RootsHighway Mixed Bag #4

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numero 4 • ottobre 2009 RootsHighway Mixed Bag Been a long time Black Crowes: dalle ceneri del Sud

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Trimestrale di approfondimento del sito www.rootshighway.it

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numero 4 • ottobre 2009

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Been a long timeBlack Crowes:

dalle ceneri del Sud

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Sommarionumero 4, ottobre 2009

Editoriale“The last of the rock’n’roll stars” … 3

Speciale Mixed-bag (Articoli)Black Crowes “Before the Frost…Until the Freeze” … 4Jim Dickinson “Man of the South” … 6Jack Kerouac & Fernanda Pivano “The ballad of Jack & Neal” … 9

RootsHighway’s PickI dischi del trimestreIan Hunter; Tom Russell … 11

Monthly Revelationgiugno-settembre 2009Deep Dark Woods; Star Anna; The Weight; John Paul Keith; Levon Helm; Sam Baker … 13

Second HandAvvistati in questi mesiRyan Bingham & The Dead Horses; Elvis Costello; Son Volt; Wilco; Jason Lytle;Austin Lucas; Isaac Hoskins; Angela Easterling; The Builders and The Butchers;Israel Nash Gripka; Leo Rondeau; Scott H Biram; Deer Tick; Michael Ubaldini;Moe Provencher; Chuck Prophet … 17

ClassicHighwayBest of, ristampe e classiciRod Stewart “Atlantic Crossing / A Night on the Town” … 26

Made in ItalyCose di casa nostraCheap Wine “Spirits” … 28

Picture Showsle immagini del rock’n’rollDrive-By Truckers “Live in Austin, Tx.” … 29

BooksHighwayI libri del trimestreDon Winslow; Thomas McGuane … 30

Americana Basic Trackstracce base d’AmericaWilly DeVille “Cabretta/ Return to Magenta” … 31

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L’oscurità, quel luogo “dove gli angelihanno paura di ballare”, non l’avevamai lasciata. Willy DeVille veniva dallastrada, dal Lower East Side, dove èdifficile capire che lingua si parli, quindiancora più complicato sapere chemusica si suona. All’inizio dicevano cheera punk, anche se il suo cuore battevaper Edith Piaf e Billie Holliday, più cheper i Ramones e i Clash. Poi era facilescambiarlo per un fenomeno dabaraccone per i denti d’oro, le rose(rosse) regalate alla platea, la chitarraindossata come Chuck Berry, i completida “bravo ragazzo”, quelli da pirata e,infine, negli ultimi e caotici anni dellasua “sportin’ life”, le trecce e i tatuaggiindiani. Ma l’eleganza di Willy DeVilleera uno stile dettato da spunti interiori,uno charme un po’ vero e inventatoquel tanto che basta. Romantico edisperato, eppure sempre con uncarisma unico e inimitabile sia che sitratti di prendersela con un cameriereperché ha servito il cognac sbagliato, siache si tratti di guardare il cielo e chiedere aun qualche dio di far finire la pioggia. Non cimancheranno i suoi dischi (Cabretta, Return To Magenta, Coup De Grace, Le Chat Bleu,Backstreets Of Desire: bastano i titoli per incantare), ci mancherà il suo “savoir faire”,quello di un’anima vera, raccontata dalle canzoni e suonata da quel ritmo profondo che èil battito del cuore. Ci mancherà perché era “un cavallo di colore diverso” e magari non èstato un grande esempio per i giovani, perlomeno per quelli che sono perennemente incoma, ma lui, la sua anima aggrovigliata di parole, cuori, emozioni e molto altro l’hasempre cantata e non se l’è mai venduta. E i suoi conti, gli eccessi, le bizzarrie, la suastessa eccentricità li ha pagati tutti, fino all’ultimo respiro. Ci voleva un altro miracolo(un Miracle l’aveva già fatto, bellissimo) per riportarlo a galleggiare nella luce, ma negliultimi anni il richiamo della giungla si era fatto irresistibile e Willy DeVille sembravaessere incastrato nell’ombra, un “loup garou”, un vampiro errabondo e tormentato,senza una “good reason” per restare su questa terra. Gli amuleti, le magie, il voodoo, ilrock’n’roll non sono serviti più a niente: Willy DeVille era tornato a New York City comeper ricominciare dall’inizio. Voleva curarsi, scrivere canzoni, incidere ancora e ripartirema una porta nera si è aperta e è andato a riunirsi con tutti i fantasmi di una vita. Sene è andato in una notte d’agosto, nell’afa avvolgente, con l’umidità che sembrava ilrespiro di Baron Samedi, il principe della notte, che al mattino ci ha lasciato soli, con una(vera) rock’n’roll star in meno e tanti blues in più(Stefano Hourria)

Editoriale Editoriale The last of the rockThe last of the rock’’nn’’roll starsroll stars

ottobre 2009ottobre 2009��

Willy DeVille (1950-2009)

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Speciale Mixed BagSpeciale Mixed Bag

Black CrowesBlack CrowesBefore the Frost… Until the FreezeBefore the Frost… Until the Freezea cura di Gianfranco Callieria cura di Gianfranco Callieri

Che nei dischi dei BlackCrowes si fosse tornata arespirare aria da storia del rockera evidente fin dal taglioclassicista e rurale del nonirresistibile Warpaint (2008),album le cui buone intenzioni(purtroppo sovrastate da unaproduzione quantomenoanonima) hanno trovato giustorisarcimento in una fulminanteriscrittura dal vivo – WarpaintLive – uscita giusto pochi mesifa, ma Before The Frost... UntilThe Freeze viaggia a un’altezzache molti, compreso ilsottoscritto, ritenevano per iCorvi ormai inviolabile dai tempi dei primi, indispensabiliquattro album. Dischi che non starò a nemmeno a citare,primo perché li conoscete tutti (altrimenti non sarestequi a leggere), secondo perché è ingiusto (nonché untantino stronzo) inchiodare un gruppo di musicisti ecompositori al ricordo delle loro migliori prove, come sela bellezza di queste non gli permettesse più ilmovimento in altre direzioni o qualche colpo a vuoto, eterzo perché qui ci sono cento e rotti minuti di musicache, pur senza evitare fisiologici cali di tensione ecomprensibili ingenuità, restituiscono l’essenza di unsentire rock dove grinta, chitarre, melodia, mordenteritmico e feeling esecutivo vengono prima di qualsiasialtra considerazione. Essendo Before The Frost... UntilThe Freeze un disco dei Corvi al 100%, e quindi,soprattutto, un lavoro autogestito in ogni minimodettaglio, il controllo dei cursori è di nuovo affidato alvecchio collaboratore Paul Stacey; non esattamente unmostro di personalità, ma questo devono saperlo anche iCrowes, visto che per ovviare all’inevitabile mancanza diimpronta produttiva sulle venti canzoni dell’album sonoandati a registrarsele dal vivo, davanti a una selezionataplatea di appassionati (li sentite approvare conconvinzione tra un brano e l’altro), negli home-studios diLevon Helm. Sarà insomma per il fatto di aver inciso incasa del leggendario batterista, sarà per il fatto di trovarsia un tiro di schioppo dalle spianate erbose di quellaWoodstock dove, tra un’ondata di fango e una

reprimenda di Country JoeMcDonald, si celebrò il sognod’inceppare i cannoni dellaguerra intasandoli di fiori, saràper il fatto di trovarsi informazione (sicuro, ficcante, alservizio delle canzoni comemai prima d’ora) unospettacolare chitarrista d’altritempi quale LutherDickinson, che vomitafucilate di riff conl’aggressività ubriaca d’unKeith Richards e graffia laslide alla maniera vorticosa esensuale di Duane Allman, osarà per quel che volete voi

(del resto questo è un grande disco-happening, doveognuno, passatista o meno, può trovare il suo spazio e leproprie memorie), eppure Before The Frost... Until TheFreeze profuma dalla prima all’ultima nota di quellefragranze rockiste e stracolme di gospel e radici folk chemolti si ostinano a credere perdute nei vecchi album diThe Band, Allman Bros., Van Morrison, Delaney & Bonnie.Nei negozi di dischi, in formato cd, trovate il solo BeforeThe Frost... (11 tracce): nel packaging è incluso untalloncino dov’è riportata la password per scaricarsilegalmente il gemello Until The Freeze (9 tracce). Poteteperò dannarvi l’anima, e vuotare il portafogli, percomprare il quadruplo vinile, che accorpa entrambi ilavori rimescolandone e intersecandone le scalette, eforse sarebbe la scelta migliore, poiché l’album non fadavvero nulla per nascondere il proprio debito neiconfronti di un’epoca in cui alzarsi per girare le facciatedi un 33 giri era prima di tutto un segno di rispetto e diattenzione nei confronti di quanto si stava ascoltando.Presi invece singolarmente, i due dischi riassumono conchiarezza impeccabile le altrettante anime dei Crowes, daun lato quella furibonda e stonesiana di Before TheFrost..., dall’altro quella hippie, crepuscolare efolkeggiante di Until The Freeze. Nessuno dei due titolisoverchia l’altro, semmai si completano, si integrano peroffrire una veduta più esaustiva di uno stesso panoramarock & roots. Certo, Before The Frost stordisce sin dalprimo ascolto, persino nell’elegia struggente e folkie della

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conclusiva The Last Place That Love Lives o nell’ipnosi trafolk drogato e psichedelia d’una What Is Home? che nonsarebbe dispiaciuta a Paul Kantner o ai Led Zeppelin delterzo album. Impossibile non restare a bocca aperta difronte al volume di fuoco sprigionato dagli ottofebbricitanti minuti di una Been A Long Time (Waiting OnLove) dove Faces e Creedence se le danno di santaragione con Skynyrds e James Brown, Rich Robinson faesplodere i riff e Dickinson sanguina su di una slide chepiù bluesy non si può: una dimostrazione travolgente dicosa significhi possedere un’attitudine alla jam senzamasturbarsi sullo strumento, e dire che sulle frasi dipiano di Adam MacDougall le tentazioni onanisticheverrebbero a tutti. Impossibile non emozionarsi sulrock’n’roll incendiario di Good Morning Captain, non farsiprendere alla gola dalle scudisciate di flanging e dallabatteria pestona di una I Ain’t Hiding che, tra percussioniafrocaraibiche e coretti maliziosi, resuscita gli Stonesnegri e cattivi di Tattoo You, impossibile rimanere fermicon l’apoteosi funky-soul di Make Glad ocol boogie darovente bar-band diAnd The Band PlayedOn. Ed è impresa dacolossi, poi,trattenere unalacrima sul country-rock solenne delcapolavoroAppaloosa, uno diquei mid-temposche solo a pensarli,nella loro bellezzanostalgica, piena didolcezza e ricordi,giustificano da séuna vita intera spesaa inseguire l’idea diuna canzone rockcapace di conteneresogni e verità senza rattrappire i primi e senzaedulcorare la seconda. Non fosse altro che perl’interpretazione di Appaloosa, dominata da un sensodella misura che non scolorisce la passione, ChrisRobinson meriterebbe il riconoscimento come cantantepiù versatile ed espressivo della sua generazione; se nonsiete convinti, prestate le orecchie al vibrato di Kept MySoul (in pratica, un corso accelerato sull’impostazione deldiaframma) e poi ditemi. Chiudono il cerchio A Train StillMakes A Lonely Sound, col suo rock sudista da manuale, ela densa malinconia di Houston Don’t Dream About Me,ripresa e sviscerata con maggior asciuttezza strumentalenelle volute ora oniriche ora agresti di Until The Freeze.La pedal-steel del dylaniano (e “levoniano”) LarryCampbell è protagonista assoluta della trascinante RollOld Jeremiah, stupendo tributo all’estasi strumentale deiGrateful Dead e all’energia rockista del country di Buck

Owens, ma la delicatezza pastorale della lunga Greenhorno la folk-ballad urbana Lady Of Avenue A, in apparenzadebitrice della vena più bucolica di un Eliott Murphy (!),starebbero in piedi persino se a suonarle fossimo io e ilpizzaiolo sotto casa. Ammesso infatti che la scrittura deiCorvi sia eccessivamente citazionista e derivativa,converrete che non è da tutti uscirsene nel 2009 colquasi raga mediorientale (di quelli che andavanoquarant’anni fa, magari suonati da Fred Neil) di unaAimless Peacock senza uscirne con le ossa rotte: il pezzo,invece, non solo convince, ma suona tantocontemporaneo quanto il duello tra violino e flatpickingdella deliziosa Garden Gate, la spiritualità cerimoniale diFork In The Road o il country tradizionalista di Shine Along.Merito di chi guarda al passato non per fabbricare unpresente diverso, inevitabilmente modellato sulle cadenzee le forme del tempo che fu, bensì per leggerlo meglio: SoMany Times viene dai Manassas di Stephen Stills, eppure latenerezza countreggiante che la riveste (con tanto di

impeccabili harmonies)è tutta farina delsacco dei Crowes.Un po’ losuggeriscono loro,insistendo su ritrattidi paesaggi rurali eboschivi, portandobarbe lunghe eindossando giubbottida montanari, e unpo’ lo pensa anchechi vi scrive: se c’èun gruppo cui iCrowes si sonoavvicinati, portandoa termine lamontagna di musicache risponde alnome di Before TheFrost... Until The

Freeze, questa èsicuramente The Band (soprattutto in zona Cahoots edintorni). E sebbene certi paragoni improbabili sidebbano per forza di cose lasciar stare, riservando altempo e ai futuri progetti la possibilità di storicizzarequanto realizzato oggi, resta il fatto che, al momento, nonc’è nessun altro gruppo che al pari dei Black Crowessappia percorrere tutte le “curve” del grande fiume dellamusica americana mantenendo intatta una personalitàinconfondibile. In Before The Frost... Until The Freeze cisono le radici di una tradizione impareggiabile, c’è ladeterminazione dei Crowes a non farsi omologare e cisono tutti i dischi che hanno formato il loro gusto(probabilmente anche il nostro). E anche se i colori dellasua copertina sono azzurri e verdi, c’è un “grande rosa”dove perdersi (o una vecchia casa di legno doverifugiarsi) affinché le giornate del nostro inverno alleporte risultino meno grigie del solito.

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Jim DickinsonJim DickinsonMan of the SouthMan of the South

a cura di Fabio Cerbone

La guerra è finita da poco, il piccolo Jim gioca per stradain downtown Memphis, Whiskey Chute la chiamanoquella zona. All’angolo della via un’orchestrina di nerisuona una musica che Jim non ha mai sentito: è eccitante,primitiva, diversa da qualsiasi cosa abbia mai ascoltato allaradio con i suoi genitori. Una coppia di ubriachi balla sullenote blues di quella jug band mentre il signor Dickinsontrascina con forza il figlio verso casa. Niente da fare, ilcortocircuito è già avvenuto, la testa di Jim è entrata inun’altra dimensione. Ci tornerà spesso da quelle parti,anche in West Memphis, dentro un grande magazzinodove un giorno glicapiterà un colpo difortuna incredibile:Howlin’Wolf e la suaband al completo chesuonano per la radioloale. Crescere aMemphis negli anni ’50per un ragazzino delsud – Jim era nato inArkansas come JohnnyCash, ma ben presto siera lasciato la campagnaalle spalle – voleva diretrovarsi esattamente alcentro della rivoluzione:Sun records, Elvis, ibianchi checominciavano a rubarequalche segreto ai nerie una nuova epoca chesi apriva all’orizzonte,l’avrebbero chiamatarock’n’roll.Jim Dickison non èmai uscito daquell’orizzonte, anche se ha cercato volutamente glianfratti più nascosti, le estremità più buie, come un eroeminore che ha costruito la grande casa con i mattonidelle sue radici popolari. L’idea che aveva di quella musicaè sempre stata molto chiara: caos, disordine, libertà efollia, guidato dall’istinto e dalla consapevolezza che ilrock’n’roll per essere vero non doveva seguire schemiprefissati. La carriera di musicista e soprattutto diproduttore di Jim Dickison ha seguito queste semplicinon-regole, adeguandosi alla naturale repulsione perqualsiasi cosa rappresentasse un freno alla fantasia: “undisco è un totem, un’icona che cattura e contiene uno spirito”.

