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Panorama Anno LX - N. 15 - 15 agosto 2012 - Rivista quindicinale - kn 14,00 - EUR 1,89 - Spedizione in abbonamento postale a tariffa intera - Tassa pagata ISSN-0475-6401 www.edit.hr/panorama Momenti di gloria

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Momenti di gloria

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Momenti di gloria...Olimpionici nuovi e “vecchi”, urla, salti, pianti e saluti: la nazionale croata di

pallanuoto, la discobola zagabrese Sandra Perković, la judoka slovena Urška Žolnir, già bronzo ad Atene, il tiratore cittanovese Giovanni Cernogoraz, la fio-rettista azzurra Valentina Vezzali, alla sua quinta Olimpiade d’oro...

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Panorama 3

In primo piano

di Mrio Simonovich

Da pochi giorni ci siamo lascia-ti alle spalle la 297. esima edi-zione della nota Alka di Sinj.

Come di regola accade dall’indipen-denza croata, anche stavolta dal tor-neo è partito almeno un messaggio politico attuale, personificato da quel Veljko Džakula che ultimamente con sempre maggior vigore si propone si scalzare Pupovac dalla carica di lea-der della minoranza serba. A questo si è affiancato un messaggio “storico”, ovvero per la prima volta dalla stori-ca battaglia del 1715 che il torneo in-tende evocare, fra i presenti c’era an-che un esponente degli sconfitti, nella fattispecie l’ambasciatore turco Burat Ozugergin, accolto con tanto calore da prendersi l’applauso più fragoroso e che, da buon diplomatico, ha ricor-dato che l’appuntamento è degno del-la massima considerazione in quanto passato a tutti gli effetti dall’origina-ria caratterizzazione storica a una in-tegralmente culturale.

Condividendo pienamente il ra-gionamento, posto che nessun cro-nista ha nominato Venezia, si ritiene che, nonostante qualche titolo di me-rito non sia stata invitata. Eppure la storia è chiara a proposito: dopo se-coli di dominazione dei comites cro-ati, nel 1615, Sinj, Signo o Sign che dir si voglia, cade in mano ai turchi che per un secolo e mezzo ne fanno un avamposto verso Venezia che cer-ca più volte di conquistarla. Ci rie-sce però solo nel 1686 ad opera del provveditore Girolamo Cornaro, for-te di un esercito di settemila uomi-ni, cifra di tutto rispetto per l’epoca e provvede subito al ripopolamento dell’area con popolazioni provenienti dalla Bosnia occidentale, che arriva-no guidate dai frati del noto monaste-ro di Rama.

Si arriva così al fatidico tentati-vo di riconquista turco del 1715 che, dopo aspri combattimenti, viene re-spinto dalla gente del posto, coadiu-vata dal presidio veneziano. Per i tur-chi è la disfatta definitiva: nella notte fra il 14 e 15 agosto sono costretti a

togliere in via definitiva l’assedio alla città ed ritirarsi lasciando sul campo, sembra, circa diecimila morti.

La vittoria della coalizione sla-vo/veneziana è attribuita fin dall’ini-zio all’intercessione della Madonna la cui immagine, prelevata dal sotto-stante convento, era stata portata nel-la fortezza, fra i combattenti, sia per rincuorarli che per impedire che ca-desse in mano agli infedeli. Anche il passo successivo è dei veneziani: il provveditore Balbi si preoccupa di raccogliere fra i suoi ufficiali la som-ma di 80 ducati d’oro per ordinare a Venezia, a ornamento della miracolo-sa immagine, una corona e una croce d’oro con l’iscrizione In perpetuum coronata triumphat-Anno MDCCXV.

L’euforia della vittoria sfocia ben presto nell’idea di un torneo evocati-vo che all’inizio si tiene in quello che è per eccellenza il periodo delle feste: l’ultimo giorno di carnevale, ed è tan-to ben visto, oggi si direbbe suppor-tato, dall’autorità veneziana, che si assume in permanenza l’onere della sponsorizzazione, ovvero di provve-dere ai premi da consegnare ai vinci-tori. Così, il provveditore offre quat-tro bracci (1 braccio = 0,863 cm) del panno più fine e si incarica di prov-vedere alla cena di gala. Gli ufficia-li più alti in grado offrono pure brac-ci di panno, comunque di dimensioni minori. La serata successiva la cena è offerta dai cavalieri, che invitano le autorità religiose e civili e tutti i cit-tadini più in vista. La costumanza è molto seguita e rimane in auge per tutta la durata del dominio venezia-no, tanto che uno degli ufficiali, il co-lonnello, ha anche l’incarico di pre-siedere stabilmente al torneo.

La caduta della serenissima e l’ar-rivo dei francesi portano, dopo quasi due secoli alla decadenza dell’appun-tamento fino a spegnerlo del tutto. Riprenderà più tardi, con l’interven-to personale di Francesco Giuseppe e il passaggio dell’organizzazione agli uomini del posto, per arrivare con po-che modifiche, fino ai giorni nostri.

Ciò detto, torno alla domanda ini-ziale: perché non si invita Venezia?●

Aspetti storici e messaggi attuali del torneo cavalleresco di Sinj

E dopo il Turco, invitiamo Venezia?

Prendere ai ricchi non è sufficiente

Imposte, prelievi, solidarie-tà, temi più che mai d’attuali-tà in questi tempi di crisi. Dal-la Slovenia giungono, nel conte-sto, due notizie contrapposte. La prima è che circa mille cittadini, proprietari di diverse migliaia di immobili, pagheranno l’imposta anticrisi. L’imposta colpirà co-loro che vantino beni con valore superiore a un milione di euro. Il censimento è stato effettuato tre anni fa in vista di una tassazione generalizzata poi invece non ap-plicata. Gli uffici imposte prov-vederanno subito a inviare i re-lativi questionari agli interessa-ti, mentre i decreti di pagamento dovrebbero arrivare entro set-tembre. Chi intende essere esen-tato dovrà dimostrare che il va-lore dell’immobile è inferiore al tetto di cui si diceva o che esso viene usato a fini commerciali o produttivi. Notizia antipatica ma inevitabile si dirà, in questi tem-pi, anche perché è allo stato che spetta la ridistribuzione delle ric-chezze.

E qui sorge il problema, per-ché a giudicare da certe decisio-ni, la ridistribuzione è molto di-scutibile. Si è saputo ad esem-pio che l’aggiunta alla pensione di cui fruivano eminenti sportivi sta per essere abolita. Fra i colpi-ti uno dei nomi di maggior spic-co è il ginnasta Miroslav Cerar e la corresponsione è piuttosto modesta: 350 euro mensili. One-stamente: meritava fare una vita di sacrifici, confermati da palesi meriti verso il paese per ritrovar-si, da anziani, umiliati nella di-gnità forse ancor più che nel por-tafogli?

Costume e scostume

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4 Panorama

Panorama testi

SommarioN. 15 - 15 agosto 2012

www.edit.hr/panorama

Panorama

IN COPERTINA: Giovanni Cernogoraz

4 Panorama

IN PRIMO PIANOAspetti storici e messaggi attuali del torneo cavalleresco di SinjE dopo il turco, invitiAmo vEnEziA?................. 3di Mario Simonovich

ATTUALITÀrimbalzato dagli usa il caso pfeizer sta creando da noi notevole scalporeSpErimEntAzionE clinicA? pEr co-minciArE, QuAnto mi pAGAtE?....... 6a cura di Mario Simonovich

ETNIApresentati i costumi e tradizioni dignane-si, raccolti ed elaborati da Anita ForlaniAltiSonAntE AmorE pEr il pASSAto dEllA comunitÀ......8di Mario Simonovich

OLIMPIADInel tris vincente con la pallanuoto e la discobola PerkovićGiAnni cErnoGorAz il noStro rAGAzzo d’oro...10di Bruno Bontempo

GUERRA SUL MARE: IL LACONIAl’incredibile vicenda della nave britan-nica affondata da un sottomarino tede-sco il 12 settembre 1942 (1-continua)nEllE StivE un’EcAtomBE di priGioniEri itAliAni..........14a cura di Marin RogićSOCIETÀ da quattro anni l’associazione italiana promuove l’iniziativa del mayors for peace giapponesericordAndo HiroSHimA. lE cittÀ non Sono BErSAGli...18 di Marino VocciLA STORIA OGGIil caso altoatesino paradigmatico d’un problema generalemiti Etnici trA GloBAlizzAzio-nE Ed EtnonAzionAliSmi........ 20di Fulvio SalimbeniPSICOLOGIAperché il «credere» è meccanismo co-gnitivo a cui l’uomo non può rinunciarelA noStrA mEntE, mAccHinA plASmAtA pEr coStruirE crEdEnzE.....22di Denis Stefan CINEMA E DINTORNIA fronte di una grande quantità di ot-timi autori, sembra ci sia un problema serio di rapporto col pubblico

mAlA tEmporA currunt pEr lA cinEmAtoGrAFiA........24di Gianfranco Sodomaco

ARTEil primo ha un parco delle sculture a orsera l’altra sull’isola di Selva DŽAMONJA - UJEVIĆ GALETOVIĆ: un’ArtE, duE Stili......................26di Erna Toncinich

REPORTAGEprima edizione dell’Eurocarnevale nell’ambito della terza Festa estivaA muGGiA l’AmiciziA È di cASA..............28di Ardea VelikonjaLETTURE”un trEno pEr l’impEro”......34di Nicolò GiraldiMADE IN ITALYcarmelo chiaramida di cividale ha spopolato al Festival del settore un GElAto muFFin Al cioccolAto...40a cura di Ardea VelikonjaITALIANI NEL MONDOlo chiedono i docenti con una lettera al presidente Giorgio napolitanoAnnullArE lA diSmiSSionE dEllA ScuolA All’EStEro...42a cura di Ardea Velikonja

MUSICAprogramma del 56.esimo Festival della creatività contemporanea di venezia (1)nEl pAnorAmA odiErno mini-mAliSmi E mASSimAliSmi......44a cura di Ardea Velikonja

MONDO ANIMALEl’allarme riguarda per ora soprattutto l’Europa del nordpASSEro, piÙ cHE SolitArio divEntA introvABilE.............46a cura di Marin Rogić

TRA STORIA E GUSTOdAllE rAFFinAtEzzE dEi BAn-cHEtti ruSSi AllA lioFilizzAzionE........... 48di Sostene Schena

MULTIMEDIAindagine del mensile cHip (2-FinE)il miGlior BroWSEr? È cHro-mE il nuovo numEro 1......... 50a cura di Igor KramarsichRUBRICHE....................................52a cura di Nerea Bulva

Ente giornalistico-editorialeEDIT

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PANORAMA Redattore capo responsabile

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Collegio redazionale Nerea Bulva, Diana Pirjavec Rameša, Mario Simonovich,

Ardea VelikonjaREDAZIONE

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PANORAMA esce con il concorso finan-ziario della Repubblica di Croazia e della Repubblica di Slovenia e viene parzialmen-te distribuita in convenzione con il sostegno del Governo italiano nell’ambito della col-laborazione tra Unione Italiana (Fiume-Capodistria) e l’Università Popolare di TriesteEdit - Fiume, via re zvonimir 20a

[email protected] La distribuzione nelle scuole italiane di Croa-zia e Slovenia avviene all’interno del progetto “L’EDIT nelle scuole III”, sostenuto dall’Unio-ne Italiana di Fiume, realizzato con il tramite dell’Università Popolare di Trieste e finanzia-to dal Governo italiano (Ministero degli Affari Esteri - Direzione Generale per l’Unione Euro-pea) ai sensi della Legge 193/04, Convenzione MAE-UPT.Consiglio di amministrazione: roberto Bat-telli (presidente), Fabrizio radin (vicepresiden-te), maria Grazia Frank Franco palma, ilaria Rocchi, Marianna Jelicich Buić.

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Panorama 5

Agenda

Gli obiettivi principali del nuo-vo progetto “AdriaMuse”, fi-

nanziato nell’ambito del program-ma di cooperazione transfrontaliera IPA Adriatico dell’Unione europea sono aumentare la capacità attrattiva dei musei dell’area adriatica e crea-re soluzioni innovative per rende-re i musei e gli altri istituti cultura-li dei partner appetibili a quanto la-vorano nel settore culturale alfine di increm,entare il numero dei visita-tori. Il progetto ha un budget di 1,8 milioni di kune e prevede anche tre

obiettivi operativi: la definizione e lo sviluppo di soluzioni e strumenti innovativi sul piano della comunica-zione e dell’informazione a sostegno degli operatori culturali, la defini-zione di una metodologia condivisa di promozione integrata dell’offerta museale e degli eventi non cultura-li, nonchè l’ampliamento e il poten-ziamento della rete informativa mu-seale. Ad illustrare i primi risultati di questo progetto sono state l’asses-sore alla cultura della Regione istria-na Biljana Bojić direttrice ad interim

del Museo civico di Umago e Ketrin Miličević Mijošek, direttrice del Mu-seo Lapidarium di Cittanova.●

Una vera guida spirituale per tut-ti gli italiani rimasti, un raffinato

intellettuale dai principi molto chia-ri, uno strenuo combattente per i di-ritti civili di una popolazione che, traumatizzata dagli eventi bellici e postbellici, si era vista trasformare da maggioranza a minoranza. Così Gianclaudio Pellizzer, presiden-te della CI di Rovigno, ha ricorda-to Antonio Borme al cimitero citta-dino nel 20.esimo anniversario della sua scomparsa. Presenti alla cerimo-

nia i massimi esponenti dell’Unione Italiana con il presidente Furio Ra-din e quelli della città di Rovigno e della Regione istriana. Radin ha vo-luto ricordare quanto Antonio Bor-me sia stato una figura di riferimento sia nei primi anni ‘90 sia nel perio-do dell’ex Jugoslavia quando fu vitti-me dell’epurazione del partito diven-tando già da vivo un mito per tutta la CNI. Borme aveva capito, ha det-to tra l’altro il presidente dell’UI, che l’Istria e gli altri territori d’insedia-

mento storico non si potevano e non si possono considerare complete sen-za tutte le sue parti.●

La Commissione preposta al va-glio delle denominazioni delle

vie, delle piazze e dei parchi della

Città di Pola ha presentato al sinda-co Boris Miletić un rapporto sul la-voro svolto dal 2010 ad oggi. Il do-cumento, che contiene ben 32 ini-ziative civiche di modificihe e in-tegrazioni allo Stradario, dimostra che undici sono già entrate in vi-gore mentre le altre sono state boc-ciate. Inizialmente il Quartiere di Grega, rione natale di Milotti, ave-va proposto di dedicare al musici-sta un parco, domanda poi riformu-lata nella speranza di poter dare a Milotti un posto di maggior rilievo

nella rete stradale urbana e precisa-mente la via che unisce le vie dei Vecchi Statuti e dell’Istria che sfo-cia direttamente davanti all’Arena: un giusto riconoscimento per il no-stro compositore. A Bruno Flego, operaio, studioso e ricercatore au-todidatta di storia cittadina, è stato dedicato il raccordo stradale tra le vie Mutila e Kos nel rione di Gre-ga, dove Flego ha trascorso la sua vita. Tanti comunque i nomi in li-sta d’attesa dell’apposita Commis-sione. ●

Il progetto inserito nel Programma di cooperazione transfrontaliera IPA

Ricordato a Rovigno dai massimi esponenti dell’UI, della città e della Regione istriana

Undici modifiche apportate allo stradario sono già entrate in vigore

AdriaMuse punto d’incontro turistico-culturale

Antonio Borme, patrimonio comune di tutta la CNI

Nello Milotti e Bruno Flego avranno una via a Pola

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AttualitàRimbalzato dagli Stati Uniti, il caso Pfeizer sta creando da noi notev ole scalpore non solo nell’ambiente medico

Sperimentazione clinica? Per comin ciare, quanto mi pagate?Avviato il processo d’indipen-

denza della Croazia, già agli inizi degli Anni Novanta, ci fu

uno sparuto gruppo di commentatori che predisse che, fra sviluppo civile e attività criminale, la seconda avrebbe subito guadagnato terreno a danno del primo. Per la maggior parte degli auto-ri la valutazione non andava collegata con gli eventi in armi né con valutazio-ni politiche o di opposizione al regime, ma partiva semplicemente dal fatto che, venute a decadere le ampie facoltà giuridiche che in precedenza erano alla base dell’azione dell’apparato repressi-vo – che, peraltro, si avvaleva anche di parecchie altre, non codificate ma non per questo meno applicate, e sopratut-to meno efficaci - le possibilità di una dilatazione dell’attività criminale era-no direttamente proporzionali all’inci-sività d’azione di un organismo sfoltito nei quadri e in possesso di attrezzatu-re del tutto inadeguate. Che il ragiona-mento avesse una base più che solida era dimostrato dal fatto che un’identi-co processo era presente su scala gene-ralizzata nelle cosiddette domocrazie

occidentali, tanto in territorio europeo che negli altri continenti. La più recen-te prova – a dire l’ultima, come si usa correntemente, sarebbe un grossolano abbaglio –viene da quanto sta succe-dendo nel campo dei medicinali con il caso Pfizer, che ha posto la catego-ria dei medici, già pesantamente indi-ziata, fra quelle colte con le mani nel sacco. Sacco aperto non dai medici, bensì dai produttori dei farmaci, ma in cui, comunque “i camici bianchi” la mano non ce l’avrebbero dovuta mettere.

