.0.0MND HELENA DEMETRIUS 5.1.0 7.0.0MND HERMIA LYSANDER 5.1.0 7.0.0MND HIPPOLYTA THESEUS 5.1.0 7.0.0MND TITANIA OBERON 0.0.0 7.0.0MV JESSICA LORENZO 3.2.0 7.0.0MV NERISSA GRAZIANO 3.3.0 7.0.0MV PORTIA BASSANIO 3.3.0 7.0.0Mac LADY MACBETH MACBETH 0.0.0 7.0.0Mac LADY MACDUFF MACDUFF 0.0.0 7.0.0Oth DESDEMONA OTHELLO 0.0.0 9.0.0Oth EMILIA IAGO 0.0.0 9.0.0Per BAWD PANDER 0.0.0 7.0.0Per DIONYZA CLEON 0.0.0 7.0.0Per THAISA PERICLES 1.10.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK YORK 0.0.0 7.0.0R2 QUEEN KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 LADY ANNE GHOST OF PRINCE EDWARD 0.0.0 1.2.0R3 LADY ANNE KING RICHARD 1.3.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH KING EDWARD 0.0.0 7.0.0

Page 291: Shakespeare e la terapia della famiglia

287

RDY LADY GRAY EDWARD 4.5.0 7.0.0RDY QUEEN MARGARET KING HENRY 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET'S WIFE CAPULET 0.0.0 7.0.0Rom JULIET ROMEO 3.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE'S WIFE MONTAGUE 0.0.0 7.0.0Shr BIANCA LUCENTIO 5.1.0 7.0.0Shr KATHERINE PETRUCCIO 3.2.0 7.0.0Shr WIDOW HORTENSIO 5.2.0 7.0.0TNK HIPPOLYTA THESEUS 2.0.0 7.0.0Tit TAMORA SATURNINUS 1.1.0 7.0.0Tmp MIRANDA FERDINAND 4.1.139 7.0.0Tro ANDROMACHE HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro HELEN MENELAUS 0.0.0 7.0.0WT HERMIONE LEONTES 0.0.0 7.0.0WT PAULINA ANTIGONUS 0.0.0 7.0.0WT PERDITA FLORIZEL 5.0.0 7.0.0Wiv MISTRESS FORD FORD 0.0.0 7.0.0Wiv MISTRESS PAGE PAGE 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.12 - Elenco delle relazioni husband - “x è marito di y”

Play x y from to1H4 HOTSPUR LADY PERCY 0.0.0 7.0.02H4 NORTHUMBERLAND LADY NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.0AIT KING HENRY ANNE 4.1.0 7.0.0AIT KING HENRY QUEEN KATHERINE 0.0.0 4.0.0AWW BERTRAM HELEN 2.3.172 7.0.0AYL OLIVER CELIA 5.4.135 7.0.0AYL ORLANDO ROSALIND 5.4.135 7.0.0AYL SILVIUS PHOEBE 5.4.135 7.0.0AYL TOUCHSTONE AUDREY 5.4.135 7.0.0Ado BENEDICK BEATRICE 5.5.0 7.0.0Ado CLAUDIO HERO 5.5.0 7.0.0Ant ANTONY OCTAVIA 2.3.0 7.0.0CYL GLOUCESTER DUCHESS 0.0.0 7.0.0CYL KING HENRY QUEEN MARGARET 1.1.0 7.0.0CYL SIMPCOX SIMPCOX'S WIFE 0.0.0 7.0.0Cor CORIOLANUS VIRGILIA 0.0.0 7.0.0Cym CYMBELINE QUEEN 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym SICILIUS MOTHER 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF EPHESUS ADRIANA 0.0.0 7.0.0Err EGEON ABBESS 0.0.0 7.0.0H5 KING CHARLES QUEEN ISABEL 0.0.0 7.0.0H5 PISTOL HOSTESS 0.0.0 7.0.0Ham GHOST QUEEN GERTRUDE 0.0.0 1.0.0Ham KING CLAUDIUS QUEEN GERTRUDE 1.0.0 7.0.0JC BRUTUS PORTIA 0.0.0 7.0.0JC CAESAR CALPURNIA 0.0.0 7.0.0LrF ALBANY GONERIL 0.0.0 7.0.0LrF CORNWALL REGAN 0.0.0 7.0.0LrF FRANCE CORDELIA 1.1.259 7.0.0MND DEMETRIUS HELENA 5.1.0 7.0.0MND LYSANDER HERMIA 5.1.0 7.0.0MND OBERON TITANIA 0.0.0 7.0.0MND THESEUS HIPPOLYTA 5.1.0 7.0.0MV BASSANIO PORTIA 3.3.0 7.0.0MV GRAZIANO NERISSA 3.3.0 7.0.0MV LORENZO JESSICA 3.2.0 7.0.0Mac MACBETH LADY MACBETH 0.0.0 7.0.0Mac MACDUFF LADY MACDUFF 0.0.0 7.0.0Oth IAGO EMILIA 0.0.0 9.0.0Oth OTHELLO DESDEMONA 0.0.0 9.0.0Per CLEON DIONYZA 0.0.0 7.0.0Per PANDER BAWD 0.0.0 7.0.0Per PERICLES THAISA 1.10.0 7.0.0R2 KING RICHARD QUEEN 0.0.0 7.0.0R2 YORK DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 GHOST OF PRINCE EDWARD LADY ANNE 0.0.0 1.2.0

Page 292: Shakespeare e la terapia della famiglia

288

R3 KING EDWARD QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD LADY ANNE 1.3.0 7.0.0RDY EDWARD LADY GRAY 4.5.0 7.0.0RDY KING HENRY QUEEN MARGARET 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET CAPULET'S WIFE 0.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE MONTAGUE'S WIFE 0.0.0 7.0.0Rom ROMEO JULIET 3.0.0 7.0.0Shr HORTENSIO WIDOW 5.2.0 7.0.0Shr LUCENTIO BIANCA 5.1.0 7.0.0Shr PETRUCCIO KATHERINE 3.2.0 7.0.0TNK THESEUS HIPPOLYTA 2.0.0 7.0.0Tit SATURNINUS TAMORA 1.1.0 7.0.0Tmp FERDINAND MIRANDA 4.1.139 7.0.0Tro HECTOR ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro MENELAUS HELEN 0.0.0 7.0.0WT ANTIGONUS PAULINA 0.0.0 7.0.0WT FLORIZEL PERDITA 5.0.0 7.0.0WT LEONTES HERMIONE 0.0.0 7.0.0Wiv FORD MISTRESS FORD 0.0.0 7.0.0Wiv PAGE MISTRESS PAGE 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.13 - Elenco delle relazioni aunt - “x è zia di y”