Insomma con la faccia girata dall’altra parte del musicbusiness, un autentico outsiders che ha lavorato peraltrettanti outsiders, creando un percorso assolutamenteoriginale nella sua apparente sconclusionata traiettoria.Jim Dickison era tornato a Memphis, dopo qualche annodi studio in Texas, verso l’alba degli anni ’60: il Re eraormai in una fase discendente, il rock’n’roll aspettavanuovi messia, lui nel frattempo aveva messo in piedi unaband. Il primo contratto lo firmò con Bill Justis, finendoproprio alla Sun: anche se la stagione del mito era passatada un pezzo, quelle mura parlavano da sole. Era iniziata

così la sua lungaavventura, dalla portadi servizio, e sarebbeandata avanti permolto tempocostruendosi la famadi un giovialebanchettatore. Avetebisogno di qualcosa divero? Chiamate Jim ei suoi ragazzi e fatesaltare il banco. E ildecennio sarebbe cosìpassato dentro glistudi: da quelli diChips Moman agliArdent di John Fryfino al Sound ofMemphis Studio, doveconobbe le sue animegemelle – CharleyFreeman, TommyMcClure e SammyCreason – ovvero siai Dixie Flyers. Eranouna specie di

reincarnazione degli Mg’s di Booker T, giusto per renderel’idea di una house band che qualsiasi produttore avrebbevoluto al suo fianco. Nel 1969 entrarono a Muscle Shoals,Alabama per collaborare alla stesura di Wild Horses deiRolling Stones. Jim finì per suonarci il piano in quellacanzone, così come con i cugini più sfortunati, i FlamingGroovies di Teenage Head. Un anno dopo i Dixie Flyerserano già volati a Miami, Florida per firmare un contrattocon la Atlantic: certo, la golden age del rhythm’n’blues erafinita da un pezzo, la Motown cominciava a rubare tutta lascena, ma Aretha Franklin, Sam & Dave, Carmen McCraee ancora Dion, Ronnie Hawkins, Delaney and Bonnie

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I have gladly given my life to Memphis musicand it has given me back a hundredfold

(Jim Dickinson, 2009)

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erano un bel curriculumda sbattere in faccia.Furono propriol’evoluzione dei DixieFlyers e la possibilità disoddisfare un sognopersonale cheportarono all’incisionedi Dixie Fried, uno deglioggetti più misteriosidella musica sudista diquegli anni. L’esordiosolista di Jim Dickisonpassò inosservato, erauna pietra grezza, unacorsa a rotta di colloorganizzata alla bene emeglio con JerryWexler e Tom Dowd(con quell’altro“invasato” sacerdotevoodoo di Dr. John a fareda supervisore) che non poteva che essere destinataall’oscurità. La parola giusta: Jim Dickinson si stavainfilando dritto negli anni ’70 con l’inconsapevoleobiettivo di scrivere una storia alternativa del rock’n’roll,magari rinunciando al sogno solista, ma reinventandosistregone e alchimista, regista occulto che avrebbe segnatoun cammino controcorrente. Là dove ci si perdeva aimargini, là dove il rock’n’roll cominciava a farsi irrequieto

o a riflettere sulle sueradici, Dickisonapponeva la sua firma.D’altronde i segreti e itrucchi del mestiere liaveva imparati tutti: lasua idea di produttoreabitava un mondo aparte in cui potevanoconvivere tanto RyCooder (Into the PurpleValley e Boomers’ Storyinnanzi tutto, e poi lecollaborazioni allecolonne sonore insiemeai Mudboy and theNeutrons, la sua nuovabanda) quanto i Big Star(il leggendarioThird/Sister Lovers) e illoro leader Alex Chilton(il disastroso Like Flies on

Sherbert), finendo dritto negli anni ’80 con un’immagineinequivocabile di rinnegato e rimestatore dei bassifondi.Sarebbero arrivati così Replacements, Green on Red, TrueBelievers e Jason and the Scorchers, come dire ifuorilegge dell’underground americano di quella stagione,il giovane rock americano dalla pelle vecchia e dura cherivoltava il country e le radici con un piglio da irriverentiteppisti. Poi dritto nei ’90 con Primal Scream, Spin

JIM DICKINSON“IL MUSICISTA”

Dixie Fried (Sepia Tone/ Atlantic, 1972)L’esordio solista di Jim Dickinson è anche il suo più grande traguardo come musicista: sembra capitalizzare tutti gli anni dioscuro lavoro nei bassifondi del rock made in Memphis, approntando un cult record dove il sentimento sudista e la tradizionevengono fatte a pezzi da una proverbiale follia collettiva. In gran parte disseminato di cover, Dixie Fried è tuttavia uncaleidoscopio di umori southern e sarabande ritmiche in cui ogni brano è piegato alla sensibilità grezza di Dickison e dellacompagnia chiamata a sostenerlo (tra gli altri Dr. John). Allora non ha più senso chideresi se John Brown sia di Bob Dylan,lungo sei interminabili minuti di deliri jazz & soul, o ancora se il traditional Casey Jones abbia un senso in questa versione datalkin’ bizzarro. Nel mezzo un marasma informe di rock’n’roll, country bislacco (la ripresa della bellissima balld Louise a firmaPaul Siebel), veementi sferzate che omaggiano Chuck Berry (Wine), ma soprattutto Carl Perkins (Dixie Fried porta la suafirma) Dickinson canta stralunato, sopra le righe, la band si perde felicemente nell’inseguire la sua pazzia. Un classico minore.

Free Beer Tomorrow (Artemis, 2002)Il comeback artistico di Jim Dickinson è un affare di famiglia: imbarcarti i figli Cody e Luther nel progetto, Free BeerTomorrow è un ritorno sulle scene che ha il sapore di una festa, divertente e divertita, senza pretendere di cambiare il corsodi una storia già scritta. Il solito intruglio di boogie, southern rock e pianismo memphisiano che sguscia fra momenti dinonsense e provocazione (Asshole, Well of Love) e momenti di inaspettato romanticismo (la If I Could Only Fly che fu di MerleHaggard). Sei anni di lavorazione e ripensamenti in completa libertà forniscono al disco un suono più “professionale” delprevisto per gli standard di Dickinson (Bound to Lose e Hungry Town sono piccoli gioielli), ma nell’insieme mantiene lepromesse di un musicista fuori dagli schemi.

Il resto della discografia:A Thousand Footprints in the Sand (Last Call, 1997)Jungle Jim and the Voodoo Tiger (Memphis International, 2006)Killers from Space (Memphis International, 2007)Dinosaurs Run in Circle (Memphis International, 2009)

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Doctors, persino i Mudhoney, qualche jam band sparsa eun branco di reietti dell’alternative country (Slobberbone,Lucero e Tarbox Ramblers), un grammy insieme a BobDylan in Time out of Mind e più di tutto la voglia diriprendersi un pezzo dalla sua carriera. A Coldwater,Mississippi, dentro un vecchio granaio ribatezzato ZebraRanch, producendosi la sua musica e quella dei figli Codye Luther, che nel frattempo gli avevano regalato l’orgogliodi padre grazie ai North Mississippi All Stars, una dellepiù eccitanti novità del rock sudista da molti anni a questaparte. Era tornato finalmente a casa Jim Dickison, in unviaggio di andata e ritorno fra tradizione e modernità, unpercorso non lineare come suo solito e che nelledivertenti sortite in proprio dell’ultimo periodo (un disco

nel 1971 prima di tornare con quattro lavori di fila apartire da Free Beer Tomorrow nel 2002, quasi a bruciarele tappe prima della sua scomparsa) aveva rimesso incircolo la figura del pianista e del giocoliere del sud, il suoamore per il boogie e il country più bislacco, per melodiesghembe che quella voce imprecisa e goffa mettevaletteralmente a soqquadro. È stato probabilmente ilmodo migliore per andarsene senza il minimo disturbo: lascia l’aveva già lasciata dietro di sé in quarant’anni dicomparse, registrazioni, semplici scherzi, quarant’anni dirock made in Memphis scombinato, insolente e rozzo.Ora restavano la famiglia, i figli, i boschi del Mississippi,quel senso palpabile di comunità che aveva contribuito acreare fin dai primi, lontani giorni a downtown Memphis.

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JIM DICKINSON“IL PRODUTTORE”

Ry Cooder – Into The Purple Valley (1971)Ry Cooder – Boomer’s Story (1972)La produzione è condivisa con Larry Waronker (lo sarà anche nel successivo Boomer’s Story), ma il gusto di Dickison sisente eccome lungo tutte queste session. Ry Cooder sguazza nella tradizione e rispolvera strumenti e canti di un’epocaremota: folk, blues, soul, vecchi crocicchi e primordi dell’american music. Siamo fra le mura di una casa familiare.

Big Star – Third/Sister Lovers (1975)Discesa negli inferi della depressione di Alex Chilton: i Big Star non esistono più, sono più un concetto che una band, ma ilterzo disco è un culto dove la malinconia e la follia dell’animo di Chilton sono assecondate da suoni e visioni avvolte in popstralunato.

True Believers – True Believers (1986)Una rock’n’roll band evanescente, una delle promesse non mantenute del rinascimento roots degli anni ’80, I True Believersdi Alejandro Escovedo e Jon Dee Graham sono una meteora fulgente che Dickinson asseconda grazie ad una intesaimmediata: punk e radici, non poteva chidere di meglio

Green On Red – The Killer Inside Me (1987)Green On Red – Here Come The Snakes (1989)Brutti e pericolosi, i Green on Red dell’era Dickinson sono i meno capiti e apprezzati dopo l’epoca leggendaria del PaisleyUndergournd: The Killer Inside Me è livido e gronda una fiera malinconia da Memphis al crepuscolo; Here Come the Snakesmacina rock stonesiano e uan sequenza di riff killer e ballate ubriache.

The Replacements – Pleased To Meet Me (1987)Il momento in cui i Replacements sono stati più vicini ai loro mentori Rolling Stones, ovviamente con il loro sguardo punk equella “sciatteria” da irriducibili perdenti che li ha resi unici nel panorama alternative rock degli anni ’80. Dickinson troval’intesa giusta in mezzo al delirio collettivo. L’omaggio nel brano Alex Chilton è un trait d’union impagabile.

Mudhoney – Tomorrow Hit Today (1998)I padri putativi del grunge non potevano trovare una spalla migliore per dare sfogo alla loro neanche tanto nascosta anima“tradizionalista”. Un disco che scardina blues e country con tonnellate di irriverenza garage rock, legando i Mudhoney aduna storia comune, quella di Memphis: da qui arriveranno poi i fiati e il r&b selvaggio dei dischi successivi.

Alvin Youngblood Hurt – Start With The Soul (2000)Un funambolo della moderna scena blues, che confonde le acque e mette insieme Hendrix, Mississippi Fred McDowell e OtisRedding a seconda dei suoi umori un po’ scontrosi. È un talento, non c’è dubbio, così Dickinson gli produce il suo disco piùscombinato, saltando fra i generi della black music di matrice sudista.

Tarbox Ramblers – A Fix Back East (2004)Una delle più interessanti rivisitazioni bianche del delta blues di questi anni arriva da Boston: i Tarbox Ramblers suonanoossessivi, torbidi e Jim Dickinson trova pane per i suoi denti. Una strada comune ai figli Luther e Cody, ma con una dose dimistero e magie voodoo più accentuata.

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The Ballad of Jack & NealJack Kerouac, On the Road e un ricordodi Fernanda Pivano

a cura di Matteo Fratti

Ci volevano un secolo di blues, cinquant’anni dirock’n’roll, perché anche Sulla Strada potesseconvolare a nozze d’oro con le musiche dei suoi giorni.Ma a più mezzo secolo dalla pubblicazione ufficiale deltesto, del settembre 1957, il leggendario dattiloscrittosu cui Kerouac scrisse in quindici giorni filati il ritrattodella sua generazione perduta ha compiutocinquant’anni in ritardo. Perché la ballata di Jack e Nealin giro per gli States alla fine degli anni quaranta, sutrentacinque metri del miticorotolo di carta da telescrivente(lo “scroll”), senza neppurestaccare un foglio, c’era finitaintorno al 1951. Ma il librooriginale, così come Jack loavrebbe voluto prima che levicissitudini editoriali glielofacessero riscrivere, è statopubblicato senza censure solodue anni fa, in America. “ScrissiSulla Strada in tre settimanedurante il bellissimo mese diaprile del ’51, quando vivevo nelquartiere di Chelsea, nel LowerWest Side di Manhattan, lo scrissisu un rotolo di carta lungo centopiedi e ci misi dentro la Beat-Generation a parole” (JackKerouac, Scrivere Bop,Mondadori, Milano 1996). Comesi sa, il manoscritto era stato respinto da più editori elui, a fare i lavori più disparati, quand’anche glielopubblicarono con le dovute revisioni. “Mi pare che nonme ne importi niente” – sembra che avesse dichiaratoquando ormai era troppo logoro per gli anni adaspettare l’edizione di quel resoconto rivoluzionario deisuoi anni giovanili. E ai primi appunti del suorocambolesco peregrinare tra l’Est e l’Ovest degli Statesdel ’48, aveva aggiunto la stesura di quel rotolo,nettamente rifiutato, fino a quando uscì rimaneggiatocon la Viking Press di Malcolm Cowley. Da allora, nellesue mille e innumerevoli edizioni, è stato amato estrumentalizzato a tal punto da farne un classico anchein Italia, grazie al contributo avanguardista di FernandaPivano. A cinquant’anni da quell’estate, la Viking Penguinlo ha ripubblicato senza pudori, The Original Scroll, contutta la génia di sbandati e intellettuali che ne furono

veramente i protagonisti, smascherati degli pseudonimio che neppure vi comparvero, per evitar le accuse dellacensura maccartista. Gli scritti, meticolosamenteraccolti alla morte di Kerouac, sarebbero stati ereditatipoi dal cognato alla scomparsa della terza moglie epresto ceduti alla Berg Collection della New York PublicLibrary, il 21 agosto del 2001. Ma il cartiglio di SullaStrada era un’eredità troppo scomoda e venneprontamente messo all’asta per tre milioni di dollari. Jim

Irsay, proprietario degliIndianapolis Colts, lo haacquistato nella primavera del2001, iniziandone l’esposizioneitinerante, anche al Palazzodelle Esposizioni di Roma afine 2004. E il romanzo,integralmente ripubblicatonelle sue 408 pagine, è quasiun altro libro, già Ginsbergsottolineandone a tempodebito “la tristezza che questonon sia mai stato pubblicatonella sua forma più interessante– la sua scoperta originale – iritmi e l’andatura spezzata – dacritici letterari presuntuosi dellecase editrici” (EmanueleBevilacqua, Beat & Be Bop,Einaudi Stile Libero, Torino

1999). Quello che si scopre(invero in un’operazione un po’ ambigua a quasisessant’anni da quando Kerouac lo scrisseeffettivamente) sono le pagine che mai videro la luce,delle quali nemmeno se ne coglie il senso di leggerleora. Quel che una commissione letteraria guidata dalprofessor Joshua Kupetz dell’Università del Colorado èriuscito a far pubblicare, dopo anni, non sono che lerivelazioni già note a parole, di un esistenzialismoamericano vissuto nell’intuizione della precarietà,all’avvento della società di massa, nei romanzi comenelle poesie, alla ricerca di una via d’uscita, talora senzaritorno, per gli stessi eroi e compari di quella che fu la“Generazione Battuta” alla ricerca di un posto che nonc’è. Una rilettura inedita della realtà vissuta da Kerouacsecondo una precisa decodifica passionale, in unpercorso allora inenarrabile, se non solo parzialmente,delle relazioni concrete operate dalla corrente

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letteraria all’origine delsentimento libertario dopo itotalitarismi europei. L’obiettivodi Kerouac su quell’attimo direaltà trasformato in arte ècome lo scatto di una fotografiasenza mediazioni letterarie deiromanzi più famosi, Sulla Stradain primis. Sketching improvvisi,legati alle modalità espressivedel be–bop, come alle astrazionipittoriche di Jackson Pollock.Lunghe confessioniautobiografiche di parole atempo (e il beat non era poi ilritmo jazzato?) come unremoto slang afroamericano deipropri idoli del jazz, LesterYoung o Charlie Parker, o gliastrattisti dell’action painting.Una storia che aveva a che farecon una lettera affidata daGinsberg ad un certo Gerd Stern, che abitava in unacasa galleggiante nel porto di Sausalito, e un documentocurioso e spettacolare al tempo stesso che Kerouacaveva mostrato all’amico, migliaia di parole scritte daNeal Cassady in un’incredibile enfasi comunicativa, il piùmoderno spunto per una sperimentazione letteraria.“Tutto su un fine settimana natalizio nelle sale da biliardo,stanze d’albergo e prigioni di Denver, inframmezzata daavvenimenti ridicoli e anche tragici “ – racconterà luistesso a Ted Berrigan nel 1967 (Ted Berrigan, “Intervistacon Jack Kerouac”, Minimum Fax, Roma 1998).Qualcosa che tutti lessero divertiti, ma a cui Cassadynon aveva dato alcuna importanza, se non per ciò di cui

voleva dire coi suoi pensierisulla pagina, senza nemmeno lapunteggiatura. “Neal e io lachiamammo la lettera di JoanAnderson” – spiegò Jack, ederano quasi quarantamila parolefiume che aveva conservato,neanche fosse la prima volta cheNeal gliele spediva, rendendoglila miglior prova di scrittura maivista. La storia di Joan, che loamava e aveva minacciato disuicidarsi, divenne un’epistolaleggendaria. Gerd Stern non sene curò, e il pezzo si perse amollo nella baia di Frisco nel1955. Jack in realtà, di quellacome di altri scritti, ne avevaassimilato lo stile, il guizzo diuna prosa spontanea insiemealla musica che amava. E comeebbe a dire proprio Charlie

Parker riguardo alla musica: “nasce dalla propriaesperienza, dai propri pensieri, dalla propria saggezza. Senon la vivi, non uscirà dal tuo strumento”. Cosìl’abbattimento fisico e psicologico del vivere la vita finoa consumarsi, il toccare il fondo, avrebbe forseconsentito di innalzarsi beati. O forse di non esserecapiti, come il primitivismo musicale dei boppers oltre laforma-spartito, ai più incomprensibile nelle disarmoniedi fiati e percussioni: la stessa poetica dei beat, nellacomunanza della perdita dell’innocenza. Ma mentre SullaStrada è uscito dopo tanto tempo nella sua versioneintegrale, l’attuale società l’innocenza adesso, sembraaverla persa davvero.

