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Sommario Editoriale Luigi Costato I principi fondanti il diritto alimentare Interventi Paolo Borghi Food security, food safety and international trade Ferdinando Albisinni Nuove regole per l’impresa alimentare Commenti xxxxxxx La Corte di giustizia e il pane surgelato Documenti e casi Il D.M. Mipaaf 4 agosto 2006, Consorzi di tutela e controlli erga omnes per i VQPRD La sentenza xxx della Corte di giustizia Il pane surgelato Rivista di diritto alimentare anno 1, numero 0 – febbraio 2007

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Sommario Editoriale

Luigi Costato I principi fondanti il diritto alimentare

Interventi

Paolo Borghi Food security, food safety and international trade

Ferdinando Albisinni Nuove regole per l’impresa alimentare

Commenti xxxxxxx

La Corte di giustizia e il pane surgelato

Documenti e casi

Il D.M. Mipaaf 4 agosto 2006, Consorzi di tutela e controlli erga omnes per i VQPRD

La sentenza xxx della Corte di giustizia

Il pane surgelato

Rivista

di diritto alimentare anno 1, numero 0 – febbraio 2007

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editoriale I principi fondanti il diritto alimentare Luigi Costato 1. L’emergere di una legislazione deputata alla protezione del consumatore e la sua progressiva “universalizzazione”. Il diritto alimentare si configura come “un complesso di regole giuridiche di origine nazionale, comunitaria e internazionale informate alla finalità di proteggere il consumatore di alimenti. La protezione si manifesta, in via generale, vietando la messa in circolazione di alimenti i cui vizi sono direttamente dannosi per chiunque, anche se assunti in modiche quantità”i. Rispetto a questo primo approccio all’argomento costituito dal “diritto alimentare”, che consiste nell’individuazione del diritto che soprassiede alla produzione, allo scambio e al consumo dei prodotti destinati all’alimentazione umanaii, sembra opportuno compiere qualche passo ulteriore, al fine di arrivare ad individuare una migliore e più peculiare somma di requisiti dello stesso, che consentano una corretta individuazione della sua effettiva specificità. Non c’è alcun dubbio che il susseguirsi di norme – nazionali, comunitarie ma anche dettate da trattati internazionali collegati alla globalizzazione quali quelle contenute negli Accordi che accompagnano quello costitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio - abbia comportato un progressivo evidenziarsi della necessità di fare perno sulla tutela del consumatore a fronte della grande circolazione dei prodotti alimentari, che fa sì che cibi prodotti a migliaia di chilometri siano consumati da una massa di persone sparse per un ampio territorio quale può essere l’Europa, le Americhe, l’Asia ecc. E’, tuttavia, anche vero

che sia il diritto comunitario che le norme contenute nel trattato di Marrakech privilegiano fortemente la circolazione dei prodotti e propongono regole che si oppongono ad un uso “protezionistico” di norme sanitarie adottate formalmente con lo scopo di tutelare il consumatore, ma che potrebbero celare scopi più propriamente economici degli Stati. Basti considerare da un lato la giurisprudenza della Corte di giustiziaiii, dall’altro alcune decisioni degli organi per la soluzione delle controversie in sede WTOiv per rendersi conto del difficile equilibrio fra il diritto alla protezione della sicurezza alimentare da un latov, e interessi del commercio, alla libera circolazione delle merci sia all’interno della Comunità europea che del complesso dei Paesi facenti parte dell’Organizzazione mondiale del Commercio dall’altro. Gli interessi del commercio mondiale emergono oggi al punto da vincolarevi il sistema normativo alimentare non solo dei singoli Stati, ma anche della stessa Comunità, come risulta chiaramente, ad esempio, dalla formulazione data, in sede comunitaria, del principio di precauzione contenuto nell’art. 7 del reg. 178/2002vii; ma ciò che più ancora viene evidenziato da questa grande messe di regole, divieti, limiti ai divieti ecc. è la peculiarità degli interessi che coinvolgono il campo dell’alimentazione e della conseguente produzione di norme ad essa riferentisi. Questo fenomeno, reso ancor più evidente dalla globalizzazione dei commerci, si concretizza in un forte e sostanziale spostamento dell’effettivo potere di legiferare in materia a danno degli Stati e delle stesse entità regionali superstatali quali la Comunità europea, in relazione alle sue competenze in materia commerciale, a favore della WTO. Ne deriva il fatto che la legislazione alimentare che considera gli aspetti sanitari dei prodotti diviene sempre più di tipo universale, nel senso che essa interessa la complessiva circolazione mondiale dei cibi, sicché deve, tendenzialmente, assicurare gli standard di sicurezza che vengono richiesti a quel livello, anche rifacendosi a regole di soft law spesso richiamate sia dalle norme della WTO che da quelle comunitarieviii; sul

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punto basti vedere i riferimenti al Codex alimentarius predenti, ad esempio, nella citata sentenza Smanor sul c.d. yogurt surgelato. Dunque, se è innegabile che l’intero complesso normativo che costituisce il diritto alimentare – considerato sia sotto il profilo interno che quello internazionale - è fondato sul principio generale di protezione del consumatore e della sua salute, molte regole sono condizionate – ferma restando la formale primazia della tutela della salute di chi mangia – dalle esigenze del commercio. A proposito di universalità delle norme alimentari si noti che, al fine di assicurare una ragionevole libertà di circolazione dei prodotti, in sede comunitaria non solo si è utilizzato a fondo il principio Cassis de Dijon ma anche sono stati superati ostacoli di natura, appunto, sanitaria, attraverso l’adozione di direttive su aromi ed additivi, che individuano i prodotti ammessi e le quantità utilizzabili degli stessi in relazione al singoli cibiix; a livello WTO si sono adottati l’art. 4 dell’Accordo SPS, che in larga misura appare ispirato, mutatis mutandis, al mutuo riconoscimento di origine comunitaria, e l’art. 5 dello stesso Accordo, che ammette solo una temporanea sospensione delle importazioni nel caso di sospetti concernenti la salubrità di prodotti importati, da eliminare celermente o rendere rapidamente definitiva, a seconda dei casi, a seguito del raggiungimento o meno della certezza scientifica della loro pericolosità. Tuttavia la stessa etichettatura degli alimenti non è ancora stata oggetto di accordi internazionali di vasto respiro, così come controversa è la protezione dei nomi dei prodotti tradizionali anche di grande reputazione come il vino Chianti, il formaggio Parmigiano – reggiano ecc. Mentre la Costituzione italiana, nella lettura che ne da la Corte costituzionale, assicura la tutela del consumatore di alimenti attraverso la protezione della salute come bene primario con l’art. 32, il trattato C.E. esplicitamente stabilisce la protezione del consumatore con l’art. 153, il quale, tuttavia, non fa riferimento alla sola salute, pur riconosciuta il primario bene da tutelare, ma anche alla sicurezza, agli interessi

economici dei consumatori e alla loro informazione, il che si realizza, principalmente, con etichettature adeguate e prevedendo l’utilizzazione di nomi dei prodotti che non inducano in errore, per determinare i quali si fa spesso ricorso al citato sistema di soft law qual’è quello contenuto nel Codex alimentarius. La protezione della salute del consumatore ha provocato la progressiva normazione in materia di responsabilità del produttore da un latox e quella concernente l’analisi dei pericoli e il controllo dei punti critici del sistema produttivo e di distribuzione dei prodotti alimentari (H.A.C.C.P.)xi. Nel primo caso si amplia la responsabilità del produttore, nel secondo si mira a imporre un sistema di autocontrollo che sia capace di prevenire, al massimo grado possibile, produzioni di cibi difettosi sotto il profilo microbiologico. Infine, si sta progressivamente realizzando un sistema di norme che stabilisce a carico dei produttori di prodotti alimentari l’obbligo di garantire la “rintracciabilità” degli stessi, al fine di permettere l’individuazione della fase nella quale si dovesse verificare il difetto presente anche in momenti successivi alla produzione o commercializzazione dei cibi. 2. La peculiarità del cibo e la qualificazione oggettiva del diritto alimentare Tutte queste caratteristiche del diritto alimentare parrebbero, tuttavia, non consentire allo stesso di essere individuato per sue specifiche peculiarità, perché esse appaiono incentrate sulla tutela del consumatore e temperate dalle necessità dei traffici commerciali, elementi che sembrano accomunare il diritto alimentare ad altri complessi o sistemi di norme che progressivamente caratterizzano il nostro ordinamento, anche sotto la spinta di direttive comunitarie che si riferiscono ad argomenti diversi dai cibi e dal loro consumo. Proprio questa constatazione, tuttavia, consente di accertare che è riconoscibile una sostanziale differenza fra la generica tutela del consumatore e del commercio interstatuale e quella riservata a chi

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consuma alimenti. Infatti proprio un regolamento comunitario “sulla cooperazione per la tutela dei consumatori”xii evidenzia la peculiarità della materia che qui interessa; tale regolamento limita il suo stesso campo di applicazione ad una serie di norme interne derivate da direttive che hanno ad oggetto la pubblicità ingannevole, i contratti negoziati fuori dei locali commerciali, il credito al consumo, l’esercizio di attività televisive, le vacanze e i viaggi “tutto compreso”, le clausole abusive nei contratti stipulati dai consumatori, le cc.dd. multiproprietà, i contratti a distanza, la pubblicità comparativa, l’indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori, le vendite e garanzie dei beni di consumo, il commercio elettronico, il codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, la commercializzazione a distanza dei servizi finanziari ai consumatori, il ritardo prolungato degli aerei passeggerixiii. Infatti l’art. 3, lett. a), individua il campo di applicazione del regolamento appunto alle fattispecie considerate dalle dette direttive e precisa che per venditore o fornitore ai sensi del regolamento deve intendersi chi “agisce nell’ambito della propria attività commerciale, imprenditoriale, artigiana o professionale”. Il consumatore è, dunque, secondo questo regolamento, un soggetto che ha rapporti con un “professionista” che lo contatta in questa sua veste; la preoccupazione del legislatore è, pertanto, in questi casi, di evitare che il consumatore venga schiacciato dalla prevalente competenza del venditore professionale. Altro è, invece, l’approccio che il reg. 178/2002 compie al rapporto consumatore – produttore o commerciante o, comunque, somministratore di alimenti; infatti poco rileva che il fornitore di alimenti svolga una attività con scopo di lucro (art. 3 del reg. 178), interessando, invece, solo la salubrità dell’alimento, sicché la responsabilità dell’erogatore di cibi non è condizionata dalla veste nella quale egli somministra il cibo, importando solo che esso sia edibile senza rischi ulteriori rispetto a quelli normali dovuti ad eventuali eccessi alimentari o a intolleranze e simili.

Emerge, quindi, la peculiarità dell’aspetto oggettivo che caratterizza questo diritto: esso regola produzione e commercio – o comunque somministrazione – di beni che non restano esterni al consumatore, ma che sono destinati ad essere introdotti all’interno del suo organismo, dando origine ad un rapporto fisico del tutto specifico, che non si manifesta in nessun altro prodotto, neppure nel medicinale, che pure ha lo stesso destino ma che viene assunto solo quale rimedio “eccezionale” e non da tutti e ogni giorno, come avviene con il cibo. La riprova di questa distinzione la si ha, ancora, nel citato regolamento, che prevede fra le direttive che interessano un campo esterno agli alimenti anche quella che interviene sulle regole concernenti “i medicinali per uso umano”, prodotti che sono destinati normalmente ad entrare nel corpo umano, ma che sono esclusi dai cibi dall’art. 2 del reg. 178/2002; dunque non si rileva alcuna confusione dei medicinali con gli alimenti, ma, invece, una netta distinzione fra di essi, sicché sotto questo profilo il diritto alimentare inizia la dove terminano le norme sui medicinali. La peculiarità del rapporto dell’uomo con il cibo trova riflessi anche nell’idea della sacralità del pasto, che è presente in molte religioni al punto da far ritenere, presso certi popoli, che cibarsi del nemico possa essere considerato un modo per appropriarsi delle sue prerogative positive. Insomma i cibi sono sostanze del tutto particolari, in relazione alla loro destinazione così “intima” per il consumatore; pertanto appare rilevante, nel ricostruire le fondamenta del “diritto alimentare”, l’elemento oggettivo costituito, appunto, dalle peculiarità dei beni considerati. Il fatto che si possa arrivare a regolare, nel diritto alimentare, anche i mangimi non fa che confermare l’assunto, poiché essi interessano in quanto destinati ad animali che producono cibi o che sono essi stessi destinati a diventarli, mentre i mangimi per animali non destinati a questi scopi non rientrano nella normativa alimentare. Pertanto la tutela del consumatore di alimenti assume aspetti del tutto specifici, che giustificano una possibile ricostruzione a

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sistema delle norme alimentari contenute nell’ordinamento comunitario e nello stesso ordinamento interno; ciò non significa che alcune disposizioni contenute nelle direttive sopraccitate e trasfuse nel diritto nazionale non siano applicabili anche a favore dei consumatori di alimenti, ma piuttosto che in questi casi la nozione di consumatore e quella di produttore acquisiscono significati particolari e, comunque, che le dette norme si applicano anche per i consumatori di alimenti, ma hanno una valenza orizzontale che va ben al di là delle regole che riguardano la produzione degli alimenti che, se specificamente destinate a questa finalità, assumono forme e valenze proprie. La natura del tutto particolare del cibo, unita alla funzione che esplica il sistema normativo di protezione del consumatore fanno sì che le norme alimentari acquisiscano una tale specificità che progressivamente le portano a poter essere considerate un vero e proprio diritto, nel senso che esso possiede principi propri che ne consentono l’autointegrazione, e regole generali quali risultano, in particolare, dal reg. 178/2002, che qualifica, al par. 2 dell’art. 4, i disposti dei suoi artt. da 5 a 10 “un quadro generale di natura orizzontale al quale conformarsi nell’adozione di misure”, affermazione rafforzata, sempre nell’art. 4, dai paragrafi 3 e 4: “3. I principi e le procedure esistenti in materia di legislazione alimentare sono adattati quanto prima ed entro il 1° gennaio 2007 al fine di conformarsi agli articoli da 5 a 10. - 4. Fino ad allora e in deroga al paragrafo 2, è attuata la normativa vigente tenendo conto dei principi di cui agli articoli da 5 a 10”xiv. Se è vero, come è stato affermatoxv, che i principi enunciati negli artt. da 5 a 10 in buona misura riproducono, o, meglio, danno attuazione a norme già esistenti e, dunque, appaiono rispondere a regole che il trattato, anche come letto dalla Corte di giustizia, già contiene o prevede, è tuttavia innegabile che la formulazione dell’art. 4 evidenzia le peculiarità dell’oggetto “cibo” e la preoccupazione del legislatore comunitario di prevedere per esso una serie di regole particolarmente stringenti, mirate a conciliare l’esigenza della sicurezza alimentare con la

circolazione delle merci, preoccupazione che si fonda, appunto, sulla specificità dell’oggetto, il cibo, che autorizza e giustifica un interventismo che per certi aspetti può sembrare addirittura eccessivo. La specificità del sistema di norme alimentari si ricava, anche, dalla stesura di un “codice alimentare” italiano il quale, all’art. 2, lett. b) (si tratta del progetto di codice che può ritenersi quasi definitivo), afferma che per legislazione alimentare si intende “la disciplina, di fonte comunitaria, nazionale o regionale, avente per oggetto i prodotti alimentari in generale e la sicurezza dei prodotti alimentari in particolare, in relazione alla produzione, alla conservazione, alla circolazione, alla tutela igienico sanitaria, alla vigilanza ed al controllo sui prodotti alimentari stessi”; e all’art. 3 recita: “1. La disciplina della produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari: a) si conforma ai principi e alle norme di diritto comunitario con particolare riferimento alla libera circolazione delle merci e alla concorrenza, tenuto conto degli articoli 28, 30, 81, 82, 83, 84, 85, 86 e 95, paragrafi 4 e 5, del Trattato istitutivo della Comunità europea, e alle norme e ai principi del regolamento (CE) n. 178/02 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002; b) tutela gli interessi relativi alla vita e alla salute umana, alla protezione del consumatore, all’ambiente e alla qualità dei prodotti”. Come si può agevolmente rilevare il codice, che costituisce la raccolta organizzata delle norme alimentari nazionali, mette in rilievo i due elementi che si sono qui evidenziati, e cioè da un lato la protezione dei consumatori, dall’altro la peculiarità dei prodotti considerati, dei quali si vogliono assicurare requisiti di massima, possibile, sicurezza, essendo essi destinati, come appunto si diceva, a costituire addirittura i mattoni che servono a costruire gli esseri umani e a mantenerli in vita. In definitiva, dunque, anche principi che potrebbero essere comuni ad altri “diritti” assumono, quando utilizzati per regolare produzione, commercio e utilizzazione degli alimenti, aspetti specifici e peculiari,