Play x y from toRom CAPULET'S WIFE TYBALT 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.14 - Elenco delle relazioni uncle - “x è zio di y”

Play x y from to1H4 WORCESTER HOTSPUR 0.0.0 7.0.01H6 BURGUNDY KING HENRY 0.0.0 7.0.01H6 GLOUCESTER KING HENRY 0.0.0 7.0.01H6 WINCHESTER KING HENRY 0.0.0 7.0.0Ado ANTONIO HERO 0.0.0 7.0.0Ado LEONATO BEATRICE 0.0.0 7.0.0AYL DUKE FREDERICK ROSALIND 0.0.0 7.0.0AYL DUKE SENIOR CELIA 0.0.0 7.0.0CYL CARDINAL BEAUFORT GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0CYL GLOUCESTER KING HENRY 0.0.0 7.0.0H5 EXETER GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0H5 EXETER KING HARRY 0.0.0 7.0.0Ham KING CLAUDIUS HAMLET 0.0.0 7.0.0Jn KING JOHN ARTHUR 0.0.0 7.0.0Jn KING JOHN BLANCHE 0.0.0 7.0.0Oth GRAZIANO DESDEMONA 0.0.0 9.0.0R2 JOHN OF GAUNT AUMERLE 0.0.0 7.0.0R2 JOHN OF GAUNT KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R2 YORK BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 YORK KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE DORSET 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE GRAY 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD DAUGHTER 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD DAUGHTER 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD DORSET 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD GRAY 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 RIVERS DORSET 0.0.0 7.0.0R3 RIVERS GRAY 0.0.0 7.0.0R3 RIVERS PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY SIR JOHN YORK 0.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE BENVOLIO 0.0.0 7.0.0TNK JAILER'S BROTHER JAILER'S DAUGHTER 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0

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Tit MARCUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARCUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS YOUNG LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit TITUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tmp ANTONIO MIRANDA 0.0.0 7.0.0Tmp SEBASTIAN FERDINAND 0.0.0 7.0.0Tro PANDARUS CRESSIDA 0.0.0 7.0.0Wiv SHALLOW SLENDER 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.15 - Elenco delle relazioni niece - “x è nipote di y”

Play x y from toAdo BEATRICE LEONATO 0.0.0 7.0.0Ado HERO ANTONIO 0.0.0 7.0.0AYL CELIA DUKE SENIOR 0.0.0 7.0.0AYL ROSALIND DUKE FREDERICK 0.0.0 7.0.0Jn BLANCHE KING JOHN 0.0.0 7.0.0Oth DESDEMONA GRAZIANO 0.0.0 9.0.0R3 DAUGHTER KING EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 DAUGHTER KING RICHARD 0.0.0 7.0.0TNK JAILER'S DAUGHTER JAILER'S BROTHER 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA MARCUS 0.0.0 7.0.0Tmp MIRANDA ANTONIO 0.0.0 7.0.0Tro CRESSIDA PANDARUS 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.16 - Elenco delle relazioni nephew - “x è nipote di y”

Play x y from to1H4 HOTSPUR WORCESTER 0.0.0 7.0.01H6 KING HENRY BURGUNDY 0.0.0 7.0.01H6 KING HENRY GLOUCESTER 0.0.0 7.0.01H6 KING HENRY WINCHESTER 0.0.0 7.0.0CYL GLOUCESTER CARDINAL BEAUFORT 0.0.0 7.0.0CYL KING HENRY GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0H5 GLOUCESTER EXETER 0.0.0 7.0.0H5 KING HARRY EXETER 0.0.0 7.0.0Ham HAMLET KING CLAUDIUS 0.0.0 7.0.0Jn ARTHUR KING JOHN 0.0.0 7.0.0R2 AUMERLE JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE YORK 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD YORK 0.0.0 7.0.0R3 DORSET CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 DORSET KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 DORSET RIVERS 0.0.0 7.0.0R3 GRAY CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 GRAY KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 GRAY RIVERS 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD RIVERS 0.0.0 7.0.0RDY YORK SIR JOHN 0.0.0 7.0.0Rom BENVOLIO MONTAGUE 0.0.0 7.0.0Rom TYBALT CAPULET'S WIFE 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS TITUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS MARCUS 0.0.0 7.0.0Tit YOUNG LUCIUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit YOUNG LUCIUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0

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Tit YOUNG LUCIUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit YOUNG LUCIUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tmp FERDINAND SEBASTIAN 0.0.0 7.0.0Wiv SLENDER SHALLOW 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.17 - Elenco delle relazioni sister-in-law - “x è cognata di y”

Play x y from toAYL CELIA JAQUES 5.4.135 7.0.0AYL CELIA ORLANDO 5.4.135 7.0.0AYL ROSALIND JAQUES 5.4.135 7.0.0AYL ROSALIND OLIVER 5.4.135 7.0.0Cym INNOGEN FIRST BROTHER 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN SECOND BROTHER 0.0.0 7.0.0Err ADRIANA ANTIPHOLUS OF SYRACUSE 0.0.0 7.0.0Err LUCIANA ANTIPHOLUS OF EPHESUS 0.0.0 7.0.0Ham QUEEN GERTRUDE GHOST 1.0.0 7.0.0Ham QUEEN GERTRUDE KING CLAUDIUS 0.0.0 1.0.0LrF CORDELIA ALBANY 0.0.0 7.0.0LrF CORDELIA CORNWALL 0.0.0 7.0.0LrF GONERIL CORNWALL 0.0.0 7.0.0LrF GONERIL FRANCE 1.1.259 7.0.0LrF REGAN ALBANY 0.0.0 7.0.0LrF REGAN FRANCE 1.1.259 7.0.0R2 DUCHESS OF GLOUCESTER JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R2 DUCHESS OF GLOUCESTER YORK 0.0.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK JOHN OF GAUNT 0.0.0 7.0.0R3 LADY ANNE CLARENCE 1.3.0 7.0.0R3 LADY ANNE KING EDWARD 1.3.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH CLARENCE 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH KING RICHARD 0.0.0 7.0.0RDY LADY BONA KING LOUIS 0.0.0 7.0.0RDY LADY GRAY GEORGE 4.5.0 7.0.0RDY LADY GRAY RICHARD 4.5.0 7.0.0RDY LADY GRAY RUTLAND 4.5.0 7.0.0Shr BIANCA PETRUCCIO 3.2.0 7.0.0Shr KATHERINE LUCENTIO 5.1.0 7.0.0TNK EMILIA THESEUS 2.0.0 7.0.0Tit TAMORA BASSIANUS 1.1.0 7.0.0Tro ANDROMACHE BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro ANDROMACHE CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro ANDROMACHE DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro ANDROMACHE HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro ANDROMACHE PARIS 0.0.0 7.0.0Tro ANDROMACHE TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro HELEN AGAMEMNON 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.18 - Elenco delle relazioni brother-in-law - “x è cognato di y”