Ad analizzare il caso - come si è visto anche al recente infuocato dibat-tito alla televisione di stato di marte-dì 13 u.s. - emergono, fra i tanti, due elementi. Il primo è l’iter che ha fat-to luce sul caso, il secondo l’entità di questi illeciti “premi di produzione”. Un iter, va ricordato, che in Croazia non si è sviluppato “autonomamente”, ma solo come derivazione di quan-to avvenuto negli Stati Uniti, dove la casa farmaceutica, chiamata a rispon-dere di corruzione, ha cercato imme-diatamente un accordo con l’autorità

giudiziaria accettando di pagare una somma enorme: come dire paghia-mo, e tanto, ma almeno evitiamo di presentarci in tribunale salvaguardan-do, non tanto il (si fa per dire) buon nome, quanto soprattutto una par-te del mercato che altrimenti potreb-be andare perduto. Nell’atto d’accusa degli inquirenti USA si diceva che dal 1997 al 2004 la Pfizer aveva versato a titolo di consulenza a due medici di Zagabria 1200 dollari al mese, ossia, in sei anni, poco più di 86.000 dolla-ri, o, se si vuole, oltre 500 mila kune. Il pagamento avveniva attraverso un conto in una banca austriaca, per cui si può ipotizzare che sulla cifra non siano state pagate neppure le imposte. Si configura quindi anche la frode fi-scale.

Fatto salvo il pagamento, il pro-cesso si svolgeva in larga misura alla luce del sole. Il medico, e qui è del tutto superfluo dire che si punta-va sopratutto sui professionisti più in auge, veniva contattato dalla casa far-maceutica per sovrintendere ad uno studio clinico di un nuovo farmaco.

Migliaia di volontari assistono a Gornja Bistra bambini con gravi malformazioni

Quando arriveranno gli italiani? Questa la domanda che ripetu-

tamente viene rivolta dai pazienti al personale del piccolo ospedale per malattie croniche infantili di Gorn-ja Bistra, non lontano da Zagabria. Sono pazienti speciali: bambini af-fetti da gravi menomazioni al siste-ma nervoso e circolatorio, affezioni cardiache e marcato ritardo menta-le. Sono 110, in buona parte impos-sibilitati a lasciare i letti, affidati alle cure di sei specialisti, 38 infermie-re 12 istitutrici. Sembrano parecchi tuttavia lontani dal rapporto ottimale 1:1 ha detto allo Jutarnji list l’aiuto direttore Zlata Kirschenheuter, per cui si può ben comprendere l’ansia con cui i piccoli attendono “gli ita-

liani” e la gioia che provano nel con-tatto. Promotore dell’iniziativa è don Ermano D’Onofrio, quarantenne par-roco di Frosinone, nel Lazio, arrivato qui la prima volta “a dare una mano” nel 1993, quando la Croazia era in guerra. Preso atto della situazione, si è impegnato dapprima nella par-rocchia e quindi si potrebbe dire, su scala nazionale, in Italia, nell’ambito dell’organizzazione diocesana “Giar-dino delle rose blu”.

A partire dal Duemila, a curar-si dei bambini arrivano qui ogni set-timana da dieci a quindici volonta-ri, ossia, in dodici anni, esattamente 6140, con un’età dai 17 ai 77 anni. L’ultima “partita” in tutto 250 perso-ne, è arrivata da Brescia.

Le scadenze della giornata sono semplici quanto precise. Mangia-no e dormono asotto le tende ed an-che i servizi nsanitari sono all’aper-to. Si alzano alle sette, fanno cola-zione e, dopo una breve meditazio-ne e un canto con chitarre, vanno dai bambini. Le attività dipendono dalle posssibilità psicomotorie del singo-lo paziente. Taluni vengono portati all’aperto, anche in brevi escursioni, per gli altri si organizzano giochi sul prato dell’ospedale, per altri anco-ra si provvede a trattamenti sul letto, dove pure vengono imboccati.

Un servizio prezioso, conferma la dottoressa, in quanto è molto bassa la percentuale di genitori che vengono a fare qui visita ai figli. In genere si

Ma gli italiani, quando arriveranno?

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Panorama 7

Attualità

Rimbalzato dagli Stati Uniti, il caso Pfeizer sta creando da noi notev ole scalpore non solo nell’ambiente medico

Sperimentazione clinica? Per comin ciare, quanto mi pagate?All’avvio del processo però, si par-lava subito del compenso per indur-re l’”illustre” clinico ad accettare. Una volta d’accordo, questi incarica-va gli assistenti di reclutare i pazienti mentre il direttore dell’ospedale veni-va rabbonito con un modesto impor-to che sarebbe stato versato alla cli-nica nel corso della sperimentazione, di regola di durata biennale. Quanto l’incarico fosse appetibile è dimostra-to dal fatto che taluni medici si occu-pavano anche di sei-otto studi clinici all’anno, sicché non ci vuol molto a capire che vi erano poche possibilità che si trattasse di una sperimentazio-ne seria ed approfondita. Insomma di regolare c’era solo il pagamento, a cui il produttore provvedeva con solerzia, in quanto l’attestazione clinica era elemento essenziale per l’ottenimento delle certificazioni indispensabile alla commercializzazione del medicina-le. Per inciso qui va detto che ogget-to di “particolari” cure erano oggetto i farmaci per cui vi era la possibilità d’essere inseriti nelle liste approvate dall’Istituto croato per l’assicurazio-

ne sanitaria, ossia fornite al paziente a titolo gratuito o solo contro un pa-gamento parziale, di regola di molto inferiore al prezzo di mercato.

Il caso, come detto, è venuto alla luce del sole in Croazia solo come de-rivazione dell’azione promossa dagli inquirenti americani, ed anche que-sto costituisce una conferma aggiun-tiva della capacità delle nostre strut-ture di far fronte alla criminalità orga-nizzata come si prospetta in uno stato di “recente democrazia”. Quel che è peggio, va ricordato che all’epoca fu proprio il direttore della Pfizer per la Croazia Zdenko Bučan ad accorgersi della manovra e a denunciarla, poco dopo che la ditta era entrata sul mer-cato croato (2003). Il risultato fu si-mile a quello degli altri casi di que-sto tipo: licenziamento per colui che aveva parlato e un totale successivo immobilismo degli inquirenti. Ci fu una parvenza d’indagine interna ma, di fronte al mancato appoggio delle strutture statali preposte, si concluse con attestazioni sull’impossibilità di comprovazione del reato.

tratta di famiglie di per sé socialmen-te minacciate o di genitori che si rive-lano del tutto impreparati a provvede-re a figli che necessitano di cure par-ticolari.

I volontari si danno da fare per tut-ta la giornata, taluni si sono tanto af-fezionati ai piccoli pazienti da pre-

sentarsi con regolarità all’ospedale, in taluni casi si è arrivati anche all’ado-zione. L’amore mostrato verso i pic-coli pazienti è ampiamente ricambia-to. Riconoscono gli amici e li accol-gono sempre con palesi segno d’af-fetto mostrandosi addolorati quando la comitiva di turno deve partire.●

Un modo indiretto per assicurarsi il consensenso dei medici che pote-vao influire sulle decisioni era quel-lo di invitarli a simposi e convegni che spesso di scientifico non avevano quasi nulla inducendoli anche a por-tandosi dietro mogli, figli e, non di rado, anche amanti. Uno ha raccon-tato d’essere stato invitato a tenere una lezione ad un appuntamento del genere. Della quarantina di medici croati che componevano la comitiva, uno solo era venuto ad ascoltarlo, gli altri avevano optato per un giro turi-stico della città sede del convegno, a spese ovviamente dell’industria far-maceutica di turno. Lo stesso dottore, parlando ai giornalisti, ha afferma-to che nell’ambiente sono ben noti i nomi di coloro che dovrebbero esse-re chiamati a rispondere per aver in-tascati soldi in questa maniera. Sono, ha detto significativamente, dottori i cui nomi sono universalmente noti a a tutti nel Paese.

A tutti sì, o quasi. Non certo a co-loro che erano pagati dal contribuen-te per vigilare sull’andamento corret-to del processo né a coloro che, allo stesso modo erano e sono pagati per fermare ogni devianza e procedere contro i colpevoli.● M.S.

Ho avuto l’opportunità di leggere il periodico “Panora-ma”: I contenuti sono interes-santi. La veste tipografica più che dignitosa. In oltre mezzo secolo al servizio dell’informa-zione diretta ai Connazionali all’estero, mi sento d’afferma-re che le finalità di questo foglio sono state raggiunte.

Con viva cordialità. Giorgio Brignola - Genova

Lettera in redazione

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Etnia

Presentati i Costumi e tradizioni dignanesi, raccolti ed elaborati da Anita Forlani

Altisonante amore per il passato de lla comunitàtesto e foto di Mario Simonovich

Se il mutamento c’è stato - e su questo non c’è dubbio - i di-gnanesi l’hanno subito in pie-

no, anche al di sopra delle loro possi-bilità; se la Dignano di un tempo non esiste, la testimonianza del suo esse-re ha d’ora innanzi un ulteriore auto-revole attestato. Ottimale, si direb-be, la definizione data da Nelida Mi-lani di fronte alla “nostra” Dignano, convenuta nella serata del 10 agosto nell’irregolare piazzetta all’estremi-tà di Via Forno Grande alla presenta-zione della monografia di Anita For-lani Costumi e tradizioni dignanesi. Un’opera frutto di un’autrice tenace e determinata che, venuta da fuori, e partendo dal mondo della scuola, ha promosso una diffusa curiosità per il passato, con occhi e orecchi tesi a co-gliere ogni particolare che da questo provenisse, ha studiato, nomi, cogno-mi e simboli, ha dedicato la sua at-tenzione tanto ai codici, scritti o com-portamentali che fossero, quanto ai simboli, forse modesti ad una prima valutazione, ma non meno importan-ti per la comunità, come - per fare un esempio - quel samer la cui presenza nella storia dell’umanità va tanto in-dietro nel tempo da poter essere con-siderato quasi il primo climatizza-toree della storia: il suo alito servì a riscaldare un Gesù bambino appena venuto al mondo.

Un libro che esprime e condensa, nei testi dell’autrice e nelle pregia-te immagini di Matija e Licio De-beljuh quell’insieme di elementi di vita che in parte si possono ricon-durre al concetto di “costume” evo-lutosi per secoli, in specifico sot-to l’egida di quella Venezia che in Istria ha mescolato alla popolazione autoctona gente venuta qui da ogni dove, a dar vita ad una civiltà ret-ta da norme ben precise, nei com-portamenti, nel vestiario, nelle abi-tudini. Tutto un insieme che Digna-no ha conservato e Anita Forlani ha

rilevato in questo libro, evitando di cadere in quel folclorismo che oggi dilaga, mosso sopratutto da interessi materiali, ma recando invece testi-monianze “vere” attestati ad esem-pio dal vestiario, da cui poteva evin-cere la provenienza, il ceto sociale e financo la professione di chi lo in-dossava. A completarlo c’era l’ac-conciatura che integrava la perso-nalità, indicando non solo quel che la donna aveva non solo “sulla” ma anche “nella” testa.

Intercalata da interventi del gruppo folcloristico della CI Di-

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Panorama 9

Etnia

Presentati i Costumi e tradizioni dignanesi, raccolti ed elaborati da Anita Forlani

Altisonante amore per il passato de lla comunitàgnanese, la serata si è snodata così sul filo di un poetico amarcord non alieno però da una costante ed ac-curata valutazione critica del passa-to.

In conclusione, rilevato che il li-bro è solo un tassello delle peculia-rità dignanesi, l’autrice ha ricordato che fu proprio questa una delle pri-me contrade che ebbe modo di cono-scere allorché, giovane maestra,si ri-trovò qui, proveniente da Fiume, cit-tà di notevoli dimensioni. Subito fu affascinata dalla gentilezza dal modo in cui si esprimevano i contatti socia-li, dallo stato d’animo dei giovani che si stringevano intorno alle maestrine di fresca nomina, da cui peraltro, li dividevano anche pochi d’anni d’età, dalla religiosità che permeava l’am-biente, di cui fa fede il gran numero di chiese e cappelle, rinvenibili tanto all’interno dell’abitato che nelle cam-pagne circostanti.

Tante cose sono avvenute da al-lora a Dignano, ha ricordato, talune anche degne della massima riprova-zione, come l’indebita rimozione ed appropriazione degli stemmi che un tempo abbellivano i palazzi. Se ad atti simili oggi non si può più porre rimedio perché il male è stato fatto, si può tuttavia operare per rieducare la gente adoperandosi in particolare per il radicamento dei giovani in queste contrade. Un’opera a cui sicuramente contribuirà anche questo libro. ●

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di BrunoBontempo

Alla fine è andato tutto bene: lo-gistica, sicurezza, glamour, par-tecipazione emotiva, la Tube

di cui tutti dubitavano che ha tenuto all’impatto di 60 milioni di passeggeri, più della popolazione dell’Italia, le 29 medaglie d’oro: la Gran Bretagna esce da Londra 2012 all’insegna dei Mo-menti di Gloria dei 17 giorni, comin-ciati con il tuffo della Regina-Bond Girl sullo stadio e conclusi con il passaggio del testimone a Rio 2016. Il 55 p.c., dei britannici ha “promosso” i Giochi di Londra e concorda con la scelta olim-pica nonostante la crisi economica. Ma a sipario calato si cominciano a fare i conti, e sono conti a luci e ombre per un paese in piena recessione. Secondo dati preliminari, Londra ha già tratto benefici economici dall’Olimpiade ma il bilancio finale positivo potrebbe es-sere di 13 miliardi di sterline a fronte di un investimento di oltre 9,3 miliardi, dunque, tutto sommato, sono stati soldi spesi bene.

ITALIA NEL G8. Il medaglie-re olimpico ha questa curiosa capa-cità: riesce a fotografare l’evoluzione socio-politica del pianeta. Certo, non ha la precisione di un indice di Bor-sa, ma spesso ci prende. Gli Usa tor-nano sulla vetta del mondo, il “grande balzo in avanti” della Cina visto alle Olimpiadi di Pechino si accorcia un po’. L’Europa, padroni di casa esclu-si, è in stagnazione se non - come nel caso della Germania a -6 ori - in reces-sione. L’Italia chiude tra un ping pong di emozioni, sorprese, recriminazioni, delusioni: la Pellegrini finita sul podio dei perdenti, il caso di doping del mar-ciatore bolzanino reoconfesso Schwa-zer, che a Londra avrebbe dovuto di-fendere il titolo vinto quattro anni fa nella 50 km e l’unico che avrebbe po-tuto dare all’Italia un oro nell’atletica leggera. Ma le 28 medaglie (8 ori, 9 argenti e 11 bronzi) e un podio in più rispetto a quattro anni fa a parità di ori,

la collocano all’onorevole ottavo po-sto del medagliere.Il dato più evidente resta il segno meno della zona Euro e senza il boom britannico sarebbe stato un crollo. Delude, soprattutto, la Ger-mania che vede andare in frantumi i suoi sogni di egemonia (sportiva) nel continente. Le vecchie superpotenze sportive devono comunque rassegnar-si a lasciare spazio a chi fino a qualche anno fa aveva difficoltà a qualificar-si ed ora è in corsa per le medaglie. I “piccoli” vanno forte, anche quelli dell’ex Jugoslavia: il Montenegro con neanche 700mila abitanti, ha un bron-zo a squadre (pallamano femminile) e ne ha sfiorato quello della pallanuoto, la Slovenia ha 4 medaglie (1-1-2), un argento meno di Pechino...

CROAZIA RECORD DI ME-DAGLIE. La Croazia ha chiuso con il migliore score dall’indipendenza (1992): sei medaglie, metà delle qua-li d’oro, una in più rispetto a Pechi-no nonostante l’assenza di Blanka Vlašić, che un posto sul podio l’avreb-be avuto prenotato. Una Croazia che vede premiate due squadre su quattro,

ma con l’ambiziosa nazionale di pal-lamano “costretta” alla consolazione agrodolce del bronzo e che deve at-tendere ancora prima di consumare la sua vendetta nei confronti della Fran-cia (aveva l’occasione per rifarsi della sconfitta subita due ani fa ai Mondiali disputati in casa). I galletti hanno con-servato il titolo olimpico e continuano a dominare la scena mondiale.

VORACI BARRACUDE. Ma per i colori biancorossi è stato facile dige-rire qualche mezza delusione (come quella dei rematori del 4 di coppia, fa-voriti della vigilia ma superati dai te-deschi), perché non sono mancate al-tre gustose ciliegine sulla torta olim-pica. Una ce l’ha messa la determi-natissima discobola 22enne Sandra Perković, alla prima medaglia olimpi-ca nella specialità dopo due titoli eu-ropei, che consola il suo paese dall’as-senza di Blanka Vlašić e festeggia la vittoria a suon di record nazionale (69,11), un metro esatto più lontano di quanto ottenuto al secondo lancio, agguantando la leadership della com-petizione.