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consentendo la ricostruzione a sistema del complesso delle norme alimentari internazionali, comunitarie e nazionali. Esemplare è, al proposito, la formulazione e l’applicazione del principio di precauzione, di origine ambientalisticaxvi, al settore che ci interessa, quale risulta dall’art. 7 del reg. 178/2002xvii. Infatti, l’art. 7 citato formula il principio di precauzione in maniera specifica ed autonoma rispetto ai riferimenti che ad esso si fa in altre occasioni, ispirandosi in larga misura a quanto contenuto nell’art. 5 dell’Accordo SPS contenuto nel trattato di Marrakech, istitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il così detto “allarme rapido”, d’altra parte, è stato da tempo introdotto per gli alimentixviii; in una direttiva mirante a garantire per quanto possibile la protezione del consumatore in generale si è ritenuto necessario prevedere un “Sistema comunitario di allarme rapido per gli alimenti”, adottando, cioè, una normativa peculiare per la sicurezza del consumatore di cibi. Tale sistema è oggi sostanzialmente assorbito in analogo meccanismo previsto dal reg. 178/2002, ma resta indubitabile il fatto che esso sia adottato per sopperire alle specifiche esigenze che caratterizzano l’oggetto “cibo”xix, vero elemento capace di individuare oggettivamente e peculiarmente il diritto alimentare.

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interventi Food security, food safety and international trade Paolo Borghi SOMMARIO: 1. Premessa: i molteplici significati della “sicurezza alimentare”. - 2. La food security nel diritto internazionale. - 3. La nozione comunitaria di sicurezza alimentare: il libro bianco sulla sicurezza alimentare, l’istituzione dell’EFSA, il principio di precauzione. - 4. La food safety nel diritto del commercio internazionale: l’Accordo SPS. - 5. Le istanze precauzionali nell’Accordo SPS. - 6. Diversità di approcci al problema: sicurezza alimentare e commercio internazionale dopo Doha. 1. Il titolo di questa relazione può trarre in inganno, complice la ricchezza semantica di talune parole nella lingua italiana. L’espressione “sicurezza alimentare” è, infatti, ambigua, rimandando ad almeno due concetti altrove (ad es. nel linguaggio giuridico e politico anglosassone) ben distinti e non confondibili: quello di “food security” e quello di “food safety”. Il primo concetto è sintetizzabile nella preoccupazione di sicurezza delle disponibilità alimentari. Una buona definizione testuale è quella data dal par. 1 del World Food Summit Plan of Action (13-17 novembre 1996, Roma): “Food security exists when all people, at all times, have physical and economic access to sufficient, safe and nutritious food to meet their dietary needs and food preferences for an active and healthy life”: così definita, la sicurezza alimentare pone in primo piano le esigenze di tipo “quantitativo” (legate cioè alla necessità di rendere possibile un adeguato livello di nutrizione). La food safety è – nella definizione ora vista

– solo una componente della security: gli alimenti di cui garantire la disponibilità devono essere “safe”, e consentire una “healthy life”. Al tempo stesso, essa rimane – sul piano concettuale – una esigenza a sé: un’istanza di salubrità presente da sempre, e da sempre affidata all’esperienza. Ma quest’ultima è insufficiente, oggi che la scienza applicata all’agricoltura amplia con ritmi un tempo sconosciuti il numero delle varietà coltivabili, attribuisce loro sempre nuovi caratteri (spesso intervenendo direttamente sul genoma), e scopre nuovi collegamenti persino fra patologie già note e prodotti alimentari tradizionali. A tutto ciò si aggiunga la circolazione dei prodotti alimentari la quale – per lunghi secoli pressoché inesistente o, al massimo, regionale – oggi, divenuta “globale” (Josling, 1999), pone problemi sempre più seri di confronto fra standards diversi di tutela del consumatore, sia dal punto di vista dell’igiene degli alimenti, sia delle modalità di presentazione e di comunicazione del loro contenuto, del trattamento che essi hanno subito in fase di trasformazione, ecc. E, malgrado la safety sia elemento costitutivo essenziale della security (sì che si possa parlare di due obiettivi contemporaneamente perseguibili), va detto che di rado – purtroppo – nei contesti economici in cui prevale il secondo tipo di esigenza riesce a diffondersi anche una preoccupazione approfondita per la prima: la food safety, infatti, è una necessità che accomuna tutto il genere umano se la si intende nel suo significato minimo ed essenziale (ossia quale esigenza di non dannosità di un alimento); se, però, la si intende come certezza “assoluta” circa la salubrità e la totale assenza di pericoli connessi al consumo, la food safety (oltre ad essere un obiettivo solo tendenziale) diviene anche una componente della qualità del prodotto, cui tipicamente si guarda di più in quelle realtà economiche dove l’approvvigionamento alimentare e la nutrizione si considerano problemi superati. 2. Entrambi gli aspetti della sicurezza alimentare sono oggetto di disciplina nell’ambito delle norme che regolano il

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commercio internazionale di prodotti agricoli. Per quanto concerne la food security basti rammentare la Food Aid Convention (Desta, 457 ss.), facente parte dell’International Grains Agreement, con la quale alcuni Stati “donatori” si impegnano a fornire annualmente aiuti alimentari a favore di Paesi in via di sviluppo, sotto forma di cereali adatti all’alimentazione umana o di denaro, con lo scopo di raggiungere gli obiettivi fissati dalla World Food Conference. Ma è evidente la centralità del problema anche nell’Accordo sull’agricoltura, annesso al Trattato istitutivo della WTO: – all’art. 12, ad esempio, esso ammette che gli Stati firmatari possano introdurre divieti o restrizioni alle esportazioni, ma solo previa valutazione degli effetti che ciò potrebbe esplicare sulla sicurezza alimentare dei Paesi Membri importatori e, comunque, previa comunicazione al Comitato agricoltura e consultazione con eventuali Paesi importatori interessati che ne facciano richiesta; – all’Allegato 2, n. 3, l’Accordo consente, fra le misure di sostegno al settore agricolo reputate non distorsive del mercato (la c.d. “scatola verde”), e dunque non soggette ad obblighi di riduzione, ogni agevolazione finalizzata allo stoccaggio pubblico per la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare – cioè alla costituzione e conservazione di scorte di prodotti nel quadro di un programma di sicurezza alimentare previsto dalla legislazione nazionale (eventualmente, può trattarsi anche di un aiuto statale allo stoccaggio privato) – purché il volume delle scorte corrisponda a obiettivi prefissati, la loro costituzione avvenga secondo un processo “finanziariamente trasparente”, l’acquisto dei prodotti da parte dello Stato avvenga a prezzi di mercato, e il prezzo di vendita degli stessi non sia inferiore a quello di mercato; – allo stesso Allegato 2, n. 4, sono consentite le spese statali per fornire (direttamente in natura, o mediante sussidi monetari) alimenti alle fasce bisognose della popolazione (c.d. aiuto alimentare interno), purché in conformità a criteri chiaramente stabiliti e corrispondenti a precisi obiettivi nutrizionali.

D’altra parte, l’art. 10 – nell’ottica di impedire distorsioni al commercio, ma anche di favorire le iniziative realmente rivolte a rafforzare la sicurezza alimentare dei Paesi in difficoltà – mira ad evitare che gli “aiuti alimentari” nascondano esportazioni sovvenzionate, imponendo una serie di vincoli e di controlli agli Stati esportatori per assicurare che essi intendano davvero destinare parte del loro surplus a tale scopo umanitario. Il tema è vastissimo, e una relazione quale la presente – che ha lo scopo di sondare gli aspetti giuridicamente più delicati e problematici correntemente associati all’espressione “sicurezza alimentare” – sarebbe largamente inadeguata a trattarlo. Basti, per concludere su questo specifico punto, ricordare come i nuovi round negoziali multilaterali appaiano sempre più orientati ad attribuire centralità all’argomento (anche sull’onda delle sempre crescenti accuse con cui – forse non sempre, e non del tutto, giustamente – si è attribuito alla WTO, nei suoi primi anni di vita, il demerito di aver trascurato le esigenze dei Paesi meno sviluppati). La Dichiarazione Ministeriale di Doha (xx), sotto la rubrica “Agriculture”, punto 13, riconosce che un trattamento speciale in favore dei Paesi “in via di sviluppo” (trattamento peraltro già previsto dall’attuale Accordo agricolo: cfr. l’art. 15) dovrà costituire elemento essenziale dei negoziati, e integrato sia negli impegni e concessioni negoziati in base alle regole oggi esistenti, sia nelle nuove norme oggetto di trattativa, il tutto proprio al fine di consentire a questi Stati il raggiungimento di obiettivi essenziali, fra cui la food security. Nella Decisione su “Aspetti e problemi relativi all’implementazione” (xxi), contestualmente adottata, la Conferenza Ministeriale prende nuovamente in considerazione il problema della sicurezza alimentare sotto diversi profili. Uno fra tutti: essa “bacchetta” gli Stati membri, invitandoli a limitare le contestazioni davanti all’Organo di conciliazione della WTO, sovente mosse nei confronti di misure di sostegno pur quando si tratti di misure adottate da Paesi in difficoltà aventi lo scopo di promuovere lo

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sviluppo rurale e la sicurezza alimentare. Ciò, però, se da un lato mette in luce deprecabili abitudini di taluni Stati, pronti ad ostacolare con un ricorso – magari strumentale – ai Panels anche misure utili per lo sviluppo di Paesi poveri, evidenzia altresì quanto sia sottile il confine fra reali operazioni con fine umanitario, e dissimulate violazioni degli obblighi commerciali internazionali. Lo stesso accade ragionando di food safety. 3. La food safety è una delle principali ansie che assillano il legislatore comunitario; e ciò per due essenziali ordini di ragioni: anzitutto, perché talune particolari “emergenze” (quale ad es. la BSE, rapidamente propagatasi all’intera Comunità grazie alla libera circolazione delle merci fra gli Stati membri) hanno giustamente allarmato l’opinione pubblica, sia per la gravità degli effetti, sia perché riguardanti un aspetto della vita – quello dell’alimentazione – che incide in modo diretto sulla salute di uomini e animali (un aspetto che per qualche tempo in Occidente, a torto, si è forse ritenuto definitivamente al riparo da difficoltà di ordine sanitario); in secondo luogo, quale effetto della raggiunta ampia autosufficienza alimentare dell’Europa, che dà modo ai consumatori (e ai legislatori comunitari) di porsi comunque –a prescindere da eventuali calamità del settore, o da reali pericoli scientificamente reputati certi – problemi di assoluta e totale sicurezza del prodotto alimentare, di qualità del medesimo. L’effetto è ovviamente amplificato dall’evoluzione tecnologica, che allontana sempre più il prodotto finale dai meccanismi c.d. naturali di produzione, e da quella scientifica, che consente interventi genetici sugli organismi destinati all’alimentazione umana e animale, nonché l’introduzione sul mercato di nuovi cibi, ingredienti, aromi o additivi. La Commissione CE – tralasciando qui di proposito ogni riferimento alle direttive e ai regolamenti in materia di OGM e di novel foods, le cui norme fondamentali, mirate precipuamente a garantire la sicurezza dei consumatori e dell’ambiente, meriterebbero ben altra e più ampia trattazione – ha anche

recentemente affrontato il tema della sicurezza in più occasioni: ci si riferisce soprattutto al Libro Bianco sulla sicurezza alimentare e alla Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione. Il Libro Bianco (xxii) ha rappresentato, in certo senso, un punto di arrivo e un punto di partenza: di arrivo poiché costituisce la summa delle posizioni comunitarie elaborate in materia di sicurezza alimentare man mano che la CE, da ente sovranazionale con competenze esclusivamente economiche qual era in origine, ha progressivamente ampliato i propri obiettivi; un punto di partenza, poiché delinea gli strumenti fondamentali della futura azione comunitaria in materia, e tra essi specialmente assegna un ruolo centrale alla istituzione di una Autorità europea per la sicurezza alimentare. Dopo una preliminare enunciazione dei principi fondamentali (elevato livello di protezione della salute umana e di tutela dei consumatori; approccio completo e integrato su tutta la catena produttiva “dai campi alla tavola”; responsabilità degli operatori del settore; rintracciabilità; analisi del rischio e, “ove appropriato”, principio di precauzione), il Libro Bianco prende in esame i problemi legati alla corretta ed efficace raccolta delle informazioni e alla loro elaborazione scientifica ai fini di un corretto utilizzo da parte del legislatore, alla efficienza dei controlli, alla tutela del consumatore e, infine, alle implicazioni internazionali. A quest’ultimo specifico riguardo, il Libro Bianco, dopo aver tracciato un quadro sommario dei principi fondanti della disciplina del commercio internazionale in tema di prodotti alimentari, dichiara che “la Comunità ha l’obiettivo di chiarire e rafforzare l’esistente quadro nell’ambito dell’OMC per l’uso del principio di precauzione in relazione alla sicurezza alimentare, in particolare al fine di trovare una metodologia concordata quanto al raggio di azione in virtù di tale principio”. La Commissione ammette, in sostanza, che l’approccio precauzionale alle problematiche di sicurezza alimentare è il punctum dolens, ogniqualvolta si cerchi di conciliare le esigenze di food safety e quelle del commercio internazionale.