Play x y from to1H4 HOTSPUR MORTIMER 0.0.0 7.0.01H4 MORTIMER HOTSPUR 0.0.0 7.0.0AYL JAQUES CELIA 5.4.135 7.0.0AYL JAQUES ROSALIND 5.4.135 7.0.0AYL OLIVER ROSALIND 5.4.135 7.0.0AYL ORLANDO CELIA 5.4.135 7.0.0Ant ANTONY CAESAR 2.3.0 7.0.0Ant CAESAR ANTONY 2.3.0 7.0.0Cym ARVIRAGUS POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym FIRST BROTHER INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym POSTHUMUS CLOTEN 0.0.0 7.0.0

Page 295: Shakespeare e la terapia della famiglia

291

Cym POSTHUMUS GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Cym SECOND BROTHER INNOGEN 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF EPHESUS LUCIANA 0.0.0 7.0.0Err ANTIPHOLUS OF SYRACUSE ADRIANA 0.0.0 7.0.0Ham GHOST QUEEN GERTRUDE 1.0.0 7.0.0Ham KING CLAUDIUS QUEEN GERTRUDE 0.0.0 1.0.0LrF ALBANY CORDELIA 0.0.0 7.0.0LrF ALBANY REGAN 0.0.0 7.0.0LrF CORNWALL CORDELIA 0.0.0 7.0.0LrF CORNWALL GONERIL 0.0.0 7.0.0LrF FRANCE GONERIL 1.1.259 7.0.0LrF FRANCE REGAN 1.1.259 7.0.0R2 JOHN OF GAUNT DUCHESS OF GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0R2 JOHN OF GAUNT DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R2 YORK DUCHESS OF GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0R3 CLARENCE LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 CLARENCE QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 KING EDWARD LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 KING EDWARD RIVERS 0.0.0 7.0.0R3 KING RICHARD QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 RIVERS KING EDWARD 0.0.0 7.0.0RDY EDWARD RIVERS 4.5.0 7.0.0RDY GEORGE LADY GRAY 4.5.0 7.0.0RDY HASTINGS MONTAGUE 0.0.0 7.0.0RDY HASTINGS WARWICK 0.0.0 7.0.0RDY KING LOUIS LADY BONA 0.0.0 7.0.0RDY MONTAGUE HASTINGS 0.0.0 7.0.0RDY MONTAGUE OXFORD 0.0.0 7.0.0RDY OXFORD MONTAGUE 0.0.0 7.0.0RDY OXFORD WARWICK 0.0.0 7.0.0RDY RICHARD LADY GRAY 4.5.0 7.0.0RDY RIVERS EDWARD 4.5.0 7.0.0RDY RUTLAND LADY GRAY 4.5.0 7.0.0RDY WARWICK HASTINGS 0.0.0 7.0.0RDY WARWICK OXFORD 0.0.0 7.0.0Shr LUCENTIO KATHERINE 5.1.0 7.0.0Shr PETRUCCIO BIANCA 3.2.0 7.0.0TNK THESEUS EMILIA 2.0.0 7.0.0Tit BASSIANUS TAMORA 1.1.0 7.0.0Tro AGAMEMNON HELEN 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro PARIS ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.19 - Elenco delle relazioni mother-in-law - “x è suocera di y”

Play x y from to2H4 LADY NORTHUMBERLAND LADY PERCY 0.0.0 7.0.0AWW COUNTESS HELEN 2.3.172 7.0.0Cor VOLUMNIA VIRGILIA 0.0.0 7.0.0Cym MOTHER INNOGEN 0.0.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 DUCHESS OF YORK QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0R3 QUEEN MARGARET LADY ANNE 0.0.0 1.2.0Rom CAPULET'S WIFE ROMEO 3.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE'S WIFE JULIET 3.0.0 7.0.0WT HERMIONE FLORIZEL 5.0.0 7.0.0

Page 296: Shakespeare e la terapia della famiglia

292

Tabella C.2.20 - Elenco delle relazioni father-in-law - “x è suocero di y”

Play x y from to1H4 GLYNDWR MORTIMER 0.0.0 7.0.01H4 NORTHUMBERLAND LADY PERCY 0.0.0 7.0.02H4 NORTHUMBERLAND LADY PERCY 0.0.0 7.0.0AIT BUCKINGHAM ABERGAVENNY 0.0.0 7.0.0AIT BUCKINGHAM SURREY 0.0.0 7.0.0AYL DUKE FREDERICK OLIVER 5.4.135 7.0.0AYL DUKE SENIOR ORLANDO 5.4.135 7.0.0Ado LEONATO CLAUDIO 5.5.0 7.0.0Cym CYMBELINE POSTHUMUS 0.0.0 7.0.0Cym SICILIUS INNOGEN 0.0.0 7.0.0Err EGEON ADRIANA 0.0.0 7.0.0LrF LEAR ALBANY 0.0.0 7.0.0LrF LEAR CORNWALL 0.0.0 7.0.0LrF LEAR FRANCE 1.1.259 7.0.0MND EGEUS LYSANDER 5.1.0 7.0.0MV SHYLOCK LORENZO 3.2.0 7.0.0Oth BRABANZIO OTHELLO 0.0.0 9.0.0Per KING SIMONIDES PERICLES 1.10.0 7.0.0R3 STANLEY HENRY EARL OF RICHMOND 0.0.0 7.0.0RDY YORK LADY GRAY 4.5.0 7.0.0Rom CAPULET ROMEO 3.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE JULIET 3.0.0 7.0.0Shr BAPTISTA LUCENTIO 5.1.0 7.0.0Shr BAPTISTA PETRUCCIO 3.2.0 7.0.0Shr VINCENTIO BIANCA 5.1.0 7.0.0Tmp ALONSO MIRANDA 4.1.139 7.0.0Tmp PROSPERO FERDINAND 4.1.139 7.0.0Tro PRIAM ANDROMACHE 0.0.0 7.0.0WT LEONTES FLORIZEL 5.0.0 7.0.0WT POLIXENES PERDITA 5.0.0 7.0.0

Tabella C.2.21 - Elenco delle relazioni daughter-in-law - “x è nuora di y”