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FERNANDA PIVANO (1917-2009)Una donna coraggiosa, volitiva, appassionata. Una scrittrice che ha semprescritto dei libri degli altri, anche quando gli amici della Beat Generation ledicevano di scrivere i suoi, di libri. Ma Fernanda Pivano, un’educazioneborghese, antifascista, con Cesare Pavese e l’Antologia di Spoon River, eradivorata dall’amore, perché di questo si tratta, per la letteratura americana. Lesue traduzioni, ma forse ancora di più le sue introduzioni, erano il frutto diassidue frequentazioni con gli autori, che si chiamassero Ernest Hemingway oJack Kerouac, e rivelavano un approccio informale, libero, spesso colorito danote di carattere personale, di suggestioni, di colore. Anche per questo la suecoraggiose battaglie per far passare agli “amici scrittori” le forche caudinedell’indifferenza e delle censure, più o meno esplicite, avevano dell’epico.Memorabili gli scontri con i cortesi redattori della Mondadori e i solertifunzionari della televisione pubblica (già negli anni Sessanta) per spiegare cosavolesse dire e come andava tradotto “fuck”. Trovato in una poesia di GregoryCorso, o in un reading di Allen Ginsberg o in qualche frase di Jack Kerouac: lecompagnie che frequentava Fernanda Pivano non erano proprio adatte allamaggioranza silenziosa & benpensante, ma lei a testa alta li ha promossi, difesie amati fino alla fine. Adesso, nell’eternità dorata, non manca più nessuno. Anoi, mentre la Nanda se ne andava in una notte di stelle cadenti, resta un sensoinfinito di gratitudine per averci portato nell’altra America.(Stefano Hourria)

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Pur augurando a questo baldo settantenne altri trent’anni di salute e dischi di tal fatta, ci azzardiamo a dire cheMan Overboard potrebbe anche chiudere (con il botto…) il ciclo artistico di Ian Hunter. Dopo i fasti deiMott The Hoople, ingiustamente noti ai più solo grazie ad uno scarto di magazzino del Duca Bianco Bowie,l’ispirazione di Hunter era sempre rimasta in bilico tra la madrepatria britannica e una terra americana che loattraeva, ma che lo ha sempre ignorato e ritenuto un “alieno”. L’album All-American Alien Boy nel 1976arrivava a questa conclusione partendo proprio da un’accorata lettera alla propria terra d’origine ridotta inmacerie (Letter To Britannia From The Union Jack era il triste brano che apriva il disco). Poi sono arrivati il“disco americano” (You’re Never Alone With a Schizophrenic, con mezza E-Street Band al seguito), il tuffonella new wave di casa (Short Back ‘n’ Sides) e di nuovo oltreoceano per la deriva nell’FM statunitense di YuiOrta, salvo poi varcare ancora La Manica per il folle progetto di Dirty Laundry, album concepito casualmentecon alcuni rimasugli del punk inglese. Ora l’alternanza sembra essersi interrotta, perché dopo gli atti di rabbiae definitivo rifiuto per il decadente Regno Unito post-tatcheriano (Rant del 2001) e per l’America di Bush Jr.(Shrunken Heads del 2007), ben rappresentati dai due testi più disgustati della sua carriera (in Ripoffl’Inghilterra era vista come un lusso che nessuno può più permettersi, Soul Of America negava addiritturaun’anima alla nazione americana), stavolta la palla sarebbe dovuta ripassare alla sfera britannica.Invece Man Overboard non solo resta in America, ma si accasa stabilmente, trova alla sua musica unadimensione definitiva. Il Dylan in lui ha vinto sui Kinks che gli rullano da sempre nel cuore si potrebbe dire, osemplicemente per la prima volta nella sua carriera, a parte il duraturo matrimonio artistico con il chitarristaMick Ronson, Hunter sembra aver trovato un gruppo di musicisti con cui collaborare stabilmente econdividere non solo un paio di fugaci sessions. Il sodalizio produttivo con Andy York (chitarrista spesso alservizio di Willie Nile e John Mellencamp) iniziato con il disco precedente pare ormai qualcosa di più di unsemplice vezzo di sfruttarne le esperienze a 360 gradi in termini di rock americano, quanto una pienaunitarietà di intenti che qui arriva a sfornare alcune delle sue migliori ballate come la title-track tirata a folk ola finale River Of Tears, che sfoggia un baldanzoso piano alla Bruce Hornsby. L’addio al suo adorabile rock androll esagerato, cafone e pomposamente glam-rock sembra dunque irreversibile, e se Shrunken Heads sembravaun tipico disco di Ian Hunter bagnato nelle acque del Mississippi, Man Overboard è un tipico disco diriflessivo e intimista heartland-rock realizzato da Ian Hunter, e la differenza davvero non è irrilevante.È importante notare anche che ben tre brani (Man Overboard, l’intensa The Great Escape che apre nel miglioredei modi le danze e Babylon Blues) provengono dalle sessions del disco precedente, ma vennero escluse per illoro tono troppo personale. Hunter stesso spiega che l’avvento di Barack Obama ha fatto venire meno lavoglia di combattere perché, almeno nelle premesse, “sembra un ragazzo a posto”, ma non è venuta certomeno la voglia di raccontare se stesso (These Feelings e Win It All), magari anche attraverso romanze popolariche non gli sentivamo raccontare da tempo (Girl From the Office). Il ritmo dell’album è volutamente lento, e imomenti di divertimento come Up And Running o la melodica Arms And Legs badano più ai suoni che all’energia.“Nuovo Hunter”, “Hunter-Roots” o “Ultimo Hunter” che sia, Man Overboard è un bellissimo disco di unuomo che sembra essere finalmente approdato nella sua “Isola Che Non C’è” dopo anni di viaggi e battaglie.

RootsHighway’s PickRootsHighway’s Pickiiii ddddiiiisssscccchhhhiiii ddddeeeellll ttttrrrr iiiimmmmeeeessssttttrrrreeee

Ian Hunter

Man Overboard

di Nicola Gervasini

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Definiti dallo stesso Tom Russell quali “series of dreams”, i dodici episodi del nuovo Blood and CandleSmoke si sviluppano come altrettante “visioni americane”, portando al vertice la poetica di un songwriter dasempre amato per la sua ricca cifra letteraria, la curiosità e la ricerca applicata all’enorme patrimonio di culturee tradizioni degli States e non solo. In tal senso l’esordio in casa Shout! Factory – dopo avere concluso unpercorso discografico più che decennale con l’estinta Hightone – appare davvero una rinascita attesa troppo alungo, l’istantanea di un artista per nulla sazio delle proprie conquiste, ancora desideroso di mettersi in giococon nuovi musicisti, in fondo affini al suo universo. Così è nata infatti la fertile collaborazione in quel di Tucsoncon Joey Burns e John Convertino dei Calexico, i quali insieme al produttore Craig Schumacher hanno forgiatoil suono più naturale possibile per queste ballate, senza alterare minimamente la voce del protagonista.A vincere è dunque Tom Russell, sono le sue storie e quel folk rock epico, intriso di sapori country&westerned echi tex-mex, che da diverse stagioni ormai segna il suo personale cammino musicale. Qui però sonoabbandonate le pretese troppo altezzose di Hotwalker, la confusione e il ripetersi stanco che affiorava nelleopere più recenti, fino al progetto un po’ futile e auto-celebrativo di Wounded Heart of America. Blood andCandle Smoke fa ritorno alla terra, ai personaggi, ad una sequenza per l’appunto di sogni che Russell hadispiegato con maestria, trovando un suono denso e spirituale, in grado di esaltare la vocalità profonda,declamatoria di uno storyteller troppo spesso relegato al ruolo di artista per artisti. Oggi più che mai il flirtartistico con i Calexico potrà forse servirgli come testa di ponte per snidare un pubblico all’oscuro del suotalento. C’è da augurarselo alla luce di abbaglianti sventagliate lungo il border che portano il nome di East ofWoodstock, West of Vietnam – ricordo di un lontano 1969 in cui Tom, giovane studente di criminologia, girava ilcontinente africano lontano dagli incubi della sua madre patria – Santa Ana Wind e Crosses of San Carlos, canzoniche si muovono fra ombre personali (cenni autobiografici che ritornano ad esempio in Criminology), appunti diviaggio e citazioni storiche di grande efficacia descrittiva.La tromba di Jacob Valenzuela, altro uomo dei Calexico, è un elemento chiave tanto quanto la seconda vocedi Gretchen Peters, titolare di un recente album acustico con lo stesso Tom Russell. Creano le sfumatureindispensabili dentro cui Blood and Candle Smoke può svelare i suoi capitoli, in apparenza disparati, sconnessiproprio come dovrebbe essere un sogno, lasciati fluire seguendo una corrente inarrestabile di emozioni: eccodunque una accorata dedica a Nina Simone, ballata languida e dolcissima, quindi una sconclusionataricostruzione storica in Mississippi River Runnin’ Backwards, altro lucente walzer condotto per manodall’intonazione della tromba, e ancora una The Most Dangerous Woman in America che tocca il sangue dellagente e le lotte sindacali dei minatori attraverso gli occhi di una donna fiera e battagliera, per approdare infineal rintocco solenne di Don’t Look Down e alla grazia religiosa di Guadalupe, estensioni di un amore da sempredichiarato per il Messico, la sua gente e il suo folklore. C’è tuttavia un angolo di America che spegne le luci suquesto ciclo di canzoni, e mai definizione fu più appropriata: American Rivers è per tutti i fiumi che scorrono elambiscono le città americane, per le radici e le culture che si incrociano lungo quelle sponde, in attesa che ilviaggio arrivi al termine in Darkness Visible, un circo che chiude, un amore romantico e impossibile, un uomoche fa ritorno a casa dopo avere visto e conosciuto molto, come Tom Russell.

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Tom Russell

Blood and Candle Smoke

di Fabio Cerbone

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Deep Dark WoodsWinter Hours

Suoni, suggestioni, sensibilità musicaleruotano attorno a quelle poche mainequivocabili intuizioni che ci hannofatto innamorare di uno stile, di quellascuola di rinnovamento del countryrock e della canzone folk d’autore cheha saputo ridare sentimento al lungocammino compiuto dalla tradizione. Icanadesi Deep Dark Woodsaggiungono di tasca propria accentimalinconici, invernali e nevosi come ilclima generalmente associato ai loroluoghi di provenienza, quella Saskatoonsospesa fra ponti e acque ghiacciatesulle quali le ballate della bandsembrano sposarsi in un’unica visione.Non rappresentano alcuna nuovafrontiera dell’alternative country iDeep Dark Woods, semplicementetracciano canzoni di un’eleganza ecalore tali che ti accolgono con unamiriade di carezze fra steel e violini,imbastendo walzer d’altri tempi, coloritenui tali e quali alla copertina del loroWinter Hours, secondo lavoro per laBlack Hen che non poteva davveroscovare titolo migliore.Abitano infatti le ore più elegiache eassopite del freddo dicembrino questecomposizioni, avviluppate in lirichesemplici, a volte tentate da un’animascura e ricca di angoscia, altre invecepropense alla leggerezza, in ogni casoattraversate costantemente dal canto alvelluto di Ryan Boldt, autore e attoreprincipale dei Deep Dark Woods. Conlui Chris Mason al basso, Lucas Goetzalla batteria e Burke Barlow alle chitarre,quartetto di base che richiama gli spazi

d’ombra del country rockcontemporaneo, dall’umore uggioso deiWillard Grant Conspiracy evocatonell’iniziale Farewell alla sontuosità dicerti Walkabouts invaghiti della southernmusic (Now I Can Try, As I Roved Out, TheGallows, tutte imperniate su tonalitàraccolte e pastose), per ripiegare spessosugli accenti rurali che furonocaratteristica degli albori del genere (neiricami hillbilly del fiddle di Nancyricordano i misconosciuti Wagon).Winter Hours, prodotto da SteveDawson (cesellatore di suoni estrumentista aggiunto con banjo, ukulele,mellotron e chitarre) negli studi diVancouver, potrebbe seriamenterappresentare il disco che aprirà le portedegli estimatori, noi per primi, di unlinguaggio che meno si complica e più siavvicina al cuore stesso della sua essenza:se il precedente Hang Me, Oh Hang Meli aveva rivelati al pubblico di casa, conuna nomination ai locali WesternCanadian Music Awards, il nuovoepisodio desterà le passioni sopite di chicerca un luogo intimo e fuori del tempo,dove farsi prendere per mano da unamelodia dolcissima (accade nella titletrack, walzer corale e sussurrato), da undimenticato traditional del folk inglese(When First into This Country), da qualchescherzoso gioco di specchi con i luoghipiù comuni del genere (Polly).Alla fine però sui Deep Dark Woodsnon è il caso di passare un colpo dispugna, magari distratto e assente:Winter Hours possiede una graziad’esecuzione che ha qualcosa in più daoffrire rispetto alla media di chi affollaquesti paesaggi musicali. Nello specificosi chiamano All the Money I Had Is Gone,quintessenza del suono alt-country fraechi e incanti di acustiche e steel guitar,The Birds on the Bridge, sognante ballataformata dal bassista Chris Mason checulla per sei lunghi minuti, The SunNever Shines, organo che avvolge in unacoperta soul ed epica inquietudinerock che monta fino a invocare lospirito del più illustre conterraneo NeilYoung. Da sole bastano a rendereWinter Hours il disco da mettere nelvostro personale granaio, in attesa delprossimo autunno musicale.(Fabio Cerbone)

Star Anna & TheLaughing DogsThe Only Thing that Matters

Il particolare nome di questa ragazzaera circolato già lo scorso anno inoccasione dell’esordio, Crooked Path,un disco che ci era sfuggito di un soffioe sul quale in qualche modo facciamoun po’ di giustizia oggi, promuovendo ilseguito, The Only Thing thatMatters, alla prestigiosa carica di discodel mese. La compensazione però nonè il motivo principale della presenza diStar Anna in questa rubrica, perché,lo dico subito, il suo nuovo lavoroinsieme ai The Laughing Dogs si rivelauna delle migliori sortite rock alfemminile ascoltate negli ultimi dodicimesi. Una voce piena di passionecountry soul, ballate elettriche semplicie accattivanti, una scintilla di Americanasound che viene travolta da una decisacarica elettrica: questa la formula,nemmeno tanto segreta, di un albumche mi ha convinto proprio per il suoattaccamento ad alcune regole di base.Le quali sono poi quelle cha abbiamosempre dimostrato di apprezzare nelsongwriting di qualità: più cuore chetesta, molta generosità, chitarre inprima vista e qualche storia personaleda raccontare con quel misto disincerità e saggezza che non tiaspetteresti da una ragazza diventiquattro anni.L’immagine di Star Anna è apparsapoco tempo fa su alcune rivistespecializzate: il locale Sound Magazinela proponeva fra le future “next bigthing” insieme alle colleghe SeraCahoone e Brandi Carlile, e se

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Monthly RevelationsMonthly Revelationsggggiiiiuuuuggggnnnnoooo---- sssseeeetttt tttteeeemmmmbbbbrrrreeee 2222000000009999

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proprio dobbiamo scomodare unraffronto, alla seconda potremmoaccostare lo stile interpretativo diStar Anna. Purtroppo non c’è ancoradi mezzo una grande etichetta eneppure un celebre produttore comeT-Bone Burnett, ma il sentimento cheviene infuso dalla ragazza in HawksOn a Pole, la trascinante elettricitàche ci offre la band in Spinning MyWheels e Running Man, con finali chemontano fino allo spasmo e chedanno l’esatta dimensione rock diquesto disco, possono facilmenterichiamare lo stile della Carlile e ditutte quelle giovani promesse chehanno portato una ventata di ariafresca nel mondo della tradizioneanti-Nashville. In effetti Star Anna,giovanissima promessa della scena diSeattle e dintorni (lei arriva daEllensburg, un posto che non sentivonominare dai tempi degli ScreamingTrees di Mark Lanegan) era partitacon un atteggiamento e un timbroche l’avvicinavano maggiormente allatradizione country, ma in The OnlyThing that Matters le chitarre diJustin Davis (bravo e misurato,ruvido al punto giusto) e la sezioneritmica formata da Frank Johnson e

Travis Yost hanno preso una piegachiaramente rock.Niente steel e violini dunque, poca ariadi campagna, se ci siamo capiti, inveceun gran numero di ballate che anchenei momenti più intimi adottano unsuono denso, chitarristico: Sleep MyDarling e Restless Water sono unmanifesto in tal senso, mentre ThroughThe Winter rispolvera un vibrato sullasei corde che ha un leggero saporesixties, una suggestione che ritroviamofra le righe anche in Burn e All HerGhosts. Il modo di porgersi della bandin Where I Come From e Lonely RideHome, di avvolgere la voce dellaprotagonista senza mai uscire dallerighe, mi ha ricordato non poco ladesaparecida Shannon McNally, altronome che potremmo scomodarefacilmente, senza sminuire affatto ilvalore e le qualità di Star Anna, prontaal grande salto assai più di altreblasonate colleghe. The Only Thingthat Matters infatti è il disco che ladeludente Sarah Borges non è riuscitaa regalarci quest’anno e quello cheavremmo voluto facesse AllisonMoorer, prima di perdersi nelle ultimeproduzioni dal sapore pop.(Davide Albini)

The WeightAre Men

Ci vuole già una buona dose dicoraggio – o forse una beataincoscienza – per decidere dichiamarsi The Weight, un “peso” dinome e di fatto che, restandocircoscritti al rock delle radici, nonpuò non rimandare a qualcosa diimmacolato, ad un santuario, quellodella Band e dell’omonima canzone,inviolabile per chiunque. Trattandosi diuna rock’n’roll band ad assettovariabile e con un folksinger a tirare lefila di un country rock sgangherato,non c’è affatto il rischio di restare

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John Paul Keith& The One Four FivesSpills and Thrills

John Paul Keith nella vita ne ha combinatetante: ha fondato prima i V-Roys, coi quali contrabbandava countryroccioso, poi i Nevers, meteora power-pop attiva tra il 1997 e il ’99;ha collaborato coi Pink Hearts di Ryan Adams (c’è il suo zampino sudiverse tracce di Demolition) e nel 2001 ha dato vita agli stonesianiStateside, durati giusto lo spazio di due album. Nessuno poteva peròragionevolmente aspettarsi, quale mossa successiva, un disco solistadel tenore di questo Spills And Thrills, che è sì l’ennesimo testacodastilistico compiuto dall’artista, ma anche quanto di più frizzante,divertente e contagioso John Paul Keith abbia mai consegnato allestampe. Raccattata una malmessa Telecaster del ’52, formata unabacking band che a giudicare da gusto e feeling esecutivo sembra nonaver mai ascoltato un disco uscito dopo il 1966, infilata la strada deileggendari Ardent Studios di Memphis, Tennessee, l’allampanato eocchialuto chitarrista è riuscito a registrare un album che assommal’energia innocente dei primi Big Star, il roots-a-billy scartavetrato diAlex Chilton, il country-blues sibilante di Tav Falco e l’irresistibile“rockin’ & romance” del miglior Johnatan Richman, che per inciso,canzoni come quelle di Spills And Thrills non le scrive da un’eternità.Sgombriamo il campo da equivoci: quello di John Paul Keith è revivaldel più sfacciato, assolutamente ignaro dei concetti di modernità einnovazione. La voce ricorda un John Lennon corretto con robustedosi di Nikki Sudden, l’esuberanza rockista un Gene Vincent ancorpiù scalmanato (di sicuro Doin’ The Devil’s Work lo sta facendo ballarenella tomba), la rozza efficacia nel maneggiare radici blues e countrynientemeno che Jerry Lee Lewis. E gli One Four Fives (un nome chericorderà qualcosa a chiunque si sia cimentato coi rudimenti della sei

corde), composti dall’ex-Pawtuckets Mark Stuart al basso, da JohnArgroves ai tamburi, da Kevin Cubbins alla chitarra, da JohnWhitemore alla steel e dal grande Al Gamble all’organo (neldelirante strumentale Cookie Bones lanciato in virtuosismi degnidell’ultimo Booker T), assomigliano a dir poco alla band ideale se sitratta di ricreare l’atmosfera del rock made in Memphis degli anni’50, tra ceffoni honky-tonk, cori da taverna e sincopi ritmiche datarantolati. Certo, versi quali “Well, I got a girl and there ain’t nodoubt / She got kissess so sweet to make my teeth fall out” o “She’llnever notice if it doesn’t swing / She’ll dance to anything” fannocapire che JPK non intende esattamente lanciarsi in un certamepoetico con Leonard Cohen, ma qui a essere in ballo non è laprofondità dei testi.È altresì in ballo, e fa di sicuro ballare, la freschezza travolgente diuna musica che attraversa il country di Bakersfield (Smoke In ABottle), il rockabilly (Let’s Get Gone), il r’n’r di Elvis e Little Richard(Lookin’ For a Thrill) e la grinta rockista dei primi Beatles (If I WereYou) alla velocità di un treno merci. Non vi bastasse il disco, cercandoin rete troverete John Paul Keith e gli One Four Fives alle prese conclassici di Elvis, Chuck Berry, Five Royales, Roy Buchanan, FreddieKing, Buck Owens, Bo Diddley. Ma nessuna immagine, credetemi,potrà regalarvi la sensazione di ascoltare da soli, per la prima volta, ilcountry romanticone e sgangherato di Secondhand Heart o losciropposo doo-wop alla Johnny Maestro di Rock And Roll Will BreakYour Heart, due nuggets piene di tenerezza e nostalgia che, purautografe, sembrano strappate alla preistoria stessa di questa musica:effetto (benvenuto) non tanto di un fantomatico spirito conservatore(dacché la reazione, per fortuna, sta altrove), bensì di un rispetto e diun amore infiniti nei confronti di un passato mitico, vissuto purtropposoltanto in differita. Per i cambiamenti, le sperimentazioni e gliaggiornamenti ci saranno altri tempi e altri modi. Con John PaulKeith e gli One Four Fives possiamo occuparci di rock’n’roll, e chedio l’abbia sempre in gloria.(Gianfranco Callieri)