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Quanto al principio di precauzione, la Comunicazione ad esso intitolata (xxiii) nasce – dichiaratamente – dalla esigenza della Commissione di stabilire orientamenti per la sua applicazione, di elaborare una comprensione comune dei modi in cui è opportuno valutare, gestire e comunicare i rischi che la scienza non è ancora in grado di stimare pienamente e, infine, di evitare un ricorso ingiustificato al principio di precauzione come forma dissimulata di protezionismo: la dimensione internazionale del problema food safety è evidente, così come appare evidente che, in tale dimensione, l’approccio comunitario al problema è, a sua volta, fonte di numerosi e gravi problemi ulteriori. Premesso, infatti, che “il principio di precauzione non è definito dal Trattato” (il quale si limita a nominarlo, senza dire altro, con riguardo alla protezione dell’ambiente: art. 174), la Commissione deve compiere un’opera di interpretazione del diritto comunitario cercando di evidenziare come “in pratica” (ma non in teoria?) la sua portata sia molto più ampia, sicché una sua applicazione può supporsi implicitamente in tutti i casi in cui il diritto comunitario richieda, quale condizione per la circolazione di un prodotto, una preliminare valutazione scientifica obiettiva, al fine di indicare se vi siano ragionevoli motivi di temere possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità. Sembra un modo un po’ troppo estensivo di intendere il principio, tant’è che la Comunicazione, nel prosieguo, corregge il tiro, precisando che “esso comprende quelle specifiche circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull'ambiente e sulla salute umana, animale o vegetale possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto”. In realtà, fin dove il diritto comunitario richiede una valutazione obiettiva dei rischi –

un risk assessment condotto con criteri scientifici – non sembra ancora esserci “precauzione”, bensì ricerca di giustificazione, di proporzionalità e di adeguatezza di eventuali misure restrittive alla circolazione del prodotto, trattandosi di eccezioni al principio della libera circolazione delle merci che devono rientrare nelle facoltà previste dall’art. 30 Tratt. CE. Il momento precauzionale sembra piuttosto successivo, ossia destinato ad intervenire quando la suddetta valutazione abbia dato risultati non univoci, ovvero abbia evidenziato una opinione scientifica non unanime circa i rischi, sicché la reale necessità della restrizione commerciale o del divieto appaia incerta. Se lo si intende così, allora il ricorso ad esso costituisce una scelta fondamentale della politica della CE, tale da influenzarne in modo diretto – e la Commissione, ancora una volta, lo dice apertamente – la posizione internazionale. E’ infine noto – ed è cosa assai recente – che all’inizio del 2002 il Consiglio ha finalmente licenziato il regolamento istitutivo dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (xxiv), i cui compiti essenziali sono di offrire consulenza e assistenza scientifica per la normativa e le politiche della Comunità nei campi che incidono sulla sicurezza degli alimenti e dei mangimi; di fornire informazioni indipendenti su tutte le materie che rientrano in detti campi e di comunicare i rischi (art. 22, par. 2, reg. 178/02); di raccogliere e analizzare i dati utili alla sorveglianza dei rischi concernenti la sicurezza degli alimenti e dei mangimi; di offrire consulenza e assistenza scientifica sulla nutrizione umana in relazione alla normativa comunitaria, oltre ad altri pareri, su richiesta della Commissione, relativi a questioni nutrizionali, salute e benessere degli animali, OGM, ecc. In generale l'Autorità è chiamata a formulare pareri scientifici costituenti la base scientifica per l'elaborazione e l'adozione di misure comunitarie nelle materie di sua competenza. Peraltro, e al di là di questo aspetto istituzionale, il reg. 178/02 contiene una prima parte dedicata ai principi generali della legislazione alimentare europea, nella quale

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il tema della sicurezza riappare in varie forme, a cominciare dall’enunciazione degli obiettivi generali di detta legislazione, ove la tutela della vita e della salute (umana e animale), e la protezione dei consumatori, vengono poste su un piano superiore agli stessi obblighi internazionali (art. 5, par. 3), dalla necessità di costante collegamento fra normativa alimentare e analisi del rischio, nonché – nuovamente – dal principio di precauzione. Esso trova, nel reg. 178/02, finalmente una definizione positiva anche nel diritto comunitario: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d'incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio” (art. 7, par. 1). E’ evidente la cautela di cui è circondato il principio, che va utilizzato “in circostanze specifiche”, per adottare “misure provvisorie”, e soltanto in attesa di nuove informazioni che consentano di meglio valutare il rischio: eccezionalità dell’applicazione, temporaneità, provvisorietà (e, dunque, collegamento costante alle evoluzioni delle conoscenze scientifiche, ciò che specificamente concerne il ruolo della Autorità per la sicurezza alimentare), cui si aggiungono (art. 7, par. 2) la proporzionalità allo scopo, la riduzione al minimo delle misure da adottare, la loro “necessaria realizzabilità tecnica ed economica”. Tutti elementi che ridimensionano alquanto il ruolo del principio, rispetto all’importanza che esso parrebbe rivestire stando al 21° considerando del regolamento, alla cui stregua “il principio di precauzione costituisce un meccanismo per determinare misure di gestione del rischio o altri interventi volti a garantire il livello elevato di tutela della salute perseguito nella Comunità”.

4. Sul piano internazionale, la food safety è materia trattata in svariate convenzioni internazionali. Tra queste, quella che più di ogni altra disciplina le possibili interferenze con il commercio internazionale è l’Accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie, o “Accordo SPS” (facente parte del complesso degli accordi istitutivi della WTO), il quale si propone (cfr. la premessa, l’art. 2 e l’Allegato A) il fine di proteggere la vita e la salute umana, animale e vegetale, contemperando tali esigenze con quella di evitare qualsiasi distorsione del commercio internazionale, attraverso un sistema di regole che consentano l’applicazione di tali misure ai soli casi di reali esigenze di tutela della salute e della vita umana, vegetale e animale, distinguendo fra motivazioni sanitarie vere e protezionismo dissimulato (Josling e al., p. 15). Le misure in questione, infatti, si traducono sempre in una limitazione più o meno incisiva ai flussi commerciali dei prodotti interessati, sicché – in un sistema tendente, con le norme del GATT e dell’Accordo agricolo, alla progressiva eliminazione di ogni restrizione quantitativa – la loro ammissibilità vien meno là dove cessa la loro effettiva necessità per la sicurezza del prodotto. Non a caso, le norme dell’Accordo SPS sono considerate in certo modo l’indispensabile complemento delle disposizioni dell’Accordo agricolo in tema di restrizioni quantitative – stante anche l’amplissima coincidenza di oggetto fra i due Accordi – nate da un’esperienza pluridecennale di negoziati GATT durante i quali il tentativo di ridurre barriere daziarie al commercio di prodotti agricoli aveva sistematicamente finito per rinforzare una tendenza all’utilizzo di normative tecniche e misure “di sicurezza” con scopi protezionistici dissimulati (Josling e al., p. 15; Bidwell; Hillman, 1997, p. 1 ss.), e con un conseguente enorme contenzioso (Roberts, 1998, p. 27), fino a ridurre di molto l’efficacia concreta dei tagli tariffari negoziati in materia agricola (Normile, 1998, p. 28). L’Accordo SPS si basa essenzialmente sul principio della “necessità scientifica” delle misure SPS, che da tempo i Panels definiscono come l’inesistenza (sulla base

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delle conoscenze scientifiche disponibili) di misure alternative meno distorsive degli scambi, ma altrettanto efficaci a prevenire il rischio (Thailand - Cigarettes, punto 75) (xxv). Esso individua due modi per valutare una misura di sicurezza alimentare: l’armonizzazione e l’equivalenza, in ordine di priorità logica. “Armonizzazione” (art. 3 dell’Accordo) significa che la misura sanitaria restrittiva è pienamente conforme a standards elaborati dalle più importanti organizzazioni internazionali, ossia, per quanto concerne la sicurezza alimentare – secondo l’Annex A, punto 3, dell’Accordo – la Commissione congiunta FAO-OMS del Codex Alimentarius. Tale conformità agli standards fa presumere iuris et de iure che la misura adottata sia compatibile con l’Accordo SPS e con il GATT, limitando sensibilmente le possibilità di controversia. Il principio di armonizzazione è completato da quello dell’equivalenza (art. 4 dell’Accordo SPS), secondo cui lo Stato importatore deve accettare, senza poterne applicare di ulteriori, le misure sanitarie e gli standards di sicurezza adottati dallo Stato esportatore (e dunque, deve lasciar circolare liberamente sul proprio territorio il prodotto estero) tutte le volte che l’esportatore “dimostri oggettivamente” che dette misure e standards garantiscono un livello di tutela pari a quello “appropriato” nello Stato importatore. Un concetto teoricamente – e apparentemente – chiaro, quello di “equivalenza”. Tuttavia, le certezze presto svaniscono se si riflette su cosa realmente significhi “dimostrare oggettivamente” che le proprie cautele sanitarie sono pari a quelle “appropriate” in un altro Stato. Il tutto nasce dalla riconosciuta possibilità che una misura SPS, anche qualora non fosse armonizzata, potrebbe nondimeno ritenersi ammissibile ai sensi dell’Accordo, che in nota all’art. 3 recita: “there is a scientific justification if, on the basis of an examination and evaluation of available scientific information in conformity with the relevant provisions of this Agreement, a Member determines that the relevant international standards, guidelines or recommendations are not sufficient to

achieve its appropriate level of sanitary or phytosanitary protection”. La dimostrazione oggettiva dell’appropriate level è, però, un’utopia, se si considerano le incertezze che trasversalmente caratterizzano le stesse opinioni della comunità scientifica, persino se ci si riferisce a quella comunemente ritenuta la “miglior scienza”. Se, poi, il termine di confronto è dato da ciò che è “appropriato” secondo le libere scelte di un altro Stato – in altri termini, una posizione “soggettiva” dello Stato importatore – l’applicazione della norma appare ardua in concreto, a meno di interpretarla piuttosto estensivamente. E così accade. Una decisione del Comitato SPS della WTO (xxvi), infatti, sembra confermare in toto questa supposizione: proprio “nell’ottica di facilitare l’applicazione dell’articolo 4” (espressione che suona: “per evitare oneri probatori eccessivamente ardui”) “lo Stato membro importatore dovrebbe spiegare l’obiettivo e le ragioni” delle proprie misure SPS, e “identificare chiaramente a quali rischi la misura in questione sia indirizzata”; così come è lo Stato importatore a dover indicare qual è il livello appropriato di tutela sanitaria che esso pretende, accompagnando tale spiegazione “con una copia della valutazione del rischio su cui si basa la misura SPS, o con una giustificazione tecnica fondata su uno standard, raccomandazione o linea guida internazionale rilevante” (ossia con un documento che dimostri che si tratta di una misura “armonizzata”); il tutto tempestivamente, per aiutare lo Stato esportatore a dimostrare obiettivamente l’equivalenza delle proprie misure. L’art. 4 dell’Accordo SPS, il quale prevede un onere della prova a carico dello Stato esportatore, viene quindi applicato “rovesciando” tale onere sullo Stato importatore: è quest’ultimo a dover dimostrare, prima di tutto, quale livello di tutela sanitaria esso ha diritto di ritenere “appropriato”, per escludere che eventuali sue posizioni rigorose siano in realtà strumentali a un protezionismo mascherato. Se tale dimostrazione non riesce, lo Stato che esporta si vedrà grandemente facilitato

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nel provare che le proprie misure raggiungono il livello di tutela sanitaria ragionevolmente esigibile da parte del Paese importatore, il quale a sua volta difficilmente potrà opporsi alla circolazione del prodotto estero sul proprio territorio. Tutto ciò, però, equivale a dire che il diritto di ogni Membro della WTO a determinare liberamente il livello di protezione della salute ritenuto appropriato – diritto che pur viene enunciato come assoluto nella prima frase del Preambolo e nell’art. 2.1, e tale assolutezza è ribadita anche dal rapporto dell’Appellate Body noto come EC - Asbestos (xxvii) – subisce nella pratica non lievi temperamenti, soprattutto allo scopo di “minimizzare gli effetti negativi per il commercio”, e di evitare a) che lo Stato importatore adotti, nelle diverse situazioni, differenti “livelli appropriati” di tutela sanitaria; b) che tali “diversi livelli” mostrino differenze “arbitrarie e ingiustificabili”; e infine c) che le misure caratterizzate da tali differenze si risolvano in una “discriminazione o una restrizione dissimulata al commercio internazionale” (art. 5.4 e 5.5 dell’Accordo SPS; cfr. anche il rapporto del Panel sul caso Australia - Salmon) (xxviii). Mille cautele e riserve, dunque, circondano il diritto di applicare misure sanitarie e fitosanitarie: altrettanti limiti all’estensione concreta di tale diritto, che possono, a prima vista, generare perplessità. Occorre invece ammettere che, se i principi di armonizzazione e di equivalenza implicano obblighi di tipo giuridico, e consentono una forma (per quanto ancora problematica e migliorabile) di controllo a posteriori di tipo – in senso lato – giurisdizionale (Jackson, 1997), il sistema ha anche innegabili pregi: oltre a evitare distorsioni nel commercio (ciò che risponde al suo fine primario), esso consente – quale ulteriore effetto – di impedire anche prevaricazioni, quanto mai probabili in un contesto come quello internazionale là dove manchino regole stringenti di origine pattizia (nel qual caso la risoluzione dei conflitti resterebbe affidata agli strumenti tipici del diritto internazionale generale). Si prenda ad esempio quanto accaduto

recentemente nei rapporti fra Comunità europea e Kazakhstan, Paese che non fa parte della WTO. Da esso, la Commissione CE, con dec. 1999/244/CE (xxix), aveva unilateralmente vietato l’importazione di svariati prodotti alimentari, fra cui il caviale. Le riserve su tale decisione, sollevate dal principale importatore europeo di caviale kazako e motivate dal fatto che nessuna carenza igienica era mai stata specificamente accertata per questo prodotto, sono state respinte dal Tribunale di I° grado della CE (xxx). In effetti, la “missione d’ispezione” dei periti della Commissione CE – missione da cui era originata la normativa in questione – era giunta in Kazakhstan in periodo di chiusura degli stabilimenti di trasformazione del caviale, ma aveva riscontrato ben più diffusi problemi sanitari nel trattamento di tanti altri prodotti alimentari, da poter considerare “sistemiche” le mancanze igieniche. Il Tribunale ha, perciò, riconosciuto valida la dec. 1999/244 in nome della assoluta priorità, per il Trattato CE, delle esigenze connesse alla tutela della salute dei consumatori. Si tralasci, ai fini di questa analisi, il merito della decisione impugnata e della sentenza del Tribunale, che non si ha motivo di porre in discussione: ciò che interessa è, piuttosto, la “morale” che se ne può trarre. Il Kazakhstan, non potendosi avvalere di alcuno strumento e di alcuna sede “giurisdizionale” (poiché non è membro della WTO), quand’anche la determinazione europea fosse stata del tutto arbitraria, non avrebbe comunque potuto, in alcun modo e in alcuna sede, farne valere la pretestuosità. Gli sarebbe, certo, rimasta la possibilità di reagire sul piano commerciale in termini di ritorsione: “arma” tipica del diritto internazionale generale – il quale conosce svariate forme di sanzione commerciale – la cui efficacia, tuttavia, dipende in concreto dai rapporti di forza (soprattutto economica) fra le parti in gioco, con risultati per lo più sfavorevoli ai Paesi (di cui il Kazakhstan costituisce un esempio) meno sviluppati o in via di sviluppo, soprattutto quando si trovino a confrontarsi con realtà economiche quali quella europea o statunitense. Un sistema di disciplina c.d. rule oriented,