Play x y from to1H4 LADY PERCY NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.02H4 LADY PERCY LADY NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.02H4 LADY PERCY NORTHUMBERLAND 0.0.0 7.0.0AWW HELEN COUNTESS 2.3.172 7.0.0Cor VIRGILIA VOLUMNIA 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN MOTHER 0.0.0 7.0.0Cym INNOGEN SICILIUS 0.0.0 7.0.0Err ADRIANA EGEON 0.0.0 7.0.0R3 LADY ANNE DUCHESS OF YORK 1.3.0 7.0.0R3 LADY ANNE QUEEN MARGARET 0.0.0 1.2.0R3 QUEEN ELIZABETH DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0RDY LADY GRAY YORK 4.5.0 7.0.0Rom JULIET MONTAGUE 3.0.0 7.0.0Rom JULIET MONTAGUE'S WIFE 3.0.0 7.0.0Shr BIANCA VINCENTIO 5.1.0 7.0.0Tmp MIRANDA ALONSO 4.1.139 7.0.0Tro ANDROMACHE PRIAM 0.0.0 7.0.0WT PERDITA POLIXENES 5.0.0 7.0.0

Page 297: Shakespeare e la terapia della famiglia

293

Tabella C.2.22 - Elenco delle relazioni son-in-law - “x è genero di y”

Play x y from to1H4 MORTIMER GLYNDWR 0.0.0 7.0.0AIT ABERGAVENNY BUCKINGHAM 0.0.0 7.0.0AIT SURREY BUCKINGHAM 0.0.0 7.0.0AYL OLIVER DUKE FREDERICK 5.4.135 7.0.0AYL ORLANDO DUKE SENIOR 5.4.135 7.0.0Ado CLAUDIO LEONATO 5.5.0 7.0.0Cym POSTHUMUS CYMBELINE 0.0.0 7.0.0LrF ALBANY LEAR 0.0.0 7.0.0LrF CORNWALL LEAR 0.0.0 7.0.0LrF FRANCE LEAR 1.1.259 7.0.0MND LYSANDER EGEUS 5.1.0 7.0.0MV LORENZO SHYLOCK 3.2.0 7.0.0Oth OTHELLO BRABANZIO 0.0.0 9.0.0Per PERICLES KING SIMONIDES 1.10.0 7.0.0R3 HENRY EARL OF RICHMOND STANLEY 0.0.0 7.0.0Rom ROMEO CAPULET 3.0.0 7.0.0Rom ROMEO CAPULET'S WIFE 3.0.0 7.0.0Shr LUCENTIO BAPTISTA 5.1.0 7.0.0Shr PETRUCCIO BAPTISTA 3.2.0 7.0.0Tmp FERDINAND PROSPERO 4.1.139 7.0.0WT FLORIZEL HERMIONE 5.0.0 7.0.0WT FLORIZEL LEONTES 5.0.0 7.0.0

Tabella C.2.23 - Elenco delle relazioni stepmother - “x è matrigna di y”

Play x y from toCym QUEEN ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym QUEEN GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Cym QUEEN INNOGEN 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.24 - Elenco delle relazioni stepfather - “x è patrigno di y”

Play x y from toCym CYMBELINE CLOTEN 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.25 - Elenco delle relazioni stepdaughter - “x è figliastra di y”

Play x y from toCym INNOGEN QUEEN 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.26 - Elenco delle relazioni stepson - “x è figliastro di y”

Play x y from toCym ARVIRAGUS QUEEN 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN CYMBELINE 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS QUEEN 0.0.0 7.0.0

Page 298: Shakespeare e la terapia della famiglia

294

Tabella C.2.27 - Elenco delle relazioni stepsister - “x è sorellastra di y”

Play x y from toCym INNOGEN CLOTEN 0.0.0 7.0.0Tro CASSANDRA BASTARD 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.28 - Elenco delle relazioni stepbrother - “x è fratellastro di y”

Play x y from toAdo DON JOHN DON PEDRO 0.0.0 7.0.0Ado DON PEDRO DON JOHN 0.0.0 7.0.0Cym ARVIRAGUS CLOTEN 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN ARVIRAGUS 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN GUIDERIUS 0.0.0 7.0.0Cym CLOTEN INNOGEN 0.0.0 7.0.0Cym GUIDERIUS CLOTEN 0.0.0 7.0.0LrF EDGAR EDMOND 0.0.0 7.0.0LrF EDMOND EDGAR 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD CASSANDRA 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD DEIPHOBUS 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD HECTOR 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD HELENUS 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD PARIS 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD TROILUS 0.0.0 7.0.0Tro DEIPHOBUS BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro HECTOR BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro HELENUS BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro PARIS BASTARD 0.0.0 7.0.0Tro TROILUS BASTARD 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.29 - Elenco delle relazioni aunt-in-law - “x è zia acquisita di y”

Play x y from toCYL DUCHESS KING HENRY 0.0.0 7.0.0Ham QUEEN GERTRUDE HAMLET 1.0.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 DUCHESS OF YORK KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R3 LADY ANNE DAUGHTER 1.3.0 7.0.0R3 LADY ANNE DORSET 1.3.0 7.0.0R3 LADY ANNE GRAY 1.3.0 7.0.0R3 LADY ANNE PRINCE EDWARD 1.3.0 7.0.0R3 QUEEN ELIZABETH DAUGHTER 0.0.0 7.0.0Rom MONTAGUE'S WIFE BENVOLIO 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.30 - Elenco delle relazioni uncle-in-law - “x è zio acquisito di y”

Play x y from toRom CAPULET TYBALT 0.0.0 7.0.0

Page 299: Shakespeare e la terapia della famiglia

295

Tabella C.2.31 - Elenco delle relazioni niece-in-law - “x è nipote acquisita di y”

Play x y from toR3 DAUGHTER LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 DAUGHTER QUEEN ELIZABETH 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.32 - Elenco delle relazioni nephew-in-law -

“x è nipote acquisito di y”

Play x y from toCYL KING HENRY DUCHESS 0.0.0 7.0.0Ham HAMLET QUEEN GERTRUDE 1.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD DUCHESS OF YORK 0.0.0 7.0.0R3 DORSET LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 GRAY LADY ANNE 1.3.0 7.0.0R3 PRINCE EDWARD LADY ANNE 1.3.0 7.0.0Rom BENVOLIO MONTAGUE'S WIFE 0.0.0 7.0.0Rom TYBALT CAPULET 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.33 - Elenco delle relazioni illegitimate son -

“x è figlio illegittimo di y”

Play x y from toJn BASTARD LADY FALCONBRIDGE 0.0.0 7.0.0LrF EDMOND GLOUCESTER 0.0.0 7.0.0Tro BASTARD PRIAM 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.34 - Elenco delle relazioni cousin - “x è cugina/o di y”