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imbrigliati nelle maglie di insostenibiliraffronti. The Weight abitano piuttostoil lato più sporco e gioviale di uno stileche sembra sempre sul punto dicadere miseramente, eppure trova ognivolta l’occasione per rigenerarsipuntando tutto sull’approccio, l’energia,il disincanto, anche una certa malizia.Joseph Plunket ha la voce e lacanzoni per sostenere questa tesi,senza imbattersi in accuse diimitazione proprio per la sua sceltaplateale.La musica di Are Men – secondolavoro sulla lunga distanza per il gruppo,dopo la sua ricollocazione geograficada Atlanta a Brooklyn, New York – èesattamente lo scatto di una sessioninformale, di un convivio fra le mura diuno studio (si veda anche la copertina)che ha tutta l’aria di essere statocatturato dal vivo, buona la prima.Dopo una serie di tentativi abbozzati,alcuni ep pubblicati sotto diversedenominazioni, Plunket ha scovatol’assetto ideale per le sue honky tonksongs alticce e lamentose grazieall’arrivo di Fletcher C. Johnson(chitarre e piano) e Johnny Pockets(pedal steel), elementi chiave nellosviluppo di Are Men. Sono loro, insiemealla voce strascicata e lagnosamentecountry del leader, ad architettare ilfascino di un rock’n’roll da back porch,un portico all’imbrunire sotto il qualeintonare ballate che si trascinano fra ilcrepuscolo country blues degli Stonesdi Beggar’s Banquet e Exile, la poesiastracciona del Neil Young di Tonight’sthe Night e tutta quella progenie diband dall’anima tormentata e dal suonoubriaco, Green on Red in testa. Sequeste suggestioni vi hanno messosull’attenti, sappiate che Are Men è ildisco “da sbornia” di questo 2009, diquelle pacifiche però da consumarsicon amici e conoscenti, tra una Like MeBetter che parte sorniona e finisce in undelirio di chitarre stridenti, una Had ItMade che mischia Chuck Berry eReplacements, fra il dolce dondolare diTalkin’ e la sua coda indiscutibilmenterock o ancora l’orizzonte infinito diSunday Driver.La main street – di stonesiana memoria– su cui restano esiliati The Weight èesattamente questa e non ci siallontana di un centimetro dall’idea diuna musica che possiede il senso dellapropria storia (dovremmo ancora diredelle radici, se non suonasse abusatocome termine). Per qualcuno sarannoun luoghi comuni, per altri l’ennesimabar band ottima per un sabato sera in

compagnia, qui invece le canzoni diJoseph Plunkett, le armonie a tre vocisconclusionate e spassose (sentitele nelcountry rock settantesco di Closerthank a Friend, più o meno i BlackCrowes se suonassero con menotecnica e seriosità), il violino e lecarezze acustiche di Hillbilly Highway(un titolo, una promessa), quel senso diserena imprecisione che accompagna ilcanto e le parole di A Day in the Sun inchiusura, insomma tutto l’insiemeconcorre ai quaranta minuti più sincerie senza pretese che il roots rock distagione abbia da segnalare.L’entusiasmo scombinato di TheWeight, in tutta la loro improbabile“originalità”, è per cuori ingenui: se nefate parte, accomodatevi.(Fabio Cerbone)

Levon HelmElectric Dirt

Levon Helm – classe 1940,dell’Arkansas, del sud – conta molti fan,tanti debiti e una voce ridotta male daun tumore che ha mancato di pocoanche l’anima: due dischi in diciottomesi e concerti à go go servono arimettere in piedi le finanze? “I’ll beback!” gridava Muhammad Ali – classe1942, del Kentucky, del sud – e certotanti come back di vecchie glorieproducono soltanto lievitazioni deiconti bancari, ma perché il pubblicoama questi ritorni? Perché al tempo delprodotto in serie ha bisogno di giganti,di personaggi unici e irripetibili, e questiuomini che ritornano consentono tocatch a glimpse of the real thing. Tredicianni fa quando accettò d’esserel’ultimo tedoforo ad Atlanta Aliemozionò il mondo per il coraggio dimostrare gli effetti devastanti della suamalattia: quello sguardo, quei gesti, aglimpse of the real thing appunto eun’iniezione di forza per chi gigantenon è.

Tre anni fa durante una delle MidnightRambles che dal 2004 si tengono nellasua casa/studio di registrazione aWoodstock Levon Helm si presentòda solo sul palco armato di mandolinoe – per la prima volta dopo otto anni dimalattia – cantò: poco più di un annodopo, e con un po’ di voce in più Levonci regalò Dirt Farmer, recensionipositive, un Grammy, una storiaemozionante and a glimpse of the realthing. Nell’estate del 2009 l’uscita diElectric Dirt conferma che questogigante che non arriva al metro esettanta è in forma come non glicapitava da quella sera del novembredel ’76 in cui calò la scritta The Endsulla Band. Il disco si apre con degliaccordi di chitarra, un breve ingressodei fiati, poi l’inconfondibile drumminge infine la voce! Il magnifico rantolodegli anni ’70 – quello che nonostanteLevon si sia sempre definito la terzavoce della Band non ha impedito aRolling Stone di includere non Manuelo Danko ma Helm tra le 100 voci piùgrandi della storia del rock – quellonon lo sentiremo più, ma il ricuperorispetto a Dirt Farmer è netto: alloraAmy Helm e Teresa Williamssostenevano Levon anche in passaggisemplici, qui il leone ruggisce con loroe regge la scena anche nel pezzo dichiusura con la superba vocalità diCatherine Russell. Levon rifulge nellatrascinante When I Go Away – di LarryCampbell, uno dei tre brani nuovi –quando nel chorus ulula no moretrouble … no more crying un brividocorre lungo la schiena: perché questa èthe real thing.L’album parte con Tennessee Jed –immortalata in un live storico dei Dead– qui resuscitata grazie ai fiati delvecchio amico Allen Toussaint e a versicome “I run into Charlie Fog, blackedmy eye and he kicked my dog, mydoggie turned to me and he said, let’shead back to Tennessee Jed” che gentecome Hunter o Robertson potrannoanche scrivere ma che per suonareautentici bisognano del southern drawldi Helm. Altro trattamento definitivotocca a Kingfish di Randy Newman –altro arrangiamento di Toussaint e,come ai bei tempi, Howard Johnson allatuba – spiccano le cover magistrali dicompagni di strada che non ci sono più– come Pops Staples e Muddy Waters:Move Along Train sembra una gara dibravura a chi è più soulful tra Levon,Larry, Amy e Teresa. Una menzioneparticolare la merita Larry Campbelle non solo per il lavoro alla chitarra e

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alla produzione: ascoltate il suo violinosu Golden Bird di Happy Traum. Dopo52 anni di carriera Levon Helm restafedele al suo DNA, a quel melting potmusicale che tra gli anni ’40 e ’50caratterizzò la sua giovinezza nelleterre del Delta tra Memphis e il natioArkansas, l’incontro della musica deibianchi e dei neri reso fertile di storieda suonare e da cantare dai fiumi diuna terra dal fascino immortale, lungavita al Delta, lunga vita a Levon Helm,the real thing!(Maurizio Di Marino)

Sam BakerCotton

C’è un episodio fondamentale cheraggomitola un’esistenza, dipanandolasecondo le coordinate di un destinoforse già scritto, accettato e poideclinato seguendo le coniugazioni diun presente da vivere e (con)dividere.Nel lontano 1986 Sam Baker, allorapoco più che trentenne, con una valigiarigonfia di speranze ma parca dicertezze, prese un treno sulla stradaferrata peruviana per poi ritrovarsimiracolato dopo un attentato che

costò la vita a sette persone, alcunesedute proprio nel suo stessoscompartimento. I danni non silimitarono a un semplice shock,costando al giovane ben più di unamenomazione permanente. Si può direche la sua vita da quel momento abbiavisto rincorrere i giorni nell’attesa diuna risposta per esorcizzare quel maleirragionevole del quale si è trovatovittima, pur sempre fortunata perpoterlo raccontare.Cotton è il coronamento di unatrilogia iniziata nel 2004 con Mercy, delquale porta lo stesso nome. Il seguito,Pretty World (2007), non aveva fattoaltro che solidificare le notevoliimpressioni dell’esordio, un countryfolk anacronistico occhieggiante aTownes Van Zandt e Guy Clark, checon lui condividono radici texane e unadote di storytelling fuori dal comune.Voce roca e strascicata come leesistenze che racconta, storie diordinaria umanità che di straordinariohanno solo la difficoltà di sbarcare illunario del quotidiano, sofferenze esolitudine, malinconie e riflessioni:musica autenticata dall’esperienza, unalotta che si sublima in ballateinconsuete, impregnate di poesia enaturalezza. “We are love, we are hope,we are stories” le sue parole, chetrovano nell’ultimo capitolo di unpercorso senza soluzione di continuitàil punto focale di un raggiungimentosofferto e cercato: il perdono.Registrato a Franklin, Tennessee, eprodotto insieme a Tim Lorsch(grandissimo con gli archi acoronamento di un suono limpido epulito), Cotton prosegue la stradamaestra che perimetra gli angoli, gliargini della vita che non vengonobagnati dal flusso che conta. L’eco

spirituale si affaccia spesso tra i solchi,quasi come ultima (e unica) possibilitàdi redenzione (Palestine è un esempio inquesta direzione, una canzone suddivisain due parti speculari che racchiudonoun messaggio tutto da decifrare). Cisono le fatiche delle piantagioni dicotone (Cotton, un folk blues cheassume sembianze spirituals), mennonitiin cerca di una rotta (Mennonite, talkin’ballad ricucita dal violino), donne sole,derelitti, ballate in punta di dita checustodiscono un’intensità quasi irreale,spesso centellinata dal piano di ungrandissimo Steve Conn. Due gioielli,Signs e Snow, la prima una sorta discorribanda tra i “segnali” che sifrappongono tra noi e il nostro destino,che spesso fraintendiamo (“they are onthe corner every day”) se non diamoloro il giusto peso e la giustaproporzione, la seconda una superbadescrizione dell’inverno, un quadrettoche riluce tutta la poesia di cui SamBaker è capace. Una lunga codapianistica ammanta entrambe lecomposizioni per sfiorare e raggiungerele porte della perfezione.Non ci sono brani minori, in fin deiconti tutti respirano la magiadell’ispirazione e un cuore puro:ascoltate Say The Right Words, unatraccia interamente strumentale che ciaiuta a capire che spesso il dono dellaparola (del quale abusiamo) devecedere il passo a qualcosa di piùgrande, il silenzio, espressione candidae pura di uno stato d’animo che non habisogno di accompagnamento. Una solacover, Who’s Gonna Be Your Man,traditional folk risalente ai primi delNovecento. Il resto è tutta farina delsuo sacco, qualità eccellente e garantita.Tra i best dell’anno.(David Nieri)

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Ryan Bingham & TheDead HorsesRoadhouse Sun

“The road it gives and the road ittakes away” avrebbe detto TomRussell: per Ryan Bingham la stradaè una necessità di vita, movimentocome esperienza, continua messa indiscussione, ed oggi, aperta la brecciacon il precedete Mescalito, la strada èanche uno sprone per descrivere,ingiustizia dopo ingiustizia, la picchiatalibera di una nazione. Ryan Binghamdiventa politico? Non scherziamo, luiresta sempre quel ragazzo cresciutonella polvere del South West fra rodei,honky tonks e sabati notte spesi acavallo della sua rock’n’roll band. Lacoscienza del songwriter ha peròacquisito una visione: nessuna resa aiclichè del circuito musicale texano,persino una netta distanza dalrinascimento Americana. RoadhouseSun ha altri obiettivi, mette la facciadentro il fango americano e se neesce con un disco che trasudaelettricità, sporcizia e baratta unbriciolo della poesia da troubadour (laritrovate comunque intatta in SnakeEyes e nella confessionale Rollin’Highway Blues) che ci aveva cosìammaliato in Mescalito.Non è una rivoluzione copernicana,perché la voce di Bingham grattaancora la vernice della tradizione,eppure la produzione di Marc Ford(ancora lui al timone) e le dinamichedei fedelissimi Dead Horsesspingono verso il limite del precipiziouna serie di ballate più sfacciate.

L’effetto sorpresa si sarà anchedissolto, ma nulla è così scontato inRoadhouse Sun: nella sua sfrontatezza,nel dilatare un sound ormairiconoscibilissimo (Bluebird è in talsenso un capolavoro fatto disaliscendi), si tratta di un disco chetraghetta Ryan Bingham verso ildefinitivo affrancamento. Orarimangono soltanto dodici sentieri chemarcano il territorio americano conun misto di rabbia, disincanto e lirismoin cui trovano posto tanto le CountryRoads (palpitante ballata squarciatadall’armonica del protagonista) e iricordi familiari (la marcetta roots cheincombe fra chitarre e mandolini inTell My Mother I Miss Her) quanto leimmagini nitide, sferzanti di un paeseche implode dentro i suoi stessi sogni.È da questa parte del guado che siinnalza il rantolo rock di RyanBingham, lo scoppio improvviso chelacera Day Is Done, atmosfera swampsurriscaldata in cui lo zampino sudistadi Marc Ford lascia un segno, ma assaidi più l’evocazione in Dylan’s HardRain, country rock che getta losguardo sulla mappa degli States feritie costretti a rivivere le depressioni delpassato.Le vere frustate però si chiamanoChange Is – roboante, psichedelica,piena di curve e insidie – ed EndlessWays, un pugno dritto in faccia (youwant more money in your hand/ you wantmore blood from a foreign land) al passodi chitarre brulicanti e valvole bruciate:non è una parte inedita dell’artista, chegià all’esordio aveva palesato il suogeneroso cuore elettrico, ma inRoadhouse Sun il nostro sembraprendersi più libertà e più rischi, magaririsultando imperfetto (Hey Hey pare unpo’ gettata al vento e confusa) ma allaresa dei conti sincero. Spiazzante alpunto che nel finale i Dead Horses alcompleto sentono l’esigenza di tornarecon i piedi per terra, fra il ballonzolareda saloon di Roadhouse Blues, pianoboogie e inconfondibile twangin’, el’incedere rappacificante di WishingWell. Cercatelo ancora una volta sullastrada: Ryan Bingham vi aspetta sul suovan alla prossima fermata.(Fabio Cerbone)

Austin LucasSomebody Loves You

La voce più emozionante uscitadall’oscurità della moderna hillbillymusic sembra essere quella di AustinLucas, un ragazzo con un’immagineimprobabile, una fisicità impacciataeppure capace di sprigionare un cantocelestiale. Una contraddizione intermini anche solo accostare unamusica di chiara ispirazione old timecon la stretta contemporaneità,nondimeno ci siamo talmente abituatiin questi anni alla riscoperta delleproprie radici culturali da parte dimolti giovani autori americani, cheforse non sorprende più ritrovarsifaccia a faccia con un songwritermaturato nell’estetica e nel suono punkhardcore e successivamente ritornatoall’ovile, fra le braccia di quelle ballatedall’anima folk e dal vestito countryche il padre gli aveva insegnato dapiccolo. Con Austin Lucas, al secondoatto della sua rinascita roots inSomebody loves You (l’esordio, PuttingThe Hammer Down, risale a due anniprima), siede proprio il padre BobLucas, già nei crediti di diversi dischi diAllison Krauss e qui manipolatore dibanjo, fiddle e percussioni, primoscorcio di un ritratto di famiglia chevede coinvolta persino la sorella ChloeManor ai cori.Avendo studiato per sei lunghi anniall’Indiana University Children’s Choir(Lucas è originario di Bloomington edoggi risiede a Portland, Oregon),mettendo in scena opere liriche e braniclassici, Austin modella la voce conun’intensità che si posiziona

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Second HandSecond Handaaaavvvvvvvv iiii ssssttttaaaa tttt iiii iiiinnnn qqqquuuueeeesssstttt iiii mmmmeeeessssiiii

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esattamente a metà strada fra la “bellamaniera” insita nel nobile canto e lapassione dovuta a chi interpreta folksong dall’età indefinita. La sorpresa èche si tratta di composizioni tutteoriginali, seppure suonino comefossero sbucate da un vecchio vinile a78 giri, da una raccolta di anticagliedell’american music scoperta per casoda un rigattiere. C’è un senso dimistero e religiosità racchiuso inSomebody Loves You, Shoulders, Fountainsof Youth, nella solitaria, intensaesecuzione di Resting Place, fra leincrespature di un suono disadorno enonostante tutto assolutamentecompiuto e comunicativo: è lo stessomistero che avvolgeva le voci ancestralidella tradizione, ma senza copiarne ilgesto, semmai adattandolo allesperanze, alle paure, ai sogni di unragazzo di oggi.Tenerezze acustiche accompagnatedall’onnipresente fiddle del padre, dallasteel di Todd Beene (già con i Lucero edi recente nel disco solista di BenNichols), da una spontaneità che rendela produzione immediata, dal vivo, conun sound d’ambiente che si addice allamateria trattata: che sia sbilanciataverso i colori vivaci del già citatolascito musicale hillbilly (Wash my SinsAway, Go West) e persino bluegrass (ilfinale con Farewell, direttamenteaggrappato ai fantasmi di Bill Monroe),oppure verso un country pastorale(Singing Man) che si tinge di unamalinconia dolcissima e confessionale