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quale può definirsi la WTO (e prima ancora, nelle sue più recenti evoluzioni, il GATT: Jackson, 1989, p. 85 ss.), per quanto imperfetto e ancora pieno di inconvenienti, può anche sortire vantaggi concreti per le realtà nazionali più deboli, evitando di abbandonarle in balia di un sistema c.d. power oriented, nel quale spesso a prevalere è semplicemente il più forte. Non v’è dubbio che tutto ciò possa suonare contrario a quanto vorrebbero far credere certi giudizi assai diffusi – e quantomeno affrettati – circa il sistema multilaterale di regolamentazione del commercio, sovente descritto come un contesto creato ad esclusivo vantaggio dei Paesi più abbienti e potenti; tali idee, certo non del tutto prive di aspetti condivisibili, altrettanto sicuramente, però, trascurano simili positivi risvolti. 5. Evitare che il livello di sicurezza sanitaria “ritenuto appropriato” dallo Stato importatore possa da quest’ultimo essere definito su base esclusivamente soggettiva, senza una giustificazione scientifica, mira ad impedire che detto livello di sicurezza venga innalzato ad arte, al solo fine di ostacolare – per scopi evidentemente non di tutela sanitaria, ma commerciali – le esportazioni altrui. In definitiva, la determinazione del livello di sicurezza richiesto ad un prodotto è ritenuta legittima dall’Accordo SPS solo se le misure che ad esso si pretendono applicare sono “necessarie”, nel senso individuato dall’art. 5.6 dell’Accordo SPS, nota n. 3: deve, cioè, esistere un pericolo reale (secondo le conoscenze correnti), e al contempo non deve esistere una misura diversa applicabile al prodotto, capace di raggiungere i medesimi risultati di sicurezza con minor distorsione del commercio. Subentra, a questo punto, il problema della valutazione scientifica della misura sanitaria, poiché solo la scienza può dire se esista tale misura alternativa, oppure no; così come solo la scienza potrebbe rivelare l’inesistenza di reali motivi di pericolosità (e dunque la totale arbitrarietà della misura). La risposta a simile esigenze è inevitabilmente condizionata dalla normale relatività delle conoscenze, anche considerata l’ampia “zona grigia” rappresentata dal rischio

scientificamente controverso. Ed è in questo giudizio che si profila la possibilità di far ricorso (più o meno ampiamente) al principio di precauzione (sul cui significato si rinvia, in generale, a Freestone - Hey, 1996, p. 3 ss.; e più in specie, per quanto concerne il ruolo giocato dal principio nell’ambito WTO per i prodotti alimentari, a Noiville, 2000, p. 263 ss.), il quale – fondandosi sull’assenza di certezza scientifica – può essere inteso e applicato con maggiore o minor rigore: esso, in linea di massima, tende ad attribuire giuridica rilevanza anche a un pericolo scientificamente non certo, ossia non da tutta la comunità scientifica reputato esistente e dimostrabile, fino – in estrema ipotesi – al rischio di cui (per il momento) nessuna teoria scientifica si è ancora spinta a sostenere ufficialmente l’esistenza. Appare evidente come si tratti di un principio giuridico la cui ampiezza in concreto non può che essere decisa in sede di applicazione, e dunque sulla base di un criterio eminentemente politico, ossia rimesso ad una scelta di merito circa il livello di tutela della salute che si vuole perseguire, e circa l’uso che si vuol fare di tale incertezza nell’ambito della valutazione del rischio: “Because science is incomplete, the scientific data set underlying any regulation is necessarily incomplete. That, however, does not diminish the scientific nature of the inquiry. Indeed, the appropriate handling of uncertainties is part of the scientific process of risk assessment” (Wirth, 1994, p. 837). Con una precisazione, di cui si sono mostrati consapevoli anche i Panels: che l’incertezza circa l’esistenza di un rischio dipende anche dalla “qualità” delle opinioni scientifiche dissenzienti, nel senso che “l’opinione divergente proveniente da fonti rispettate e qualificate” (EC - Hormones, Appellate Body report, punto 194) (xxxi), pur se numericamente minoritarie, potrebbe indurre i governanti a mutare, fino a rovesciare – nell’uno o nell’altro senso – il proprio orientamento sull’opportunità o meno di adottare misure SPS, poiché “uno Stato membro (...) non è automaticamente obbligato a seguire quella che, in un dato momento, è l’opinione scientifica maggioritaria” (EC - Asbestos, Appellate

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Body report, punto 178). Un simile principio – di cui si è già sommariamente accennata la limitata presenza nel diritto comunitario positivo – nell’Accordo SPS è più o meno chiaramente espresso nell’art. 5.7, e i Panels ne hanno analizzato la portata (per utilizzarlo o per negarne la rilevanza nel caso concreto) in alcune importanti controversie, prima fra tutte quella – poco sopra citata e assai nota – sulla carne agli ormoni, ove l’Appellate Body (pressoché confermando il Panel di prima istanza) ha ritenuto che le misure SPS europee non potessero reputarsi necessarie, per la non raggiunta prova dell’esistenza di un rischio rilevante, e che nella specie neppure il principio di precauzione potesse soccorrere. L’Organo di appello, infatti, genericamente attribuendo un contenuto precauzionale implicito ad alcune norme dell’Accordo SPS che testualmente, in realtà, non vi fanno alcun richiamo, ha infine dato un’interpretazione stretta del diritto a determinare liberamente il proprio livello di protezione della salute, e ha concluso che il rischio rilevante debba, comunque, esser sempre un rischio in qualche modo accertabile, non potendosi istituire misure restrittive – neppure in base ad un approccio precauzionale – sulla base di un rischio puramente “teorico” (ne conseguì l’inevitabile rigetto delle argomentazioni difensive comunitarie). In altre parole, per quanto ampia sia la sfera del rischio cui si vuole attribuire rilevanza, secondo l’Appellate Body esso non potrà mai coincidere con quel rischio meramente imputabile alla attuale incapacità della scienza di dimostrare che un alimento non è pericoloso, anche perché – se così si ragionasse – un pericolo si potrebbe supporre potenzialmente esistente per ogni prodotto. Nel sottoporre a giudizio negativo il maggior livello di protezione dei consumatori generalmente accolto dalla Comunità europea, l’Appellate Body ha applicato il principio di equivalenza con la veduta inversione dell’onere della prova: è stato il Membro importatore (la Comunità europea) a dover dimostrare su quale risk assessment si fondasse il proprio “elevato livello di tutela della vita e della salute” e, con ciò, la

necessità delle proprie misure SPS. Mancata – ad avviso dell’Organo di appello – una prova convincente, il prodotto d’oltreoceano è stato ritenuto sufficientemente sicuro, così da far qualificare come illecite, ai sensi dell’Accordo SPS, le misure restrittive che la CE adottava. Maggior peso il principio di precauzione ha avuto in altri rapporti dei Panels, e soprattutto nel citato caso EC - Asbestos, dove il Panel ha ritenuto sussistente una sorta di “principio di prova” della pericolosità di una esposizione minima all’amianto, traendolo dalla esistenza di prove scientifiche convincenti circa la pericolosità di una esposizione maggiore, e circa la proporzionalità diretta e costante fra esposizione e rischio. Nel caso Australia - Salmon, in primo e in secondo grado (xxxii) si sono voluti ribadire confini ben precisi distinguendo fra misure tendenti a prevenire un rischio di cui non è in alcun modo provata l’esistenza, e misure tendenti ad azzerare totalmente il rischio: le prime illegittime, nella misura in cui pongano alla propria base l’esistenza del rischio come un assioma; le seconde legittime, in quanto la c.d. opzione “zero risk” – intesa come pericolo accertabile, ma da annullare – rientra fra le facoltà degli Stati membri della WTO. Infine, posizioni più rigide sono nuovamente state espresse nel caso Japan - Varietals (xxxiii), richiedendosi la dimostrazione di un actual causal link fra i rischi temuti e le misure adottate, e censurando una normativa commerciale giapponese rea di esser stata emanata sulla base di sperimentazioni ritenute imprecise. 6. Emergono quindi, in sintesi, nel confronto fra prospettiva comunitaria e prospettiva internazionale – in specie, della WTO – due approcci normativi assai differenti al problema della food safety: i risvolti più conflittuali, secondo i più attenti osservatori della materia, devono probabilmente attendersi soprattutto nel settore dei prodotti agricoli di origine biotecnologica (Roberts - Orden - Josling, 1999, p. 20; Sheldon - Josling, 2002). Due “segnali”, quanto mai esemplari, indicano tale evoluzione:

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- le prime “lamentele informali” (ad esempio, nell’ottobre 2001) in sede di Comitato SPS da parte di Paesi nei quali il prodotto geneticamente modificato circola liberamente, ed è normativamente considerato alla stregua del prodotto c.d. tradizionale; - il fatto che dalla fine del 1998 nessuna autorizzazione sia stata più concessa dalla Comunità europea per l’immissione in commercio di nuovi prodotti geneticamente modificati, mentre diverse richieste risultano giacenti, il che, secondo taluno, può somigliare ad un “embargo” de facto; contemporaneamente, più di uno Stato membro (in specie, Austria, Lussemburgo, Francia, Grecia, Germania e Regno Unito) ha fatto ricorso all’art. 16 della direttiva 90/220/CEE (la quale, onde consentire una fase di transizione alla più recente dir. 2001/18/CE, è rimasta in vigore fino al 17 ottobre 2002), per tentare di impedire mediante la c.d. “clausola di salvaguardia” la circolazione di prodotti agricoli biotecnologici già autorizzati; in tutti questi casi, il Comitato scientifico sulle piante ha ritenuto che le informazioni scientifiche cui si richiamavano gli Stati denuncianti non fossero tali da giustificare il bando di detti prodotti. Sembra riproporsi, in prospettiva, fra Comunità europea e WTO un divario sensibile fra le scelte di fondo in materia di food safety. Un divario non identico, ma per certi versi analogo a quello che separa la Comunità dai Paesi che più rapidamente hanno consentito sul proprio territorio la diffusione di OGM (principalmente Stati Uniti, Canada e Argentina, i quali nel 2001 avevano, insieme, il 96% della superficie mondiale seminata a colture g.m.); una distanza che separa le legislazioni ispirate ad un modello basato sul principio di equivalenza ed altre ispirate a un principio precauzionale. Le prime tendono ad affrontare a posteriori il problema della possibile pericolosità di un prodotto, mediante una normativa che tuteli soprattutto sul piano risarcitorio, limitandosi – ex ante – a tradurre in norme restrittive solo quelle preoccupazioni unanimemente condivise dalla comunità scientifica, in quei soli casi in cui, dato un prodotto tradizionale

generalmente ritenuto sicuro (“generally regarded as safe”), il prodotto g.m. non possa ritenersi – sotto il profilo della sicurezza – “sostanzialmente equivalente”; le seconde tengono in maggior conto anche opinioni scientifiche minoritarie, sulla cui base prediligono una regolamentazione preventiva, prevedono meccanismi capaci di adeguare continuamente le regole al mutare delle conoscenze scientifiche, e non reputano che la “sostanziale equivalenza” ad un prodotto c.d. tradizionale generalmente considerato sicuro sia sinonimo di sicurezza (Sheldon - Josling, 2002, p. 2 ss.). Peraltro, ad oggi, nessuno scontro diretto fra i suddetti principali attori del commercio internazionale è stato registrato in materia di prodotti biotecnologici. La prima controversia in materia resta per il momento in fase di consultazioni fra le parti interessate (xxxiv) ed ha ad oggetto limiti posti dall’Egitto all’importazione dalla Thailandia di tonno in scatola, conservato con olio di soia g.m. Occorre precisare, al riguardo, che non è l’adozione dell’uno o dell’altro tipo di normativa a costituire, in sé e per sé, un problema ai sensi degli accordi WTO, bensì soltanto il fatto che dette discipline possano eventualmente tradursi in restrizioni quantitative sulle importazioni vietate dal GATT, in misure SPS vietate dal relativo accordo, o ancora in prescrizioni tecniche incompatibili con l’Accordo sugli ostacoli tecnici al commercio (Accordo TBT). E che ciò sia possibile lo si è già considerato. Piuttosto, occorre dire che talvolta restrizioni vietate dagli Accordi WTO potrebbero essere consentite – ed anzi imposte – da altri trattati e convenzioni: si prenda quale esempio – proprio in materia di OGM – il Protocollo di Cartagena sulla Biosicurezza, il quale obbliga gli Stati firmatari a istituire un sistema di controlli e restrizioni alla circolazione internazionale di questi prodotti. Una dottrina che si è occupata dell’argomento ha ritenuto di poter vedere nella firma di tali convenzioni una sorta di waiver, o deroga convenzionale, ai vincoli derivanti dal Trattato di Marrakech: i Membri della WTO, assumendo con accordi diversi e successivi obblighi di limitare la circolazione dei prodotti biotech (ma anche altri impegni