Play x y from toAdo BEATRICE HERO 0.0.0 7.0.0Ado HERO BEATRICE 0.0.0 7.0.0AYL CELIA ROSALIND 0.0.0 7.0.0AYL ROSALIND CELIA 0.0.0 7.0.0Jn ARTHUR PRINCE HENRY 0.0.0 7.0.0Jn BLANCHE PRINCE HENRY 0.0.0 7.0.0Jn PRINCE HENRY ARTHUR 0.0.0 7.0.0Jn PRINCE HENRY BLANCHE 0.0.0 7.0.0R2 AUMERLE BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 AUMERLE KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE AUMERLE 0.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE HARRY PERCY 0.0.0 7.0.0R2 BOLINGBROKE KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R2 HARRY PERCY BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 HARRY PERCY KING RICHARD 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD AUMERLE 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD BOLINGBROKE 0.0.0 7.0.0R2 KING RICHARD HARRY PERCY 0.0.0 7.0.0R3 DAUGHTER DORSET 0.0.0 7.0.0R3 DAUGHTER GRAY 0.0.0 7.0.0R3 DAUGHTER PRINCE EDWARD 0.0.0 7.0.0R3 DORSET DAUGHTER 0.0.0 7.0.0R3 GRAY DAUGHTER 0.0.0 7.0.0

Page 300: Shakespeare e la terapia della famiglia

296

R3 PRINCE EDWARD DAUGHTER 0.0.0 7.0.0Rom BENVOLIO ROMEO 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET CAPULET'S COUSIN 0.0.0 7.0.0Rom CAPULET'S COUSIN CAPULET 0.0.0 7.0.0Rom JULIET TYBALT 0.0.0 7.0.0Rom ROMEO BENVOLIO 0.0.0 7.0.0Rom TYBALT JULIET 0.0.0 7.0.0TNK ARCITE PALAMON 0.0.0 7.0.0TNK PALAMON ARCITE 0.0.0 7.0.0Tit LAVINIA PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tit LUCIUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tit MARTIUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tit MUTIUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS LAVINIA 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS LUCIUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS MARTIUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS MUTIUS 0.0.0 7.0.0Tit PUBLIUS QUINTUS 0.0.0 7.0.0Tit QUINTUS PUBLIUS 0.0.0 7.0.0

Tabella C.2.35 - Elenco delle relazioni lover - “x è amante di y”

Play x y from toAnt ANTONY CLEOPATRA 0.0.0 7.0.0Ant CLEOPATRA ANTONY 0.0.0 7.0.0CYL QUEEN MARGARET SUFFOLK 0.0.0 7.0.0CYL SUFFOLK QUEEN MARGARET 0.0.0 7.0.0Per ANTIOCHUS DAUGHTER 1.0.0 7.0.0Per DAUGHTER ANTIOCHUS 1.0.0 7.0.0Tit AARON TAMORA 0.0.0 7.0.0Tit BASSIANUS LAVINIA 1.1.0 7.0.0Tit LAVINIA BASSIANUS 1.1.0 7.0.0Tit TAMORA AARON 0.0.0 7.0.0Tro HELEN PARIS 0.0.0 7.0.0Tro PARIS HELEN 0.0.0 7.0.0

Page 301: Shakespeare e la terapia della famiglia

297

Tabella C.3 – Distribuzione dei ruoli familiari3

Family RoleAll Comedies

Darkcomedies Histories

Romantragedies Romances Tragedies

Mothers 23 1 2 9 3 4 4

Fathers 58 12 2 18 4 11 11

Daughters 30 9 3 4 1 7 6

Sons 74 6 6 33 10 10 9

Grandmothers 3 0 0 2 1 0 0

Grandfathers 2 0 0 0 1 1 0

Granddaughters 3 0 0 2 0 1 0

Grandsons 7 0 0 5 2 0 0

Sisters 21 6 2 4 2 3 4

Brothers 77 13 8 29 9 11 7

Wives 65 20 3 15 5 11 11

Husbands 66 20 3 15 5 11 12

Aunts 2 0 0 0 1 0 1

Uncles 32 5 1 15 5 3 3

Nieces 11 4 1 2 1 2 1

Nephews 25 1 0 14 6 1 3

Sisters-in-law 22 6 3 6 1 2 4

Brothers-in-law 46 7 6 18 3 7 5

Mothers-in-law 9 0 1 3 1 2 2

Fathers-in-law 26 8 1 6 0 7 4

Daughters-in-law 14 2 2 5 1 3 1

Sons-in-law 20 7 0 4 0 4 5

Stepmothers 1 0 0 0 0 1 0

Stepfathers 1 0 0 0 0 1 0

Stepdaughters 1 0 0 0 0 1 0

Stepsons 3 0 0 0 0 3 0

Stepsisters 2 0 1 0 0 1 0

Stepbrothers 13 2 6 0 0 3 2

Aunts-in-law 6 0 0 4 0 0 2

Uncles-in-law 1 0 0 0 0 0 1

Nieces-in-law 1 0 0 1 0 0 0

Nephews-in-law 9 0 0 6 0 0 3

Illegitimate daughters 0 0 0 0 0 0 0

Illegitimate sons 3 0 1 1 0 0 1

Cousins 29 4 0 11 6 2 6

Lovers 12 0 2 2 6 2 0

TOTALS 718 133 54 234 74 115 108

3 Come si può osservare, i numero di questa tabella non corrispondono a quelli della tabella

C.1. Questo non deve stupire, perché il ruolo è un’entità diversa dalla relazione. Lear, per esempio, avendo tre figlie, intrattiene nella tabella C.1 tre relazioni diadiche del tipo “Lear è padre di y”, ma nella tabella C.3 il suo ruolo di padre è conteggiato un’unica volta. Per una ragione analoga, i conteggi qui riportati non corrispondono nemmeno a quelli della ta-bella B.7: un singolo personaggio, infatti, pur avendo un solo sesso, può intrattenere più relazioni famigliari. Per esempio, nella colonna Dark Comedies della tabella B.7 Cressida è considerata come una singola donna, mentre in C.3 e C.4 è sia una figlia (di Calchas) sia una nipote (di Pandarus), quindi incide due volte sia nel conteggio dei ruoli (C.3) sia in quello dei versi (C.4).