OlimpiadiNel tris vincente con la pallanuoto e la discobola Perković

Gianni Cernogoraz il nostro ragazzo d’oro

Giovanni Cernogoraz con il “guru” della pallanuoto mondiale, Ratko Rudić, alla festa di Zagabria per il rientro degli olimpionici croati

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Panorama 11

Olimpiadi

Londra saluta le Olimpiadi e lascia in eredità all’im-maginario collettivo una galleria di eroi. Su tut-

ti Usain Bolt e Michael Phelps, protagonisti come già a Pechino 2008. Sono passati quattro anni, ma il tempo non ha cancellato il loro talento nella corsa veloce ed in piscina, e Londra li consacra come miti “scolpiti” nel ri-cordo dei Giochi che la capitale britannica ha ospitato per la terza volta. Anche questo è un record, e ha il volto dell’onnipresente sindaco londinese Boris Johnson, ca-pace di sconfiggere ogni scetticismo. Come ha fatto in pista il fenomenale giamaicano, il primo a fare la tripletta 100-200-4x100 (con l’incredibile tempo di 36”84, per la prima volta nella storia sotto il muro dei 37”), in due edi-zioni consecutive. Un’impresa da leggenda anche quella di Phelps, il più medagliato di sempre: ha raggiunto l’in-credibile numero di 22, di cui 18 d’oro. Un primato che sembra destinato a resistere a lungo, visto che nel nuoto ha ritmi sempre più veloci il ricambio generazionale dei campioni. A Londra è andato sul podio per 6 volte in 7 prove, e 3 sono stati gli ori. E proprio 3 ori, più un record del mondo in staffetta, sono stati il bottino di Bolt, ormai una leggenda dell’atletica. Anche il presidente del Cio alla fine si è dovuto arrendere, e ammetterlo, dopo averlo collocato dopo Lewis. Bolt ha risposto che a Rio ci sarà, e se avrà ancora voglia di stupire cambierà anche spe-cialità (i 400 o il lungo), altrimenti concederà un ultimo sprint. Basta che conservi, oltre al talento puro, la simpa-tia che lo ha reso eroe planetario e la capacità di farsi tro-vare pronto al momento giusto.

Restando all’atletica, ha fatto la storia di Londra 2012 la splendida corsa negli 800 del fenomeno Masai David Rudisha, che aveva promesso a Sebastian Coe, suo men-tore e capo-organizzatore dell’Olimpiade, vittoria e pri-mato del mondo. Ha mantenuto la parola dando vita alla più bella gara di sempre nel doppio giro di pista. Applau-si da record anche per Oscar Pistorius, campione para-limpico che ha vinto comunque. La staffetta del Suda-frica non è andata sul podio della 4x400, come ai Mon-diali di Daegu, ma Pistorius è stato da Oscar regalando una speranza a tanti come lui ed infrangendo barriere che sembravano insormontabili.

Gloria anche al Dream Team, ma quello del fioret-to azzurro. Valentina Vezzali che urla per la sua quin-

ta Olimpiade d’oro rimane nella memoria, ma stavolta è solo un pezzo di storia: la campionessa di Jesi ha fatto da coprotagonista nella gara individuale (oro con Di Franci-sca, argento con Errigo, bronzo per lei) e ha partecipato all’oro a squadre, poi bissato anche dagli uomini.

Ma alcuni campioni abituati a salire alla ribalta quan-do le Olimpiadi irrompono nelle nostre case, a Rio non ci saranno. La loro avventura olimpica è finita a Londra, e in qualche caso anche la carriera. Nessun ripensamento per Michael Phelps: dopo tanti anni, al nuotatore ameri-cano le piscine vanno strette, meglio l’Oceano dove nuo-tare con gli squali bianchi o i green su cui divertirsi col golf. Intanto strizza l’occhio pure al grande schermo: c’è già chi lo vuole per vestire i panni di Tarzan. “Ho fatto, posso appendere la tuta e dire che ho ottenuto tutto quel-lo che volevo” l’epitaffio con cui consegna alla storia una carriera da leggenda vivente. A Rio non ci sarà neanche il kazako Alexander Vinokourov, vincitore a 38 anni del-la prova in linea di ciclismo. La gara di Londra dove-va essere l’ultima per lui, ma il ciclista che già più volte ha annunciato il suo ritiro salvo ripensarci, ha già fatto una deroga. Vederlo a Rio, tuttavia, sarebbe una sorpresa. Sempre nel ciclismo, ma su pista, dice basta Chris Hoy, l’atleta britannico più medagliato di sempre con sei ori. Nel tennis per Roger Federer questa Olimpiade era la grande occasione per completare una carriera da favola con l’oro. Che però non è arrivato. Difficile pronosticare se a Rio, dove avrebbe 35 anni, ci sarà. Nel clan azzurro l’interrogativo maggiore riguarda la grande protagonista mancata, la nuotatrice veneziana Federica Pellegrini. E ora che l’acqua non è più la sua fedele alleata si prende una pausa, più convinta che mai dopo il fallimento lon-dinese: un anno senza pensare al nuoto - dice - ribadendo che la piscina resta l’amore della sua vita. Deve staccare, non stare dietro la “corsa fobica” del cronometro, vuole fare il Natale in famiglia, la settimana bianca, vuole fare quello che tutte le ragazze di 24 anni possono fare. “Sono e resto Federica Pellegrini, orgogliosa di me e di quello che ho fatto: nulla può cancellarlo, tanto meno un’Olim-piade”. Ma dopo la grande delusione, chissà se avrà vo-glia di cercare il riscatto in Brasile.●

Phelps, Bolt, Vezzali, Pistorius, eroi a 5 cerchi

I più grandi: Michael Phelps e, in basso, Usain Bolt

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La seconda è venuta dalla pallanuo-to, sempre sotto i riflettori, che come non mai si sarebbe meritata il titolo di Settebello, il celebre soprannome uti-lizzato dalle Olimpiadi di Londra del ‘48 dal radiocronista Nicolò Carosio per la nazionale italiana di pallanuo-to. Questa volta l’Italia settebellezze non ce l’ha fatta e dopo aver schianta-to Ungheria (in totale dissarmo) e Ser-bia (terza in rimonta sul Montenegro), nella finalissima alla Water Polo Are-na ha dovuto inchinarsi alla squadra oggettivamente più forte del mondo, la Croazia schiacciasassi, che questa volta ha giustificato appieno il sopran-nome prescelto di “barracuda”, il pe-sce tropicale vorace, che divora le sue prede in fretta e con avidità.

L’Italia ha perso soprattutto contro il suo passato che ha le sembianze di Ratko Rudić, il più grande allenatore della storia della pallanuoto con 4 ori olimpici con tre nazionali diverse (Ju-goslavia due, Italia e Croazia uno cia-scuna), l’uomo che vent’anni fa inven-tò il Settebello olimpionico a Barcello-na ‘92. Sono gli strani scherzi del de-stino, ma una scenografia perfetta per una finale olimpica: la pallanuoto az-zurra voleva ripagare con gli interessi i disastri dell’Italnuoto e le amarezze dei tuffi. Due scuole a confronto, due filosofie di gioco opposte: l’impreve-dibile logica della pallanuoto ad inca-stri della squadra di Sandro Campagna (ex giocatore e poi allievo di Rudić) al cospetto della energica solidità del-la Croazia. Ma i croati hanno inter-pretato alla perfezione anche la finale, non si sono scoraggiati per la partenza sprint dell’Italia, si sono ricompattati,

difesi come solo loro sanno fare e han-no prima ripreso e poi ucciso la parti-ta con un parziale di 6-1. “Ma non può essere una sfida tra me e Ratko - dice Campagna -. La stima e l’amicizia per Rudić vanno oltre una finale olimpica. Sfidarlo in una partita così importan-te è stata una grande soddisfazione, si-gnifica che sono arrivato a certi livelli. Ho messo a frutto i suoi insegnamenti, ma lui resta inarrivabile’’.

Potenza fisica, tecnica, tempera-mento e una superfdifesa hanno con-sentito di spadroneggiare nell’arco dell’intero torneo - come poche volte era successo prima - alla squadra ca-pitanata dal fiumano Samir Barač, uno dei “senatori” che assieme al miglior portiere del torneo, Pavić, all’altro fiu-mano, il centroboa Hinić, ed al pole-se ex Primorje, Mladost e Pro Recco Damir Burić, a Londra hanno chiuso con la nazionale, La Croazia si è pre-

sa l’unico, ma più grande trofeo, che dopo il Mondiale 2007, l’Europeo 2010 e la World League 2012 man-cava nella sua bacheca. Ma il gruppo composto dai ragusei Bošković, Do-bud, Joković, Bušlje nonché Sukno e Obradović, neoacquisti del Primorje assieme al secondo portiere della na-zionale, Vičan, è garanzia di continui-tà. Ancora con Rudić? “Devo pensar-ci...” ha ribattuto con fare misterioso quello che ormai a ragione è conside-rato il “profeta” della pallanuoto mon-diale, con 64 medaglie conquistate come giocatore e tecnico.

GIOVANNI CERNOGORAZ, 40 ANNI DOPO MATE PARLOV. L’incombente siccità, il buon anda-mento della stagione turistica, la con-testazione dell’opinione pubblica e de-gli ambientalisti contro la costruzione della terza termocentrale (a carbone) di Fianona, in Istria sono passati in se-

Olimpiadi

Il 4 di coppia croato (Valent e Marin Sinković, Damir Martin i David Šain), favorito della vigilia, ha dovuto accontentarsi dell’argento. Congedo dalla nazionale croata con l’oro olimpico per il fiumano Samir Barač

Il pianto liberatorio, spontaneo, genuino di Gianni Cernogoraz

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Panorama 13

condo piano da quel fatidico 6 agosto. A distanza di 40 anni dall’oro di Mo-naco del grande pugile polese Mate Parlov, un altro sportivo della Penisola è riuscito a ripetere la straordinaria im-presa, terza ciliegina sulla torta olim-pica croata: è il connazionale Giovan-ni Cernogoraz, olimpionico nella fos-sa olimpica, una delle specialità del tiro a volo. Un successo che ovvia-mente ha un sapore tutto particolare per la comunità italiana di Cittanova e per tutta la CNI: se finora ne era il por-tabandiera, ora ne diventa un simbo-lo. Trent’anni da compiere il prossi-mo 27 dicembre, Gianni era partito per Londra senza grandi clamori, vuoi per la sua indole semplice, umile, riserva-ta, discreta, schiva, vuoi perché il suo sport non gode(va) certo di una vasta popolarità.

Ma nello spasmodico, emozionan-te spareggio per l’oro con l’italiano due volte iridato e campione del mon-do in carica Massimo Fabbrizi, non ha sbagliato un colpo ed ha colto nel se-gno sei piattelli su sei, conquistando, da un momento all’altro (grazie anche alla diretta tv, seguitissima non solo in Istria), una popolarità che certamente non si aspettava. “E non mi aspetta-vo certo che duemila persone sarebbero venute a festeggiar-mi al ritorno a casa - ammette con un po’ di imbarazzo, im-preparato a tanto onore -. Ap-pena dopo l’ultima serie ho ca-pito di essere in finale, per cui avevo già ottenuto quello che volevo. A quel punto ho pen-sato che potevo andare avanti con calma, quel che arriva ar-riva. Ed è arrivato lo spareggio per l’oro. Mi sono commosso, ho pianto ed è stato un bene, perché così mi sono sfogato ed ho scaricato gran parte della comprensibile tensione. Nello shoot-off sono andato tranquil-lo di colpo in colpo ed è stato Fabbrizi a sbagliare per primo. Non ci potevo credere. Sensa-zioni? Emozioni forti, che mi è difficile spiegare, esprimere. Una gio-ia straordinaria, vissuta meravigliosa-mente ma difficile da raccontare”. Te l’aspettavi? “Diciamo che speravo in una medaglia...” Non sono mancate le sorprese. “Sì, l’italiano Peliello, il rus-so Alipov, il campione in carica Ko-stelecky non sono arrivati in finale”.

E il clamore del dopo-Olimpiadi? “Ne ero frastornato, non mi rendevo conto. Solo sull’aereo che ci riportava a Za-gabria ho capito che era successo qual-cosa di importante. Mi hanno fatto ac-

comodare in business class, mi hanno offerto champagne, ho potuto andare nella cabina di pilotaggio...”

La stampa italiana si è interessa-ta a te quando ha scoperto la tua “ita-lianità”... “Non essendo il mio inglese impeccabile, alla conferenza stampa avevo chiesto di poter parlare in ita-

liano e di usare lo stesso interprete di Fabbrizi. Credo di non aver fatto nien-te di male...” Vogliamo scherzare? Poi qualcuno, di qua e di là, immancabil-mente ha voluto strumentalizzare la

cosa, sconfinando nel ridicolo della consueta retorica e della solita scarsa conoscenza del-la nostra realtà. E in qualche caso malafede... Qualche gior-nale ha accennato ad un tuo eventuale passaggio in azzur-ro. “Né ho mai ricevuto offerte del genere, né ci ho mai pen-sato”.

Alla tv ti abbiamo visto già al lavoro nel ristorante che por-ta il tuo nome e quello di tuo nonno, gestito da papà Valter. “Solo per esigenze televisive e dei fotoreporter. La mia fa-miglia ha fatto grandi sacrifi-ci in tutti questi anni e ne sono immensamente grato. Come lo sono alla città di Cittano-va, alla ditta Laguna, al mio allenatore Stjepan Vučković,

al preparatore fisico Nenad Popović, alla Federazione di tiro, al COC. Ripo-so? “Pochissimo. A metà settembre mi aspettano la finale di Coppa del Mon-do a Maribor e il campionato naziona-le”. Il futuro? “La tranquillità finanzia-ria con un posto di lavoro nel corpo di polizia...”●

Olimpiadi

Ottava Olimpiade e terza medaglia (bronzo cara-bina 3 posizioni) per Rajmond Debevc di Postumia

Gli ori azzurri, dall’alto, da sinistra: Elisa Di Francisca fioretto, Daniele Molmenti Kaiak K1, Galiazzo, Nespoli, Frangilli tiro con l’arco squadre,

Niccolò Campriani tiro a segno-carabina, Jessica Rossi trap, Carlo Molfet-ta taekwondo, Aspomonte, Baldini, Cassarà e Avola fioretto maschile squa-

dre, Vezzali, Di Francisca, Errigo e Salvatori fioretto femminile squadre

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14 Panorama

a cura di Marin Rogić

Alle ore 22.00 del 12 settem-bre del 1942, il sommergibile tedesco U-156 è di pattuglia

nel Sud Atlantico al largo del rigon-fiamento dell’Africa occidentale, a metà strada tra la Liberia e l’isola di Ascensione. L’unità è una delle cin-que, quattro con compiti bellici im-mediati, la quinta con compiti di ri-fornimento, che tra il 16 e il 17 ago-sto hanno lasciato le loro basi france-si dell’Atlantico e, una volta in alto mare, hanno fatto rotta verso sud nel quadro dell’Operazione Eisbär (orso bianco) ideata dall’ammiraglio Dö-nitz e volta a colpire il traffico mer-cantile alleato nell’area del Capo di Buona Speranza. Ad un certo punto, nel periscopio del comandate Werner Hartenstein compare, a bersaglio di tiro, un grande piroscafo, che ha tut-te le caratteristiche dell’obiettivo mi-litare: la linea è quella di un incrocia-

tore ausiliario, batte bandiera nemi-ca, procede a luci spente e a zig zag ed è munito di due cannoni navali da 4.7 pollici e sei antiaerei da 3 polli-ci, dunque palesemente un obiettivo belligerante. Hartenstein decide di at-taccare dando ordine di sganciare due siluri: il primo colpisce la stiva 4, il secondo provoca grosse falle che fa-ranno finire la nave un’ora e mezza dopo sul fondale.

Ma la sua soddisfazione per essere riucito ad affondare una nave nemica al primo

tentativo, si trasforma presto in incre-dulità ed orrore. Dopo qualche breve consulto con i suoi sottufficiali, con-stata infatti di aver colpito il Laconia, ex transatlantico della ‘Cunard Whi-te Star Line’ di 20.000 tonnellate, che in luglio era salpato da Port Tewfik adiacente al porto di Suez, toccando una serie di porti per riportare in In-ghilterra di soldati, ufficiali e loro fa-miglie. Al suo comando c’era il capi-tano Rudolf Sharpa, un uomo impo-

nente e curato nell’aspetto, di caratte-re indipendente, difficile da trattare. Ma quella volta aveva ricevuto un’or-dine al quale aveva dovuto sottomet-tersi senza poter far nulla pur essendo contrariato: seguire cioè - senza scor-ta e potendo fare affidamento soltan-to sulle armi di bordo (che rendeva-no la nave poco meno di un incrocia-tore ausiliario) e sulla velocità, che non era però molto elevata essendo scaduta a 15 nodi - una rotta in ac-que nelle quali era possibile imbat-tersi nei sommergibili nemici. Il co-mandante aveva protestato, ma senza alcun effetto: in quel secondo seme-stre del 1942 la battaglia dell’Atlan-tico era giunta al culmine e gli Ingle-si erano costretti ad usare ogni mezzo in grado di navigare, aggregandogli scorte ridotte e spesso, come stavol-ta, inesistenti.