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restrittivi per altri tipi di prodotti, sempre a scopo di tutela sanitaria o ambientale), avrebbero cioè implicitamente derogato, con tale firma, alle norme dell’Accordo SPS (Hudec, 1996, p. 95 ss.; Sheldon - Josling, 2002, p. 11); soluzione interessante, che tuttavia non tiene conto di quanto espresso nel preambolo del Protocollo di Cartagena, secondo il quale i membri sottolineano che “this Protocol shall not be interpreted as implying a change in the rights and obligations of a Party under any existing international agreements”; e che comunque non varrebbe più quando uno dei due Membri WTO coinvolti nella controversia (lo Stato esportatore) non abbia firmato il Trattato che consente (o impone) le restrizioni quantitative, poiché allora tale Paese non può ritenersi avere acconsentito ad alcuna deroga convenzionale, e difficilmente lo Stato importatore potrebbe pretendere da esso la stessa tolleranza (verso le proprie misure restrittive) che gli è riservata da altri Stati, firmatari dell’accordo limitativo (il tema è affrontato dalla Dichiarazione Ministeriale di Doha del novembre 2001, la quale, al punto 31, ne fa uno degli oggetti dei futuri negoziati multilaterali). Si aggiunga che: 1) in assenza di standards riconosciuti dalle organizzazioni internazionali e di prove scientifiche ritenute sufficienti dagli organi WTO circa la pericolosità di un prodotto nuovo o biotecnologico, quest’ultimo deve ritenersi – ai sensi del GATT – un “like product”, ossia un prodotto del tutto equivalente a quelli convenzionali: la sua ritenuta “diversità” non acquista alcuna rilevanza giuridica, e qualsiasi limite alla sua circolazione (soggezione a controlli, autorizzazioni, obblighi di etichettatura specifica, ecc.) potrebbe essere interpretato come una discriminazione fra prodotto nazionale (convenzionale) e prodotto estero (non convenzionale); dunque, una diretta violazione del principio fondamentale del GATT (clausola del trattamento nazionale, art. III); 2) simile problema sarebbe certo di più facile soluzione se si potesse reputare pienamente accolto un principio di precauzione anche

nell’Accordo SPS, ma le misure che questo consente su basi precauzionali (art. 5.7) sono meramente provvisorie, temporanee, ed accompagnate dall’obbligo di raccogliere ulteriori informazioni; 3) infine, occorre anche considerare che un numero non irrilevante di persone può essere contraria all’uso di determinati prodotti (ad esempio, g.m.) non per comprovate ragioni scientifiche ma solo per motivi etici, religiosi, ecc. Tali motivazioni (cui dà spazio, ad esempio, la recente direttiva 2001/18/CE) trovano nell’art. XX GATT un riconoscimento troppo generico (Sheldon - Josling, 2001, p. 14), e nessuna sostanziale menzione nell’accordo SPS. Vi sono tutti i “semi” di un futuro grave dissidio all’interno dell’organismo di governo del commercio internazionale. Le premesse del nuovo negoziato, peraltro, sul punto non sono le migliori: la citata Dichiarazione Ministeriale di Doha si limita a dire – nel punto dedicato alla futura trattativa agricola – che i rappresentanti prendono atto dei “problemi di natura non commerciale” quali si evincono dalle proposte negoziali degli Stati membri, e che di tali problemi “si terrà conto”, mentre il Comitato su Commercio e Ambiente della WTO, nello studio delle possibili interazioni fra preoccupazioni ambientali e distorsione del commercio, non potrà toccare i diritti e gli obblighi derivanti dall’Accordo SPS, né il reciproco bilanciamento fra tali diritti e obblighi (punto 32 della Dichiarazione). D’altra parte, la Decisione sugli “Implementation-Related Issues and Concerns” (WT/MIN(01)/W/10, adottata dalla Conferenza Ministeriale in quella stessa sede), malgrado si preoccupi – opportunamente – di vari aspetti relativi all’applicazione dell’Accordo SPS, quali ad esempio la necessità di maggiori tolleranze nel caso di misure sanitarie riguardanti prodotti che interessano le esportazioni dei Paesi in via di sviluppo, e la necessità di assicurare, fra la pubblicazione di nuove misure sanitarie e la loro applicazione, un intervallo di tempo sufficiente a consentire agli Stati esportatori interessati di adeguarsi (e di valutare l’eventuale opportunità di una reazione, o complaint), per quanto riguarda

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l’art. 4 dell’Accordo si limita a prendere atto della citata Decisione G/SPS/19 del Comitato SPS, invitandolo a “sviluppare in tempi brevi il programma specifico di attuazione dell’art. 4”. Ben poco, a fronte delle nuove sfide che si profilano, nelle quali si intersecheranno, plausibilmente, interessi economici di enorme rilievo, problemi di tutela della biodiversità, opposte visioni etiche ed opposte concezioni di protezione della salute, oltre a possibili nuove prospettive di soluzione di problemi nutrizionali per ampie aree del mondo, secondo taluni collegate proprio all’utilizzo su larga scala di varietà vegetali nuove, più resistenti, ecc. Ancora una volta, se così fosse, food safety e food security rappresenterebbero – anche se in un senso alquanto diverso da ciò che si è evidenziato in apertura di relazione – due aspetti inscindibili, due lati di una stessa medaglia. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BIDWELL, The Invisibile Tariff: A Study of the Control of Imports into the United States, New York, Council of Foreign Relations, 1939. DESTA, Food Security and International Trade Law. An Appraisal of the World Trade Organization Approach, in Journal of World Trade, 2001, p. 449 ss. FREESTONE - HEY, Origin and Development of the Precautionary Principle, in FREESTONE - HEY (ed.. by), The Precautionary Principle and International Law. The Challenge of Implementation, The Hague - Boston - London, 1996, p. 3 ss. HILLMAN, Nontariff Agricultural Trade Barriers Revisited, in ORDEN - ROBERTS (ed. by), Understanding Technical Barriers to Agricultural Trade. Proceedings of a Conference of the International Agricultural Trade Research Consortium, St. Paul, 1997, p. 1 ss. HUDEC, GATT Legal Restraints on the Use of Trade Measures against Foreign Environmental Practices, in BHAGWATI - HUDEC (ed. by), Fair Trade and Harmonization: Prerequisites for Free

Trade?, Cambridge, MA, 1996, p. 95 ss. JACKSON, The World Trading System - Law and Policy of International Economic Relations, London, 1989. JACKSON, The WTO Dispute Settlement Understanding - Misunderstandings on the Nature of Legal Obligation, in American Journal of International Law, 1997, p. 60 ss. JACKSON, The World Trade Organization. Consitution and Jurisprudence, London, 1998. JAMES, An Economic Analysis of Food Safety Issues Following the SPS Agreement: Lessons from the Hormones Dispute, CIES Policy Discussion Paper nr. 0005, Adelaide, 2000. JOSLING, Globalization of the Food Industry and its Impact on Agricultural Trade Policy, Paper prepared for the Conference on “Agricultural Globalization, Trade and the Environment”, University of California at Berkeley, March 7-9, 1999. JOSLING E AL., The Uruguay Round Agreement on Agriculture: An Evaluation, International Agricultural Trade Research Consortium, Commissioned Paper Nr. 9, 1994. NOIVILLE, Principe de précaution et Organisation mondiale du commerce. Le cas du commerce alimentaire, in Journal du droit international, 2000, p. 263 ss. NORMILE, in Agricultural Outlook, dec. 1998, p. 28. ROBERTS, Implementation of the WTO Agreement on the Application of Sanitary and Phytosanitary Measures, in AA.VV., Agriculture in the WTO, US Department of Agriculture, WRS-98-4, December 1998, p. 27. ROBERTS - ORDEN - JOSLING, WTO Disciplines on Sanitary and Phytosanitary Barriers to Agricultural Trade: Progress, Prospects, and Implications for Developing Countries, Relazione alla Conference on Agriculture and the New Trade Agenda in the WTO 2000 Negotiations, Geneva, 1-2 ottobre 1999. SHELDON - JOSLING, Biotechnology Regulations and the WTO, IATRC Working Paper 02/2002, Columbus, OH, 2002. WIRTH, The Role of Science in the Uruguay Round and NAFTA Trade Disciplines, 27

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Cornell Int'l L.J. (1994), p. 817 ss.

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interventi Nuove regole per l’impresa alimentare Ferdinando Albisinni SOMMARIO: 1. Il regolamento n.178 come legislazione del cambiamento – 2. Una peculiare definizione di consumatore – 3. L’impresa alimentare – 4. Non soltanto regole di prodotto e di produzione – 5. Le regole di organizzazione – 6. Le regole di relazione – 7. Le regole di responsabilità. 1.- Indagare sulle nuove regole di impresa nel sistema europeo di diritto alimentare assume quale condivisa ipotesi di lavoro l’esistenza di un quadro sistematico, ed impone di cercare risposte a due essenziali quesiti: quali imprese? e quali regole? Le novità con cui devono confrontarsi i giuristi e le imprese sono, insieme, novità nei soggetti e nel metodo, oltre che nel merito, della regolazione. Prima ancora che per le singole scelte disciplinari, nel suo stesso impianto l’intero regolamento n.178/2002 si connota come momento esemplare di quella legislazione del cambiamento, del pragmatismo e dell’innovazione, che è stata individuata come elemento connotante del tempo presente (xxxv). Pragmatismo e innovazione si manifestano già nella plurima base giuridica assunta, lì ove sono invocati congiuntamente gli artt. 37 (agricoltura), 95 (ravvicinamento delle legislazioni – sanità pubblica ed ambiente), 133 (politica commerciale comune), 152, para 4, lett.b) (misure nei settori veterinario e fitosanitario). Ne risulta una trasversalità della disciplina, che investe plurime aree di bisogni e plurimi

comparti di disciplina, e per ciò stesso assume modelli e strumenti di regolazione nuovi o innovativamente configurati: i tradizionali confini fra regole di produzione e regole di commercio appaiono assottigliati, e la distinzione fra basi giuridiche in ragione di competenze di specifica attribuzione assume rilievo sempre più modesto, risultando piuttosto generalizzato a decisivo canone istituzionale quello della funzionalizzazione dell’esercizio di competenze di regolazione e di governo. L’analisi della più recente legislazione europea in tema di sicurezza alimentare, ripropone così – su base territoriale e disciplinare più ampia – quesiti analoghi a quelli che sono stati posti all’interprete, quanto al diritto interno, dalla riforma del Titolo V della costituzione, con un’individuazione di ambiti materiali difficilmente riducibili entro la tradizionale partizione per materie (), xxxvisicché - come è stata osservato dalla Corte costituzionale in una delle prime pronunce successive alla riforma del 2001: «Il primo problema da risolvere riguarda … l’individuazione della “materia” … A questo riguardo va però precisato che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art.117 possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché in alcuni casi si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie» (xxxvii). Il congiunto esercizio di plurime competenze finisce per tale via con il dislocare confini e contenuti di una materia, la sicurezza alimentare appunto, non collocabile appieno in alcuna delle partizioni sin qui abituali, e piuttosto essa stessa espressione di una diversa integrazione (e percezione) di bisogni e di interessi. 2.- Quanto ai soggetti, vi sono novità di rilievo sul versante istituzionale e su quello delle imprese e degli altri soggetti privati. Altri relatori hanno riferito sull’Autorità per la sicurezza alimentare e sul Comitato scientifico (xxxviii). Rinviando a tali relazioni, è sufficiente qui ricordare, accanto ai soggetti pubblici di nuova istituzione e di originale competenza, i nuovi e penetranti poteri di

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intervento assegnati alla Commissione, che non riguardano soltanto la gestione delle emergenze e delle crisi, e che in qualche misura concorrono a configurare in modo originale la stessa collocazione istituzionale di questo decisivo soggetto. Ma è sui soggetti privati che l’attenzione deve qui fermarsi. Destinatari e protagonisti del regolamento n. 178 sono, sul versante delle soggettività private, i consumatori e le imprese. La categoria di «consumatore» non è nuova per il diritto comunitario (xxxix). Va anzi riconosciuta proprio al diritto comunitario l’iniziativa per l’introduzione sempre più frequente di tale figura all’interno di numerosi settori dell’ordinamento (xl); e da ultimo anche il tentativo di riportare ad unità tali discipline, almeno sotto il profilo della tutela collettiva in giudizio, con la direttiva del 1998 (xli), che ha previsto un sistema uniforme di tutela degli interessi collettivi dei consumatori, attribuendo alle associazioni dei consumatori legittimazione ad ottenere provvedimenti inibitori in riferimento a nove direttive unitariamente considerate, da quella del 1984 sulla pubblicità ingannevole, a quella del 1997 sui contratti negoziati a distanza. Resta peraltro tuttora assente una generale ed uniforme definizione di consumatore, sia nel diritto interno che nel diritto comunitario (xlii), anche se è possibile cogliere alcuni elementi comuni, per i quali nella maggioranza delle direttive comunitarie il consumatore è «la persona fisica che agisce per un uso che può considerarsi estraneo alla propria attività professionale» (xliii). Rispetto agli elementi comuni sopra-richiamati, il regolamento n.178 introduce alcuni profili di novità, lì ove fa riferimento al «consumatore finale», così definito: «il consumatore finale di un prodotto alimentare che non utilizzi tale prodotto nell'ambito di un'operazione o attività di un'impresa del settore alimentare» (xliv). Di «consumatore finale» aveva già parlato la direttiva del 1978 sull’etichettatura dei prodotti alimentari (xlv), ed in questo senso è possibile cogliere una linea di continuità nelle concettualizzazioni presenti nella disciplina degli alimenti, siccome connotate

dalla destinazione finale, l’ «estomac» - come ha suggestivamente osservato uno studioso francese (xlvi). La destinazione finale (l’estomac, l’ingestione del prodotto), e dunque l’elemento funzionale, assume il valore di canone distintivo della disciplina e di criterio di qualificazione delle stesse definizioni. Due ulteriori elementi meritano di essere segnalati in questa definizione di consumatore finale. Anzitutto non compare nel testo del regolamento n.178 l’esplicito richiamo alla persona fisica, quale unico consumatore possibile. Anche in questo caso ritorna un elemento già presente nella direttiva del 1979 sull’etichettatura dei prodotti alimentari, lì ove questa non assume quale solo destinatario possibile le persone fisiche, ma prevede una possibile (e dal 1989 cogente) applicazione della disciplina anche ai prodotti destinati a soggetti quali ristoranti, mense ed altre collettività, sicché - come è stato osservato con riferimento alla direttiva sull’etichettatura: «Si affaccia una nozione più ampia di consumatore, che va al di là della persona fisica, e che travalica il soddisfacimento delle esigenze individuali e familiari»(xlvii). Nella definizione di consumatore introdotta dal regolamento n.178 c’è però un ulteriore elemento distintivo, che appare originale, rispetto sia alle definizioni comunemente contenute nelle direttive appartenenti ad altre aree disciplinari, sia alla stessa definizione contenuta nelle direttive sull’etichettatura degli alimenti. Abbiamo ricordato che solitamente per il diritto comunitario è escluso dalla nozione di consumatore il soggetto, che acquisti o comunque utilizzi un prodotto o servizio nell’ambito delle sue attività commerciali, professionali o d’impresa (xlviii); mentre viceversa le direttive sull’etichettatura si applicano anche a favore dei soggetti collettivi che acquistano i prodotti nell’ambito della loro attività di ristorazione. Nel regolamento n.178/2002, invece, la nozione di consumatore comprende – come si è visto – qualunque «consumatore finale di un prodotto alimentare che non utilizzi tale prodotto nell’ambito di un’operazione o