Page 302: Shakespeare e la terapia della famiglia

298

Tabella C.4 – Distribuzione dei versi (o linee) per ruolo familiare4

Family Role

All ComediesDark

comedies HistoriesRoman

tragedies Romances TragediesMothers 3410 330 355 1326 605 483 311

Fathers 12338 1728 51 3235 1849 3146 2329

Daughters 5787 1828 474 351 59 1501 1574

Sons 12012 1306 1129 4093 1118 1583 2783

Grandmothers 504 0 0 195 309 0 0

Grandfathers 872 0 0 0 703 169 0

Granddaughters 248 0 0 44 0 204 0

Grandsons 267 0 0 221 46 0 0

Sisters 3702 1004 460 435 95 1062 646

Brothers 12852 2286 1171 4334 1927 1929 1205

Wives 10974 3966 519 1847 451 1978 2213

Husbands 19265 4794 502 3760 2574 2998 4637

Aunts 173 0 0 0 59 0 114

Uncles 5656 698 392 2630 1063 281 592

Nieces 2655 1386 298 44 59 479 389

Nephews 5790 147 0 3631 300 140 1572

Sisters-in-law 4175 1617 79 634 257 960 628

Brothers-in-law 8979 1944 837 2653 1302 1359 884

Mothers-in-law 1300 0 291 361 309 222 117

Fathers-in-law 5386 1303 20 682 0 2214 1167

Daughters-in-law 2852 331 492 577 39 874 539

Sons-in-law 5287 1879 0 262 0 1397 1749

Stepmothers 165 0 0 0 0 165 0

Stepfathers 290 0 0 0 0 290 0

Stepdaughters 592 0 0 0 0 592 0

Stepsons 566 0 0 0 0 566 0

Stepsisters 629 0 37 0 0 592 0

Stepbrothers 2495 434 854 0 0 566 641

Aunts-in-law 768 0 0 613 0 0 155

Uncles-in-law 264 0 0 0 0 0 264

Nieces-in-law 2 0 0 2 0 0 0

Nephews-in-law 2741 0 0 1169 0 0 1572

Illegitimate daugh-ters

0 0 0 0 0 0 0

Illegitimate sons 820 0 3 522 0 0 295

Cousins 5588 1386 0 1163 315 1109 1615

Lovers 3038 0 125 618 2226 69 0

TOTALS 142442 28367 8089 35402 15665 26928 27991

4 Vedi nota alla tabella C.3.

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C.5 - Top ten delle parole più usate fra parenti

In questa sezione, per ogni tipo di relazione familiare diadica, sono riportate le dieci parole più ricorrenti “all’interno di conversazioni famigliari”. Per otte-nere questi dati, si sono individuate tutte le sequenze di scambi di battute del ti-po LSL (listener-speaker-listener), con S e L legati da un grado di parentela, ed è stato effettuato un conteggio separato per sequenze di apertura Sl, di chiusura lS e intermedie lSl, dove con la lettera maiuscola S è indicata la battuta calcolata per il conteggio.

Non si è tenuto conto di un cospicuo numero di stopwords: avverbi e con-giunzioni, preposizioni, pronomi, verbi modali, aggettivi dimostrativi, numerali e possessivi, nomi propri e interiezioni. Unica eccezione, i pronomi di seconda persona: a causa il loro elevato valore informativo circa la relazione fra parlanti, sono stati inclusi nel conteggio.

Un esempio può chiarire come si è proceduto per la selezione dei dati e met-tere in evidenza alcuni dei limiti di questa analisi. Consideriamo la sequenza che segue (Oth, IV.iii.1-10):

(Enter Othello, Desdemona, Lodovico, Emilia, and attendants) Lodovico I do beseech you, sir, trouble yourself no further. Othello O, pardon me, ’twill do me good to walk. Lodovico (to Desdemona) Madam, good night. I humbly thank your ladyship. Desdemona Your honour is most welcome. Othello Will you walk, sir?

O, Desdemona! Desdemona My lord? Othello Get you to bed on th’instant. I will be returned forthwith. Dismiss your attendant there. Look ’t be done. Desdemona I will, my lord. (Exeunt Othello, Lodovico, and attendants) Emilia How goes it now? He looks gentler than he did.

Si tratta di una sequenza A1B1A2C1B2C2B3C3D1, nella quale le uniche persone

coinvolte in una relazione famigliare diadica sono B e C, in quanto B è marito di C. Per il conteggio relativo alla relazione “è marito di”, le battute considerate

Page 304: Shakespeare e la terapia della famiglia

300

saranno B2 e B3, entrambe sequenze intermedie. Per quanto riguarda la relazione “è moglie di”, invece, le battute saranno C1,C2 e C3, la prima d’apertura, la se-conda intermedia e la terza di chiusura.5

Il problema principale di tale analisi è che, mentre l’identità di chi sta par-lando è resa esplicita, quella di colui o colei alla quale si rivolge è implicita. Un’analisi semantica permette di intuire a chi ci si rivolge, ma ha lo svantaggio di non poter essere eseguita automaticamente—almeno, non con le edizioni elettroniche di cui disponevo e con il software da me sviluppato. Un’analisi radicalmente pragmatica, invece, basata cioè esclusivamente sulle sequenze di turn-taking, è piuttosto semplice da eseguire, ma porta a risultati a volte inaffidabili: non sempre, infatti, chi risponde è la stessa persona alla quale ci si rivolge—altrimenti, è ovvio, avremmo solo scene con non più di due parlanti. Considerando le sole battute intermedie, la probabilità di identificare correttamente quello che potremmo chiamare il “ricevente implicito” aumenta: in una sequenza ABA, infatti è ragionevole supporre che B si stia rivolgendo ad A. Rimane comunque un notevole margine d’errore: per esempio, il “sir” pronunciato da Othello in B2—una battuta intermedia—è chiaramente rivolto a Lodovico, non a Desdemona. L’influenza di tali errori è notevolmente ridimensionata dalla mole del corpus considerato (oltre 100.000 linee), ma è comunque opportuno considerare le tabelle qui riportate con la dovuta cautela.

Le tabelle che seguono sono solo 17, e non 36, perché mi è parso opportuno non considerare significative le statistiche relative a relazioni in cui la parola più frequente nelle battute intermedie (colonna N_Middle) ricorra meno di 15 volte. Le tre colonne N_Middle, N_Open e N_Close identificano rispettivamen-te, all’interno di una sequenza, le battute intermedie, quelle di apertura e quelle di chiusura. L’ordinamento delle righe è fatto sul numero di ricorrenze nelle battute intermedie, in quanto questo, come già detto, è il dato più affidabile.

5 Per il metodo di analisi del turn-taking qui adottato, e per la tipologia delle battute, vedi

Vimala Herman, Dramatic discourse: dialogue as interaction in plays, London: Routle-dge, 1995.