(She Did, Life I’ve Got) degna delmigliore Bonnie Prince Billy, AustinLucas ne esce come uno degli assolutitrionfatori del lessico Americana,nell’anno di grazia 2009.(Fabio Cerbone)

Jason LytleYours Truly, The Commuter

“Esagera l’essenziale e lascia l’ovvio nelvago”. La frase è di Vincent Van Gogh,ma Jason Lytle se l’è scritta con unpennarello su un foglietto e appesa nelsuo studio di registrazione in Montana.Una regola d’oro per ogni attimo dellagestazione di questo suo primo albumsolista, disco assolutamente da nonsbagliare, visto che il mondo del rockalternativo era pronto a fargli la pellese non fosse valsa la pena di dismetterequell’oliato meccanismo indie che sonostati i suoi Grandaddy. Lytle rispondedirettamente alle aspettative

intitolando il disco Yours Truly, TheCommuter (letteralmente“Sinceramente vostro, il pendolare”),come dire che si rende conto che lasua solitaria reclusione nello chalet dimontagna mostrato nel libretto del cdè un viaggio che avrà un ritorno,esattamente come alla sera tornano acasa i pendolari dal lavoro, ma checomunque il trasloco gli era quantomai necessario.Lytle qui esagera davvero l’essenziale,presenta dodici brani che fanno difragilità virtù e li ammanta con suoni disintetizzatori ed echi sintetici maestosie teatrali, quasi da grandeur delprogressive inglese di un tempo. Primadi poter citare i King Crimsondell’esordio bisognerebbe passareattraverso anni di esperienze di intimofolk sperimentale alla Sparklehorse, maqui il gioco dei rimandi nonfunzionerebbe comunque, lo stile diLytle è ormai talmente inconfondibileche fa si che la sua opera solista suonine più ne meno come un disco deiGrandaddy. Un paradosso non da pocoper un disco che non nasconde affattolo spettro della vecchia band neanchenei testi, risolvendosi in una sorta diconcept sulla fine di un era e sulleincolmabili crepe nei rapporti cheportano a qualsiasi tipo di rottura, undisagio evidente nelle splendide BrandNew Sun, Rollin’Home Alone e I Am Lost(And the Moment Cannot Last), titoli cheda soli bastano a rendere l’idea delladesolazione umana in cui si naviga in

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WilcoWilco (The Album)

Con una copertina surrealista (e terrificante),che si nota subito per contrasto con quella

elegante e minimalista di Sky Blue Sky, i Wilco confermano lo stato digrazia che li ha proiettati tra i protagonisti del rock’n’roll degli ultimianni. Il consolidamento delle posizioni non si traduce però nellacristallizzazione dei suoni: i Wilco sono sempre stati capaci di svolterepentine pur mantenendo un’identità chiarissima e se per questodisco sembrano abbracciare un po’ la voglia di “back to the roots” conun suono meno compresso (il produttore è il veterano Jim Scott, concui avevano già lavorato nel doppio Being There) e un’attitudine piùfisica che cerebrale è soltanto una delle possibilità su cui il poliedricoensemble guidato da Jeff Tweedy può puntare. Di certo non l’unica,perché l’ossessivo pulsare ritmico di Bull Black Nova, che rimandapersino ai Talking Heads, in contrasto con le armonie di You & I,comincia il gioco di contrasti su cui, ormai con tanta abilità quantaesperienza, si muovono gli Wilco.Una rock’n’roll band moderna che sa muoversi nell’ambito dischemi classici (You Never Know sembra una canzone di Tom Petty)così come di variazioni pop con accenti beatlesiani sparsi con

generosità. Sono duttili non (solo) perché questo richiede la realtàcomplessa e mai definita del mondo in cui viviamo, ma per il lorostare avvinghiati alla musica, vissuta con la concentrazione ditormentati jazzisti e con la disinvoltura di consumati honky tonkyheroes. La loro eccentricità, a guardarla bene, è la normalità: a parteun vistoso completo indossato da Jeff Tweedy in omaggio a GramParsons (lo si vede nel lungo e altrettanto bellissimo viaggionarrato dal DVD Ashes Of American Flags), i Wilco non concedonoun granché allo spettacolo e quello che sono è tutto nella musica. Sequalcosa si ripete o svela un po’ troppo presto la cifra stilistica dellasua matrice è anche naturale e fisiologico perché i Wilco non hannoesordito con Yankee Foxtrot Hotel e perché Sky Blue Sky era uncapolavoro.Qui siamo nell’ambito delle promesse mantenute e per fortuna perchédi stelle che bruciano un attimo ne vediamo dozzine al giorno e saràpure romantico, ma alla fine qualcosa che duri e che resti nel tempo,non soltanto come idea, ma proprio come realtà che vive e suona e sitiene il tempo dalla propria parte, beh, è indispensabile più chenecessario. Per questo i Wilco sono in questo momento la migliorrock’n’roll band della Levelland e One Wing (intro delicato esuggestivo, attacco dirompente, finale che è un omaggio, nemmenotanto velato, ai Television) la canzone più bella di quest’anno, cosìsemplice e perfetta da farvi pure dimenticare le gobbe del cammelloarrivato per errore sulla copertina.(Marco Denti)

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queste note. Lytle è stato davverobravo a rispettare anche la secondaparte del dogma vangoghiano, lasciandonel vago strutture ovvie come quelle diIt’s The Weekend, non definendo troppopiccoli e semplici valzer al piano comeThis Song Is The Mute Button o nonscivolando troppo nell’atmosfera dasalotto quando azzarda unostrumentale d’ambiente come Furget It.Prendete a simbolo del disco Ghost OfMy Old Dog, un brano dedicato aicagnolini avuti nella propria infanzia,persi nel tempo esattamente come lapropria innocenza, lamento triste macadenzato da una base da alternative-rock d’altri tempi, con chitarreelettriche ipnotizzanti e ossessive, equel suo canto/sussurro che suonaquasi come le tante tastiere utilizzatenel disco. Lytle ha fatto tutto da solonel suo rifugio di montagna, quasi atentare il piccolo miracolo riuscito aBon Iver in condizioni simili: forseYours Truly, The Commuter farà menorumore di For Emma, Forever Ago, masicuramente è stato in grado di toccaregli stessi bassifondi dell’anima con pariefficacia.(Nicola Gervasini)

The Builders and theButchersSalvation is a Deep DarkWell

Ramshackle, burn burner, roots … chesignificano queste parole? Come si puòscrivere di questa musica sradicandoladall’unico lessico che la comprende? Lasoluzione è ascoltare, perciò provateuno a caso dei primi tre pezzi di questoalbum e il senso autentico di questitermini si rivelerà alle vostre orecchiechiaro e potente. Avete ascoltato ecapito? Bene! Adesso forse nepossiamo anche scrivere: all’inizio deldecennio in corso cinque ragazzidell’Alaska – luogo inospitale visti e

considerati il clima (quelle temperaturesempre al meno) e la politica (quellaSarah Palin) – lasciano le terra natia evanno a Portland, Oregon, cittàprogressista e culturalmentescintillante. A Portland i cinquescoprono la musica roots, l’Americana,e come già altri prima di loro sentonoche queste radici hanno qualcosa incomune col punk con cui sonocresciuti, nascono cosìThe Buildersand The Butchers: Ryan Sollee(chitarra e voce), Paul Seely(mandolino, organo a pompa, bouzoukie tanto altro), Ray Rude (percussioni),Alex Ellis (basso) e Harvey Tumbleson(mandolino e banjo).L’esordio su disco risale a due anni conl’album omonimo: più una promessache una riuscita, oggi Salvation is aDeep Dark Well annuncia che nonresterà incompiuta giacché troviamomateriale più coeso, direzione dellascrittura ben determinata e – che nonguasta – la produzione di Chris Funkdei Decemberists che aggiunge nuovefrecce alla faretra musicale della band.Ramshackle, burn burner, roots sidiceva: le note gravi di un piano apronol’album, poi la voce spiritata di Sollee –sopra un tappeto di percussionisparute e porte cigolanti cheinstaurano l’atmosfera gotica del disco– “close your eyes, and you draw onemore day to a close, you choose to bealone, you float through your life as aghost, and everything heals given time, andeverything dies given time, and the scarsrun together, mixing the nerves with theblood” – poi le percussioni diventanopossenti, la voce di Sollee diventalamento di banshee e chitarra, banjo emandolino rendono il ritmo indiavolato.Indiavolato? Sì, e il diavolo è unapresenza costante dell’album: dominaDevil Town e accompagna il giudice diShort Way Home e certo non èestraneo a Barcelona – la canzone piùimprevedibile del disco – con unasezione fiati che dona un breve mapiacevole sapore tex-mex.Down in This Hole invece ammiccando aTom Waits ci narra una crisi economicai cui umori affondano più nella GrandeDepressione che ai tempi di BernieMadoff: “Nothin’ lasts forever in a Godforsaken town pocketbooks are empty‘cause the priest is back in town he’sgiven all his dollars to the girls whowork the square you never get a dimeand there’s murder in the air.” Si restanegli anni ’30 con Raise Up che ciriporta in Spagna al tempo della guerracivile: “when you make fire with the devil

don’t be surprised if you get burned”. Saràper esorcizzare questo satanaonnipresente che la band chiudel’album con un gospel, dimostrandod’aver capito il senso profondo dellamusica roots: “there’s joy and celebrationthrough the darkness, there’s light in thehardest of times” (Ryan Sollee).(Maurizio Di Marino)

Elvis CostelloSecret, Profane andSugarcane

Dice il saggio: mai riprovare a vivere lebelle sensazioni del passato, ladelusione sarebbe assicurata. Parole alvento per Mr. Elvis Costello, che daqualche anno pare sia entrato in unafase di nostalgia per i tempi d’oro esembra stia cercando in tutti i modi diricreare i dischi passati. E così dopo laricerca del fervore giovanile delprecedente Momofuku, ecco che il paiodi occhiali più strafottenti del rocksono andati di nuovo a ricercare quelleradici di american-music scoperte aitempi del cover-album Almost Blue, eespresse più personalmente conl’epocale King Of America del 1986.Secret, Profane And Sugarcane, conla sua scelta di riproporre il team conT-Bone Burnett, nasce destinato adover sopportare il peso di questaeredità, e probabilmente non meritavaquesto triste destino. Se Momofukuinfatti trovava un paio di zampatevincenti degne dei giorni migliori, manel complesso si risolveva in un discodavvero nostalgico per l’Elvis che fu, quiCostello fa forse il primo passo inavanti dopo più di dieci anni di album dipregevole routine.E se Costello dimostra di avere ancorain corpo la stessa scintilla che nel 1986lo trasformò in un credibile roots-singer con Gram Parsons nel cuore, èT-Bone Burnett a non essere più quellodi un tempo. Allora era un produttore

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alle prime armi, con molte buone ideesu come adattare alla tradizioneamericana i suoni degli anni 80; oggiinvece con lui si va sul sicuro, grazie aquel suono caldo e pieno che gli hapermesso in anni recenti ditrasformare Robert Plant in uncredibile country-singer e il rockettaroJohn Mellencamp in un perfettointerprete blues e folk. Paragonarequesto disco a King Of America èdunque fargli un ingiusto torto, perchéoltre a non poterci competere perquestioni storiche, prima ancora cheartistiche, semplicemente non nericalca affatto lo stile e lo spirito. Unbrano come My All Time Doll adesempio è “100% Pure Costello”, mal’intreccio di chitarre e mandolini portadecisamente il marchio di fabbrica delnuovo Burnett, e il matrimonio apparedavvero nuovo e inedito.Il pregio dell’album è quello di riuscirea non bearsi troppo delle sue perfettesonorità, ma di ridarci un Elvis in pienaforma anche come autore in branicome Red Cotton o le struggenti SheWas No Good e She Handed Me AMirror, o perfettamente a suo agio conil linguaggio più puramente country(The Crooked Line e I Felt The Chill, con ledivine Emmylou Harris e LorettaLynn) e pure parecchio divertito inHidden Shame e il bellissimo lungoblues Sulphur To Sugarcane. Il risultato

finale è buono, anche se manca semprela freschezza e il genio dei giornimigliori, e qualche frettoloso errorerende il tutto perfettibile (la nuovaversione di Complicated Shadows farimpiangere quella di All This UselessBeauty, mentre nella parte centrale ildisco si siede e perde un po’ di ritmo).Ma sempre come dice il saggio: chi fa,sbaglia.(Nicola Gervasini)

Isaak HoskinsHalf Empty

Sono le cose che accadono quandomeno te lo aspetti. Piccoli miracolinascosti tra le pieghe dell’anonimato,quello dei beautiful loser che nonhanno possibilità alcuna di farsi notare,meno ancora di tanti colleghi

etichettati come tali, solo un po’ piùfortunati. Figuriamoci poi se i sogni diun giovane musicista nativodell’Oklahoma, cresciuto in Kansas eadottato da una buona stella (quellasolitaria) possono nutrire una qualchesperanza quando un certo BrentBrest decide di offrirgli un incariconiente male, vendere T-shirt durante unbreve tour degli Slobberbone, fulcronodale di un movimento che mette leradici nei dintorni di Denton, piccolacittadina texana. Ma a buon intenditorpoche parole, Best non è certo unnovellino per non accorgersi chequesto ragazzone ha talento davendere, capacità di songwritingnotevoli e fuori dal comune.Tra fortune alterne passano gli anni,Isaac Hoskins forma una band, TheHeelers, e intanto porta avanti ilprogetto di incidere un album solistacon l’ausilio del suo mentore, che oltrealla produzione dirige un’orchestra dichitarre e frastuoni di prim’ordine.Registrato nel 2007 ma pubblicatoindipendentemente più di un annodopo, Half Empty è un discosplendido, sorprendente per freschezzae qualità di insieme, sound e doti innatedi scrittura. Se l’accostamento con loSpringsteen versione intima e oscurapuò a tratti calzare, sono Adam Duritze il Todd Snider migliore, tra gli altri, aecheggiare prepotentemente nelle

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Son VoltAmerican Central Dust

Simbolicamente (e non solo) AmericanCentral Dust è un ritorno a casa: lo hanno

scritto già in tanti e non avrebbe senso negarlo. Quella polvere neltitolo (e magari anche lo spirito di Woody Guthrie) riportadirettamente alla “depressione” cantata a Belleville vent’anni fa congli Uncle Tupelo; il suono scartabella di nuovo fra l’eco di un countryrurale, rispolverando con decisione violini e pedal steel; c’è persinoun’etichetta, la Rounder, che è simbolo naturale di una roots music diqualità e fuori tempo. I Son Volt sono tornati, Jay Farrar mormoramalinconicamente come non succedeva da tempo, ma attenti a nonchiudere American Central Dust dentro una bacheca museale, perchéin verità questo disco sfiora si la nostalgia, ma si tiene strette anche lepiù recenti conquiste, specialmente quelle di The Search.È un’opera a metà del guado dunque, forse attendista sul futuro onon esattamente visionaria come poteva essere l’appena citatopredecessore, e tuttavia riprendendo il raccoglimento acustico diTrace e Straightaways, evita di fare del semplice amarcord,suonando piuttosto quale riassunto di una carriera, immaginenitida della scrittura di un autore, Jay Farrar per l’appunto, maitanto incompreso, bistrattato, costantemente costretto a conviverecon il passato dei Tupelo e il presente di una improponibilebattaglia a colpi di songwriting con Jeff Tweedy. Lui restasemplicemente la più grande, profonda, ermetica voce della

provincia rock americana, con tutti i suoi limiti e le suecontraddizioni, ma anche con tutta la forza di un rock’n’roll che quisi rende più intimo del solito.John Agnello asseconda l’introspezione dei Son Volt equell’incessante rimuginare fra scampoli di protesta, una certaenigmaticità delle liriche e qualche lacrima degna della miglioretradizione dell’american music. Non è peraltro scontato che la band,tra cui spiccano Chris Masterson e Mark Spencer, sia cosìaccomodante con il padrone di casa: per una Roll On che ondeggiauna dolcissima melodia agreste ed una Dust of Daylight che sbucadalla macchina del tempo a tempo di tenero walzer alt-country, visono insinuanti ritmiche che costeggiano un suono funky (Down to theWire la più attraente), un rock scuro che tende pericolosamenteall’involuzione quando non ad un eccessivo brontolio (le ombre deldeclino economico in When the Wheels Don’t Move) e ballate che sitrascinano seguendo la voce caratteristica di Farrar (la pianisticaCocaine and Ashes che dovrebbe omaggiare Keith Richards, lasfuggente Exiles).In questa doppia anima è evidente come American Central Dust nonmantenga tutte le promesse di un “coming back”, ma non avendo maisposato da queste parti la tesi di una band involuta o peggio senza viedi uscita (The Search aveva significato molto il tal senso), possiamoallora accogliere questo album come un passaggio. A trattientusiasmante (la limpidezza di No Turning Back e Jukebox of Steel,quintessenza di cosa si intenda per alternative country), altre epico eletterario (la saga storica narrata in una solenne Sultana) altre ancorapiù ambiguo e austero, il nuovo (ri)corso dei Son Volt raccontasemplicemente di un gruppo, nonostante tutto, ancora vivo.(Fabio Cerbone)

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dodici tracce (più una bonus) checompongono un album decisamentesopra la media, poesia notturnaammantata di storie di solitudine esofferenza, con un anelito di speranzache sfronda malinconia e tristezza.Nelle ballate le tracce migliori, daConcrete Life, sublime esempio di comesi scrive una canzone, con un organodolente a ricalcare l’esempio deimaestri (non a caso tra le righe è citatoJohn Prine), fino a In Case You MightForget, che sembra uscita dalla penna diJimmy La Fave versione HighwayTrance, voce solida con tanto di archi adirimere le emozioni. Waitin’ On TheWind prosegue sulla stessa scia, mentreWhen You Fall lascia trasparire unaccordion dirompente, difficileesprimerne la potenza evocativa e lamagia (poco) nascosta. Il lato elettricodeve molto a Best e al movimentoalternative, con il Duritz migliore nellevene dell’iniziale Better Things To Do,rock pulsante intriso di organo emelodia cristallina, mentre il countrysprigionato da Mississippi Blackjack siappoggia al violino e lascia interdetti, insenso positivo ovviamente. Hitchhikin’scioglie con tanto di slide un possentesouthern tune, la conclusiva Half Emptyrichiama il Boss e resta in equilibrio suldelicato asse voce e chitarra elettricadistorta, ancora un grande esempio diclasse pura. Un bicchiere mezzo pieno,oserei dire, forse qualcosa in più.Dategli una chance, un disco cosìvorrebbero inciderlo in molti, almenouna volta nella vita.(David Nieri)