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attività di impresa del settore alimentare» (xlix). Se ne potrebbe concludere, a contrario, che chi utilizza un prodotto alimentare per un’operazione od un’attività di impresa, che non si configuri come «operazione o attività di impresa del settore alimentare», non sarebbe escluso dalla tutela apprestata in favore del consumatore finale di alimenti. Una risposta a tale ipotesi di lettura potrà venire dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha sin qui contribuito a mettere a fuoco la figura del consumatore come «parte economicamente più debole» (l) protetto rispetto alle pretese dell’impresa (o del professionista, secondo il linguaggio del legislatore comunitario), laddove in sede di applicazione del regolamento n.178 potrà essere chiamata ad individuare il consumatore di alimenti come soggetto portatore di un interesse attivo, legittimato a pretendere dalle imprese alimentari comportamenti conformi alle finalità del sistema (li). Ne deriva un possibile spazio di applicazione della disciplina e dei suoi strumenti, sostanziali e processuali (lii), che potrebbe andare ben oltre i confini abitualmente assegnati alla categoria del consumatore. La partizione fra soggetti presente nel regolamento n.178 sembra così esprimere uno scenario, che è insieme peculiare quanto al contenuto, e specifico quanto alla natura dei fini perseguiti: da una parte vengono collocati coloro che assumono responsabilità di soggetti attivi dell’alimentare, in una dimensione sistemica (liii), che attrae in un quadro di responsabilità di impresa anche per la sola partecipazione ad un’attività connessa ad una fase (liv), dall’altra l’intero variegato universo di coloro che utilizzano gli alimenti e rinviano alla categoria costituzionale di «persona» come soggetto attivo di diritto (lv). 3.- Sotto questo profilo la definizione di «impresa alimentare» assume rilievo anche perché concorre a definire il concetto di consumatore ai fini della disciplina sulla sicurezza alimentare e sui suoi istituti. Quanto alla dichiarata identificazione delle «imprese» attratte nelle regole del sistema di

diritto alimentare, non è una novità che la definizione di impresa nel diritto comunitario (lvi) non coincide con quella introdotta dal codice civile, e così comprende sia strutture che per il diritto interno non sono imprese perché prive di fine di lucro, sia figure che il diritto interno classifica come proprie delle professioni liberali. La novità è piuttosto nella definizione di «impresa alimentare», contenuta nell’art. 3, n.2 del reg. n.178, per la quale è «impresa alimentare» « ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti» (lvii). La legislazione comunitaria ha da tempo affrontato il tema dell’individuazione dei destinatari della disciplina sull’igiene dei prodotti alimentari, attraverso l’adozione di definizioni intese a garantire un’uniforme applicazione, prescindente dalle specificità nazionali (lviii). In particolare la direttiva del 1993 sulla produzione e vendita di sostanze alimentari e bevande (lix) ha previsto: «Articolo 2. Ai fini della presente direttiva si intende per: - igiene dei prodotti alimentari, in appresso denominata «igiene»: tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza e l'integrità dei prodotti alimentari. Le misure comprendono tutte le fasi successive alla produzione primaria (quest'ultima include tra l'altro la raccolta, la macellazione e la mungitura), vale a dire: preparazione, trasformazione, fabbricazione, confeziona-mento, deposito, trasporto, distribuzione, manipolazione e vendita o fornitura al consumatore; - industria alimentare: ogni impresa, pubblica o privata che, a scopo di lucro oppure no, esercita una qualsiasi o tutte le seguenti attività: preparazione, trasformazione, fabbricazione, confezionamento, deposito, trasporto, distribuzione, manipolazione, vendita o fornitura di prodotti alimentari; - alimenti integri: alimenti adatti al consumo umano in termini di igiene». La definizione così introdotta dalla direttiva del 1993 è più ampia rispetto a quella del nostro diritto interno, che limita la propria

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area applicativa «stabilimenti, laboratori di produzione, preparazione e confezio-namento di prodotti alimentari» (lx), ma comunque non investiva l’intera filiera. Gli anni ’90 hanno reso manifesta l’insufficienza di una siffatta delimitazione dei soggetti investiti, ed hanno marcato l’esigenza di un approccio «from farm to table», secondo il programma proposto nel White paper on food safety (lxi). Nel testo italiano del Libro bianco tale formula è stata tradotta come «dai campi alla tavola» (lxii), ma è traduzione inadeguata, perché trascura l’aspetto organizzativo, di azienda, di impresa, reso dall’espressione «farm» utilizzata nella versione in lingua inglese del Libro bianco. Non sono i campi, in una loro astratta ed ideale naturalità ad essere investiti, ma è la farm, l’azienda agricola, che entra a pieno titolo in un quadro complessivo di regolazione e di responsabilità. Quest’ispirazione, sistemica e di intera filiera, si è tradotta in disciplina operativa con la definizione introdotta dall’art.3, n.2 del regolamento n.178/2002. Ulteriore novità di rilievo introdotta dal regolamento è nell’espresso richiamo allo svolgimento di attività connesse ad una fase, e così ad una possibile impresa di fase, vale a dire ad un soggetto d’impresa, che riceve qualificazione e regime in ragione non dello svolgimento di un intero ed omogeneo comparto di attività, ma semplicemente dal fatto di investire una delle fasi, pur ove strutturata attraverso attività per altri versi fra loro disomogenee. Il riferimento alla fase (già presente, anche se in modo non compiuto – come si è detto – nella precedente normativa europea in tema di igiene e sanità) non è estraneo al nostro diritto interno, e così si rinviene nel nuovo testo dell’art.2135 sull’impresa agricola (come modificato dal decreto legislativo n.228/2001) (lxiii). Esso si accompagna ai concetti di filiera e di rete, assegnando rilievo giuridico a categorie sinora considerate solo economiche (lxiv). Siamo innanzi ad un ambito definitorio, per il quale un soggetto può acquistare la qualità di impresa alimentare, con gli obblighi e le responsabilità conseguenti, anche a prescindere dalla generale attività esercitata,

ma in ragione della partecipazione ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti. Ancor di più: è sufficiente a conferire tale qualificazione, determinando la soggezione alle relative regole, il semplice svolgimento di «una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi» (lxv). Sul piano dei soggetti, ne risulta una categoria, quella dell’impresa alimentare, che comporta regimi, modi organizzativi, precetti di organizzazione e di azione, che attraversano le distinzioni tradizionali. In altre parole, l’oggetto della regolazione (l’alimento) ed il fine della regolazione (la sicurezza alimentare) hanno indotto il legislatore europeo a prendere atto che non può essere efficace una regolazione puntiforme, per categorie scisse di soggetti, e che occorrono piuttosto regole uniformi, che qualificano il soggetto non in ragione di una sua astratta qualificazione, ma semplicemente in ragione della sua partecipazione (quale essa sia) a questa sfera del produrre o del distribuire (lxvi). Conferma esemplare ne è venuta di recente dalla bozza di regolamento CE sull’igiene dei prodotti alimentari n.438/2001 (lxvii), e dalla bozza di regolamento per la riforma di metà periodo della PAC, lì ove questa impone anche agli agricoltori il rispetto delle regole di azione e di organizzazione poste dal regolamento n. 178/2002 (lxviii). 4.- Alla dimensione sistemica dei soggetti investiti si accompagna la dimensione relazionale del modello di intervento. Gli artt.53 e 54 del regolamento n.178 (lxix) segnano un’evidente discontinuità rispetto ad una linea, risalente ed ancora di recente confermata proprio in tema di generale sicurezza dei prodotti non alimentari, di co-ammistrazione fra Comunità e Stati nazionali, e così «amministrazione comunitaria indiretta» non exécutante (lxx). Queste norme attribuiscono alla Commissione il potere di intervenire direttamente, e di propria iniziativa, adottando misure che riguardano singoli prodotti, e dunque specifici produttori, e che sono di particolare intensità, potendo tradursi in sospensione dell’immissione sul

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mercato degli alimenti o dei mangimi, in prescrizione di modalità particolari, e più in generale nell’adozione di “qualsiasi altra misura provvisoria adeguata”, con una latitudine davvero rilevante. E’ evidente la differenza rispetto a precedenti meccanismi, ad esempio quelli previsti dalle direttive del 1992 e del 2001 sulla sicurezza generale dei prodotti (lxxi): secondo quelle direttive la Commissione poteva al più imporre ai singoli Stati membri l’obbligo di prendere provvedimenti temporanei, ma non poteva intervenire direttamente sui singoli prodotti o produttori. Ai sensi dell’art.53 del regolamento n.178, invece, la Commissione interviene in prima persona, con la capacità di investire le situazioni di rischio, senza dover attendere l’attività delle amministrazioni nazionali. Le autorità nazionali potranno intervenire, ex art.54, solo in seconda battuta, qualora la Commissione, pur informata, non abbia adottato direttamente misure urgenti per il caso in questione. Ne risulta una sorta di sussidiarietà capovolta, per la quale il soggetto adeguato di intervento urgente per tutte le situazioni di rischio alimentare per la salute umana, la salute degli animali e l’ambiente, viene individuato in linea di principio nella Commissione, e solo l’eventuale inerzia della Commissione legittima l’iniziativa dello Stato membro. L’origine di una scelta così radicale va ricercata – come è facile immaginare - nelle gravi vicende di cronaca degli ultimi anni, che dalla BSE ai polli alla diossina, hanno visto autorità nazionali piuttosto restie (per evidenti ragioni di politica interna) nell’adottare le severe misure, imposte dalla gravità dei rischi connessi agli alimenti. Giova da ultimo ricordare che le norme sulle misure urgenti sono tra quelle entrate immediatamente in vigore, ai sensi dell’art.65 del regolamento n.178/2002. Certo due articoli non sembrano per sé soli sufficienti a costruire un compiuto sistema operativo di intervento nelle situazioni di urgenza, né possono intendersi come «proposta legislativa completa» secondo quanto annunciato nel Libro bianco. E’ prevedibile che i prossimi anni vedranno

nuovi interventi regolatori, intesi a meglio disegnare una trama attuativa dei principi enunciati in materia, secondo l’approccio di progressiva addizione, in progress, che caratterizza larga parte del regolamento n.178. Ne dovranno meglio emergere anche i profili di necessaria garanzia, procedimentale e giudiziaria, dei privati interessati (imprese, oltre che consumatori), rimasti largamente in ombra nell’attuale disposto degli artt. 53 e 54. Resta il fatto che questi due articoli segnano, unitamente all’istituzione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, momenti di indubbio rafforzamento dei soggetti centrali di governo, espressione di una ricerca di sicurezza innanzi ad una crescente globalizzazione, rispetto alla quale la dimensione nazionale ha manifestato palese inadeguatezza. Nel medesimo tempo le norme del regolamento n.178/2002 possono (e debbono) essere fatte valere anche dalle autorità nazionali, siccome costituiscono elemento di interpretazione ed attuazione della disciplina vigente (lxxii). Questa costituisce una novità rilevante della nuova disciplina, non solo rispetto al nostro risalente sistema di regole, ma anche rispetto allo stesso sistema europeo di igiene alimentare, pur profondamente rinnovato dall’introduzione del sistema HACCP con la direttiva del 1993. In questo senso sembra di poter dire che nel settore alimentare, alle tradizionali regole di prodotto e di produzione, che si traducono in requisiti fisico-chimici dei prodotti, quantificabili in valori assoluti e misurabili attraverso analisi di laboratorio o comunque attraverso esami rivolti all’oggetto, ovvero in caratteristiche dei luoghi di produzione e modalità della produzione (anch’esse traducibili in elementi fisici ed obiettivi), si accompagna un insieme di regole che attiene al modo stesso di essere e fare impresa. Si possono proposito distinguere (con l’arbitrarietà sempre sottesa ad ogni tentativo di classificazione): - regole di organizzazione; - regole di relazione; - regole di responsabilità.

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Quanto alle regole di organizzazione, il primo elemento da considerare è che le imprese, tutte le imprese alimentari (e questo decisamente unifica la categoria ed il modello, secondo quanto si è già osservato), sono tenute ad adottare le peculiari modalità organizzative, che risultano dall’applicazione degli artt.14-21 del regolamento n.178 (lxxiii). Giova sottolineare un singolare processo. Le regole di controllo della qualità, elaborate su base volontaria dagli organismi di certificazione, divengano regole di diritto, cogenti e non più solo volontarie. Sui contenuti di queste regole di organizzazione è sufficiente osservare che la rintracciabilità ed il principio di precauzione costituiscono in qualche misura i canoni guida intorno ai quali le imprese sono chiamate ad organizzare la propria attività. Si è parlato molto in questi anni, ed ancora di recente (a proposito del contenzioso insorto fra USA ed Europa su taluni prodotti alimentari ed agricoli), del principio di precauzione (lxxiv). In realtà questo principio, nel disegno del regolamento n.178/2002, non regola soltanto l’attività dei pubblici poteri e soggetti, ma anche l’attività delle imprese; è regola di impresa ed in questo senso è evidentemente regola di organizzazione, siccome costituisce il criterio alla stregua del quale operare il sindacato dell’attività di impresa, dell’adeguatezza delle modalità organizzative. L’elemento nuovo, che sembra vada sottolineato a chi dovrà operare per dare consulenza alle imprese, è che non è sufficiente che il prodotto sia sano e sicuro; che i luoghi di produzione, trasferimento, conservazione, distribuzione, commercializ-zazione, siano salubri; che le produzioni e le tecniche produttive siano corrette; occorre che l’intera struttura sia organizzata secondo modalità precise. Illuminante in questo senso l’art.17 del regolamento n.178, che nel testo italiano reca la rubrica «Obblighi», mentre nel testo tedesco la rubrica recita “Zuständigkeiten”, vale a dire “Competenze” (lxxv). Tale articolo disegna e distribuisce le competenze assegnate agli operatori e quelle proprie

degli Stati membri; sicché la rubrica in lingua tedesca ne chiarisce immediatamente l’oggetto. Recita l’art.17: «1. Spetta agli operatori del settore alimentare e dei mangimi garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti o i mangimi soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione e verificare che tali disposizioni siano soddisfatte….». L’operatore del settore alimentare deve dunque verificare che nell’attività dell’impresa alimentare le procedure e le modalità organizzative dell’impresa siano coerenti a quanto è necessario per soddisfare le disposizioni del reg. n.178. Il meccanismo non è ignoto all’ordinamento. Da ultimo il decreto legislativo 8 giugno 2001, n.231 (lxxvi), nel disciplinare la responsabilità delle persone giuridiche per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, ha previsto come causa di esclusione di responsabilità per la persona giuridica, l’adozione di idonei «modelli di organizzazione e gestione» e l’attivazione di protocolli e meccanismi di vigilanza (lxxvii). 6. Il principio di precauzione segna un ponte con un secondo gruppo di regole, quelle di relazione. Il legislatore europeo ha preso atto che la sicurezza alimentare non si esaurisce nella produzione e distribuzione. L’atto negoziale della vendita non esaurisce l’area delle attività dell’impresa alimentare; le regole necessariamente investono il prima, la comunicazione rivolta al consumatore, ed il dopo, l’attenzione al prodotto anche dopo la sua immissione nel mercato. E’ stato efficacemente scritto che «Il diritto dei consumatori si delinea come una disciplina di informazioni. … Il regime giuridico delle informazioni costituisce fondamento, insieme, di responsabilità dell’impresa, che le rifiuti o le alteri, e di auto-responsabilità del consumatore» (lxxviii). Di qui le regole di cui all’art.16 del regolamento. Sotto un altro profilo, sono regole di relazione anchr quelle di cui agli artt.19 e 20