Fatta tappa nei porti di Aden, Mombasa, Durban e Città del Capo, alla nave fu ordinato di prendere la rotta per gli Stati Uniti, allontanan-dosi dalle coste africane ed adden-trandosi nell’Oceano Atlantico. Par-ticolare decisivo per la vicenda, di cui il sommergibilista tedesco non poteva essere al corrente, era che, oltre al regolare equipaggio di 136 persone, la nave aveva a bordo 268 soldati inglesi, 80 donne e bambini familiari di militari, 160 soldati po-lacchi e ma anche 1.800 prigionie-

Guerra sul mare: il LaconiaL’incredibile vicenda della nave britannica affondata da un sottomarino tede sco il 12 settembre 1942

Nelle stive un’ecatombe di prigio nieri italiani

Il cerchietto segna il punto dell’af-fondamento

Costruita per tutt’altri compiti, l’unità sottomarina tedesca mostrò pre-sto di non poter far fronte all’emergenza

Non bastasse la cattiveria umana che aveva portato alla guerra ed all’azione contro la nave, ci si misero di mezzo anche gli squali at-

tirati dal sangue dei numerosi feriti. “Ne guizzavano tanti in mezzo a noi, raccontò un marinaio lombardo, addentavano braccia, mangiavano a morsi una gamba. Altri, di maggior mole, trinciavano corpi interi”.●

Gli squali tranciavano braccia e gambe

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Panorama 15

ri di guerra italiani, già componen-ti le divisioni Ariete, Brescia, Pavia, Trento, Trieste e Sabartha (ex Vero-na), fatti prigionieri nel luglio del 1942 nella prima battaglia di El Al-mein (non dunque di più nota, che avvenne invece nell’ottobe-novem-bre dello stesso1942).

Ordinata l’emersione, ai som-mergibilisti si presentò uno spetta-colo indicibile: se il siluro che ave-va distrutto la stiva 4 aveva causa-to la morte di pressoché tutti i 450 prigionieri italiani chiusi al suo in-terno, sul mare si vedevano poche imbarcazioni, relitti d’ogni genere, ma sopratutto tanta tanta gente che gridava, aggrappata a qualsiasi cosa galleggiasse. Non aspettandosi tutte quelle persone in acqua, il coman-dante dell’U-156 inviò una lancia in ricognizione i cui occupanti udi-rono provenire dal mare invocazio-ni d’aiuto in italiano. Caricati a bor-do, due sopravvissuti raccontarono a Hartenstein chi erano e la composi-zione della nave nemica. Apprese le notizie, egli ordinò immediatamen-te un’operazione di salvataggio. Ben presto più di duecento sopravvissu-ti, accompagnati da altri duecento a bordo di quattro scialuppe, riempiro-no i vari ponti del U-156.

Visto che il numero della gente da salvare aumentava in maniera in-contenibile, egli si rivolse via radio al comando di Amburgo, per avvisarlo in merito a quanto avvenuto e chie-dere istruzioni. A ricevere la richiesta di aiuto ad Amburgo fu l’ammiraglio Karl Dönitz, che in seguito divenne il comandante in capo della marina che a sua volta si consultò immediata-mente con i suoi superiori i quali, più o meno esplicitamente gli suggeriro-no di ordinare all’U-156 di procedere per la sua rotta per non compromette-re l’operazione in corso, il che avreb-be significato la fine per i naufraghi. Dönitz però, supportato dell’ammi-raglio Raeder, decise che l’azione di salvataggio doveva continuare e quindi richiese all’U-156 maggiori dettagli sul naufragio disponendo nel contempo che altri due sommergibili,

l’U-506 e l’U-507 del gruppo Eisbär facessero rotta per aiutare Hartenstein nelle operazioni di salvataggio.

Immediato pure il coinvolgi-mento degli italiani. Dönitz chiese all’ammiraglio Romolo Polacchini, comandante della base italiana Beta-som di Bordeaux, l’invio di uno dei suoi sommergibili in aiuto a Harten-stein. Polacchini accettò immediata-mente e spedì il seguente radiomes-saggio urgente al tenente di vascel-lo Marco Revedin, comandante del sommergibile Cappellini: ‘betasom a cappellini: dirigere con massima urgenza quadratino 0971 – STOP –

altre unità alleate si dirigono stessa zona’. Pressappoco alla stessa ora, un esterrefatto Hartenstein scriveva nel suo giornale di bordo: ‘00 h 7722 – so. 3. 4. Visibilità media. Mare cal-mo. Cielo molto nuvoloso. Secondo le informazioni degli italiani, gli in-glesi dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio...’ La notizia dell’involontaria strage di ‘alleati’, causata dall’affondamento della La-conia, provocò non pochi problemi a Berlino, tanto che la notizia ven-

Guerra sul mare: il Laconia

L’incredibile vicenda della nave britannica affondata da un sottomarino tede sco il 12 settembre 1942

Nelle stive un’ecatombe di prigio nieri italianiVarato il 9 aprile 1921 nei cantieri Swan, Hunter & Wigham Ri-

chardson a Tyne and Wear, il transatlantico Laconia, della Cunard Line, era entrato in servizio nel maggio dell’anno successivo.

Caratteristiche generali:Lunghezza 183,26 mLarghezza 22,43 mAltezza 12,34 mPescaggio 9,96 mPropulsione: sei turbine a vapore Wallsend Slipway Co Ltd, due eli-

cheVelocità: 16 nodi (all’entrata in servizio) Capacità di carico 15.307 m³ di celle frigoriferePasseggeri 2.200 * I Classe 350 * II Classe 350 * III Classe 1.500Armamento * 8 cannoni da 152,4 mm * 2 obici da 762 mm●

Capace di 2200 passeggeriIl transatlantico era entrato in servizio nel 1922

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16 Panorama

ne sottoposta all’attenzione di Hitler che, pur “rammaricato” per la morte degli italiani, disse che Hartenstein non si sarebbe dovuto occupare del-la sorte dei superstiti. Fortunatamen-te era solo un parere e non un ordine, sicché il comandante in capo, am-miraglio Raeder, concesse a Dönitz l’invio dei due sottomarini tedeschi e non si oppose all’invio del Cappel-lini. I tedeschi coinvolsero nell’ope-razione anche i francesi di Vichy, chiedendo loro di inviare sul luogo dell’affondamento le navi di stanza a Dakar e riportare a terra i naufraghi salvati dai sottomarini.

Nel frattempo la situazione in mare stava degenerando. Pur aven-do imbarcato quanta più gente possi-bile all’interno e all’esterno del sot-tomarino, ed aver preso a rimorchio tutte le scialuppe di salvataggio rima-ste, intorno ad esso si dibattevano an-cora centinaia di corpi tra le acque. Hartenstein, si rendeva conto che gli aiuti promessi non sarebbero arriva-ti prima di 48 ore, sicché si trovava a comandare un sottomarino con 50 marinai che stava affrontando da solo il salvataggio di oltre mille naufraghi. Prese quindi un’incredibile iniziativa personale facendo diramare, ‘in chia-ro’, un messaggio in lingua inglese

in cui chiedeva aiuto a tutte le navi ‘nemiche’ in navigazione, giungen-do ad indicare la sua esatta posizio-ne: “Qualsiasi nave che soccorrerà i naufraghi della Laconia non sarà at-taccata, purché io non sia attaccato da navi o aerei. Ho già raccolto 193 uo-mini. 4 gradi-52” sud. 11 gradi, 26” ovest. Sottomarino tedesco”. Il mes-saggio partì alle 6 del mattino del 13 settembre e venne ripetuto tre vol-te. Ma nessuna nave inglese rispo-

se all’appello. Gli inglesi a Freetown intercettarono il messaggio, ma cre-dendo che potesse essere un trucco di guerra, rifiutarono di dargli credito o di agire ha scritto lo storico america-no Clay Blair.

L’U-156 rimase fermo sul posto per i successivi due giorni e mezzo. Il 15 settembre, alle 03.40 del matti-no, Dönitz inviò finalmente un mes-saggio ai suoi sommergibili: ‘per il gruppo laconia. Avvistatori colonia-

Guerra sul mare: il Laconia

Solo i più fortunati trovarono posto a bordo delle lance. In un primo mo-mento sul sommergibile ne furono sbarcati duecento

Talune testimonianze su quell’evento sono

agghiaccianti: qualcuno dei prigionieri tentò per-fino di suicidarsi batten-do la testa contro le pa-reti dello scafo. Altri si scagliarono contro i can-celli sbarrati, sebbene le guardie non esitassero a respingerli a colpi di ba-ionetta o a sparare a bru-ciapelo. Oltre ai racconti dei sopravvissuti, anche il riscontro delle ferite confermano i fatti. Mario Lupi, morto nel 2009 ad Abbiategrasso, ha ricor-dato così la terribile notte in cui si ritrovò nelle ac-que gelide dell’Atlantico,

con addosso solo un sal-vagente, insieme a cen-tinaia di altri naufraghi.: “A turno ci appoggiava-mo alla zattera per respi-rare meglio e riposare un po’. Era una silenziosa, tremenda lotta per la so-pravvivenza”. Il raccon-to dell’allora ventiduen-ne è stato raccolto da Al-berto Magnani e Edoar-do Besuschio nel volume La tragedia del Laconia: c’ero anch’io, pubblica-to dall’associazione «In Curia Picta» di Corbetta. Il comandante del som-mergibile, Werner Har-tenstein, aveva attaccato la nave, ignaro del fatto

che, sottocopoerta, chiusi nelle stive c’erano 1840 prigionieri italiani. “Le guardie polacche ci ri-mandavano indietro dan-do colpi di baionetta e sparando” ricorda Lupi, che si salvò arrampican-dosi tra le condutture di legno che racchiudevano la manica a vento. Una volta in coperta riuscì a trovare una piccola zatte-ra a cui si aggrappò. Poco dopo essere stata colpi-ta dai due siluti, la nave s’inabissò con un tremen-do fragore. “In quel mo-mento mi misi veramen-te a piangere, avevo 22 anni! E a dire un’ Ave Ma-

ria” ricorda Lupi. Di lì a poco arrivò la salvezza: il sommergibile era tornato a soccorrere i naufraghi. Al ritorno a Abbiategras-so, scoprì che proprio nel giorno dell’affondamen-to, sua madre, ignara di tutto, aveva fatto dire una messa per lui.●

A turno ci appoggiavamo alla zatteraLa testimonianza di Mario Lupi raccolta in un libro

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Panorama 17

Guerra sul mare: il Laconia

U-Boot, è il termine tedesco per indicare genericamente i som-

mergibili ed è una abbreviazione di Unterseeboot, alla lettera battello sottomarino

L’U-Boot 156, che affondò il La-conia, apparteneva alla classe “IX”. Derivato dal precedente prototipo Tipo I-A, l’U-Boot Tipo IX fu ide-ato come unità a largo raggio con molta più autonomia dei preceden-ti e perciò in grado di operare così lontano da raggiungere i Caraibi, il Sud Atlantico e anche l’Ocea-no Indiano. Il tipo IX era più largo del tipo VII per riuscire a traspor-tare carburante sufficiente e provvi-ste per operare nei lunghi periodi di pattugliamento. Questo li rendeva inadatti per alcuni dei teatri opera-tivi come il Mediterraneo, dove le grandi dimensioni erano conside-rate uno svantaggio alla luce del-la presenza aerea Alleata. Vi erano cinque tipi di questo modello: Tipo IX-A, Tipo IX-B, Tipo IX-C, Tipo IX-C/40, Tipo IX-D2.

L’U-156 apparteneva al mo-dello Tipo IX-C che comporta-va un’autonomia di fino a 11.000 miglia nautiche, il che era un mi-glioramento significativo rispet-to ai precedenti. I miglioramenti al sistema propulsivo aiutarono anche a mantenere le prestazioni alla pari dei precedenti modelli. Realizzato a decorrere dal 1939, il progetto rimase relativamente stabile per un totale di 54 unità prodotte.

CARATTERISTICHE TECNI-CHE:

► Dislocamento: 1120 t (in emersione), 1232 t (in immersione)

► Lunghezza: 76,8 m► Larghezza: 6,8 m► Pescaggio: 4,7 m► Velocità massima: 18,3 nodi

(in emersione), 7,3 nodi (in immer-sione), 6 nodi (in modalità Schnor-chel)

► Autonomia: 11000 mn (a 12 nodi in emersione), 63 mn (a 4 nodi in immersione)

► Profondità: 150 m (operati-va), 225 m (massima)

► Tempo di immersione: 37 s► Tubi lanciasiluri: 4 a prua, 2

a poppa► Ricariche: 8 interne, 8 esterne► Cannoni: 1 cannone navale

da 105 mm, 3 antiaeree da 20 mm, 1 antiaerea da 37 mm●

U-Boot 156, sommergibile a grande autonomiaLa prima unità di questa classe venne varata nel 1938

li Doumond – D’ourville – Annami-te – arriverranno probabilmente nella mattinata del 17.9. incrociatore clas-se Gloire viene a grande velocità da Dakar. Qui appresso istruzioni per contatto: 1 – incontro soltanto duran-te il giorno. Alzare bandiera naziona-le in testa d’albero, proiettore E.S.2 – un’ora prima di giungere sul luo-go, emettere un radiogramma su 60 metri che comincia con “PP” quindi 4 gruppi di 5 lettere tra il quinto grup-po “n r c” H’.

Il salvataggio dei naufraghi del Laconia prese proporzioni più ampie: finalmente, poco prima di mezzo-giorno del 15 settembre, arrivò l’U-506, poche ore più tardi dall’U-507. Il primo raccolse 132 italiani e 10 tra donne e bambini inglesi e prese a ri-morchio 250 persone; il secondo 129 italiani, un ufficiale inglese, 16 bam-bini e 15 donne, ed a rimorchio sette lance con 330 superstiti tra cui 35 ita-liani. Il giorno seguente anche il Cap-pellini raggiunse l’area. ● (1-continua)

Di tragici errori e di drammatici naufragi se ne verificarono purtroppo a centinaia nel corso della guerra, con un tragico bilancio di colpe-

voli e vittime sia per l’uno che l’altro schieramento. Ciò che rende uni-co e particolarmente odioso il disastro occorso al Laconia è il fatto che la tragedia non fu né casuale né inevitabile, come testimoniato con sinteti-cità dalle note inserite nel giornale di bordo dal comandante Hartenstein: “Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silu-rati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio...”il transatlantico disponeva di sufficienti scialuppe e galleggianti in modo da far fronte alle necessità derivata dalla presenza di tutte le 2700 persone imbarcate in quel viaggio, inclusi i prigionieri di guerra, scrisse lo storico americano Clay Blair jr in Hitler’s U-Boat War-The Hunted, 1942-1945. Ciò nonostante le guardie polacche ricevettero l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannandoli di fatto ad una morte orribile e premeditata per affogamento. Si può a malapena im-maginare il panico ed il terrore che si impossessarono di quegli uomini quando, davanti alle loro disperate richieste, videro le sentinelle rifiutarsi di aprire le sbarre, negando loro anche l’ultima speranza di sopravviven-za tra le acque dell’Oceano.●

Le coperte precluse a colpi d’arma da fuoco

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SocietàDa quattro anni l’associazione italiana promuove l’iniziativa del Mayors for Peace giapponese

Ricordando Hiroshima: le città non sono bersaglidi Marino Vocci

Da quattro anni l’associazione “Beati i costruttori di pace”, che nasce come associazio-

ne locale di Padova nel 1992 e come associazione nazionale nel 1997, dal 6 al 9 agosto, i giorni di Hiroshima e Nagasaki, fa un percorso con gli Amici della bicicletta, per sensibi-lizzare le popolazioni e coinvolge-re gli amministratori delle Comuni-tà locali promuovendone l’adesione alla più grande associazione mondia-le di “Sindaci per la pace” (Mayors for Peace) coordinata dal Sindaco di Hiroshima.

L’obiettivo è quello di costruire un movimento che costringa gli Stati a bandire le atomiche da tutto il pia-neta, tramite la ratifica di una Con-venzione delle Nazioni Unite che ne proibisca la costruzione e il possesso, come si è fatto già per le armi biolo-giche e chimiche, per le mine antiuo-mo e le bombe a grappolo.

Ogni anno il percorso si conclude ad Aviano, dove ancora oggi sono de-positate alcune atomiche.

Perché per i “Beati” la pace non può essere delegata, ma deve essere

affidata alla responsabilità di ciascu-no di noi nella vita di tutti i giorni. La pace non è confessionale o ideologi-ca, non si realizza a parole, ma con scelte e percorsi individuali e comu-nitari, assieme a tutte le donne e gli uomini di buona volontà.

Quest’anno, anche su suggerimen-to del “Forum cerniera” della Fonda-zione Alexander Langer e in collabo-razione con la “Tavola Interconfina-ria per la Pace tra Associazioni” ed Enti locali Croati Sloveni e Italiani, il Comitato pace convivenza e soli-darietà “Danilo Dolci” di Trieste e l’Agenzia per la Democrazia Locale di Verteneglio si è concordato di par-tire da Parenzo. Attraversare l’Istria, in parte lungo la Parenzana, il sentie-ro della salute, dell’amicizia e della PACE: attraversare così mondi, ter-ritori e comunità plurali e dai confini mobili. Perché quello che un tempo ha diviso, contrapposto e ci ha tenu-ti a lungo separati, deve essere supe-rato.