Scott H BiramSomething’s Wrong/Lost Forever

Scott H. Biram è un personaggio daconoscere. È completamente coinvoltodalla sua musica e non ci si stupiscequindi di leggere nella sua biografia chenel 2003, un mese dopo un grave

incidente con varie fratture in corpo, siè esibito al Continental Club di Austin,producendo uno show pervaso daun’energia incredibile. Stessa situazionesi è ripetuta la scorsa primavera,quando Scott si è rotto una gambascivolando in una stazione di benzinanel sud della Francia. Una sfortunaincredibile che non lo ha demoralizzato.È stato costretto ad annullare iconcerti di marzo e aprile, ma, appenain sesto, ha ripreso ad esibirsi senzasosta. Una determinazione che nonpuò che suscitare ammirazione e,perché no, anche simpatia.Preferisce le situazioni solitarie, nellequali ha modo di scatenare la suainventiva e impastare canzoni a cavallotra origini e moderno. Percuote lecorde della sua vecchia Gibson, unostrumento del 1959 che ha un suonoprofondo e spesso filtrato, trasforma lasua voce con un altoparlante, si aiutanella ritmica attraverso una macchinache mette in funzione con i piedi. Unmusicista quindi fuori dai soliti schemi,capace di coinvolgere da solo unpubblico senza addomesticare leproprie canzoni. La scheletricità del suocantautorato intriso di hillbilly, rock,country e punk rimandainequivocabilmente ai primordi delblues, a quelle foto in bianco e nero incui i primi bluesman apparivano pocosorridenti e con i loro strumenti tra lemani, a sancire un rapporto diretto edesclusivo con la musica. Un pattoindissolubile che Scott H. Biram hasancito facendo appunto della musica lapropria vita.E che dire di questo nuovo album,costato due anni di lavoro in studio neiritagli di tempo tra un concerto e unaltro? Da una parte il contatto con lamusica del diavolo è palese in deltablues quali Ain’t It A Shame o l’evocativaGo Down Ol’ Hannah, un vero e propriocanto gospel di Leadbelly, dall’altra ilfurore dell’animo di questoindistruttibile texano emerge nei branipiù rock, quelli dove la chitarra vienepiù maltrattata, quasi pestata come sefosse una percussione. Sembra diintravedere uno spiraglio di lucenell’intro di organo di Time Flies, ma èun’illusione, non ci può essere pace traquesti solchi. Solo l’acustica Still Drunk,Still Crazy, Still Blue abbandona il lato piùoscuro per territori folk quasi animatida un’atmosfera religiosa. C’è ancheredenzione nell’immaginario di questocantautore, ma frutto di un percorsolungo e difficile. In conclusioneSomething’s Wrong/Lost Forever è un

album che riassume la fede del proprioautore e che grida a gran voce lapropria sguaiata peculiarità. Benvenutinel poco docile mondo di Scott H.Biram.(Edoardo Frassetto)

Deer TickBorn on Flag Day

Alla faccia dei buoni auspici. Allora, il“deer tick” (alla lettera “zecca delcervo”) è un parassita, meglioconosciuto come “zecca dalle gambenere”, che procura la neuroborreliosi,ovverosia un malfunzionamento delsistema nervoso causato, appunto,dall’infezione da batteri. Chiaro, quindi,che se un gruppo decide di chiamarsiproprio così, Deer Tick, lo fa un po’ allaDavid Lynch, cioè per far intravvedereabissi di repellenza, malattia e orrorenascosti dietro una facciata di apparenteordine bucolico. In realtà, di ordinato,nella musica e nel profilo pubblico deiDeer Tick di John Joseph McCauleyIII (chitarra e voce), Andrew GrantTobiassen (sei corde solista),Christopher Dale Ryan (basso) e DennisMichael Ryan (tamburi), tutti originari diProvidence, Rhode Island, non c’è poimolto. C’è invece, nelle loro canzoni, unsenso di minaccia, segnali nevrotici di uncollasso imminente, un sentore di rovinache serpeggia costante: vuoi per la voceacuta, scartavetrata e stridula di chicanta, vuoi per quello che canta (amoriperduti e vite marcite, soprattutto), vuoiper il suono – un alt.country orabucolico ora punkeggiante, sospeso trastrappi e scossoni, quiete e tempesta –dentro cui è incartata la voce.Ascoltando Born On Flag Day,secondo album della band dopol’esordio War Elephant di due anni fa,sovvengono i paesaggi operai e desolatidi certo Midwest immortalato da JohnCarpenter, l’incombenza stregonesca deiboschi del Maryland, il New Englandterrorizzante di HP Lovecraft – non

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perché si tratti di un disco metal, o dark,o perché nei brani si raccontino storie dizombi o riti leggendari. È altresì lamusica, a distillare tutte queste visioni,una musica che in un caso soltanto(Straight Into A Storm) sceglie di attenersia un canonico “Buddy Holly incontral’honky-tonk” (oddìo), mentre nel restodel programma prende Bob Dylan, HankWilliams, Bruce Springsteen, John Prine eTom Petty per rivestirli di una coltre diinquietudine elettrica, in un susseguirsi didettagli sorprendenti e in violentocontrasto tra loro (penso alla voceangelica di Liz Isenberg, del tuttoscollegata da quella di McCauley, in FridayXIII, o alle liriche raggelanti di The Ghost,che usa un buffo e squinternato country-rock per evocare un avvilito paesaggiomentale di solitudine e rassegnazione).Questo non significa che McCauley esoci non sappiano scrivere un branonell’accezione più classica del termine:Little White Lies e Song About A Man, perdire, non dispiaceranno affatto a chi haseguito con trepidazione l’ultima fasedella carriera di Conor Oberst, ma èchiaro che il cuore di Born On Flag Dayva ricercato nella stravolta cavalcatagrungey dell’iniziale Easy (delirantemeraviglia tra rintocchi western edesplosioni punk’n’roll) onell’incontinenza elettrica del capolavoroSmith Hill, dove sembra di ascoltare gliSmashing Pumpkins di Billy Corgan alleprese con una romanticheria blue-collar.Poco più di trenta minuti in tutto,

compresa una Goodnight Irene in chiave ditraccia nascosta (e di sicuro realizzatacon parecchio alcool in corpo), e nienteda buttare. Una manna, per gli assertoridell’essenzialità. Una bella soddisfazione– dico io – anche per chi pensa che ilfascino maggiore, in un disco, stia semprenelle suggestioni che sgusciano tra glispigoli delle canzoni. Born On Flag Daypossiede canzoni e spigoli a sufficienzaper farvi incuriosire a lungo.(Gianfranco Callieri)

Leo RondeauDown at the End of the Bar

Lo scatto in copertina potrebbe farpensare ad un eroe perduto diquell’epoca fatta di cowboy“progressisti” e ribelli nashvilliani, unostoryteller texano dal destinosfortunato, che si muoveva nell’ombradei vari Guy Clark, Townes Van Zandt o

Terry Allen. Non siamo in fondo lontanidalla realtà, anche se Leo Rondeau èun “vagabondo” sulla trentina cheproviene dal North Dakota e guardacaso ha messo radici ad Austin. Non c’èche dire, ha trovato la casa piùaccogliente per le sue strascicate ballad,il suo country rock distillatoartigianalmente con un suono a metà frail West e la vecchia mai dimenticataGrand Ole Opry. All’’indomani deldebutto, Bangs, Bullets and the TurtleMountains (2007), si è messo incammino per la Mecca dell’Americana,raccogliendo musicisti più o menoconosciuti agli angoli dei club cittadini(ci sono la steel e il dobro di CindyCashdollar, la batteria di Lisa Pankratz,entrambe già nelle Guilty Women diDave Alvin, oltre alle chitarre di JimStringer e al fiddle di Ricky Turpin) eimbastendo un disco, Down at the Endof the Bar, che ha il sapore aspro ebeffardo del migliore country d’autore.I punti di riferimento dunque non sonoaffatto sbagliati, anche se al piatto deiricordi e delle riminescenzeandrebbero aggiunte la pigrizia el’ironia di John Prine e magari anche unpizzico della follia di Kinky Friedman:per uno che scrive di pestaggi inLouisiana (l’irresistibile walzer NoFriend to Lousiann in apertura); di unagrande bellezza nera conosciuta aPensacola (“che mi abbracciava comeun boa constrictor”, Weary Owls); diragazze con padri alcolizzati e madri a

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Angela EasterlingBlacktop Road

Si parla un gran bene di questa giovanecantautrice, tanto che le attestazioni di stima

portano la firma di alcuni maestri del genere, da Roger McGuinn aSteve Earle, che non hanno esitato a definirla la nuova promessa dellaroots music a stelle e strisce. Proveniente da Greer, South Carolina,Angela Easterling ha già un album alle spalle, Earning Her Wings(2007), dove già le sue buone doti risalivano la superficie della mediaqualità per accasarsi un gradino più in alto. Certo, senza una materiaprima di indubbio spessore non si muovono personaggi come WillKimbrough, un addetto ai lavori che nel curriculum può vantarecollaborazioni con artisti del calibro di Todd Snider, Rodney Crowelle Jimmy Buffett. E senza buone canzoni non si muovono i sessionistmigliori che la country music di stanza a Nashville e zone limitrofepossa permettersi, da Ken Coomer a Fats Kaplin, da Al Perkins a TimMarks.Se il suono dell’intero album è perfetto, la matrice delle canzonipoggia su una storia familiare, una saga in musica, se possiamodefinirla in questo modo: la strada richiamata dal titolo è la stessa cheha interrotto una tradizione, quella della fattoria di ancestralememoria costruita nel lontano 1791, un progresso che ha smantellatole radici di una vita che ha racchiuso diverse esistenze. Questo triste

episodio ha lasciato una traccia indelebile nella vena creativa dellaEasterling, permettendole di ripercorrere un viaggio nella memoriacon tanto di riflessioni sulla vita intorno, in cui la sfera privata siinterseca con le problematiche sociali di ogni tempo.Roots rock, neo traditional country, folk, ovverosia Americana,un’etichetta che ben si adatta alle inflessioni compositive di questanew girl in town. Il suono è levigato dagli strumenti a corda (chitarre,banjo, mandolino e dobro si coniugano alla perfezione), mentre alcuniriflessi elettrici ed energici spostano l’ago della bussola in direzioneMellencamp ed Earle (l’iniziale American I.D. su tutte, una riflessionesulla difficoltà di integrazione nel melting pot americano, che acuisceanziché stemperare le differenze). Le ballate richiamano invece MaryChapin Carpenter, con gli archi a impreziosire le già buone sensazioni(Better, Field Of Sorrow ed Helpless, quest’ultima una cover di NeilYoung), mentre The Picture poggia sulla steel di Al Perkins e i tocchidi piano e organo del geniale Kimbrough. Energiche Birmingham e latitle track, che racconta il misfatto della fattoria, suggestivo ilcountry flavour di A.P. Carter’s Blues, omaggio al padre di un mito, laCarter Family, deliziosa One Microphone, con l’accordion di FatsKaplin in evidenza, mentre smerigliature old time si affaccianonell’uptempo Big Wide World e soprattutto Stars Over The Prairie, unwestern swing scritto dal nonno negli anni quaranta.Bella voce, tutto molto piacevole. L’unico difetto è la mancanza diquel tocco di genuinità in più che avrebbe senz’altro giovatoall’insieme, visto che spesso i vari brani sembrano adagiarsi su unmanierismo di qualità.(David Nieri)

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giocarsi tutto al bingo (“era unafumatrice passiva ad un anno e di primamano a tredici anni”, She’ll Get theAdvantage); per uno capace didescrivere gli imbarazzi di una coppiacon la metafora di un elefante (“c’è unelefante in questa stanza/ e si staportando via tutto lo spazio”, Elephantin This Room) gli accostamenti di cuisopra sono d’obbligo e assai pertinenti.Leo Rondeau ci gioca sopra senzaalcuna malizia, presentandosi trasandatonel look e in quella voce che risultastraziante e indolente: se amate le bellemaniere e i colpi di fioretto, la countrymusic di Rondeau non fa al caso vostro.Non è un nuovo tradizionalista con lafaccia pulita, piuttosto un hobo in pienaregola che sfrutta il suo andirivienilungo le direttrici dell’America perdutaper inventarsi assonnati walzer dafondo di bottiglia (la stessa Down at theEnd of the Bar), immaginifici honky tonk(Rhinestoes), invocando spesso ilsostegno di una seconda vocefemminile che lo sorregga nella sua“sbronza” (You Ain’t for Me e Blues CameToday con Cary Ozanian e BrannenLeigh), infilandosi fra uno swing in puroNew Orleans style (la deliziosa Rapturecon tromba e clarinetto) e una ballatacountry&western che risveglia gli spiritidel border e si apre sulle note di unatromba mariachi (la sofferta, stonataHad I Known). Talenti di quelli grezzi,spontanei e perciò ancora piùapprezzabili, segnatevi il nome primache scompaia da qualche parte sullastrada.(Fabio Cerbone)

Israel Nash GripkaNew York Town

Lo skyline è inconfondibile: sotto uncielo dorato si stagliano i grattacieli diNew York e il Brooklyn Bridge, mentreun ragazzo imbraccia la sua Gibson J-200 sulla riva del fiume. L’immaginerimanda a qualcosa di familiare, la

musica rincara la dose e mette IsraelNash Gripka, songwriter del Midwestpartito in cerca di fortuna nellaimmensa metropoli, con le spalle almuro: le sue ballate bluastre che sitingono di folk rock e alternativecountry verranno subito accusate diuna dipendenza forte (e probabilmentenecessaria) dalle regole imposte daRyan Adams in queste stagioni. È luiinevitabilmente il metro di paragone,non solo per Israel Nash Gripka vadetto, ma quando l’ispirazione è allaluce del sole, limpida e sostenuta dacanzoni rotonde e passionali, alloraogni recriminazione è lavata viadall’onestà e dalla promessa dicrescere. New York Town è unapasserella abbastanza brillante dacollocare il nome di Gripka fra i talentipiù interessanti di questo 2009,nell’attesa che le sue pene d’amore, lesue confessioni accorate acquistino unsuono più personale.Nel frattempo abbiamo da goderci undisco per nulla raffazzonato nella suaproduzione indipendente (JimiZhivago, anche puntuale chitarrad’appoggio), semmai perfetto neldisegnare morbide curve, mid tempoche mettono insieme un suono elettro-acustico pieno e coinvolgente in cui unorgano, un banjo, una pedal steel (RichHinman), una seconda voce femminile(Fiona McBain) di tanto in tantocompletano un quadro che si mantienesui colori tenui, seppiati di un rockcantautorale da strade blu, sempre loroall’orizzonte: in Evening si sobbalza sullecadenze della più recente tradizione(quella che è ormai diventata)alternative country; Let It Go è dolce estraziante al tempo stesso comepoteva esserlo il Ryan Adams degliesordi di Heartbreaker, un ombra chesi allunga minacciosa su Pray For Rain,armonica e baldanza pop che rimanda aFirecracker e New York (stavano suGold, guarda caso). Tra una suggestionee un richiamo, Israel Nash Gripka siritaglia il suo angolo: ha una voceimprecisa, persino eccessiva nel suotrasporto emotivo (You Were Right), masputa personalità e coraggio. Tantobasta per farsi trascinare nei vorticistruggenti di Bricks, nei chiaroscuri diConfess, scivolando nelle maglie diballate soulful (Either Way), magari unpo’ furbesche eppure narrate senzafiltri. Strada facendo si ha la nettaimpressione che Gripka trovi la giustafrequenza d’onda, la possibilità dimostrarsi come l’ultimo dei rinnegatitroubadour sbucato dal Midwest (la sua

biografia è generica e un pocomisteriosa come si conviene ad unragazzo in cerca di un briciolo dipubblicità): Let Me Down ha la scarpesporche della terra d’origine, Americaprofonda, Don’t Run e Pink Long-StemRose sfoggiano la steel e il cuore di unmoderno country singer diviso fracampagna e città, prima che Beautiful(solo voce e piano) abbandoni quellabanchina lungo il fiume, lasciando che imuri di New York Town si dissolvano inlontananza(Fabio Cerbone)

Michael UbaldiniPortable Record Player

Un vecchio mangiadischi portatile offrein dono diciasette nuove canzoni del“rock’n’roll poet”, come ama definirsiegli stesso, Micheal Ubaldini, rockercaliforniano dal cuore romantico e dallapenna sensibile ai bassifondi, così comea tutta quella mitologia americana dastrada. Portable Record Player è difatto il primo disco di materialecompletamente inedito dai tempi deltrepidante Avenue of Ten Cent Hearts,tra le migliori rimpatriate “blue collar”delle recenti stagioni, un tuffo dinostalgia tra “streets of fire” etonnellate di languori elettrici. Ilrapporto di causa ed effetto fra i duelavori si fa sentire, dopo unastiracchiata pausa folk in cui Ubaldiniaveva preferito dare sfogo al suo voltopiù asciutto e purista di narratore allaWoodie Guthrie (si vedano il manifestoStreet Singin’ Troubadour e il seguenteStorybook).Portable Record Player torna dunque ascorrazzare sulle highway, a sporcarsi lemani con un rock urbano che sa esseresognatore e vendicativo, mettendoinsieme una lunga tradizione distoryteller dall’animo operaio, fra imuscoli di Joe Grushecky (sentitevil’acciaio di Scandal e le scintille di I GotMoney on Ya) e il lirismo di Willie Nile