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quanto agli obblighi di monitoraggio e di ritiro dei prodotti già immessi sul mercato. Queste disposizioni riguardano una fase successiva alla produzione e prevedono obblighi di ritiro dal mercato e di «richiamo dei prodotti già forniti ai consumatori», per il caso in cui «l'alimento non si trova più sotto il controllo immediato di tale operatore del settore alimentare» (lxxix), disegnando una fattispecie differenziata ed apparentemente più ampia rispetto a quella prevista dalla normativa in tema di responsabilità per danni da prodotti difettosi, che fa riferimento alla «messa in circolazione del prodotto»(lxxx). L’impresa alimentare non può disinteressarsi del prodotto dopo l’alienazione, ma è tenuta ad esercitare una vigilanza sull’intero mercato su cui opera, e nello stesso tempo deve esercitare la sua relazione con il mercato, attraverso una comunicazione rispettosa di regole, che sono anzitutto regole di verità e non decettività. 7. Il quadro si chiude con le regole di responsabilità La scarna disposizione dell’art. 21 assicura un meccanismo di tutela, costruendo una relazione fra la nuova disciplina sulla sicurezza alimentare, e la ben più risalente disciplina in tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso, che per un verso contribuisce a meglio intendere i caratteri innovativi del processo di normazione in cui si colloca il regolamento n.178/2002, per altro verso concorre a confermare la natura di progressiva costruzione di una regolazione non riducibile entro schemi collaudati del diritto comunitario (lxxxi). Il contenuto immediato della disposizione non è felicemente reso nel testo italiano, lì ove questo recita «Le disposizioni del presente capo si applicano salvo il disposto della direttiva 85/374/CEE», con formula che può far pensare all’enunciazione di un criterio di risoluzione di conflitti fra discipline, tale da determinare in ipotesi la disapplicazione del regolamento n.178/2002, in caso di contrasto di questo regolamento con la direttiva 85/374/CEE (lxxxii). Un’interpretazione letterale della formula dell’art.21 e della preposizione «salvo»

potrebbe indurre a concludere che le disposizioni degli artt.4-20 del regolamento n.178 (cioè proprio quelle dedicate alla “legislazione alimentare generale”) non si applichino nei casi regolati dalla direttiva n. 85/374/CEE, così segnando una netta delimitazione di confini fra aree di applicabilità, in ragione di un criterio di specialità delle discipline. In realtà l’art.21 intende semplicemente evitare interpretazioni, che in ipotesi ipotizzino un’abrogazione implicita di norme della direttiva n.374 del 1985 ad opera del regolamento n.178 del 2002, mentre ben resta possibile una congiunta applicazione dei due complessi di regolazione. La relazione tra produttore e consumatore, esplicitamente presente sul piano dei principi in numerosi articoli del regolamento, che operano lungo il versante che dall’impresa va verso il consumatore disegnandone obblighi e doveri (lxxxiii), si manifesta così anche lungo il versante opposto, che dal consumatore va verso il produttore, nel senso di confermare la legittimazione del consumatore all’azione per responsabilità civile, individuando i presupposti per un controllo diffuso, che si accompagna a quello assegnato alle autorità dei singoli Stati membri, sulla base della distribuzione di competenze operata dall’art.17. Resta da scrutinare un possibile rapporto fra complessi normativi, per accertare se le norme in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, quando applicate agli alimenti ed ai mangimi, debbano o meno essere interpretate alla luce delle disposizioni introdotte nel capo II del regolamento n. 178. La risposta positiva sembra obbligata ove si consideri che per determinare se un prodotto è difettoso e dà luogo alla responsabilità di cui al D.P.R. 224/1988 ed alla direttiva 85/374/, occorre tenere «conto di tutte le circostanze, tra cui:

a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite; b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato

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e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere; c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione» (lxxxiv),

e che la responsabilità del produttore è, fra l’altro, «esclusa:

d) se il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a una norma giuridica imperativo o a un provvedimento vincolante; e) se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso; f) nel caso del produttore o fornitore di una parte componente o di una materia prima, se il difetto è interamente dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o materia prima o alla conformità di questa alle istruzioni date dal produttore che l’ha utilizzata» (lxxxv).

Già con riferimento alla disciplina anteriore al regolamento n.178/2002, era stato sottolineato che «Quando si tratta di prodotti agricoli ed alimentari, le direttive sulla responsabilità per prodotto difettoso non possono essere studiate in modo isolato» (lxxxvi). Con l’adozione del regolamento n.178/2002 la dimensione integrata si fa dichiarata, la finalità di apprestare «una base comune» diviene esplicita (lxxxvii). Su un piano generale, gli artt.1 e 4 affermano espressamente che i principi contenuti nel regolamento costituiscono canoni di applicazione ed attuazione dell’intera normativa vigente in una materia, la «legislazione alimentare» che - siccome fra l’altro intesa ad assicurare tutela al consumatore, ed estesa a comprendere tutte le fasi di produzione e distribuzione - con ciò stesso investe l’interpretazione della disciplina della responsabilità per danni da prodotti alimentari difettosi.

Ma è soprattutto nel capo II del regolamento n.178 (lxxxviii), che si rinviene una possibile specifica «base comune» della responsabilità civile nel diritto alimentare. Gli artt. 14 e 15 del regolamento definiscono «requisiti di sicurezza degli alimenti e dei mangimi», introducendo norme imperative e di diretta applicazione (lxxxix), e con ciò determinando le caratteristiche che devono essere presenti perché un alimento possa essere definito sicuro. La «difettosità» del prodotto alimentare, ai sensi delle direttive del 1985 e del 1999, a sua volta fa riferimento a «la sicurezza che ci si può legittimamente attendere» (xc). Se ne può concludere che la “difettosità” o meno di un prodotto alimentare dovrà essere determinata alla stregua delle prescrizioni del regolamento n.178, e così degli obblighi che questo pone a carico degli operatori del settore ai fini della sicurezza. Il presupposto essenziale dei diritti e delle azioni, riconosciute al consumatore ai fini del risarcimento dei danni da prodotti difettosi, si determina dunque in ragione della «base comune» quale stabilita dal regolamento n.178. Reciprocamente, la relazione consumatore-impresa, sul versante attivo dei diritti del consumatore, pur non espressamente delineata nel regolamento n.178, emerge come componente sistemica, in ragione della formalizzazione quali regole di diritto di un insieme di prescrizioni che, in riferimento specifico agli alimenti, costituiscono le basi condivise dell’intera regolazione. Sul piano del diritto interno, tale conclusione rinvia a risalenti esperienze maturate nel nostro ordinamento, quanto al contenuto da assegnare alla responsabilità penale disegnata dall’art. 516 cod.pen., che punisce quale “Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine” il comportamento di “Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in commercio come genuine sostanze alimentari non genuine”. La giurisprudenza (xci) ha chiarito che - ai fini di questa responsabilità – il concetto di «genuinità» non è soltanto quello «naturale», ma anche quello «normativo» o «formale» fissato dal legislatore, a prescindere da considerazioni su una pretesa naturalità dell’alimento (xcii);

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sicché anche l’oggetto della norma penale si determina in ragione delle prescrizioni del diritto alimentare. Se ne può concludere che, se le azioni del consumatore sono fatte salve ed anzi rafforzate dall’art.21, reciprocamente la norma sulla responsabilità per danno da prodotto difettoso estesa agli alimenti, costituisce uno degli elementi centrali di chiusura e di presidio per l’intero sistema di sicurezza alimentare e lungo l’intera filiera agroalimentare (xciii), siccome legittima l’iniziativa del consumatore, attivando strumenti privatistici a titolarità diffusa accanto agli strumenti del controllo pubblico e della certificazione. In questo senso, sembra ragionevole osservare che il regolamento n. 178, con la sua singolare molteplicità di basi giuridiche, di fini, di strumenti di intervento, di date di entrata in vigore, se in parte sconta la difficoltà di dare ordine ad un settore complesso, per le tensioni che lo attraversano e per le regole che lo investono, soprattutto esprime un modo peculiare di fare diritto europeo in senso proprio, dando vita ad un sistema di governo di interessi e di attività, nel quale si intersecano piano nazionale e piano comunitario, responsabilità dei privati ed interventi di soggetti dotati di autorità persuasiva e scientifica, piuttosto che di poteri nel senso classico, riducibili ad unità solo ove letti attraverso il canone di sussidiarietà (e di complessità dei soggetti regolatori), in una duplice declinazione, verticale ed orizzontale. L’impresa ne risulta destinataria di regole, e nello stesso tempo ne viene legittimata a farsi essa stessa fonte di regole, di autoregolazione ed autoresponsabilità, in un dialogo che assume la sicurezza alimentare come decisivo canone dello statuto normativo della concorrenza nel mercato degli alimenti.

i V. L, Costato, I principi del diritto alimentare, in Studium iuris, 2003, p. 1051. ii Il diritto comunitario tende a comprendere nel diritto alimentare anche le regole relative alla produzione ed al consumo di mangimi destinati ad animali che costituiscono essi stessi o che producono alimenti per

l’uomo, a causa della stretta connessione esistente fra alimento dell’animale e caratteristiche del prodotto alimentare derivato. iii A cominciare dalla sentenza Dassonville, per seguire con la Cassis de Dijon, brevemente citate e commentate nel mio Compendio di diritto alimentare, cit., p. 177 ss. iv Esemplare, al proposito, la vicenda c.d. della carne agli ormoni, a proposito della quale v. P. Borghi, L’agricoltura nel trattato di Marrakech (prodotti agricoli e alimentari nel diritto del commercio internazionale) Milano, 2004, p. 165. v Si fa riferimento, qui alla sicurezza dei cibi, e non alla sicurezza di avere cibi a sufficienza, problema questo diverso che tormenta una parte rilevante del nostro pianeta. vi Si tratta di vincoli non applicabili direttamente, come ha più volte affermato la Corte di giustizia, ma di obblighi internazionali che Comunità e Stati membri, ciascuno per la sua competenza, sono tenuti a rispettare; sul punto v. da ultimo, la sentenza in causa C-377/02 del 1° marzo 2005, Léonn Van Oaris NV – BIRB, pubblicata solo, per ora, nel sito della Corte, ove anche rinvii alla precedente giurisprudenza. vii Sull’arg.v. L. Gradoni, Commento all’art. 7, in in La sicurezza alimentare nell’Unione europea (commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate, 2003, p. 188 ss.; per una lettura parzialmente diversa mi permetto di rinviare a quanto affermo nel presente volume, p. 85 ss. viiiA proposito di soft law mi permetto di rinviare a L. Costato, Il soft law nel diritto agrario e alimentare, in Lavoro e diritto, 2003, p. 37 ss. ix Sull’arg. mi permetto di rinviare al mio Compendio di diritto alimentare, II edizione, cit., p. 343 ss. x Con la dir. 85/374 del Consiglio del 25 luglio 1985, in GUCE L 201 del 1985, integrata e modificata da ultimo dalla dir. 1999/34 del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 maggio 1999, in GUCE L 141 del 1999, attuate in Italia rispettivamente dal d.P.R. 25 maggio 1988, n. 224 e dal d. lgs. 2 febbraio 2001, n. 25. xi V. il reg. 852/2004 cit, che sostituisce la dir. 93/43 del Consiglio del 14 giugno 1993, in GUCE L 175 del 1993; sulla direttiva citata v. il mio Compendio di diritto alimentare, cit., p. 337, ove bibliografia. xii Il reg. 2005/2004 del 27 ottobre 2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, è rubricato ‘sulla cooperazione delle autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori (“Regolamento sulla cooperazione per la tutela dei consumatori”)’, in GUUE L364 del 9 dicembre 2004, p. 1 ss. xiii Sul punto v. l’allegato al reg. 2005/2004.

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xiv Sull’argomento v. G. Sgarbanti, Commento all’art. 4, in La sicurezza alimentare nell’Unione europea (commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate, 2003, p. 188 ss. xv Da G. Sgarbanti, op. loc. cit. xvi V., al proposito, la disamina fatta dalla Commissione C.E. nella Comunicazione sul principio di precauzione, on COM (2000) def. del 2 febbraio 2000. xvii V., per quanto si riferisce ai riferimenti bibliografici, quanto segnalato a nota 10. xviii Dalla dir. 99/59 del 29 luglio 1992 relativa alla sicurezza generale dei prodotti. xix Sul sistema di allarme rapido come costruito dal reg. 178/2002 v. L. Petrelli, Commenti agli artt.. 50 e ss., in La sicurezza alimentare nell’Unione europea (commento articolo per articolo al reg. 178/2003), a cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civili commentate, 2003, p. 428 ss., ove anche riferimenti al sistema adottato con la dir. 92/59 cit. (xx) Del 14 novembre 2001, adottata a conclusione della Conferenza Ministeriale ivi svoltasi - WT/MIN(01)/DEC/W/1. (xxi) WT/MIN(01)/W/10. (xxii) COM(1999) 719 def. del 12 gennaio 2000. (xxiii) COM(2000) 1 del 2 febbraio 2000. (xxiv) Reg. (CE) n. 178/02 del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (in GUCE L 31 del 1 febbraio 2002). (xxv) Rapporto del Panel istituito nell’ambito del GATT: Thailand - Restrictions on importation of and internal taxes on cigarettes, DS10/R - 37S/200. (xxvi) Decision on the implementation of article 4 of the Agreement on the application of Sanitary and Phytosanitary Measures, del 24 ottobre 2001 - G/SPS/19. (xxvii) EC - Measures affecting asbestos and asbestos-containing products, WT/DS135/AB/R, 12 marzo 2001, punto 168. (xxviii) Australia - Measures affecting importation of salmon, WT/DS18/R, 12 giugno 1998, punto 8.108. (xxix) Dec. 1999/244/CE del 26 marzo 1999, in GUCE L 91 del 1999. (xxx) Sent. 23 ottobre 2001, in causa T-155/99, Dieckmann & Hansen. (xxxi) EC Measures concerning meat and meat products (Hormones), WT/DS26/AB/R - WT/DS48/AB/R, del 16 gennaio 1998. (xxxii) Australia - Measures affecting importation of salmon, WT/DS18/R, e WT/DS18/AB/R. (xxxiii) Japan - Measures affecting agricultural products (Varietals), WT/DS76/R, e WT/DS76/AB/R.

(xxxiv) Egypt - Import Prohibition on Canned Tuna with Soybean Oil, Request for Consultations by Thailand, WT/DS205/1. xxxv) V. per tutti M.R.FERRARESE, Il diritto al presente. Globalizzazione e tempo delle istituzioni, Bologna, 2002. xxxvi) V. Il governo dell’agricoltura nel nuovo titolo V della costituzione, Atti dell’incontro di studio dell’IAIC di Firenze, 13 aprile 2002, a cura di A.GERMANO’, Milano, 2003, e v. ivi, a p.67, in particolare la relazione di A.JANNARELLI, L’agricoltura tra materia e funzione: contributo all’analisi del nuovo art.117 Cost. xxxvii) Così Corte Cost. 26 luglio 2002, n.407, in materia di limiti di inquinamento, prescritti dalla legge reg. Lombardia che ha introdotto limiti più severi di quelli nazionali. xxxviii) V. le relazioni di D.GORNY, L’autorità per la sicurezza alimentare, e di F.LUBRANO, L’attività dell’autorità ed i controlli, nel medesimo convegno UAE di Pescara, in q. Riv., infra. xxxix) Già nel testo originario del Trattato del 1957, l’art.39 (ora 33) individua fra le finalità della politica agricola comune quella di “e) assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne al consumatore”, e l’art.86 (ora 82) vieta le pratiche abusive consistenti “b) nel limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno del consumatore”. L’Atto Unico europeo del 1987 ha poi aggiunto l’art.100A (ora 95), lì ove si prevede un livello di protezione elevato “in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori”. Sulla nozione di consumatore nel diritto comunitario v. A.GERMANO’ - E.ROOK BASILE, Commento all’art.3, in La sicurezza alimentare nell’Unione europea (commento al reg.178/2002), a cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civ.comm., 2003, ____. xl) Con esiti anche quanto alle categorie dei beni ed all’individuazione di new properties; v. per tutti A. JANNARELLI, Beni, interessi, valori. Profili generali, e la disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Diritto privato europeo, a cura di N.Lipari, Padova, 1997, I, p.373, e II, p.489.