I confini veri oggi non sono quel-li geografici, ma quelli che teniamo dentro di noi e ci tengono separati e atomizzati/frantumati. “Pace in bici” 2012 ha gettato un seme di speranza. Ci ha fatto capire che con leggerez-za, fatica e perseveranza, e grazie a un mezzo sostenibile, la bicicletta, e non solo possibile superare il confine

fisico e geografico, politico e ammi-nistrativo, ma è necessario condivi-dere l’impegno e la responsabilità di realizzare gli obiettivi necessari per migliorare la vita di tutte le persone, dell’intera l’umanità. Lottare insieme per un futuro attento alla vita di chi verrà, ci unisce tutti e può diventare una molla potente per costringere i governi a schiodarsi da posizioni or-mai incancrenite che rimangono per tutti un peso insopportabile.

Per me, è stato proprio bello veder sventolare decine e decine di bandie-re multicolori della pace (da quella posta sulla carrozzina legata alla bici-cletta del padre del piccolo Laim, che con i suoi due anni e mezzo era già alla sua terza “Pace in bici”, a quella del settantatreenne Albino) che viag-giavano nel vento lungo il viale di lo-dogni/bagolari che porta a Grisigna-na. La bellissima cittadina istriana che dopo la “morte” dovuta al ”bom-bardamento”/svuotamento dell’Eso-do nel secondo dopoguerra, oggi, e questo grazie soprattutto alla cultura, è ritornata alla vita.

È stato proprio bello ammirare e farsi emozionare dalle bandiere del-la Pace alla partenza a Parenzo e poi con un viaggio nel caldo eccessivo di questa estate pericolosamente sicci-tosa oltrepassare i confini di ieri e di oggi. Tra la terra rossa screpolata e le

Uno spettacolo lo sventolio dei vessilli al vento

Oriano Otočan, assessore all’In-tegrazione europea della Regione

istriana ha rivolto un benvenuto ai partecipanti

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Panorama 19

Società

Da quattro anni l’associazione italiana promuove l’iniziativa del Mayors for Peace giapponese

Ricordando Hiroshima: le città non sono bersaglicase bianche, la terra gialla e le case grigie dello straordinario mondo rura-le istriano, e ancora tra il sale bianco delle saline di Pirano, e il mondo cit-tadino disteso sul mare tra Isola a Ca-podistria; concludere infine un pezzo del viaggio proprio a Trieste. In quel-la piazza Unità dove nel luglio 2010 si sono incontrati i presidenti d’Italia, di Croazia e di Slovenia che guardan-do il mare, insieme hanno ascoltato in silenzio le musiche di centinaia di giovani diretti dal maestro Riccardo Muti e oggi agosto 2012 tutti insie-me, anche grazie a questi piccoli e si-gnificativi gesti quotidiani possiamo costruire e guardare con speranza a un futuro sempre più comune.

Ma è stata una grande emozione chiudere gli occhi e “sentire” lo sven-tolio delle bandiere della Pace nella piazza di Buie dove, alle 8.15 di lu-nedì 6 agosto, è stata ricordata con un minuto di silenzio l’immane tragedia nucleare di Hiroshima.

E nel silenzio mi sono ricorda-to che anche in quella piazza, ora fi-nalmente pacificata, in quello stesso agosto del 1945 stava per iniziare una nuova tragedia. Una tragedia che da Danzica a Trieste, avrebbe profonda-mente segnato una parte significativa dell’Europa. E ho anche riflettuto sul fatto che fino a non molti anni fa po-chi ritenevano possibile che gli istria-ni sarebbero stati parte di una casa comune, quella europea. Chissà che grazie proprio alle diplomazie che na-scono dal basso, e al lavoro delle di-plomazie delle città, alla maggiore e diffusa coscienza e non solo ambien-tale, noi tutti cittadini di questo nostro unico mondo, tra non molti anni po-tremmo finalmente festeggiare la fine del nucleare!

“Le Città restano come libri vivi della storia umana e della civil-tà umana: destinate alla formazione spirituale e materiale delle genera-zioni future. Le Città non possono essere uccise. Esse sono affidate alla generazione attuale solo perché se ne prenda cura, affinché le trasmet-ta poi intatte e arricchite alle genera-zioni future.”

Così è scritto nella pergamena-ri-cordo che è stata consegnata ai Sin-daci dei Comune di Parenzo, Visina-da, Portole, Grisignana, Verteneglio, Buie, Pirano, Isola, Muggia, Trieste, Duino-Nabrezina, Monfalcone. Ri-corda il pensiero e l’azione del Sinda-co di Firenze, Giorgio La Pira, morto 35 anni fa. Sconvolto dalla distruzio-ne delle due città giapponesi. La Pira si adoperò per promuovere la diplo-mazia delle Città, confidando che sin-daci e amministratori potessero attra-versare le frontiere degli Stati per co-struire legami di comune umanità.

Era il 1955 e, proprio con un pen-siero rivolto alle città, Giorgio La Pira inaugurava, in piena Guerra Fredda, la Conferenza dei Sindaci invitati da tutte le capitali del mondo. A Palazzo Vecchio a Firenze sedettero accanto i sindaci di Washington e Mosca, Lon-dra e Praga, Pechino e Nuova Delhi, Varsavia e Parigi, insieme a sindaci latino-americani, asiatici e africani. Il Sindaco La Pira affermava che le Cit-tà dovevano attraversare le frontiere degli Stati per costruire legami di co-mune umanità.

Questa convinzione nacque in La Pira proprio dall’esperienza dei bom-bardamenti di Hiroshima e Nagasa-ki. Le due città giapponesi, colpite 67 anni fa dalle bombe atomiche, non furono distrutte per errore. L’obietti-vo strategico delle armi nucleari era “la distruzione delle città nemiche e lo sradicamento della popolazione” (come ebbe a dichiarare il presidente americano Truman).

E’ sconvolgente che uno Stato possa decidere di condannare a mor-te una città. Nessuno deve poter deci-dere di distruggere una città, di met-terla sotto assedio, di costringere i suoi abitanti ad abbandonare le pro-prie case.

Da qui è nata l’idea della diploma-zia delle Città, “uno strumento diplo-matico nuovo che esprime la volontà di pace delle città del mondo intero e che tesse un patto di fraternità alla base stessa della vita delle Nazioni” (La Pira).

I Sindaci di Hiroshima e Nagasa-ki, pur non conoscendo la storia del Sindaco di Firenze, hanno fatto pro-pria la sua visione, lanciando la Cam-pagna “Le Città non sono bersagli!” e costruendo la forte alleanza mondiale dell’associazione Mayors for Peace – Sindaci per la Pace – che oggi conta ormai oltre 5250 città e governi loca-li associati, provenienti da 153 paesi del mondo.

Accanto a Mayors for Peace urge una Convenzione mondiale per l’eli-minazione di tutte le armi nucleari dal pianeta.

“Finché l’umanità non avrà messo al bando le atomiche, i morti del 6 e 9 agosto 1945 non potranno riposare in pace. E noi che eravamo bambine e bambini all’epoca, e che nonostan-te le nostre ferite siamo sopravvissu-ti, non potremo affrontare con sereni-tà la fine della vita terrena.”

(Seiko Ikeda, “Hibakusha” – So-pravvissuta all’atomica che distrusse Hiroshima) ●

Foto ricordo con tutti i ciclisti

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20 Panorama

La storia oggiIl caso altoatesino paradigmatico d’un pro blema generale

I miti etnici tra globalizzazione ed etnonazionalismidi Fulvio Salimbeni

A volte, villeggiando in montagna, può capitare non solo di scopri-re nuovi itinerari alpini, ma an-

che libri di case editrici minori, come la Raetia di Bolzano, difficilmente re-peribili nel circuito nazionale, ma che nulla hanno da invidiare a quelli degli editori più prestigiosi. Questo è il caso di Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso, di Stefano Fait e Mauro Fattor (pp. 222, euro 18). Il vo-lume, dovuto a due giornalisti, studio-si di problemi antropologici, sociologi-ci e filosofici, e che, introdotto da una prefazione di Michele Nardelli, mili-tante trentino per i diritti umani e per la causa della pace, si conclude con una postfazione, La distruzione dell’etnico, dello studioso Gunther Pallaver e con una nutrita nota bibliografica, che tiene conto della miglior bibliografica inter-nazionale in materia, affronta senza re-more di sorta la scottante questione del-la situazione attuale dell’Alto Adige - Sud Tirol, proposta come emblematica del problema generale della tutela delle minoranze linguistiche e degli abusi ed eccessi che ne possono conseguire in seguito alla sua ideologizzazione.

Fra nazioni “storiche” e nazioni inventate

Il saggio è strutturato in due parti, la prima, dovuta al Fait (Contro i miti etnici), pur prendendo le mosse dal caso specifico altoatesino, di caratte-re più generale e teoretico, la seconda, invece, firmata dal Fattor (L’ideologia tirolese), incentrata sullo specifico lo-cale. In un momento in cui la globa-lizzazione s’afferma a tutti livelli, con quanto di positivo e negativo ciò com-porta, ovunque si sta assistendo a fe-nomeni di chiusura e autoisolamento, alla riscoperta di identità particolari, minori, a suo tempo fagocitate dall’af-fermarsi degli stati nazionali - la Cata-logna e le provincie basche in Spagna, il Galles e la Scozia nel Regno Unito -, o alla vera e propria “invenzione” di nazioni inesistenti quali la Padania leghista in Italia, contrapposte a quel-

le storicamente date. Oltre a ciò, non si può non menzionare la dissoluzio-ne di stati plurietnici dopo la disinte-grazione del blocco sovietico, come quella, pacifica, della Cecoslovacchia e quella, invece, traumatica della Ju-goslavia socialista, con i casi ancora aperti, e tutt’altro che sulla via della pacificazione, della Bosnia-Erzegovi-na e del Kosovo, sempre sull’orlo di nuovi conflitti, a parte i numerosi pro-blemi che tuttora agitano gli stati suc-cessori dell’URSS, e quelli dei paesi medio-orientali, dall’Iraq al Libano e ora pure la Siria, in cui s’intrecciano indissolubilmente fattori etnici e re-ligiosi e gli interessi geopolitici del-le grandi potenze, il che, d’altronde, come noto, vale pure per la meno co-nosciuta situazione africana, segnata da innumerevoli casi consimili.

La caduta delle antiche barriere militari e ideologiche, l’esaltazione del più sfrenato liberismo capitalisti-co, la subdola imposizione, tramite i media, del modello omologante ame-ricano e quella, sempre più scoperta, dell’inglese come lingua unica, hanno

messo in contatto e a confronto mon-di diversi, per secoli vissuti, a parte le élites, con relativamente scarsi rap-porti con l’Altro e il Diverso, mentre i nuovi mezzi di comunicazione, ma-teriali e immateriali, abbattendo le di-stanze temporali e spaziali, hanno ul-teriormente accentuato ed esasperato i fenomeni di rigetto o almeno di dif-fidenza per le novità con cui ci si do-veva misurare, donde il richiudersi in particolarismi sempre più accentuati, il riscoprire presunte specificità etni-che, di stampo spesso larvatamente razzista, il richiamarsi a presunte tra-dizioni immutabili ed eterne, il voler-si distinguere in ogni modo dagli al-tri, di tutto ciò essendo un esempio paradigmatico l’Alto Adige - Sud Ti-rol, il cui statuto di autonomia è dive-nuto uno strumento di autoesclusione e separatezza, fondato su una lettura acritica e astorica del passato, in cui, messe tra parentesi le rivolte contadi-ne antiasburgiche del Cinquecento, si sono idealizzati in chiave patriottica personaggi come Andreas Hofer e la sua lotta contro Napoleone e i suoi al-

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Panorama 21

La storia oggi

Il caso altoatesino paradigmatico d’un pro blema generale

I miti etnici tra globalizzazione ed etnonazionalismileati bavaresi, portatori di novità istitu-zionali, eversive dell’antico, patriarca-le e feudale ordine tirolese, compien-do una tipica operazione revisionista, analoga a quelle antirisorgimentali ne-oborboniche contro cui in una recen-te intervista, Contro il Risorgimento è in atto un revisionismo spicciolo, a ra-gione ha polemizzato uno storico au-torevole quale Salvatore Lupo (“L’In-kiesta”, 8 agosto 2012).

Osteggiata la cooperazione interetnica

Tutto ciò accade mentre, sia pure tra mille difficoltà e contraddizioni, si sta affermando un orientamento gene-rale a favore dei diritti umani e della loro concreta attuazione su scala pla-netaria, guardando ai singoli individui e non a entità astratte come Comuni-tà, Patria, Nazione, in nome delle quali si potrebbe dire, parafrasando un detto famoso, “quanti crimini si sono com-piuti”. Se a questo proposito il Fait è talora eccessivo nelle critiche, veden-do solo gli aspetti negativi d’esse, con il rischio d’esaltare acriticamente un individualismo assoluto, idealizzando le naturali potenzialità collaborative tra i singoli individui fuori da qualsia-si contesto comunitario e ignorando le riflessioni del filosofo Alain de Benoi-st sul comunitarismo e le correlate po-sizioni d’un politologo di vaglia come Marco Tarchi, citato soltanto per i suoi studi sul populismo, resta, comunque, indubbio che tali concetti, abilmente sfruttati e manipolati da demagoghi e populisti - di cui in Italia non mancano esempi -, rischiano d’assumere con-notazioni negative e di chiusura as-soluta al dialogo e al confronto, come accaduto in provincia di Bolzano nel secondo dopoguerra, egemone incon-trastata fino a poco tempo fa essendo la Sudtiroler Volkspartei. Tale parti-to, alle ultime elezioni amministrative scavalcato a destra da movimenti an-cor più radicalmente etnicisti, nei de-cenni d’incontrastato governo provin-ciale ha creato una situazione quasi da apartheid, con una netta separazione tra componente tedesca, italiana e la-

dina, osteggiando la cooperazione in-teretnica, i matrimoni misti, le scuole comuni, l’uso quotidiano del bilingui-smo, tutti elementi ritenuti perniciosi per la purezza etnica locale e per l’Hei-mat, date per apriori, da preservare per sempre, trovando riscontro sul versan-te opposto tra i movimenti d’estrema destra italiani, del pari preoccupati di non contaminare l’italianità, gli uni e gli altri scordando, tra l’altro, che oggi viviamo nell’Unione Europea, dove le distinzioni nazionali dovrebbero scomparire per far luogo al sentimento condiviso d’una comune identità euro-pea, che sarebbe già un bel passo ver-so quell’unica razza, l’umana, cui Al-bert Einstein dichiarò d’appartenere. Tale atteggiamento da popolo eletto, che non può, né deve essere contami-nato da rapporti sostanziali con gli al-tri, che oggi secondo gli autori trova un riscontro puntuale nel fondamenta-lismo sionista dello stato di Israele e nella sua insensata politica separatista nei confronti dei palestinesi, condan-nata con fermezza dallo stesso scritto-re ebreo David Grossman, ha trovato finora scarso contrasto nell’ambiente locale, eccezion fatta per ridotte mi-noranze illuminate e per i Verdi, che, fedeli alla lezione civile di Alexander Langer, si pongono trasversalmente rispetto agli schieramenti etnici, bat-tendosi per un Alto Adige plurietnico, aperto al futuro e alla contaminazio-ne con immigrati vecchi e nuovi, vi-sti come un arricchimento e non una minaccia. Queste considerazioni, ani-mate dal desiderio di giungere a una pace positiva tra le diverse comunità locali, non accontentandosi d’una ne-gativa, connotata solo dall’assenza di conflitto palese e dal reciproco igno-rarsi, hanno una valenza che trascen-de la dimensione locale, potendo tro-vare facile riscontro in tanti altri casi vicini e ben noti, dai movimenti friu-lanisti esaltanti una mitica, purissima nazione friulana, radicata nel territorio rurale, culla d’ogni virtù - e questo del mito ruralista, insieme con quello del-la naturale religiosità popolare, è un altro elemento posto in evidenza dal Fait e dal Fattor -, minacciata di cor-

ruzione dal rapporto con la civiltà ur-bana triestina, ai casi dell’Istria e della Dalmazia, terre plurietniche per eccel-lenza da sempre, nel Novecento stra-ziate da opposti nazionalismi, miranti a imporre il dominio esclusivo d’una nazionalità sulle altre, in cui oggi la Comunità degli Italiani, nonostante i riconoscimenti formali, non vive certo in una condizione ideale, né il rappor-to tra italiani, sloveni, croati, per quan-to progredito rispetto a un tempo, può dirsi ancora del tutto normale. Diver-so, per fortuna, il discorso per quanto riguarda la comunità slovena nel Friu-li Venezia Giulia, negli ultimi anni ve-nuta aprendosi sempre più al dialogo con quella italiana, mentre si vanno in-tensificando i rapporti tra le istituzio-ni educative, culturali e artistiche dei due gruppi e gli scrittori degli uni e de-gli altri incominciano a essere avvertiti come un patrimonio comune e non più separato ed esclusivo.