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(Not a Heart Left to Steal avrebbe fattola sua figura nella “casa delle millechitarre”), eroi “minori” quantoindispensabili di un vivere rockassolutamente integro e sincero. Faparte in qualche modo di questaprogenie – la stessa di John Eddie, DocLawrence o Martin Zellar per rimanerenell’oscurità – non è un calibro danovanta Michael Ubaldini, ma cononestà e competenza mette insiemeuna festa di rimandi, un immaginariovero e proprio che reclama soltanto unpiccolo spazio dentro una grandeavventura.In Portable Record Player sono riunititutti i suoi amori giovanili,naturalmente una buona dose di inchiniai personali santi protettori – nel casospecifico John Fogerty e BruceSpringsteen (Sweet Debbie Jean arrivada quel calderone) – ma anche unagenerostà non comune, una passioneviscerale che lo porta a rispolverareDion e i Beach Boys, magari passandoattraverso i Del Lords, gli stessi chesembrano averlo preceduto nella stessaoperazione (The Final Curtain, Faces AllOver Town, Shouldn’t a Hurt So Badtuonano felici il loro verbo rock’n’roll)qualche intuizione melodicaaccattivante (Chimes of Love e SlowlySlipping Away commuovono nel loroarruffato sentimentalismo), dentro unagirandola di chitarre che si accavallanoa violini, trombe e sax, persino unflauto, senza tralasciare l’essenzaAmericana di una pedal steel (la

rutilante ballata country Beautiful andBleary Eyed) e soprattutto di ungrondante organo (Jerry Adamowitz,oltre allo stesso Ubaldini) che riempiegli spazi lasciati liberi da questaspicciola poesia dell’uomo della strada.A qualcuno ovviamente apparirà ilsolito piatto riscaldato: chi invececonserva ancora un cuore semplicepenserà che Michael Ubaldini siasoltanto l’ultimo dei santi arrivato incittà. Per uno così la porta sarà sempreaperta.(Fabio Cerbone)

Chuck ProphetLet Freedom Ring

Lo avete aspettato tanto ed eccolofinalmente: ¡Let Freedom Ring! è ildisco che un po’ tutti chiedevano datempo a Chuck Prophet, diremmoquasi l’atteso seguito dell’ottimoHomemade Blood del 1996. È tornato

a casa dunque l’ex Green On Red,dopo un lungo viaggio in unasperimentazione e modernizzazionedella sua musica che ha prodotto dischidifficili e controversi. E lo ha fatto nelmigliore dei modi: si è scelto unproduttore di sicura esperienza nelmondo roots (Greg Leisz), musicistifidati (gli Springsteen-fans noteranno lapresenza di Ernst “Boom” Carter, allabatteria, uno che ha come prima rigadel lungo curriculum “è stato ilbatterista di Born To Run”), si è fattoun bel giro a Città del Messico e se neè uscito col disco giusto. Rock divecchio stampo, con il santino di KeithRichards di nuovo sul comodino come ivecchi tempi, e nel frattempo il grandevantaggio di aver imparato anche acantare, tanto che per la prima volta inun suo disco capita chel’interpretazione possa essere miglioredella canzone (Hot Talk).Ma gli album precedenti non sonopassati invano, Prophet è ormai artistamaturo e vanta anche un songwritingper nulla banale, e già il precedenteSoap & Water aveva evidenziato quantol’artista fosse migliore dell’opera d’arte.E la sensazione è che quanto presentein questo suo nono sforzo solista nonsia ancora il suo zenith. Quello che ècerto è che Prophet aveva bisogno diun disco secco e diretto come questo,con brani come Sonny Liston’s Blues,Where The Hell Is Henry o la stessa LetFreedom Ring che tornano a rinverdireuna tradizione di rauco rock stradaiolo

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Moe ProvencherBlues Filter Through

“Time won’t crawl back on his knees to yourdoor, he just rolls up his sleeves”. In questi due

versi di Kick & Spit, lunga narrazione di radici familiari, oscuri delittie mali insanabili che si srotola piano, in punta di piedi, per 7 minuti,accompagnata da pochi strumenti che sembrano fare a gara anascondersi il più possibile, a non invadere le emozioni del racconto,possiamo individuare il vero baricentro tematico di questo disco. E ilsuo paradigma stilistico. Lo sguardo di Moe Provencher indugia conmalinconia sul mondo là fuori, cantandolo con parole di nudasincerità. Per questo motivo il suo ascolto richiederà un’attenzioneconcentrata, un abbandono fiducioso il cui premio sono una dozzinadi brani che promettono di restarci nel cuore per parecchio tempoRegistrato in presa diretta in soli due giorni (“alcune canzoni hannorichiesto un po’ di esecuzioni, altre soltanto un paio, alcune è bastatosuonarle una volta”, scrive Moe nel libretto), con l’accompagnamentodell’amica Aimee Zoe Tubbs (multistrumentista con cui laProvencher forma un duo di busker che gira da anni gli States) e diun pugno di musicisti prevalentemente di Seattle (da segnalare inparticolare la presenza di Bob Rice, icona cittadina del folk-blues,alla chitarra), composto da brani tutti autografi, questo è un disco

caldo, da tardo pomeriggio, che vi culla regalandovi l’illusione ditrovarvi nella stessa stanza insieme ai musicisti. Il tono prevalente èmalinconico, introspettivo, ma di quella malinconia positiva che nonvi fa sentire soli. È questo il blues a cui fa riferimento il titolo, nontanto una coordinata stilistica. La filigrana delle canzoni è costituitapiuttosto da un folk intimista, in cui gli strumenti acustici fannospazio a qualche scossa elettrica e a qualche fiato, movimentandosinegli episodi più solari e aperti alle danze (in netta minoranza, magraditi) con un piglio bluegrass: Goodbye Goodbye e la divertente HelloKentucky, il cui testo cita celebri marche di whisky. L’iniziale I Got theBlues è un anti-war song avvolgente e ispirata, Cho Chop unafilastrocca che potrebbe anche funzionare in qualche playlistradiofonica, 500 Years un lamento sullo sterminio della culturapellerossa che non dovrebbe lasciarvi indifferenti.Persino il packaging, curato di persona dalla Provencher su cartariciclata, è un atto di amore verso la propria musica, verso il propriomondo caparbiamente sincero. Lasciate che il cuore di mandorle ecioccolato che nascondete dietro la vostra maschera di cinismo sisciolga al calore di queste note e di questa voce (che a noi ricorda, piùche Nancy Griffith, come è stato scritto da qualcuno, il timbro e ilfraseggio di Norah Jones). Moe e Zoe saranno quest’estate in tour nelNord Europa, in bicicletta. Da appassionato cicloturista non possoche sperare di incontrarle in qualche stradina di campagna einnamorarmene (sperando che la mia compagna – di pedalate e di vita– non legga queste righe).(Yuri Susanna)

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alla quale siamo ovviamente legati conil sangue. Aveva anche bisogno diritrovare una scrittura semplice maincisiva come quella delle bellissimeballate qui presenti (What Can A MotherDo, Barely Exist o Love Won’t Keep UsApart), che quasi riportano allamemoria i momenti miglioridell’indimenticato Balinese Dancer, oriaffilare la propria ferocia critica inAmerican Man, un brano che potrebbeappartenere allo Ian Hunter degli ultimitempi.

Oppure semplicemente aveva necessitàdi giocare un po’ con gli stili e non piùsolo con le batterie elettroniche,sparando una Good Time Crowd che usariff e cori da rockabilly anni 50, maappare paradossalmente come unodegli episodi più moderni. Presentandoil disco sul suo sito, Prophet hascherzosamente scritto che questo è ildisco di “Chuck Prophet 3.0.”, usandouna numerazione tipica delle versionidei software, ad intendere che da qui inpoi si apre la sua terza era artistica.

Noi siamo felici che certi bachi delpassato siano stati corretti, ora ilprogramma gira a meraviglia infatti, maper la versione 3.1. avremmo alcunerichieste di nuove funzionalità che loportino a realizzare un disco che nefaccia finalmente riconoscere lo statusdi artista di primissimo livello anche aldi fuori della cerchia di nostalgici delroots-rock. Manca davvero poco infondo.(Nicola Gervasini)

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Lo chiamavano Rod “The Mod”, cioèRod “il sofisticato”, nomignoloovviamente piuttosto snob se usatocon un ragazzetto di Highgate,sobborgo operaio della Londra delnord, che ha sempre preferito i campida calcio agli studi, il rhytm’n’bluesalle letture dotte, le hot legs di unabella bionda alle riflessioni filosofiche.Eppure a Roderick David Stewart,d’ora in poi Rod, il nick è rimastoappiccicato addosso, e anche oggi chesi è trasformato in un griffatissimointerprete di classici da salotto – ilgenere di entertainer più adatto aicasinò di Las Vegas che ai club piccolie scalcinati – c’è sempre qualcuno chese deve parlarne non esita arispolverare il vecchio soprannome.Rod Stewart ha costantementesubito questo atteggiamento disufficienza, come se i critici avesserovoluto giudicare non tanto la qualitàintrinseca dei suo lavori quanto imodi più o meno buzzurri, il lifestylepacchiano e sopra le righe di chi lirealizzava. Talvolta hanno avutoragione loro, i critici, poiché da uncerto punto, diciamo dalla prima metàdegli anni ’80, la carriera del biondorocker è diventata un guazzabuglio distereotipi, cafonate, piattume ebeceraggini assortite che gli hannogarantito una fama capace di riempiregli stadi contemporaneamenteassicurandogli la perenne disistima dichi lo seguiva da vent’anni (con puntedi risentimento incurabile pressoscribacchini altrimenti assaicompassati). E sebbene qualchezampata continui di tanto in tanto adarrivare, l’ultima fase della carriera delnostro rappresenta la logicaconclusione di un processo

incontrovertibile, cominciato quandoRod, e non solo lui, s’è reso contoche sculettare sotto una base discoera diventato molto più redditizio cheinterpretare Bob Dylan o Sam CookeNon va però dimenticato che quel cheRod ha licenziato tra il 1968 e il 1977se non è tutto oro poco ci manca.Benediciamo perciò l’intramontabileremuneratività del cantante, che haspinto la Warner ha realizzare unaserie di ristampe inauguratadall’edizione cd+dvd del non troppostagionato Unplugged... And Seated(1993), disco all’epoca onusto di lodi(per una volta tutte meritate), e chedovrebbe culminare nellapubblicazione di un intero box diinediti, The Rod Stewart Sessions1971-1998, atteso per il prossimoautunno. Atlantic Crossing risaleinvece al 1975 e sin dal titolo edall’illustrazione di copertina rendeconto della trasferta americana diRod, in parte favorita dall’intenzione disfuggire alle grinfie del fisco britannico,in parte dettata dalla voglia di lavorarenella terra d’origine di quasi tutti isuoi miti musicali. È il disco di Sailing,la canzone che diventerà una sorta diinno nazionale in Scozia e GranBretagna, ed è il primo lavororealizzato senza far ricorso ai musicistiche avevano accompagnato Rod daitempi dei Faces (1969-1973) e in quasitutti i progetti solisti realizzati per laMercury nella prima metà deldecennio. È anche il disco a partire dalquale incomincia ad abbattersisull’artista un livore criticodifficilmente comprensibile, oggi comeallora. Colpa del successo di pubblico?Colpa di sonorità nel complesso piùammorbidite del solito e tuttavia non

certo accusabili di chissà qualecedimento commerciale? Colpa degliinnumerevoli pettegolezzi checircondano la vita privata dell’artista ele sue relazioni col gentil sesso? Forseun po’ tutte queste cose insieme, oforse quel tanto di miopia chesubentra quando un musicista colquale si ritiene di intrattenere unrapporto privilegiato, ed esclusivo, siritrova di colpo sulla bocca di tutti. MaAtlantic Crossing resta un buon disco,superbamente prodotto da TomDowd (all’epoca già supervisore ditutti i migliori performers rock e jazzsulla piazza, da John Coltrane aiCoasters, da Charlie Mingus agliAllmans, da Aretha Franklin ai Cream)e illuminato da un parterre di musicistidove non si sa se preferire il gustosoul degli MG’s praticamente alcompleto (manca ovviamente BookerT) o i fiati lussuriosi dei MemphisHorns, le chitarre di Fred Tackett(Little Feat) e Jesse Ed Davis o lamandola e il violino di David Lindley(senza poi dimenticare gli interventidei due luminari Roger Hawkins eBarry Beckett, vere e proprie colonneportanti dei leggendari Muscle ShoalsStudios dell’Alabama, al drumming ealle tastiere). Comprende una “fasthalf” di brani rock che non avrebberosfigurato nel carnet degli Stones diqualche anno prima (Three Times Loserè il classico rockaccio alla Faces chepuzza di notti solitarie e birra daquattro soldi, Alright For An Hourpossiede un feeling quasi reggae, All InThe Name Of Rock’N’Roll ha un titoloche è tutto un programma e StoneCold Sober sprizza riff fulminanti allamaniera di Keith Richards, mentreDrift Away rilegge in tono aggressivo il

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Rod StewartAtlantic CrossingA Night on the Town

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classico di Dobie Gray del 1973) e una“slow half” di ballate e carezze soulche riuscirebbero ancora a spezzare indue il cuore di una roccia (oltre allacitata Sailing, una Still Love You scrittacon sorprendente misura folk-rockdallo stesso Rod, gli Isley Brothers diThis Old Heart Of Mine, il Gerry Goffindi It’s Not The Spotlight e la sublime,sconfortata poesia di I Don’t Want ToTalk About It, un gioiello di brano che ilsuo autore, Danny Whitten dei CrazyHorse, non avrebbe purtroppo vistoschizzare al numero 1 dellecharts americane e inglesi).Il piatto forte della ristampa,com’è ovvio, è costituito dalsecondo cd, che dell’albumoriginario presenta unaversione alternativa e forsepersino migliore, dove la vocedi Rod è meno compressa nelmissaggio dei vari strumenti (equindi ha maggiore risalto),l’esecuzione dei brani(compresa una primigeniaStone Cold Sober ches’intitola Too Much Noise)suona più scarna, essenziale edefficace, dove gli MG’spartecipano a una This OldHeart Of Mine più soffice evellutata che mai. Acompletare l’offerta si trovanotre inediti – To Love Somebody(Bee Gees), Holy Cow (AllenToussaint), Return To Sender(Elvis Presley) – registrati condegli MG’s grintosi quantonelle più gloriose produzioniStax, i drum pipes della soaveSkye Boat Song (retro delprimo singolo estrattodall’album) e, in veste ditraccia nascosta, il promoradiofonico dell’epoca.Se gli uffici marketing dell’epocaritengono di dover promuovere Rodpuntando sulla sua immagine di rockerglam e sensuale, di viveurinstancabilmente dedito allegozzoviglie e ai piaceri dell’alcova, c’èanche da dire che il nostro non fanulla per svincolarsi dai cascami delruolo. Di più, gli piace talmente tantogiocare con la propria reputazione digaudente naif che per la cover delsuccessivo A Night On The Town,destinato a ripetere e a sorpassare,negli Usa, i fasti commerciali delpredecessore, decide addirittura difarsi ritrarre – un gesto, avrebbe dettoBernardino Zapponi, santificato “daldono divino dell’inutilità”, e pertanto

geniale o imperdonabile a seconda deipunti di vista – all’interno di unariproduzione di un quadro di PierreAuguste Renoir (“Le Bal Du MoulinDe La Galette”, che si trova al MuseoD’Orsay di Parigi), nientemeno. Inoltre,siccome squadra che vince non sicambia, ecco riconfermato quasi tuttoil personale di Atlantic Crossing, solocon i fiati dei Tower Of Power asostituire quelli dei Memphis Horns.Ci sono di nuovo un lato di canzoni“veloci” e un lato di “lenti”, però

invertiti, all’inizio i secondi (unasciccosissima parata di diminuite folkiedove spiccano il Cat Stevens di TheFirst Cut Is The Deepest, la lunga TheKilling Of Georgie Part I & II e lastruggente Tonight’s The Night) e poi iprimi (tra essi, il rock&roll nostalgicodi Pretty Flamingo, l’errebì di BobbyWomack in Big Bayou, l’honky-tonkrockeggiante di Hank Thompson inThe Wild Side Of Life e l’inversione dimarcia della conclusiva Trade Winds,una ballata bluesy appresa dallascozzese Maggie Bell), entrambi per lopiù registrati in quel di Los Angeles.Sul secondo cd, il solito promovintage, la ruggente, beatlesiana GetBack, due begli inediti di Stewart (Rosiee Share) e la versione alternativa del

disco, stavolta meno persuasivarispetto a quella di Atlantic Crossing.Poco male, perché A Night On TheTown rimane un album di ottimaqualità, dotato di uno splendidoequilibrio tra le classiche strutturesoul del maestro Sam Cooke e certanon svenevole eleganza pop così tipicadel periodo in cui ha visto la luce; unalbum dotato di quella che era, e neicasi più fortunati resta, la qualitàmigliore di Rod, ovverosia la capacitàdi cantare storie d’amore con lo

stesso, innocente trasporto diuno Smokey Robinson o di unJames Carr, unendo al tempostesso romanticismoesasperato (talvolta persinosmanceroso) e passioneruvida da rock’n’roller dellaclasse operaia, Fats Domino eChuck Berry, stralci diautobiografia dolente e poseda consumato interprete.Un brano come The Killing OfGeorgie Part I & II merita dientrare a pieno titolo tra legrandi composizioni rockdegli anni ’70: talkin’-blues efolk urbano stilizzato daqualche parte tra JohnLennon e Lou Reed (con unaccenno del Bob Dylan diSimple Twist Of Fate) perraccontare la storia diGeorgie, un amico gaydell’artista che vieneammazzato da una “NewJersey gang”, col pezzo che sitrasforma da ballata semi-acustica in gospel laico e leparole autografe di Rod che,nel descrivere un omicidio,trovano una delicatezza, un

acume e una densità narrativa(“Another kid, a switchblade knife /He did not intend to take his life / Hejust pushed his luck a little too farthat night”) che ancora oggi nessunoo quasi si sognerebbe di attribuire acolui che ha sempre amato dipingersicome un fortunato perdigiorno delrock’n’roll. Erano gli anni ’70, delresto, e certe volte si fa fatica a nonrimpiangerli. Perché vi accadevaveramente di tutto: persino che unqualsiasi buzzurro londinese scalassele classifiche di mezzo mondo, certo,ma anche che in quelle classifiche cifinisse con una canzone di setteminuti dedicata all’ammazzamento diun omosessuale newyorchese. Cosed’altri tempi, per l’appunto.(Gianfranco Callieri)

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Made in ItalyMade in Italyccccoooosssseeee ddddiiii ccccaaaassssaaaa nnnnoooossssttttrrrraaaa