Page 305: Shakespeare e la terapia della famiglia

SWORD

thou

you

thy

thee

your

speak

son

come

sir

honour

SWORD

thou

you

thy

thee

your

know

let

man

come

well

SpWORD

you

your

sir

lord

father

good

love

know

think

heart

SWORD

you

your

thou

love

sister

cry

brother

lord

thee

thy

Tabella C.5.1 peaker: MOTHER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

50 9 23

39 25 17

28 8 26

20 6 17

19 11 15

15 4 3

12 9 6

9 4 7

9 1 2

7 2 2

301

WORD

you

your

father

let

lord

good

hear

look

man

mother

SpWORD

you

thy

thou

thee

your

brother

see

come

let

sir

Tabella C.5.2 peaker: FATHER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

146 69 57

135 104 76

103 48 32

65 38 37

47 31 20

28 23 6

28 23 16

26 9 8

25 22 15

24 12 8

Tabella C.5.3 eaker: DAUGHTER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

81 23 43

37 16 12

31 2 6

29 7 7

19 6 7

18 6 14

15 2 10

10 4 1

9 2 1

7 1 2

Tabella C.5.4 Speaker: SON N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

124 41 54

78 25 34

34 16 24

27 5 16

20 13 7

18 11 21

16 1 3

16 1 2

16 8 17

16 7 16

Tabella C.5.5 peaker: SISTER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

58 24 19

18 12 9

17 4 5

12 6 2

12 8 2

11 1 3

10 2 2

10 4 4

10 1 2

9 1 3

Tabella C.5.6 eaker: BROTHER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

89 98 87

48 31 30

42 32 49

34 21 27

31 38 31

30 26 29

25 8 8

20 19 21

19 21 23

18 13 5

Page 306: Shakespeare e la terapia della famiglia

302

Tabella C.5.7

Speaker: WIFE WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

you 224 95 76

your 112 32 43

lord 73 27 21

thy 53 12 22

thou 45 17 22

love 34 6 4

come 33 10 11

thee 29 14 15

know 27 9 12

good 26 10 17

Tabella C.5.8 Speaker: HUSBAND

WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

you 114 93 78

thou 69 47 32

your 35 43 36

thy 33 32 39

thee 27 23 31

love 26 20 16

come 23 28 36

let 23 29 25

say 23 18 10

go 21 22 34

Tabella C.5.9 Speaker: UNCLE

WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

you 86 40 63

thy 36 15 7

thou 34 6 14

your 25 14 41

man 21 5 3

well 20 7 3

cousin 17 6 8

lord 16 9 8

good 15 8 12

king 14 15 4

Tabella C.5.10 Speaker: FATHER-IN-LAW WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

thou 16 8 9

you 12 24 26

thy 10 2 2

good 6 1 1

thee 6 4 7

daughter 5 1 3

your 5 10 12

love 4 0 2

hear 3 0 1

lay 3 0 0

Tabella C.5.11 Speaker: NIECE

WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

you 25 16 16

uncle 15 4 2

good 9 1 2

man 8 2 3

defend 5 0 0

love 5 3 4

matter 5 0 0

your 5 3 4

say 4 3 1

tell 4 0 1

Tabella C.5.12 Speaker: NEPHEW

WORD N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

you 28 40 40

uncle 17 16 15

thy 14 13 10

your 12 30 25

tell 10 5 4

come 9 14 13

thou 9 23 7

father 8 5 11

thee 8 14 4

dauphin 7 0 1

Page 307: Shakespeare e la terapia della famiglia

SpeaWORD

thou

thy

thee

your

life

love

blood

live

thine

break

SpeakWORD

you

your

love

thy

good

daughter

myself

death

‘em

fair

SpeWORD

you

thy

thou

thee

brother

villain

your

father

fear

hear

SpeWORD

you

thou

let

thee

thy

your

lord

heart

queen

come

Tabella C.5.13 ker: SISTER-IN-LAW N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

36 1 1

35 0 4

11 2 1

10 6 4

9 0 1

8 0 0

7 1 0

6 0 1

6 0 0

5 0 0

303

SpeWORD

you

your

love

thou

cousin

good

thee

let

thy

man

Tabella C.5.14 er: BROTHER-IN-LAW N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

35 24 29

11 11 17

10 2 4

9 8 4

7 7 2

6 1 0

6 0 1

5 0 0

5 2 2

5 2 2

Tabella C.5.15 aker: STEPBROTHER N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

29 13 13

22 1 7

17 2 1

9 3 1

6 7 2

6 1 0

6 2 1

5 4 5

4 0 0

4 2 1

Tabella C.5.16 aker: COUSIN (F/M) N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

158 32 35

73 16 12

61 6 12

59 23 22

43 23 10

37 7 7

32 14 18

28 10 15

28 17 26

27 12 5

Tabella C.5.17 aker: LOVER (F/M) N_MIDDLE N_OPEN N_CLOSE

41 24 9

25 21 15

23 12 7

20 8 9

20 8 10

19 17 5

13 6 6

11 5 2

11 3 4

10 4 9

Page 308: Shakespeare e la terapia della famiglia

304

Il grado di “invischiamento” (enmeshment)

Le tabelle che seguono sono fra le più complicate da ottenere, ma probabil-mente anche le più indicative del grado di intensità comunicativa fra membri di una relazione famigliare. Per ottenerle, ho analizzato tutte le sequenze di battute fra dramatis personae che intrattengono fra loro una relazione familiare, con-teggiando le seguenti variabili: D0_PAIRS, cioè le coppie di battute contigue (“a distanza 0”); D1_PAIRS, cioè le coppie di battute intercalate da una battuta di un terzo speaker (“a distanza 1”); D2_PAIRS, cioè le coppie di battute inter-calate da due battute di un terzo e un quarto speakers (“a distanza 2”); DP_A_OPENS, cioè il numero di sequenze di D0_PAIRS inaugurate da una battuta della dramatis persona A; e, infine, DP_A_CLOSES, cioè il numero di sequenze di D0_PAIRS terminate da una battuta della dramatis persona A. Ov-viamente, la somma di “aperture” delle DD.PP. di ogni coppia risulta uguale al-la somma delle “chiusure” per quella coppia, e tale somma indica in numero di “sequenze a distanza 0”.