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xli) Direttiva 98/27/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 maggio 1998, relativa a provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori; per l’Italia v. la legge 30 luglio 1998, n. 281, «Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti». xlii) Per ulteriori indicazioni v. G.CHINÈ, Il consumatore, in Diritto privato europeo, cit., I, p.164, e Il diritto comunitario dei contratti, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A.Tizzano, Torino, 2000, I, p.607. xliii) Direttiva n. 577/85 sui contratti stipulati fuori dai contratti commerciali, attuata in Italia con d.leg.vo 15 gennaio 1992, n. 50; v. anche le direttive del 1987 sul credito al consumo, del 1993 sulle clausole abusive e del 1997 sui contratti a distanza. xliv) Art.2, n.18) del reg. n.178/2002. xlv) Direttiva 79/112/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1978, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità, poi modificata dalla direttiva n.89/395/CEE del Consiglio del 14 giugno 1989, che ne ha previsto la generalizzata applicazione anche ai prodotti destinati alle collettività. V. oggi la direttiva 2000/13/CE del 20 marzo 2000, che ha codificato la materia; per ulteriori indicazioni in argomento sia consentito rinviare al mio Le norme sull’etichettatura dei prodotti alimentari, in Trattato di diritto agrario nazionale e comunitario, diretto da L.Costato, Padova, 2003, III ed., 631. xlvi) D. GADBIN, La qualité de la production du produit de base en droit communautaire agricole, in Le produit agro-alimentaire et son cadre juridique communautaire, Rennes, 1996, il quale ha rimarcato che “le consommateur entretient évidemment un rapport plus intime avec sa nourritoure qu’avec les produits non alimentaires”. xlvii) M.TAMPONI, La tutela del consumatore di alimenti: soggetti, oggetti e relazioni, in Agricoltura e alimentazione tra diritto, comunicazione e mercato, Atti del convegno IDAIC di Firenze, 9-10 novembre 2001, a cura di E.Rook Basile e A.Germanò, Milano, 2003, p.301, a p.311. xlviii) V. A.GERMANÒ-E.ROOK BASILE, Commento all’art.3, cit. xlix) Art.2, n.18, reg. 178/2002. l) Così la Corte di giustizia nelle sentenze 3 luglio 1997 in causa C-269/95, e 19 gennaio 1993, in causa C-89/91, entrambe significativamente pronunciate non su regolamenti o direttive, ma sull’interpretazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 sulla competenza giurisdizionale, in particolare per quanto attiene al foro riservato al consumatore.

li) Secondo linee che sembrano aver trovato eco anche nella più recente giurisprudenza della Corte italiana di legittimità, lì ove questa ha dichiarato la legittimazione ad opporsi al provvedimento di archiviazione in tema di sospetta qualità dell’acqua minerale contenuta in una bottiglia anche alla parte privata, siccome portatrice di un interesse giuridicamente protetto ad ottenere giustizia a tutela della salute (Cass., sez. pen., sentenza n.25726 del 2003). lii) Basti pensare alla legge italiana sulle associazioni dei consumatori; v. la relazione di S.MASINI, Il diritto all’informazione e l’etichettatura dei prodotti agro-alimentari, nel medesimo convegno UAE di Pescara, in q. Riv., infra. liii) Cfr. A. JANNARELLI, L’impresa agricola nel sistema agro-industriale, in Dir.giur.agr.amb., 2002, p.213. liv) Per ulteriori indicazioni sia consentito rinviare al mio Dai distretti all’impresa agricola di fase, Viterbo, 2002. lv) N.LIPARI, Il mercato: attività privata e regole giuridiche, in Agricoltura e diritto. Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Milano, 2000, I, p.37. lvi) V. già La nozione di impresa nell’ordinamento comunitario, a cura di P.VERRUCOLI, Milano, 1977; più di recente, per ulteriori riferimenti, L.DI VIA, L’impresa, in Diritto privato europeo, cit., I, 252. lvii) V. anche le definizioni di «… 3) "operatore del settore alimentare", la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell'impresa alimentare posta sotto il suo controllo; … 7) "commercio al dettaglio", la movimentazione e/o trasformazione degli alimenti e il loro stoccaggio nel punto di vendita o di consegna al consumatore finale, compresi i terminali di distribuzione, gli esercizi di ristorazione, le mense di aziende e istituzioni, i ristoranti e altre strutture di ristorazione analoghe, i negozi, i centri di distribuzione per supermercati e i punti di vendita all'ingrosso; 8) "immissione sul mercato", la detenzione di alimenti o mangimi a scopo di vendita, comprese l'offerta di vendita o ogni altra forma, gratuita o a pagamento, di cessione, nonché la vendita stessa, la distribuzione e le altre forme di cessione propriamente detta; … 16) "fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione", qualsiasi fase, importazione compresa, a partire dalla produzione primaria di un alimento inclusa fino al magazzinaggio, al trasporto, alla vendita o erogazione al consumatore finale inclusi e, ove pertinente, l'importazione, la produzione, la lavorazione, il magazzinaggio, il trasporto, la distribuzione, la vendita e l'erogazione dei mangimi», tutte contenute nell’art.2 del reg. n.178.

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lviii) Sul diffuso utilizzo delle definizioni nel diritto comunitario v., per ampi riferimenti, A.GERMANO’ - E.ROOK BASILE, Commento all’art.3, cit. lix) Direttiva 93/43/CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993, sull’igiene dei prodotti alimentari, che ha previsto la generalizzata adozione del sistema HACCP, e che è stata attuata in Italia con il decreto legislativo 26 maggio 1997, n.155. lx) Secondo quanto prevede la legge n.283 del 30 aprile 1962, «Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande». lxi) Commission of the European Communities, COM (1999) 719 final, Brussels, 12 January 2000, p.8 lxii) Commissione delle Comunità Europee, COM (1999) 719, Bruxelles, 12 gennaio 2000, p.9. lxiii) Sui precedenti normativi in argomento e sulle novità introdotte non solo dal decreto legislativo di orientamento del settore agricolo, n.228/2001, ma anche dal decreto legislativo di orientamento del settore forestale, n.227/2001 (in particolare agli artt.7 ed 8), sia consentito rinviare al mio Dai distretti all’impresa agricola di fase, cit. lxiv) V. L. COSTATO, Dall’impresa agricola alla filiera e ai distretti, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, diretto da L.Costato, 3^ ed., Padova, 2003, p.12, ed il mio Distretti e sistemi produttivi locali in agricoltura: dal fondo al territorio, ivi, p.13. lxv) Così l’art.3, n.2 reg. n.178/2002, che recita: «Ai fini del presente regolamento si intende per: … 2) “impresa alimentare”, ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti». Significativo ricordare che il medesimo art.3, al n.5, nel definire la «impresa nel settore dei mangimi», non richiede neppure lo svolgimento di una fase ma ritiene sufficiente ad identificare tale «impresa» il semplice svolgimento di «una qualsiasi delle operazioni», così disponendo: «Ai fini del presente regolamento si intende per: … 5) “impresa nel settore dei mangimi”, ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle operazioni di produzione, lavorazione, trasformazione, magazzinaggio, trasporto o distribuzione dei mangimi, compreso ogni produttore che produca, trasformi o immagazzini mangimi da somministrare nel suo fondo agricolo ad animali». lxvi) Può risultare efficace a chiarire la latitudine della nuova disciplina (solo apparentemente paradossale) un semplice test, il «test del caffè dell’avvocato» (soggetto doverosamente scelto perché il convegno di Pescara, per il quale è stata preparata questa relazione, era organizzato appunto da un’associazione europea di avvocati): un avvocato, il quale offra a clienti del

proprio studio un caffè, non rientrava nella definizione di «industria alimentare» di cui alla direttiva del 1993 richiamata alla precedente nota 25, ma verosimilmente rientra nella definizione di «impresa alimentare» quale introdotta dal reg. n.178/2002, nella misura in cui svolge un’attività di trasformazione e distribuzione di un prodotto alimentare; ne segue che anche l’avvocato dovrà preoccuparsi di rispettare le regole di organizzazione, relazione e responsabilità appresso discusse, ad esempio predisponendo idonei e documentati modelli di organizzazione e controllo, ed acquisendo e conservando la documentazione richiesta dall’applicazione del principio di tracciabilità. lxvii) Su cui v. R.VITOLO, Il diritto alimentare nell’ordinamento interno e comunitario, Napoli, 2003, p.84. lxviii) V. la proposta di “Regolamento del Consiglio, che stabilisce norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica agricola comune e istituisce regimi di sostegno a favore dei produttori di talune colture”, presentata dalla Commissione delle Comunità europee il 21 gennaio 2003, COM (2003) 23 def. (non ancora approvata nel testo definitivo al momento della redazione di queste note), che nell’Allegato III, fra i “Criteri di gestione obbligatori” posti a carico di tutti gli agricoltori che intendono beneficiare di pagamenti diretti, sono indicati espressamente gli artt.14, 15, 18, 19, e 20 del regolamento n.178/2002. lxix) In argomento, per ulteriori indicazioni e riferimenti, sia consentito rinviare al mio Commento agli artt.53 e 54, in La sicurezza alimentare nell’Unione europea (commento al reg.178/2002), a cura dell’IDAIC, in Le nuove leggi civ.comm., 2003, ____. lxx) In generale, sulle novità introdotte nei modelli di amministrazione nazionale, dall’introduzione dei meccanismi di amministrazione comunitaria, diretta e indiretta, v. per tutti S.CASSESE, Diritto amministrativo comunitario e diritti amministrativi nazionali, in Trattato di diritto amministrativo europeo, diretto da M.P.CHITI e C.GRECO, Milano, 1997, I, p.3. lxxi) V. la Direttiva 92/59/CEE del Consiglio del 29 giugno 1992, «relativa alla sicurezza generale dei prodotti», il decr. leg.vo di attuazione 17 marzo 1995, n.115, e da ultimo la direttiva 2001/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha sostituito la direttiva 92/59, rinviandone però l’abrogazione al 15 gennaio 2004; in argomento v. P. DI MARTINO, La tutela dei consumatori: sulla sicurezza e qualità dei prodotti, anche alimentari, in Scritti in memoria di Giovanni Cattaneo, Milano, 2002, I, p.507; A. GERMANO’, La responsabilità del produttore agricolo, in Trattato breve, cit., p.743. lxxii) V. l’art.4, comma 3, del reg. n.178.

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lxxiii) Ex art. 65 del regolamento, gli artt.14-20 avranno applicazione dal 1 gennaio 2005, laddove l’art.21 è di immediata applicazione. lxxiv) V. in argomento la relazione di P.BORGHI, Il principio di precauzione tra diritto comunitario e accordo S.P.S., al convegno AICDA di Pestum del 30-31 maggio 2003. (lxxv) Conformemente nel testo spagnolo le rubriche degli artt.19 e 20 recitano “Responsabilidades respecto a …” mentre quella dell’art.21 recita “Responsabilidad civil”, e nel testo inglese le rubriche degli artt.19 e 20 recitano “Responsibilities for …” mentre quella dell’art.21 recita “Liability”. (lxxvi) «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art.11 della legge 29 settembre 2000, n.300»; significativo rilevare che la legge delega 29 settembre 2000, n.300, ratifica e dà esecuzione della Convenzione del 1995 sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, a conferma dell’ispirazione comunitaria del modello di regolazione adottato. (lxxvii) Art.6 del decreto leg.vo 8 giugno 2001, n.231; v. A.FRIGNANI – P.GROSSO –G.ROSSI, I modelli di organizzazione previsti dal d.leg. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, in Società, 2002, p.143. (lxxviii) N.IRTI, la concorrenza come statuto normativo, in Scritti in onore di Giovanni Galloni, Roma, 2002, Ii, p.934, a p.942. (lxxix) Art.19, comma 1, del regolamento. (lxxx) Cfr. l’art.7 del D.P.R. 224/1988. lxxxi) In argomento, per ulteriori indicazioni, sia consentito rinviare al mio Commento all’art.21, in La sicurezza alimentare nell’Unione europea, cit., p. ___ lxxxii) Direttiva 85/374/CEE, modificata dalla Direttiva del Parlamento e del Consiglio 34/99/CE del 10 maggio 1999, ed attuata in Italia con D.P.R. 24 maggio 1988, n.224, come modificato dal decr. leg.vo 2 febbraio 2001, n.25, per un commento, con ampi riferimenti, v. A.GERMANO’, La responsabilità del produttore agricolo, in Trattato breve, diretto da L.COSTATO, cit., p.743; P. DI MARTINO, La tutela dei consumatori, cit. (lxxxiii) Cfr. gli artt.1, 3 n.13), 5, 8, da 14 a 20. (lxxxiv) Art.5 D.P.R. 224/1988; cfr. l’art.6, comma 1, della direttiva 85/374/CEE. Cfr. anche le definizioni di “prodotto sicuro” contenute nella direttiva 92/59/CEE del Consiglio del 29 giugno 1992, «relativa alla sicurezza generale dei prodotti», nel decr. leg.vo di attuazione 17 marzo 1995, n.115, e da ultimo nella direttiva 2001/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha sostituito la direttiva 92/59, rinviandone però l’abrogazione al 15 gennaio 2004.

(lxxxv) Art.6 D.P.R. 224/1988; cfr. l’art.7, della direttiva 85/374/CEE. (lxxxvi) Cfr. A.GERMANO’, op.ult.cit., p.747. (lxxxvii) V. il 5^ considerando. (lxxxviii) All’interno di questo capo, rilevante appare soprattutto la sez.IV, «Requisiti generali della legislazione alimentare», artt. 14-21. (lxxxix) Pur con tutte le incertezze legate a talune formule non sufficientemente definite, quale quella sui possibili danni alla salute dei «discendenti». (xc) Art.5 D.P.R. 224/1988. (xci) Cfr. Cass., 7 marzo 1984, Pau; Cass., 17 novembre 1994, Manni; Cass., 18 ottobre 1995, Pittarello; Cass., 22 maggio 1996, Lionetti; in argomento, secondo differenziate prospettive, v. A.BERNARDI, La disciplina sanzionatoria della produzione agricola e del mercato agro-alimentare, in Trattato breve, cit., p. 1101; G.PICA, Illeciti alimentari, in Enc.dir., aggiorn., VI, Milano, 2002, p. 443. (xcii) Di talché si è parlato di una «doppia genuinità». (xciii) In argomento, per ulteriori indicazioni, sia consentito rinviare al mio Sistema agroalimentare, in Digesto disc. priv., sez. civ., Aggiornam., IV, Torino, 2003, p.1244.

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