Contro i miti etnici, pertanto, come ogni opera che ha veramente qualche cosa da dire, si propone come una pro-vocatoria sollecitazione a uscire dagli steccati etnici e, confidando nelle pro-prie doti, a confrontarsi alla pari, senza preclusioni di sorta, con gli altri, con-sapevoli d’essere, prima di tutto, uo-mini, e solo in seconda istanza tede-schi, italiani, slavi, ebrei, arabi, e a tal fine, come più volte ricordato dagli au-tori, un ruolo fondamentale è affidato a quell’educazione che Mazzini rite-neva una delle questioni fondamentali dell’umanità.●

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22 Panorama

PsicologiaPerché il «credere» rappresenta uno dei meccanismi cognitivi ai quali l’uomo non è in grado di rinunciare

La nostra mente, macchina plasmat a per costruire credenzedi Denis Stefan

Dopo la panoramica sulle pseudoscienze in cui ho più volte ribadito che, malgra-

do la loro infondatezza razionale sia stata più volte dimostrata con argo-mentazioni logiche e scientifiche, c’è tanta gente che ancora ci crede, torno a trattare un tema più propria-mente psicologico. Si tratta del “cre-dere”, nelle varie forme in cui il con-cetto si manifesta. Il “credere” infat-ti è uno dei meccanismi cognitivi ai quali non possiamo rinunciare. Per non indurre in errore il lettore, pre-metto che non si tratterà di creden-ze religiose, le prime che potrebbe-ro venirgli in mente ed alla quali ve-drò di dedicare un intervento a parte, ma del concetto nelle varie accezio-ni che gli possiamo dare nella vita quotidiana. Per iniziare vediamo al-cune frasi comuni in cui viene usato il verbo “credere”: “Credo che do-mani non pioverà”; “Credo di aver fatto un buon lavoro”; “Credo che tu abbia detto una bugia”; “Credo in te”; “Credo in Dio”.

Quali sono le differenze? Innan-zitutto esprimono tipi diversi di cre-denze, sintetizzabili nelle espres-sioni di “credere che”, “credere a” e “credere in”. Nessuno però dirà una frase del tipo “Credo di avere il suolo sotto ai piedi”, oppure “Cre-do che domani il sole sorgerà” e da questo possiamo notare quanto han-no in comune nel loro significato le affermazioni precedenti. Infatti non usiamo il verbo credere nelle situa-zioni in cui siamo assolutamente si-curi di qualcosa, ma quando il no-stro grado di sicurezza può variare dalla “convinzione di certezza as-soluta” all’impossibilità del veri-ficarsi”. Va rilevato che fino ai tre-quattro anni i bambini non hanno la capacità di comprendere che gli al-tri possono avere delle credenze di-verse dalle loro, si tratta di una ca-pacità per la quale occorre il giusto grado di maturazione cognitiva ed è tipica degli esseri umani. Nella vita quotidiana le situazioni in cui siamo

assolutamente certi che qualcosa si verificherà, o in cui siamo assoluta-mente certi di sapere qualcosa, in fin dei conti, sono poche ma non abbia-mo a disposizione nessuna informa-zione all’infuori di quelle derivanti dalle nostre convinzioni, ed è allora che entra in ballo la credenza quale meccanismo cognitivo indispensa-bile a pianificarci il futuro. Le nostre azioni quindi sono dirette molto più spesso da convinzioni, o credenze, che da certezze e le credenze sono basate solo parzialmente sui fatti, si creano in base ai nostri desideri, tra-dizioni culturali, modi di ragionare, esperienze, emozioni e motivazio-ni. Entrando nel merito partiamo da un livello elementare di credenza, il “credere qualcosa”.

Queste credenze, che potremmo anche chiamare convinzioni, servo-no quando, non essendo sicuri del verificarsi di eventi futuri, voglia-mo pianificare le nostre azioni. Ad esempio crediamo che domani farà bel tempo perché vorremmo anda-re al mare o a fare lavori nell’orto e quant’altro (facciamo finta che la meteorologia non esista). Ebbene, in base alla nostra credenza ci pre-pareremo per la giornata di domani, ma qualora la nostra credenza risul-tasse falsa, potremo facilmente ri-

nunciare a quanto pianificato poiché l’esito dipende da noi stessi a dalle condizioni ambientali, alle quali ci possiamo adattare. Ad un livello più alto potremmo collocare il “credere in” nel significato di “fidarsi di qual-cuno, o aver fiducia in qualcuno”.

Si tratta di una conseguenza della socialità umana, fortemente influen-zata dal rapporto emozionale che ab-biamo con gli altri. A loro volta tali credenze risultano sempre con delle reazioni emotive (basta pensare alle emozioni assai sgradevoli che pro-viamo quando qualcuno in cui cre-diamo tradisce la nostra fiducia) e senza di esse non potremmo mai co-operare e collaborare con gli altri.

Gli atteggiamenti, le teorie impli-cite della personalità, i giudizi sugli altri, grandi campi di indagine del-la psicologia sociale, sono stretta-mente collegati a doppio filo a que-sto tipo di credenze, e le orientano in larga misura. Avremmo senz’altro più fiducia in una persona verso la quale abbiamo formato un atteggia-mento positivo, così come avremo un atteggiamento positivo verso la persona in cui crediamo, fermo re-stando che potremmo sbagliarci di grosso. Pur coscienti che le creden-ze degli altri non devono per forza corrispondere alle nostre, tendiamo

Tra le più note credenze c’è il venerdì 13

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Panorama 23

Psicologia

Perché il «credere» rappresenta uno dei meccanismi cognitivi ai quali l’uomo non è in grado di rinunciare

La nostra mente, macchina plasmat a per costruire credenzecomunque a credere che gli altri cre-dono le stesse cose che crediamo noi (non è un gioco di parole), spingen-doci anche a credere che gli altri sap-piano quello che sappiamo noi, ed in questo rimaniamo simili ai bambini piccoli per tutta la vita. Gli psicolo-gi evoluzionisti direbbero che questo stato di cose ha una valenza adatti-va, permettendo agli esseri umani di creare la coesione di gruppo che fa-cilita la collaborazione.

Vi è poi un’altra forma di cre-denza esprimibile con la locuzio-ne di “credere in sé stessi”, intesa come l’aver fiducia nelle proprie capacità. Credere in sé stessi è un aspetto fondamentale della nostra vita ed ha una forte funzione moti-vazionale, senza la quale tenderem-mo ad essere passivi e a non intra-prendere mai nulla di ciò che ha un esito incerto.

La overconfidence è molto utile

La psicologia ha mostrato una tendenza delle persone a sopravva-lutarsi, detta in inglese “overconfi-dence”, che pare risulti esserci utile proprio a motivarci nelle situazioni a rischio. Ed infine arriviamo alla ter-za forma di credenza, che compren-de anche le religioni, ovvero il “cre-dere in”. Pare sia innata negli esseri umani una tendenza al “dualismo”, opposta la “monismo”, che ci indu-ce a pensare che noi stessi, gli altri, ma anche la natura inerte, siamo tut-ti formati da una componente mate-riale, i corpi, ma al contempo anche di una componente “immateriale” chiamata anima o spirito, considera-to come un agente causale invisibi-le, me onnipresente. Diverse sono le spiegazioni delle ragioni del duali-smo ma è un dato di fatto che il con-cepire la natura e gli esseri umani in senso monistico, pur trovandone qualche accenno nella filosofia an-tica, è di epoca recente e la scien-za ha rinunciato definitivamente ad una visione dualistica dell’uomo non più di circa centoventi anni fa. Que-

sto ha permesso alla psicologia ed alle altre scienze umane di adottare un approccio scientifico anche alle forme di credenza nel soprannatura-le, ed a provare a darne una spiega-zione. Si entra così nel mondo delle credenze irrazionali, tali perché nes-sun argomento razionale può andare a favore del dualismo, né si possono verificare con l’esperienza, a diffe-renza delle due forme precedenti del “credere che” e del “credere a”, ma la psicologia, assieme ad altre scien-ze umane e sociali ci vorrebbe dare una spiegazione razionale del perché ci sono le credenze irrazionali.

Le credenze convivono con la conoscenza razionaleMettendosi a studiare le creden-

ze, si sono potuti notare almeno due fatti. Il primo è che le credenze pos-sono convivere benissimo con la co-noscenza razionale, che possiamo chiamare anche il sapere, ed il se-condo è che le nostre credenze pos-sono benissimo essere estremamen-te contraddittorie e tuttavia non in-terferire tra di loro. Vedrò di ripren-dere l’argomento in seguito, ma per chiudere questo intervento cerco di riassumere perché abbiamo le cre-denze e perché sono importanti per la vita di ogni giorno. Se sistemia-mo, per la loro probabilità di verifi-carsi, le aspettative che abbiamo in un ipotetico segmento, in cui dal lato sinistro mettiamo il valore di 0 che significa l’impossibilità che si veri-fichino e dall’altro lato il valore di 100 che rappresenta l’assoluta cer-tezza, in mezzo troveremo il valore di 50, che rappresenta il massimo di incertezza.

Non ci piace vivere nell’incertez-za ed essere governati dal caso, ed allora abbiamo la tendenza a muo-verci in questo continuum nel qua-le soggettivamente gli intervalli non hanno la stessa valenza. E per questo che gli esseri umani sviluppano cre-denze ed in base alle credenze, mol-to più spesso che in base alle cer-tezze, regolano e pianificano la loro

vita. Ma perché le credenze irrazio-nali? Perché le credenze irrazionali, tra cui la superstizione, la credenza nelle pseudoscienze, per arrivare in-fine alle fedi religiose trasformano la sgradevole incertezza in una sorta di “supercertezza” sulla quale non ab-biamo dubbi.

La conoscenza razionale e scien-tifica, caratterizzata dalla costan-za del dubbio, in cui il “pensare” si contrappone al “credere”, richie-de tempo per riflettere, che non ab-biamo e nelle nostre decisioni ci af-fidiamo a dei meccanismi cognitivi, le credenze, che la nostra mente fab-brica di continuo. Si potrà dire che oggi, in un mondo in cui la scienza ha compiuto enormi progressi in un tempo abbastanza breve, offrendo-ci un sapere razionale e falsificabile, dovremmo essere meno propensi ad adottare le credenze quali meccani-smi cognitivi che ci regolano la vita. Ma è veramente così? In un mondo ridondante di informazioni di ogni genere, che ci arrivano distorte, me-diate, contraddittorie, prive di verifi-ca, mai come oggi, tendiamo a svi-luppare sempre di più credenze ri-guardo alle “cose del mondo” e di-ventiamo innocentisti o colpevolisti nei casi giudiziari, pro o contro il governo, la fecondazione artificia-le, l’energia nucleare, le termocen-trali, le droghe leggere, le medicine alternative, e così via senza render-ci conto delle argomentazioni fallaci dei sostenitori del pro o del contro e creando “credenze” in base al nostro bagaglio culturale, alle emozioni, alla motivazione alla nostra persona-lità ed esperienza. La nostra mente sembra proprio essere una macchina che l’evoluzione ha plasmato per co-struire credenze.●

Le superstizioni sono una sorta di “supercertezza” sulla quale non

abbiamo dubbi

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Cinema e dintorniA fronte di una grande quantità di ottimi autori, sembra ci sia un problema ser io di rapporto col pubblico

Mala tempora currunt per la cine matografiadi Gianfranco Sodomaco

Prima di addentrarci nei mean-dri dei (vecchi) imperi ameri-cano e russo, per tornare su un

tema a me caro, il cinema italiano, una nota dal Premio ‘Amidei’, per la migliore Sceneggiatura Internazio-nale (che si è svolto a Gorizia, 31.a edizione, ed è stato vinto dal film ira-niano “La separazione”, di Asghar Farhadi, e che noi, ci piace ricordar-lo, abbiamo recensito il 15 dicembre 2011). Alla domanda “qual è la si-tuazione del cinema italiano”, il re-gista/sceneggiatore Francesco Bruni (autore di “Scialla”, da noi recensi-to il 31 dicembre 2011) così rispon-de: “A fronte di una grande quantità di ottimi autori, mi sembra ci sia un problema serio di rapporto col pub-blico. Ma la colpa è nostra. È che i ragazzi vanno nei multiplex a vedere grandissimi stupidaggini da cui esco-

no delusi. È un problema di politica delle sale, di astronavi nel nulla. In-vece bisognerebbe migliorare le sale cittadine e chiudere i templi del rin-coglionimento generale. Nel caso di Gorizia, aprire il multiplex di Villes-se mi sembra una cretinata colossa-le. Soprattutto in un bacino come il vostro, dove il significato della paro-la qualità è nota e si conosce... Biso-gnerebbe avere il coraggio di tenere un pò di più i film in sala. Aspettare che qualcuno li veda e poi si met-ta in atto il passaparola... La distri-buzione dei film sul web è l’estrema ratio, dal punto di vista dell’autore è la cosa giusta da fare, piuttosto che non farlo vedere, ma per il produtto-re non basta.” (da ‘Il Piccolo’,23 lu-glio) Non fa una grinza, ma l’obie-zione è scontata: e chi, e con quali mezzi, avrà il coraggio di cambiare questo sistema? Non resta che anda-re a visitare ‘i vecchi imperi’.

Imperi malati. A partire dagli Stati Uniti dove, non dimentichiamolo, è nata l’attuale, pesantissima, crisi eco-nomica, dove i giochetti finanziari de-gli speculatori e delle banche (dove si è speso più di quanto si è prodotto, dove si son venduti i debiti facendoli passare per crediti ecc.) sono ricaduti sul mondo intero ma in modo parti-colare sulla Vecchia Europa. E dove, almeno una volta all’anno, qualcuno dà di testa e, la casa piena zeppa di fucili ed esplosivo, fa una strage, ma-gari in un cinema dove danno l’en-nesimo film su Batman (notizia di queste settimane). Dove tutti posso-no portare in giro la propria pistola in nome di una possibile legittima di-fesa da tutti, contro tutti, in nome di una malintesa libertà, di un malinteso superindividualismo. Se le cose stan-no così, e stanno così, capisci bene un film come “Young Adult”, di Ja-son Reitman (che cinque anni fa ha

Due “imperi cinematografici”, due pellicole che esprimono due aspetti di un’unica umanità dolente

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Panorama 25

Cinema e dintorni

A fronte di una grande quantità di ottimi autori, sembra ci sia un problema ser io di rapporto col pubblico

Mala tempora currunt per la cine matografiagirato un piccolo capolavoro, “Juno”, dove una ragazzina di 16 anni si rifiu-ta di abortire e fa adottare il suo bam-bino ad una coppia yuppie; ma quan-do si accorge che questi sono un po’ ‘fuori’, si intromette nel loro menage e da lezioni di vita ogni giorno, a de-stra e a manca: dunque un film sulle nuove generazioni che hanno da inse-gnare a quelle vecchie!) Ebbene, ec-cole ancora qui in azione, le vecchie generazioni.

Mavis Gary (una feroce Charli-ze Theron) è una scrittrice di roman-zi per adolescenti (il titolo del film si

riferisce proprio a questo tipo di let-teratura). Una volta la bella del li-ceo, adesso si ritrova sola e alcooliz-zata, vivendo da sciattona in un ap-partamento tenuto come un porcile in un grigio grattacielo di Minneapolis. Narcisista e meschina, priva d’affetto persino per il cane, la sua vita patetica viene scossa dalla notizia che Buddy Slade (il bravo Patrick Wilson), il suo ragazzo ai tempi del liceo, è appena diventato padre. Come l’eroina dei suoi romanzi Mavis decide di torna-re al paesello natio per strappare Bud-dy alla moglie e liberarlo dal ‘carcere domestico’. Arriva e combina dei ca-

sini pazzeschi con la famiglia di Bud-dy, con la sua stessa famiglia, con un altro vecchio compagno di scuo-la, Matt (bravissimo Patton Oswalt), invalido a seguito delle lesioni subi-te in una aggressione omofoba, e lui non è affatto gay. Stringendo: Mavis, masochisticamente, dovrà ‘mollare la preda’, cacciata da tutti, e riprende-re la vecchia strada di una vita pes-sima, senza senso e Reitman può dire davvero di aver girato una commedia ‘nera’, sfidando il cliché hollywoo-diano della capacità degli esseri uma-ni di cambiare e imparare a crescere. Ma manco per niente!