Un breve esempio può chiarire l’algoritmo. Supponiamo che A e B siano DD.PP. che intrattengono fra loro una (o, più correttamente, due) delle 36 rela-zioni familiari considerate in questa tesi, e che M e N siano invece altre DD.PP. In tal caso, una serie di battute come quella che segue:

N1 M1 A1 N2 B1 A2 B2 A3 B3 A4 M2 N3 M3 N4 B4 N5 M4 A5 B5 A6

produrrà i seguenti conteggi:

D0_PAIRS fra A e B 7 cioè: B1A2, A2B2, B2A3, A3B3, B3A4 e A5B5, B5A6 D1_PAIRS fra A e B 1 cioè: A1B1 (spezzata da N2) D2_PAIRS fra A e B 1 cioè: B4A5 (spezzata da N5 e da M4) D0_OPENS per A 1 cioè: A5 … A6 (sequenza inaugurata da A) D0_OPENS per B 1 cioè: B1 … A4 (sequenza inaugurata da B) D0_CLOSES per A 2 cioè: B1 … A4 e A5 … A6 (sequenze terminate da A) D0_CLOSES per B 0 (B non termina mai alcuna sequenza a distanza zero)

Page 309: Shakespeare e la terapia della famiglia

305

Tabella C.6 - Le quindici relazioni famigliari più “dirette”

Play Relation DP_A DP_BD0

PAIRSDP_AOPENS

DP_ACLOSES

D1PAIRS

D2PAIRS

Oth Wife DESDEMONA OTHELLO 88 7 9 12 11Oth Husband OTHELLO DESDEMONA 88 11 9 12 11

R3 Sister-in-law QUEEN ELIZABETH KING RICHARD 83 1 0 4 0R3 Brother-in-law KING RICHARD QUEEN ELIZABETH 83 0 1 4 0

Mac Wife LADY MACBETH MACBETH 81 5 2 3 10Mac Husband MACBETH LADY MACBETH 81 6 9 3 10

Tit Brother MARCUS TITUS 73 14 9 20 19Tit Brother TITUS MARCUS 73 13 18 20 19

Tmp Father PROSPERO MIRANDA 66 5 9 12 5Tmp Daughter MIRANDA PROSPERO 66 7 3 12 5

Tro Uncle PANDARUS CRESSIDA 66 9 7 6 7Tro Niece CRESSIDA PANDARUS 66 7 9 6 7

Ham Mother QUEEN GERTRUDE HAMLET 64 6 4 11 5Ham Son HAMLET QUEEN GERTRUDE 64 8 10 11 5

LrF Father GLOUCESTER EDGAR 63 6 5 13 6LrF Son EDGAR GLOUCESTER 63 4 5 13 6

Rom Cousin BENVOLIO ROMEO 57 6 5 10 6Rom Cousin ROMEO BENVOLIO 57 6 7 10 6

AYL Cousin CELIA ROSALIND 53 11 18 15 11AYL Cousin ROSALIND CELIA 53 14 7 15 11

Ham Uncle KING CLAUDIUS HAMLET 53 8 9 12 21Ham Nephew HAMLET KING CLAUDIUS 53 11 10 12 21

Shr Wife KATHERINE PETRUCCIO 53 10 5 9 11Shr Husband PETRUCCIO KATHERINE 53 10 15 9 11

Oth Wife EMILIA IAGO 52 11 7 9 10Oth Husband IAGO EMILIA 52 7 11 9 10

Ant Brother-in-law ANTONY CAESAR 51 11 8 9 18Ant Brother-in-law CAESAR ANTONY 51 5 8 9 18

LrF Father GLOUCESTER EDMOND 49 3 4 2 5LrF Illegitimate

sonEDMOND GLOUCESTER 49 5 4 2 5

Partendo dalla struttura della tabella C.6, ho poi ritenuto opportuno indagare,

per tutte le coppie D1_PAIRS e D2_PAIRS (cioè le coppie di battute a distanza maggiore di zero), quali fossero le relazioni familiari diadiche più soggette all’interferenza di uno o più “go-betweens”. Per fare questo, è stato sufficiente calcolare, per ogni relazione familiare diadica, l’incidenza relativa (in percen-tuale) delle coppie di battute a distanza 1 o 2 rispetto a quelle a distanza 0. Il ri-sultato è riportato nella tabella che segue, C.7.

Page 310: Shakespeare e la terapia della famiglia

306

Tabella C.7 - Le tipologie di relazioni famigliari più “mediate”

RELATION N_D0 N_D1 N_D2 N_D1_PERC N_D2_PERCGRANDDAUGHTER 0 1 2 INF INFSTEPMOTHER 3 4 3 133.33 100.00STEPDAUGHTER 3 4 3 133.33 100.00GRANDMOTHER 5 6 5 120.00 100.00STEPFATHER 8 8 3 100.00 37.50STEPSON 8 8 3 100.00 37.50GRANDSON 12 11 8 91.67 66.67GRANDFATHER 7 6 5 85.71 71.43MOTHER-IN-LAW 47 33 18 70.21 38.30DAUGHTER-IN-LAW 52 36 21 69.23 40.38LOVER 132 88 60 66.67 45.45FATHER-IN-LAW 111 41 31 36.94 27.93MOTHER 269 97 64 36.06 23.79SON-IN-LAW 106 38 28 35.85 26.42BROTHER 886 317 231 35.78 26.07BROTHER-IN-LAW 295 100 88 33.90 29.83SISTER-IN-LAW 157 52 42 33.12 26.75SISTER 342 109 57 31.87 16.67NEPHEW 321 102 94 31.78 29.28SON 662 210 168 31.72 25.38UNCLE 442 133 122 30.09 27.60DAUGHTER 407 120 82 29.48 20.15FATHER 859 235 193 27.36 22.47COUSIN 398 108 90 27.14 22.61WIFE 884 238 185 26.92 20.93HUSBAND 884 238 185 26.92 20.93NIECE 121 31 29 25.62 23.97STEPBROTHER 140 26 25 18.57 17.86AUNT-IN-LAW 73 12 9 16.44 12.33NEPHEW-IN-LAW 82 13 8 15.85 9.76UNCLE-IN-LAW 10 1 0 10.00 0.00ILLEGITIMATE_SON 59 2 7 3.39 11.86

Come è facile intuire dai conteggi percentuali, si tratta di una tabella che va

interpretata con estrema cautela (vedi capitolo 2), per esempio avendo l’accortezza di scartare i dati relativi a relazioni diadiche il cui numero di cop-pie D0_PAIRS sia talmente basso da precludere un risultato sensato (è il caso, ovviamente, della relazione “granddaughter”; per sicurezza, però, tenderei a e-scludere anche tutte le relazioni con D0_PAIRS inferiore a 40-50).

Infine, alla luce di questi risultati, avevo pensato che sarebbe stato interes-sante stabilire l’identità (in termini di ruolo familiare) dei “go-betweens”—per esempio: chi interrompe più spesso il botta e risposta fra padri e figlie? Un fra-tello? La madre? Qualcuno completamente estraneo alla famiglia? Purtroppo, come ho spiegato al termine del secondo capitolo, non sono riuscito a ottenere risultati significativi. Questo tentativo segna perciò il limite, ovviamente prov-visorio, del metodo di analisi relazionale numerica adottato in questa tesi.

Page 311: Shakespeare e la terapia della famiglia

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