Cheap WineSpirits

Osservati più volte dal vivo inquesti ultimi anni i CheapWine avevano aggiunto una

forte impronta folkie ad una cospicua parte delle loroesibizioni, un cuore acustico che sembrava condurli versonuove direzioni. Spirits è la conferma di questatrasformazione, pur rispettando tutte le qualità e lesuggestioni della loro musica: per capirci, i quattro pesaresirestano un inguaribile macchina rock nell’animo, soltantocon lo sguardo rivolto oggi alle ombre, alle radici del lorosuono, ad una scarnificazione blues e folk (possiamodefinirla roots?) delle loro composizioni, con un occhio diriguardo agli arrangiamenti, alle sfumature, alla musicalitàdei testi che in passato era meno evidente (ma forsecovava sempre sotto le ceneri). Esce dunque allo scopertoil disco più singolare, coraggioso, azzardiamo pure “adulto”della loro produzione, quest’ultima divenuta ormai centraleper un’intera scena,quella di unarock’n’roll music dimatrice americanache in Italia continuabellamente ad essereignorata per partitopreso. Spirits mostrale velleità di unconcept, seguendo untema portante di ognilavoro discografico deiCheap Wine,rivolgendosi a questogiro vero leinquietudini, l’oscurità,i tormenti delleanime… anime perse,ribelli, sognatori ecombattenti,prendendo spunto siada un immaginario fantastico ed allegorico (e MarcoDiamantini continua di disco in disco a crescere comeautore, ora come non mai impossibile da sottovalutare) siada episodi e personaggi storicamente presenti nellamemoria. Accade infatti che A Pig on a Lead siadirettamente ispirata dalla figura del partigiano SilvioCorbelli, le cui vicende sono narrate anche dallo scrittorePino Cacucci in “Ribelli”, così come La Buveuse illumina unoscorcio della pittura di Toulouse Lautrec e della sua musa emodella Suzanne Valadon, immortalando i bassifondi di unasocietà francese (ma il tema ha valore universale) cherespinge ai margini i reietti e i miserabili. Per sviluppare il

racconto, tra ansie ma anche tra desideri diriappacificazione con se stessi (nel finale con Lay Down eThe Sea is Down), i Cheap Wine si sono messi in gioco ed èqui che si celebra il trionfo di questo piccolo grande disco.Spirits si muove infatti su un terreno comune e nellostesso tempo su schemi inediti, facendo tesoro dellescoperte del gruppo, come se i Cheap Wine avesseroimparato, dopo le lunge jam e il cavalcare elettrico delpassato, che lo scheletro della canzone resta sempreidentico. Allora è naturale che scelgano di consacrarequesta svolta attraverso le interpretazioni di Man in theLong Black Coat di Bob Dylan e Pancho and Lefty di TownesVan Zandt: non solo per il valore in sé delle canzoni e peril loro sposarsi alla perfezione con il clima del disco (ilbrano di Dylan potrebbe rappresentarne il manifesto), maanche per il mantello sonoro che la band decide di posaresu tali interpretazioni. Spirits colpisce soprattutto nei suoisussurri: negli orizzonti western della strepitosa A Pig on aLead; nel velluto blues tenebroso de La Buveuse; in unaCircus of Fools (in assoluto una delle più belle ballate delloro repertorio) che assume toni persino pop, tra il piano el’organo del collaboratore Alessandro Castriota e unaestatica atmosfera corale; o ancora negli accenti cantilenati

di Lay Down, nellamalinconia di DriedLeaves, tutte ballateche non solo esaltanole parole e il canto diMarco Diamantini, maci parlano di una bandpiù concentrata sulsongwriting. Certo,tempi e spazi peralimentare il solismodi MicheleDiamantini e ingenerale l’animo rockrissoso e veementedei Cheap Winesussistono ancora:nell’infernale boogieblues di Leave Me aDrain ad esempio onella cruda slide

guitar, manco fossimo in un voodoo alla John Campbell, chesi trascina dietro The Sea is Down. Persino l’apertura, forsenon esattamente indovinata nella sequenza della scaletta, diJust Like Animal, si colora di un blues notturno e sensuale sucui far vibrare le corde acustiche di Michele Diamantini(che si inventa anche una Alice strumentale dai profumisouthern country). Nell’ambientazione di Spirits sono forsebrani meno affascinanti ma che reggono nell’amalgamagenerale, spezzano o accrescono a seconda dei casi latensione e contribuiscono a rendere l’album una ulterioreconquista nel luminoso cammino di questa band.

(Fabio Cerbone)

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Picture ShowsPicture Showslllleeee iiiimmmmmmmmaaaaggggiiiinnnniiii ddddeeeellll rrrroooocccckkkk’’’’nnnn’’’’ rrrroooollll llll

Drive-By TruckersLive in Austin, Tx.

La soddisfazione, e diciamo purel’orgoglio, di Patterson Hoodnel trovarsi sul palco dell’AustinCity Limits sono direttamenteesplicitate durante la primaesibizione dei Drive-ByTruckers al popolare live showamericano: è una sorta di piccolaconsacrazione per chi, cresciutonell’alveo di una lunghissimatradizione, ha finalmente preso ilposto che gli spetta all’interno diquest’ultima. I DBT sono unarock’n’roll band che ha saputo magistralmente sintetizzare lediverse anime del Sud, le sue regole immutabili eppuremultiformi, diventando a tutti gli effetti un cantiere aperto incui il songwriting ha preso sempre più il sopravvento. Livefrom Austin, Tx, in una generosa doppia confezione checomprende l’intera esibizione nei due formati DVD e Cd,riesce a simboleggiare questa maturazione costante: di frontec’è una rock’n’roll band dall’identità complessa, formata dasingoli autori che sembrano infine annullarsi in una voce unica.I Drive-By Truckers non sono più semplicemente un’altraformazione alt-country dall’immenso nulla americano, hannotrovato il grimaldello per scardinare alcune certezze enonostante qualche incidente di percorso (l’abbandono diJason Isbell, gli sfoghi solisti a cui di tanto in tanto, ecomprensibilmente, deve ricorrere il prolifoco PattersonHood) sono davvero un raro esempio di alchimia fracondizioni spesso distanti.La scaletta e l’attitudine svelata in questo show del settembre2008, quindi molto recente, fotografa un gruppo capace diadattarsi a tali cambi di umore: non sono incendiari,travolgenti (e turbolenti) come lo furono nel precedente Livefrom 40 watt, e come d’altronde lo sono sempre stati standoalle cronache dai loro incessanti tour. Live from Austin offreuna prospettiva (e una selezione di canzoni) che ha il saporeun po’ inedito e curioso già racchiuso nei recenti dischi distudio, sempre più riflessivi, profondi, anche correndo ilrischio di accartocciarsi su se stessi. Patteron Hood e MikeColley prefersicono allora prendere il timone sfoderandochitarre acustiche e nuance decisamente folk, entrando inpunta di piedi con Perfect Timing e Heathens, branievidentemente inquieti nel racconto, trasfigurati in ballatemalinconiche e pacifiche. C’è anche la preziosa presenza diJohn Neff (impeccabile alla pedal steel e indispensabile terzachitarra) a illuminare questo volto più ombroso dei Drive-ByTruckers, i quali sembrano dover prendere confidenza con ilpalco e il mezzo televisivo. Questa volta più che mai laversione filmata del concerto – cosa un poco rara in moltealtre occasioni qui recensite – pare infatti regalare

soddisfazioni inedite, oltre cheuna visuale precisa di questocambiamento in atto nella band.Soltanto a metà dellaperformance, nel rombare“stonesiano” di 3 Dimes Down enella cruda sequenza di Puttin’People On The Moon i nostriprotagonisti cominciano aimbastire una “sceneggiata” rockpiù intensa: si tratta di quellacombinazione fra southernfeeling e sporcizia punk che li hafatti amare al pubblicodell’alternative country sin dalprimo momento.Eppure i tempi sono veramentemutati: arriva una dimessa Space

City a ricordarci che i Drive-By Truckers sono adessoun’esperienza nuova e persino un’incognita sul futuro. Poi,come a volersi scusare con gli ascoltatori più fedeli, sollevanola polvere sul passato di Zip City (da Southern Rock Opera) erecuperano persino l’antico omaggio The Living Bubba, scrittaper un amico musicista scomparso, o la lunga sconclusionatasaga di 18 Wheels Of Love, opportunità per Patterson Hood ditrasformarsi in un imbonitore e storyteller di razza, in gradodi rendere una canzone musicalmente niente affattoeccezionale in una novella travolgente. Soltanto il finalerappresenta dunque una liberazione rock e una concessioneal volto più “mitologico” della band: nella declamazione fieradi Let There Be Rock, chitarre al vento e dritti dentro laleggenda del Deep South ma con meno irruenza del previsto,chiudendo con la sarabanda di Marry Me e il plauso per avereabbozzato un live meno prevedibile di quanto ci si potesseaspettare. Niente celebrazioni o carrellate di successi, semmaiuno scatto composito e misterioso dei Drive-By Truckers.(Fabio Cerbone)

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Sesso, soldi, potere (ovvero violenza): gliingredienti classici del noir, già rivisti con grandeclasse con L’inverno di Frankie Machine incrocianonel nuovo, torrenziale romanzo di Don Winslow,una storia parallela e in gran parte ancora oscuradell’America tutta, dagli Stati Uniti alla Colombiapassando per il Messico. Per quanto i personaggicoinvolti e travolti dal “potere del cane” sianodozzine, il protagonista è uno solo, Art Keller,agente della DEA che per vendicare un collegatorturato e massacrato dai narcotrafficantimessicani, sacrifica famiglia, carriera, tutta la vitaperché “sono poche le cose che prendiamo sulserio da queste parti, ma la vendetta è una diquelle”. Nei trent’anni di guerra personale sitroverà ad incrociare le guerre della CIA, dell’FBI,dei guerriglieri delle FARC e dietro ogni sigla untraffico (di droga, di armi, di soldi), un massacro, tralotte intestine, doppi e tripli giochi e appetitiinsaziabili. Inevitabile che ci sia “un mucchio difantasmi a questa festa”, ma Don Winslow firmaun capolavoro che viaggia a tutto rock’n’roll, nonsolo per il ritmo sincopato della sua scrittura (chea tratti ricorda il miglior James Ellroy) ma anche esoprattutto perché cita in modo esplicito ShaneMcGowan, Townes Van Zandt, Tom Waits, JohnColtrane, Kris Kristofferson e per vie più implicite(ma chiarissime a chi ha un po’ di dimestichezzacon l’argomento) The Road To Ensenada (LyleLovett) e Sinaloa Cowboys e Balboa Park (BruceSpringsteen).(Marco Denti)

È un’eredità pesante quella che lascia Sunny JimWhitelaw: il caro defunto nel suo testamento hainserito postille (in realtà una sola, piuttostobrutale) che scatenano le ire, le ambiguità, levoglie e tutto un passato che ritorna in quel nidodi vipere che sono i suoi parenti prossimi.Quando poi sulla scena arriva uno dei curatoridegli interessi dello scomparso, C.R. Munjab(“Aiuto le aziende a espandersi, oppure le aiuto arimpicciolirsi. Ma il mio pezzo forte è farlesparire”) il sarcasmo della commedia prende letinte di un noir e l’eredità (tutta in blocco, nonsoltanto in termini economici) sarà infine lanemesi di gran parte della disperata combriccola.Thomas McGuane è abilissimonell’assecondare i diversi toni, nel distillare uncolpo di scena dopo l’altro e nel manteneresempre alte le fibrillazioni del ritmo, giocandoanche con le quinte di un paesaggio che a tratti èampio e sconfinato o altrimenti ha i contorniristretti e asfissianti delle pareti domestiche. Unosguardo “dentro e fuori” come direbbe un altroranchero prestato alla letteratura (e al cinema:Sam Shepard) per testimoniare il falò delle vanità(e non solo quelle) di un’intera nazione cheThomas McGuane fa sintetizzare così ad uno deiprotagonisti: “Sofisticazione? La sofisticazione è ilnostro futuro. In America non abbiamonient’altro: sofisticazione”. Tra i libri più belli diquest’anno.(Marco Denti)

BookshighwayBookshighwayiiii llll iiiibbbbrrrr iiii ddddeeeellll ttttrrrr iiiimmmmeeeesssstttt rrrreeee

a cura di Marco Denti

Don WislowIl potere del cane

Thomas McGuaneIl canto dell’erba

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Americana Basic TracksAmericana Basic Tracksttttrrrraaaacccccccceeee bbbbaaaasssseeee dddd’’’’AAAAmmmmeeeerrrr iiiiccccaaaa

La leggenda narra che William Borsey, un giovane scapigliato delConnecticut, un giorno abbia deciso di fare un viaggio a SanFrancisco con l’intento di trovare musicisti che “avessero uncuore e non solo un ego da soddisfare con assoli di ventiminuti”. Quando se ne tornò a New York, sul suo pulminoc’erano il bassista Rubén Sigüenza, e il batterista Tom “Manfred”Allen, rimasugli di una band conosciuta nella West Coast comeBilly DeSade & the Marquees, e divenuti nella Big Apple (conl’aggiunta del chitarrista Louis X. Erlanger e del pianista BobbyLeonards) i Mink DeVille. E veniamo così a Willy DeVille, ilfu Borsey che decise di entrare nei panni di un personaggio conquel nome preso in prestito da un modello della Cadillac, e neinterpretò la parte in tutto per tutto, non riuscendo più aduscirne fino ai suoi ultimi giorni. Veniamo dunque ai mitologicigiorni in cui i Mink DeVille divennero l’house band del clubCBGB (dal 1975 al 1977), più che un semplice locale, una veraculla delle civiltà di tutto il rock newyorkese della secondametà degli anni settanta (quella dei Ramones, dei Television, deiBlondie, …). Veniamo dunque a Cabretta (o solo Mink Devillenell’edizione USA), uno dei migliori dischi d’esordio della storiadel rock secondo molti critici, sicuramente il più inclonabilediciamo noi oggi con il senno di poi. Veniamo ad un disco doveDeVille e i suoi ragazzi, per dirla con una definizione che gliattribuì l’amico Doc Pomus, “riuscirono a condensare la veritàe il coraggio delle strade di città in una canzone d’amore delghetto”, o più semplicemente dove tutte le contraddizionietniche e sociali di New York vennero riassunte alla perfezionein dieci micidiali stilettate di rock. Quale Rock? Già, veniamoallora al rock di Deville, quello che mischiava il blues di MuddyWaters, il soul dei Drifters o il nuovo punk-rock post-NewYork Dolls che girava così spesso negli amplificatori del CBGB.Ma anche il rock imbastardito da strani ritmi latini che citavaTito Puente e il jazzista portoricano Ray Barretto. I detrattoriannotarono che erano tutti elementi stilistici per nullarivoluzionari, non certo futuristici come i nuovi suoni dellaNew Wave o dirompenti come il punk inglese. Forsesemplicemente non riconobbero la novità di un poemamoderno come Spanish Stroll, brano portante che esibiva unastruttura lirica molto vicina a Walk On The Wild Side per quellainsolita galleria di losers della New York ispanica (Mr Jim,Brother Johny, Sister Sue, Rosita), tutti personaggi cheavrebbero meritato la stessa mitizzazione dei vari Holly, Candye Little Joe di Lou Reed. Ma della New York latina nel mondodel rock nessuno sembrava volersi occupare, quando inveceDeVille fu il primo che capì che i “pachucos”, vale a dire i

giovani delle gang ispaniche, sarebbero presto usciti dal loroghetto. L’anno dopo lo seguiranno il Tom Waits di Romeo’sBleeding e pochi altri, ma laddove Waits continuava asottolinearne l’aspetto criminoso, Deville ne cercherà il cuore ene dissotterrerà l’aspetto romantico. Per raccontare Cabrettapotrebbe bastare Spanish Stroll, ma allora quando maiarriveremo a ricordare il vero suono del rock da strada di OneWay Street, Gunslinger e soprattutto Cadillac Walk, doverosoomaggio alla macchina che diede il nome alla band scritto da ungiovane rockabilly newyorkese (Moon Martin). Oppurericordare che il cuore che Willy cercò a San Francisco sanguinòper le avenues della grande mela attraverso le note di PartyGirls, del doo-wop di Can’t Do Without It o in quelle due perfettenew york stories che sono Venus Of Avenue D, storia di unapassione sessuale racchiusa in un isolato, e Mixed Up Shook UpGirl, dove l’ideale femminile della prima finisce drogato eirrimediabilmente perso. In Cabretta Deville esprimeva troppeanime, e il pubblico finì per non saper bene come catalogarlo, ela cosa veramente incredibile è che non erano nemmeno tutte.Ci volle Return To Magenta, il secondo album uscito nel 1978,per completare il quadro devilliano con il sound di NewOrleans, la dimensione stilistica a lui più consona che sipresentò in studio di registrazione sottoforma del pianista DrJohn, ospite fisso delle sessions. Sarebbe stata la musica diquella città ad accoglierlo cessata l’avventura con i MinkDeVille, e sarebbe stata poi quella la città da cui Nina, la terzamoglie, dovrà farlo fuggire nel 2003 per cercare di salvarlo. Maintanto le acque fangose del Mississippi in quel secondo discoinvadevano le strade di New York attraverso le note di ‘A’TrainLady (brano firmato da David Forman), lo strano up-tempo diDesperate Days, il blues alla Bo Diddley di Steady Drivin’ Man e ifiati di Easy Slider. Persino i rudi inni d’asfalto di Soul Twist,Confidence To Kill e Rolene (ancora Moon Martin) parlavano lalingua della Big Easy, ma sempre con l’accento di Manhattan. Ilvero valore aggiunto rispetto al primo disco arriverà dallequelle romanze slow che diverranno il suo marchio di fabbricapiù tipico (Guardian Angel, I Broke That Promise e Just Your Friends),spesso impreziosite dagli archi sapientemente dosati dalproduttore Jack Nitzsche. Se la parola capolavoro indicaanche l’essere il capostipite di una serie di altri lavori ad essoispirati, Cabretta e Return To Magenta non sono capolavorisolo perché nessuno ha mai provato a replicarli, e rimangonoancora oggi unici e irripetibili come il loro autore.Goodbye Willie.(Nicola Gervasini)

Mink DeVilleCabrettaReturn to Magenta

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RootsHighway Mixed Bag

Trimestrale PDF del web magazine RootsHighway – www.rootshighway.it

Direzione e coordinamento: Fabio Cerbone - [email protected]

Collaboratori e testi di: Davide Albini, Gabriele Buvoli, Gianfranco Callieri, Fabio Cerbone, Gianni Del Savio,Marco Denti, Maurizio di Marino, Filippo Floridia, Edoardo Frassetto, Matteo Fratti, Gabriele Gatto,

Nicola Gervasini, Roberto Giuli, Stefano Hourria, Carlo Lancini, Giovanni Manzoni, Ruggero Marinello,Francesco Meucci, David Nieri,Yuri Susanna, Silvano Terranova, Gianni Zuretti

RootsHighway 2009