E andiamo in Russia, nella regio-ne nord-occidentale dell’Alto Volga dove, secoli fa, ora scomparsa, vive-va la tribù dei Merja, di origine fin-landese. Ebbene, di questa antica cultura/civiltà, l’unica traccia rima-sta sono, non a caso, i nomi dei fiu-mi. Ebbene, in una cittadina della re-gione, il signo Miron, proprietario di una cartiera, dopo la morte improv-visa dell’amatissima moglie Tanya, chiede ad un suo fidato dipendente, Aist, anche fotografo e scrittore (fuo-ri dalla fiction, autore della sceneg-giatura), di accompagnarlo per com-piere il rito d’addio, secondo quella tradizione culturale. E così, nel cor-so del viaggio, il marito rivelerà par-ticolari della vita intima della donna. Arrivati al Volga i due innalzeranno una catasta e bruceranno il corpo del-la donna. Poi restituiranno al fiume, all’Acqua, cioè alla dimora origina-le da cui gli uomini, secondo quella cultura, provengono e a cui sono de-stinati. Il film in questione, “Silent Souls”, diretto da Aleksei Fedorchen-

ko e presentato a Venezia due anni fa (e messo in circolazione miracolosa-mente), ‘Anime silenziose’, ricorda subito, è inutile nasconderlo, l’opera del compianto, grandissimo Andrej Tarkosvkij, in particolare le sue ulti-me opere (“Stalker”, 1979, “Nostal-ghia”, 1983, “Sacrificio”, 1986), e perciò ci parla di una Russia ripiega-ta su se stessa, intima, dove si fondo-no, in modo struggente, tenerezza e senso primigenio, naturalistico delle cose e della vita umana. Perciò i dia-loghi sono ridottissimi, le immagini vivide e penetranti nel gelido autun-no del grande Nord ci affascinano e ci penetrano con una malinconia... qua-si malata, morbosa. Sì, il tutto è de-licato e, se volete, molto poetico ma a me, e non poteva essere altrimenti, hanno trasmesso un sentimento mor-tifero, non saprei dire quanto compia-ciuto (il regista è poco conosciuto in Italia ma valeva la pena, comunque, segnalarlo). Al di là della loro origi-ne ‘imperiale’, perché abbiamo mes-so insieme i due film? Ma perché in ambedue, sia pure diversi, si respira un’ aria ‘mefitica’: nel primo quella derivante da una società dove i livel-li di corruzione hanno raggiunto limi-ti insopportabili (e, non a caso, i film americani migliori sono quelli ‘oba-miani’, di impegno civile); nel secon-do quella derivante da una mancanza di ‘società civile’, soffocata dal regi-me sottilmente totalitario del signor Putin e che solo in questi ultimi tempi vive, finalmente, fenomeni di prote-sta e indignazione. Mala tempora cur-runt, anche se la gente, sulle spiagge del mondo, si illude, finge di divertir-si... Buon Ferragosto, ragazzi! ●

I ragazzi vanno nelle sale multiplex a vedere di regola grandissimi stupi-daggini, sicché non possono uscire che delusi

Il film “Una separazione” del re-gista iraniano Asghar Farhadi ha vinto a Gorizia il Premio Amidei

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ArteIl primo ha un Parco delle sculture a Orsera l’altra sull’isola di Selva

Džamonja - Ujević Galetović: un’a rte, due stilidi Erna Toncinich

Cosa hanno in comune Mari-ja Ujević Galetović e Dušan Džamonja? Che ambedue sono

scultori, che ambedue sono eminenti protagonisti dell’ arte croata contem-poranea e che entrambi hanno dato vita ad un proprio Parco delle Scul-ture, Džamonja in Istria, a Orsera, la Ujević in Dalmazia, sull’ isola di Sel-va, Šolta. Quello che invece non li ac-comuna in assoluto, è lo stile: astrat-to-geometrico-simbolico quello dello scultore macedone, (è nato a Strumi-ca ma suo paese di residenza è stata sempre la Croazia), figurativo quello della scultrice croata.

Dušan Džamonja, già nei pri-mi anni Settanta, innamorato dell’ Istria, opta per un’ incantevole zona di Orsera, un’ area verde accanto al mare, spazio ideale per allestire una mostra permanente dei suoi gran-di volumi metallici, per l’ atelier in cui lavorare e per la casa in cui vi-vere. Al figurativo Džamonja rima-ne ancorato per pochissimo, solo per qualche anno dopo aver conseguito il diploma all’ Accademia di Arti Fi-gurative di Zagabria, allievo di tre noti scultori, figurativi per eccel-lenza, Frano Kršinić, Vanja Radauš e August Augustinčić. È nei pri-mi anni Cinquanta, quando nell’al-

lora Jugoslavia gli artisti iniziano a rifiutare sempre più quello stile re-alsocialista importato (e imposto) dall’Unione Sovietica di cui, sino a qualche anno prima, la Jugosla-via era Paese alleato, che ai vari la-vori, come i monumenti inneggianti la libertà (il primo il giovanissimo Džamonja lo realizza per una piaz-za di Pisino), la lotta partigiana ecc., innalzati in diversi spazi del Paese, dove l’aggancio al reale è evidente, il giovane scultore abbandona que-sto linguaggio e già nel 1954 è pre-sente alla XXVII Biennale d’ Arte di Venezia con una forma astratto-geo-metrica, una sfera rivestita di chio-di, un tipo di lavoro che lo renderà riconoscibile anche in futuro. L’ope-ra di Džamonja non passa inosserva-ta, parte della giuria vorrebbe anche premiarlo (ma non lo fa chissà per quale ragione).La presenza alla ras-segna veneziana segna l’inizio della sua ascesa, dei numerosi riconosci-menti che otterrà nel corso della sua lunga e quanto mai originale e frut-tuosa attività artistica.

Nel suo Parco delle Sculture, da subito aperto al pubblico, Džamonja, ottimo conoscitore dello spazio, da provetto urbanista, svolge il suo rac-conto plastico lungo un terreno tutt’ altro che lineare, sistema le sue for-me chiuse, compatte, serrate, dal-

le superfici animate da file di chio-di dalle grosse teste o da catene o da altri elementi, esternando coerente-mente la sua visione plastica aderen-te all’ astratto, al geometrico e al sim-bolico.

La Galleria delle Sculture Marija Ujević Galetović, praticamente un Parco delle Sculture, nella stagione estiva vivace luogo di incontri cultu-rali di vario genere, è stata aperta sei anni or sono in una proprietà, eredità di famiglia della scultrice, nella pic-cola isola di Selva, un’ isola di ver-

Le sculture di Dušan Džamonja nel parco di Orsera

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Panorama 27

Arte

Il primo ha un Parco delle sculture a Orsera l’altra sull’isola di Selva

Džamonja - Ujević Galetović: un’a rte, due stili

de, come dice lo stesso suo nome.In un’area di settecento metri quadri la scultrice ha accomodato una ventina di sculture, pezzi che a sommi capi raccontano la storia di mezzo seco-lo di lavoro creativo dell’artista ulta-settantenne. Nel ritratto come nella figura - che sono la sua specialità - la scultrice pone in evidenza la com-piutezza formale, la forma come vo-lume essenziale, sintetico, scevro da ogni dato superfluo, come massa ben levigata sulla quale scivola la luce.

Questa sua particolare interpre-tazione della realtà è piuttosto co-nosciuta essendo molte sue opere, tutte in bronzo, esposte in parecchi luoghi pubblici. La possente figura bronzea del letterato croato Miroslav Krleža, ad esempio, è visibile a Za-

gabria, nei pressi della casa in cui lo scrittore ha abitato, come ad Abba-zia (tra il verde del Lungomare da-vanti all’ hotel Millennium),a Osijek e a Budapest (quattro sculture consi-derate tutte e quattro degli origina-li), come di August Šenoa, di August Cesarec, della scrittrice Marija Jurić Zagorka, del poeta Tin Ujević, le due figure che s’incontrano di Ismet Mujezinović e Meša Selimović, tut-te in vari luoghi pubblici di Zaga-bria, di Ivana Brlić Mažuranić a Sla-vonski Brod e di Francesco Petris a Cherso, opere tutte che palesano la realtà data come estrema visione di sintesi ed eprimono il carattere dei personaggi. Come la figura del com-positore Jakov Gotovac nel Giardino delle Sculture della piccola Ossero, dove sono esposte copie in bronzo di alcune creazioni dei più rinomati scultori croati quali Ivan Meštrović, Ivan Rosandić, Frano Kršinić ed al-tri. Tutte sul tema della musica per-ché, nella cattedrale di Ossero, ogni estate, sin dal 1976, si tengono con-certi di musica classica.

Tra il verde dei prati di Sezza vi-cino a Portorose in Slovenia, e di Dubrova presso Albona, altri due pregevolissimi Parchi, spiccano nu-merose le sculture in pietra bianca istriana, opere che scultori di ogni parte del mondo hanno realizzato in loco nei loro soggiorni estivi. Sono luoghi questi voluti dalle cittadine cui appartengono questi spazi, luo-ghi dove l’arte viene offerta a tutti, mostre a carattere permanente, visi-tabili in ogni stagione dell’anno. In-gresso gratuito.●

I lavori di Marija Ujević Galetović

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ReportagePrima edizione dell’Eurocarnevale nell’ambito della Festa estiva

A Muggia l’amicizia è di casatesto e foto di Ardea Velikonja

Uno spettacolo di musica e co-lori, così si potrebbe definire la terza edizione della “Festa

dell’amicizia - Eurocarnevale esti-vo” che ormai tradizionalmente si tiene fino a Ferragosto a Muggia, in-cantevole cittadina nei pressi di Trie-ste. Una kermesse come un viaggio transfrontaliero virtuale alla scoperta dei sapori e della musica dell’Euro-regione con bande e gruppi folklori-stici provenienti da Croazia, Slove-nia e Friuli Venezia Giulia e degusta-zioni di prodotti tipici del territorio di Muggia (olio e vino), il tutto pro-mosso dalle Compagnie del Carne-vale e dalla Guggenband Muja e or-ganizzato dal Comune. Il pittoresco Mandracchio di Muggia è diventato così per sei giorni teatro di sfilate e concerti al chiar di luna, con tantissi-mo pubblico locale ma anche dei tu-risti che vi soggiornano. A tutto ciò quest’anno per la prima volta la Pro Loco ha voluto organizzare l’Eurosfi-lata di Carnevale che grazie alla di-sponidibilità del gestore dello stabi-limento balneare, per la prima vol-ta si è potuto compiere una passeg-giata sul lungomare Venezia ovvero da Porto San Rocco al Mandracchio. Le maschere, mazzi di fiori, “signo-re in rosso” bambini, giovani e meno giovani hanno sfilato al suo di musi-ca delle bande fino al centro cittadino coinvolgendo il numeroso pubblico

che li ha accompagnati lungo il tra-gitto. Nonostante che un’ora prima dell’inizio della sfilata ci sia stato un vero e proprio “neverin”, la pioggia non ha spaventato i circa 500 parte-cipanti, tra maschere e musicisti che hanno dato vita al coloratissimo cor-teo. Presente anche l’immancabile bora triestina, ma anche un carro in partenza per Tahiti.

La Festa dell’amicizia è nata dal successo da “esportazione” del-la GuggenBand Muja sorta in seno alla banda delle Bellezze Naturali e che da anni rappresenta uno dei fio-ri all’occhiello del Carnevale mug-gesano che ha fatto incetta di premi all’”Eurokarneval e GuggenMusik European Festival”. La band, diretta

oggi dal Maestro Riccardo Gobessi, è costituita da circa 80 elementi tra cui una sessantina di musicisti. Sono tutti suonatori con comprovata espe-rienza musicale che hanno suonato con i più importanti complessi trie-stini sia in campo nazionale che in-ternazionale.

Nel gennaio 2006 a Praga, il grup-po sotto la direzione del maestro Alessandro Moratto, partecipa per la prima volta all’ ”Eurokarneval and GuggeMusik European Festival”. La partecipazione all’Eurokarneval con-ferisce alla banda una nuova impo-stazione, suddividendola in due gros-se sezioni: una è la “brass section” mentre la seconda è composta da in-numerevoli percussioni.

Questa nuova organizzazione ha permesso di attribuire alla Banda il nome di “GüggenBand Muia”. Sem-pre nel 2006 vinsero il l 1° posto al Carnevale di Umago in Croazia. Tra gli inviti da rilevare quello al Car-nevale di Fiume e a varie manifesta-zioni carnevalesche in Germania e al Carnevale da l’Orcul di Sedegliano (UD).

Il “Carnevale Muggesano” trova le proprie lontane origini nella più classica tradizione veneziana con in-flussi della penisola istriana.

ha una tradizione secolare da sem-pre sostenuta dalle autorità cittadine. Infatti già nel 1420 si sovvenziona-

Il pittoresco Mandracchio di Muggia, teatro dei concerti delle bande

La GuggenBand muja in un coloratissimo concerto

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Panorama 29

Da Porto San Rocco al centro

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30 Panorama

La prima Eurosfilata

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Panorama 31

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Tanta allegria e tanta musica

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date dei nomi estrosi (Bartuele, Bel-lezze Naturali, Brivido, Bulli e Pupe, Cavernicoli, Cornelio, Falische, For-tebraccio, Grisa, La Bora, Lampo, Mandrioi, Ongia, Più che Cisti, Spa-simo, Spazzacamini, Trottola ecc.) e ancora di più mostrano la propria in-ventiva esibendosi ogni anno sui carri allegorici. Il “Carnevale Muggesano” è la festa della cittadina, è vissuto in-tensamente dai muggesani per il loro

gradimento, non per volgare sollazzo del turista. Da rilevare infine che tra le numerose bande che si sono esibite nella sei giorni muggesana una sera-ta era dedicata alla Croazia con i con-certi della Banda d’ottoni della CI di Buie e dell’Orchesrta cittadina di Al-bona. Come vuole tradizione la Festa dell’amicizia si è conclusa a Ferra-gosto con l’esibizione della Guggen-Band Muja. ●

Reportage

vano quelle “società”, che ora chia-meremo compagnie, con un ducato se avessero speso almeno il triplo per i musicanti (gli attuali complessi ban-distici. La principale particolarità che contraddistingue il “Carnevale Mug-gesano” è l’abolizione assoluta ecce-zion fatta per particolari necessità co-reografiche) delle maschere facciali, cioè si partecipa al corso maschera-to proprio per esporsi al pubblico e per farsi riconoscere e mai per celarsi dietro false sembianze.

Dopo l’interruzione tra le due guerre mondiali nel 1954 il “Carne-vale Muggesano” è stato riorganizza-to e rilanciato per merito dell’allora sindaco Giordano Pacco, nell’attuale formula di un concorso a premi per carri e gruppi in costume che, bandi-to dall’apposito comitato organizza-tore, sfila per le strade più esterne di Muggia nell’ultima settimana di car-nevale. Protagoniste sono le compa-gnie, cioè dei gruppi sorti su inizia-tiva di singoli, organizzazioni, rioni o contrade. Le Compagnie si sono

L’allegria ha coinvolto anche il pubblico per strada

La Filarmonica di Santa Barbara

Una regata fatta con zattere, barche autocostruite con ma-

teriali più fantasiosi senza usa-re gommoci, scafi o altri elemen-ti nautici. Di queste imbarcazioni si compone la tanto seguita rega-ta “Vogada mata” di Muggia che ogni anno impegna al massimo i partecipanti vecchi e giovani. Do-dici imbarcazioni con 60 parteci-panti sono stati salutati dagli ap-plausi e dalle risate del numeroso pubblico che ha voluto assistese a questa singolare gara. Le imbar-cazioni costruite dalle Compagnie del carnevale ce l’hanno messa tutta per arrivare al traguardo ma prima fra tutti è risultata essere la “Croce rossa Muja - soccorso lam-po” di quattro rematori della Lam-po. Al secondo posto le “Bellezze naturali” col il loro ciambellone, medaglia di bronzo ai mandrioi con la barca “Squaiai in the air”. La Palma dell’originalità è andata all’Osmiza marina, autentica oste-ria galleggiante delle Bellezze na-turali pesante da spingere a colpi di pagaia ma apprezzata dal folto pubblico assiepato sul lungomare Venezia.

Da rilevare infine che per la pri-ma volta alla regata ha partecipato il gruppo della Consulta giovani con una singolare imbarcazione: una zattera fatta di bottiglie in plastica, un’idea originale come le altre.●

La Vogada mata

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Letture

Lo scorso maggio sono stati attribuiti i Premi del-la XLIV edizione del concorso Istria Nobilissi-

ma, che hanno dato una nuova conferma dei poten-ziali creativi del gruppo nazionale italiano nei cam-pi dell’arte e della cultura. Ritenendo che di tali potenziali debba fruire il maggior numero di letto-ri, nelle pagine riservate alle letture “Panorama” propone le opere a cui siano stati attribuiti premi o menzioni.

Nella categoria “Cittadini residenti nella Repub-blica italiana, di origine istriana, istro-quarnerina e dalmata attestata da un apposito documento” alla se-zione “Prosa narrativa su tematiche che interessano il mondo comune istriano, istro-quarnerino e dalma-ta, nella sua più ampia accezione culturale, umana e storica” la giuria ha assegnato la menzione onorevole

a NICOLÒ GIRALDI di Trieste per il racconto dal ti-tolo “Un treno per l’Imperio” di cui pubblichiamo la seconda parte.

«Un treno per l’Impero»III

Dopo mezz’ora il bigliettaio gentile venne interrot-to da una delle signore che diceva di ricordarsi di pa-dre Giovanni. Aveva una zia che era nata lì a Buie e che quando veniva a Pirano a trovare la sua famiglia parla-va spesso di questo prete, così buono e così intelligen-te, diventato negli anni un vero e proprio punto di rife-rimento per tutto il paese. E di uno strano personaggio, del quale non ricordava il nome, che spaventava i bam-bini, dormiva di giorno e non mangiava quasi mai.

Nella cittadina dai due campanili, la vita e l’esisten-za dei suoi abitanti avevano subito una impennata di notevole portata grazie alle sempre più decise e diver-tenti iniziative di padre Giovanni. Aveva raggiunto pie-na consapevolezza del ruolo assegnatogli dal vescova-do di Parenzo e metteva in campo ogni sua più remota energia per far si che i fedeli, ma più in generale la gen-te di Buie e dei borghi li intorno, non vedessero la chie-sa esclusivamente come un dovere domenicale o reli-giosamente festivo.

Al contrario, voleva che le famiglie, i giovani, gli italiani o i croati delle campagne sfruttassero quella ri-trovata vitalità ecclesiastica soprattutto per star bene assieme, senza barriere.

E grazie a questa leggerezza spirituale, in breve, molti che prima anteponevano scetticismo ed indiffe-renza, ora recuperavano una parte del loro tempo ab-bandonandosi alle più naturali forme di condivisione. Capitava allora che scoppiavano amori tra figli di fa-miglie che precedentemente avrebbero preferito di gran lunga superficiali relazioni, se non prive di senso. Non capitava solo tra famiglie italiane e croate ma anche tra famiglie della stessa origine, che magari per antichi

rancori e ferite mai richiusesi, avevano preferito per anni la cieca distanza all’illuminata spontaneità.

Amicizie, consigli, chiacchiere, partite a carte sullo stesso tavolo, bicchieri e risate, un continuo movimen-

to di persone, di idee e di scambi. In una parola sola, un misiòt.

Nell’era in cui i nazionalismi stavano per comincia-re a far girare la testa alle persone, in Istria, in quel con-fine immaginario tra le lingue, uno spirito buono aveva dato il la ad una comunione, come una fratellanza, si-mile ad un profumo di umana lealtà.

C’erano soltanto pochi uomini che non partecipava-no alla liturgia domenicale di padre Giovanni. Ed il fat-to che nessuno lavorasse durante quella giornata, alla vista del buon pescatore di anime ma soprattutto a quel-la del suo pescato, li rendeva quasi eretici, sin da non meritare, alle volte neanche un buongiorno.

Uno di questi era un buiese alto quasi come un al-bero, dagli occhi bruni ed i lunghi capelli sulle spalle. Quasi nessuno conosceva il nome suo, tranne Franco che lo sapeva sin dai tempi di Pola. Era un uomo gran-de e le sue mani incutevano timore più di qualsiasi mo-schetto. In paesi le voci sul suo conto si moltiplicavano come i pani ed i pesci appena qualcuno diceva di sape-re. Tutti sapevano la storia di quando Giacomo – questo era il nome che Franco aveva detto di conoscere – si era arrampicato fino a metà del Duomo con quelle enormi mani. Dicevano che nella sua furiosa ed

allarmante rincorsa verso la pazzia, quella notte ave-va preso alcuni mattoni della chiesa mai terminata e li aveva scagliati contro la facciata di una delle case di fronte.

I bambini piccoli ne erano normalmente impauriti e facevano grandi chiacchierate su di lui assieme alla loro immaginazione, meno violenta di quella dei grandi.

Quando gli adulti dubitano, tendono a colorare il cuore degli altri senza entusiasmo, con ignorante di-sprezzo. Ai bambini, le tinte non mancano e fanno sem-pre pochissima fatica.

Giacomo aveva sempre dei larghi vestiti scuri e que-sto contribuiva a far di lui una figura ancor più inquie-tante. Passeggiava per il paese con fare alquanto so-

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Letture

spetto poiché non disturbava mai nessuno, non parlava mai con la gente, semmai qualcuno diceva che lo face-va da solo, vedendolo gesticolare come se avesse una persona accanto a se. Ed il sospetto aumentava sempre di più, cresceva forte dentro all’animo dei normali; un uomo che parla da solo, per gli altri e un uomo che non sa quello che fa, un uomo malato, un uomo solo. Dice-vano anche che era pazzo, che combinava le cose più assurde, le cose più distanti dalla realtà che chiunque avesse mai visto o sentito raccontare.

Abitava in una baracca che lui stesso si era costruito sotto le mura, come dicevano i buiesi, drìo le case. Nes-suno sapeva però cosa ci facesse li dentro, visto che di notte, si diceva, non dormiva mai.

Il bigliettaio si fece tutto d’un tratto cupo. Le signo-re spostarono il proprio baricentro in avanti per sentire meglio.

“Ho perduto mia moglie, la mia dolce verità, pa-recchi anni or sono, ormai, saranno più di cinque, non lo so, non me lo ricordo. Dal principio non fu verso di superare questo mio lutto ed ogni pensiero mio ri-bolliva all’idea che lei non ci fosse più, volata via, ru-batami da una nuvola scura nel meriggio di un giorno di sole.

Io vedo la sua ombra corrermi a fianco, la vedo usci-re a piccoli passi dalla chiesa la domenica, la vedo dan-zare nei verdi prati sotto il borgo, la tocco, riesco a toc-carla, le mie carezze colorano quella notte in cui i miei occhi decisero che lei era la mia dolce verita. Riesco a baciarti sugli occhi così posso dimostrarti che quel tuo sguardo, io devo proteggerlo, dall’ambizione, dal de-siderio soffocato, da quello che vorresti non accades-se mai. Andiamo spesso a vedere il mare, il suo mare, quello da dove lei era arrivata una sera. Facciamo assie-me delle cose, mettiamo assieme dei fili, robusti e

fragili, ma d’un tratto tutto attorno a me scompare, mi viene rubato, si dissolve in un attimo veloce, resta da solo a fissare il vuoto delle notti, che ora fanno tan-ta paura.

Non può essere vero, era qui, con me, non può essere scomparsa così senza avvisarmi, senza regalarmi l’ulti-mo bacio sugli occhi. Adesso mi resta l’immagine tua, il mio cuore solo a sopportare lo sforzo di due. Lo sento ancora che mi batte come quella volta, in quella stessa maniera, lo sento che cresce in un istante, lo sento sali-re fino in gola, non riesco a domarlo, e troppo grande, troppo vero.

Mi sento schiavo, di tutto questo, dell’amore, di quel cuore che si ribella quando non riesco a proteggerlo, al calar della sera. Ma ti vedo e ti conosco, riconosco in te tutto quello che invece non esiste più. E ti vedo sempre da sola, dopo di me non c’è stato nessun altro......”

Nessuno in paese sapeva questa verità, erano tutti molto impegnati a cercarne una loro, la paura di ascolta-re aveva stregato quel paese arroccato, l’aveva trasfor-mato negli anni, nella sentinella, nella spia della peni-sola.

E Giacomo era diventato quello da spiare, da cono-scere dal di fuori, da osservare spietatamente rivolgen-do amari e critici giudizi. Una finestra sola non può ba-stare per vedere il tramonto di un uomo.

Le signore chiesero di lei. Il bigliettaio rispose con un filo di tristezza.

“Ci siamo conosciuti quando io non credevo potesse esistere un uomo così grande, con dei sogni così grandi. L’amore che sprigionava, che esplodeva fuori dai suoi occhi era per me un fatto che mi faceva pensare fosse lui, si lui, quello che cerco da sempre, quello da rico-noscere. Se ne stava sempre da solo, proprio come me, una sera d’estate lo inseguii fin fuori le mura, in quel posto dove trascorreva attimi d’estate, fuori dal borgo. Ma c’era ancora tanto silenzio, tra noi non c’era nean-che uno sguardo, insieme. Un giorno decisi di aprirmi con lui. Fu il mattino in cui lo vidi disegnare.

Stringeva nelle dita quel lapis come se avesse dovu-to dipingere il più bel affresco che un uomo può creare. Niente lo distraeva, tutto era rivolto a quel pezzo di car-ta spessa che chissa dove aveva trovato. Quel piccolo pezzo di grafite si muoveva con grazia, sulle ombre di un viso di donna. Ed io, quel giorno, non potevo sape-re che quel viso era il mio. Come non immaginavo che ogni mio capello su quel foglio aveva vita, ed ogni vita, un sogno”.

Quella matita tracciava delle linee morbide come quelle del viso di lei, linee perfette, come perfezio-ne umana, come la bellezza di due occhi protetti dallo sguardo di un uomo. Il lapis, tra le dita di Giacomo, non staccava mai la sua punta dal foglio, legandosi per sem-pre a quel viso femminile.

Se ne stava seduto sulle mura del borgo ed alle vol-te alzava quel suo sguardo protettivo dalla carta, senza però osservare qualcosa di magnetico, ma solamente lo spazio ristretto davanti a se.

E lei era ferma ad una decina di passi da lui, immobi-le lo fissava sperando che alzasse gli occhi ed incrocias-se i suoi. Per disegnarlo, a Giacomo non serviva cercare gli occhi di lei, perché il viso che tratteggiava, lo sapeva a memoria, anche se da poco, lo conosceva gia.

Ricordava perfettamente il taglio degli occhi picco-li, il naso un po’ troppo minuto, i capelli che quasi mai erano liberi, sciolti, e che invece spesso, erano costretti da un altrettanto piccolo fermaglio giallo.

Impazienti, le viaggiatrici chiesero nuovamente di lei.

“Avrei desiderato compiere quei dieci passi che mi distanziavano da lui senza nessuna paura e strappargli il foglio di mano e scappare verso casa mia, fermarmi solo nella mia stanza, togliermi il fermaglio, far vola-re i miei capelli, e star a guardare quel disegno, quel mio viso e sapere che lui lo aveva fatto pensando a me. Nessuno prima di allora mi aveva vista in questo modo. Ed invece vi ero ferma davanti a lui, nello stesso punto chissa ormai da quanto tempo, forse troppo. Quel tem-po che

scorreva senza ch’io me ne accorgessi. C’era grande silenzio tutto intorno a me, l’unico rumore che sentivo era quello della grafite sullo spessore ruvido del foglio di carta spessa, come una mano che scava in cerca di un qualcosa rimasto sottoterra”.

“Ho finito signorina, lo vuole vedere?”Era il viso di donna più bello che lei avesse mai ve-

duto. Per una strano scherzo visivo che non le permet-

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teva di mettere a fuoco tutto all’istante, non si accorse che era lei e inghiotti ogni piccolo, anche se gia da un po’ instabile, equilibrio costruito su se stessa.

“Vede Signorina, dovrebbe essere lei...si sieda la prego...anche solo per un attimo...”

Lei in tutti quegli istanti fu colpita come da un ba-stone di legno duro, e rimase intontita per il rimanente tempo che le restava, per una strana sensazione che i più fortunati provano e che molti invidiano.

“Pensa che potrei sperare di dipingere qualcosa di veramente grande?”

“Mi permetta, Signore, ma l’ha gia fatto...”“Crede?”“Ne sono convinta, Signore...”Ruppe il muro che la separava e piano si avvicino a

lui, al suo piccolo mondo che per la prima volta abbas-sava le difese ed apriva il grande portone di legno, dove la sentinella non controllo se la signorina avesse il vi-sto, un documento che dicesse se poteva entrarci. così passo quei fastidiosi controlli ed entro. E quello che tro-vo fu una cittadina piena di colori, di minuscoli artisti, di vivaci parole, di tante persone con le mani impegna-te e libere, tutto costruito in funzione a quello sguardo da proteggere. E ci fu una grande festa nella cittadina, che duro un attimo, tutto esplose in un colpo solo. Fu così che Giacomo e la signorina dai capelli raccolti co-minciarono la loro storia d’amore che li porto ad uscire da ogni immagine banale, mentre gli altri guardavano da fuori. Si amavano in ogni angolo del paese, nasco-sti alla vista della gente, in ogni prato della campagna, sotto ogni rovere, fondevano il loro naturale bisogno d’amore in un romanzo, scrivendo ogni giorno che pas-sava una pagina nuova, un piccolo mattone. Duro abba-stanza perché tutti e due si innamorassero l’uno dell’al-tra. Ma non desideravano sposarsi, si certamente, anda-vano in chiesa sempre alla domenica, Giacomo da una parte e lei, la signorina col fermaglio giallo, nelle prime file. Gli unici momenti in cui si sfioravano erano quelli quando tutta la chiesa si metteva in fila per la comunio-ne e quando tutta la chiesa usciva dal Duomo e si spar-pagliava tra le calli del paese andando incontro ai soliti domenicali pomeriggi tra le mura del borgo.

Loro due aspettavano un po’ e poi scappavano lungo i sentieri che portavano al mare.

Nelle giornate estive restavano vicini anche per ore, si tenevano per mano, si baciavano continuamente sen-za interrompersi mai. E non solo verso il mare, verso Porto Daila, ma anche verso l’interno ancora più im-merso nella natura. Restavano per giornate intere sulle mura di Grisignana con le gambe a penzoloni oppure si mettevano distesi sui prati in discesa dietro la Porta Maggiore con lo sguardo verso la valle che portava a Piemonte e a Portole.

Ed ovviamente i normali non potevano sapere quel-lo che loro due avevano vissuto assieme, ed oggi non potevano sapere neanche per quale motivo Giacomo se n’era ritornato nella sua cittadina, ora assediata dalla cavalleria pesante, ora nell’istante per capitolare. Era stata messa a ferro e fuoco, colpita a morte durante una normale giornata di primavera. Invani erano stati i ten-tativi di proteggerla con quel suo sguardo e con la forza,

con il cuore e pugnale. Invano era stato il tentativo di arrendersi con onore, vennero e portarono via tutto. Ri-masero solo pochi fedeli a guardarsi attorno tra le rovi-ne di un amore vero. Erano però veramente pochi.

Lei mori improvvisamente una mattina dei primi giorni di aprile del 1817 a causa del tifo petecchiale che sconvolse non solo Buie. I francesi se n’erano andati da un po’, gli austriaci governavano gia da quasi due anni ma a Giacomo tutto questo non interessava. Aveva per-so la signorina dal naso un po’ troppo piccolo, e con essa, la voglia di entusiasmarsi alla vita. Tutto qua.

IVIl treno stava attraversando la galleria di Saletto e si

dirigeva lentamente verso la stazione di Isola d’Istria. Una delle signore, annoiata dall’ultima parte della storia,si addormentò. Un altra doveva scendere proprio alla fermata successiva, poiché stava andando a trovare sua nonna paterna. Rimasero in due ad ascoltare il bi-gliettaio il quale, per niente scoraggiato, continuò nel suo racconto.

Dagli anni venti dell’Ottocento, per quasi sessant’an-ni a Buie e dintorni niente sconvolse la vita dei suoi abi-tanti più delle storie su Giacomo, della sapienza religio-sa di padre Giovanni e dell’epidemia di tifo di qualche anno prima.

Furono decenni in cui tutto scorreva lentamente, sen-za incorrere in improvvise siccità, senza che grosse bat-taglie uccidessero gli animi degli istriani sotto il gover-no imperiale di Ferdinando prima, e dal dicembre del 1848, del baffuto Francesco Giuseppe. Una pace diffu-sa, completamento pratico delle puntuali teorie di padre Giovanni, aveva invaso le città, le campagne e le picco-le valli della penisola, fino a trasformare la tolleranza nella vera ed unica padrona di casa.

Non che prima fosse stato diverso, ma in quei decen-ni spesso le capacità umane si trasformavano in virtù, regalando alla gente, un equilibrio pressoché totale.

La rivoluzione del 1848 in Istria aveva avuto i suoi effetti più sulle convinzioni che nelle violente j’acque-rie. Quando Venezia proclamo di nuovo la propria in-dipendenza, tutta l’Istria costiera saluto con gioia que-sta conquista. E la Costituzione che il nuovo Imperato-re aveva concesso, aveva fatto in modo che con questi moti liberali, molti cittadini uscirono allo scoperto con le famose coccarde

tricolori. A Parenzo, qualche dimostrazione a Rovi-gno e a Capodistria, alcuni slanci a Pola. Si vedevano come riferimento gli ideali italiani, i moti carbonari di Mazzini ed il tricolore.

A dire il vero non ci fu alcuna insurrezione, nessu-na violenza, nessuna prematura esasperazione, sicche dopo un anno e mezzo di teoriche rivoluzioni, di coc-carde, di parole scritte e gridate, si torno alla normalita, accettando di fatto la permanenza all’interno delle leg-gi dell’Impero.

Tullio era cresciuto tra i primi anni in cui andava a scuola a Buie e gli altri in cui dava una mano a suo padre in campagna. Appena fu pronto, maturo e deci-so, sposo l’unica donna che aveva conosciuto durante quei primi due decenni di vita. Assieme a Chiara fecero

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Letture

due bambini: Stefano, figlio della Rivoluzione del qua-rantotto e Giulio a distanza di ventidue anni, nel 1870. Chiara era più giovane di sette anni, cosa che le permise di partorire per la seconda volta senza particolari pro-blemi alla venerabile eta di quarantuno anni. Non ca-pitava molto spesso che famiglie istriane facessero ul-teriori figli a così grandi distanze dal primo, ma a loro due era capitato così e non si curavano tanto dei giudizi dal di fuori.

Il primo figlio sin da subito si fece notare poiché ver-so la scuola non nutriva un amore incondizionato. Alle volte l’aveva anche marinata, dando il facile pretesto a papa Tullio di scegliere per lui quella vita bucolica fat-ta di terra, attrezzi e faticoso sudore. Un tradimento va sempre pagato, a costo di finire in uno spazio che non piace.

Quando fu più grande, all’età di ventidue anni, nac-que il fratellino, salutato come l’ultimo arrivato ma come spesso accade, coccolato più del primo.

Stefano ormai era grande e di questo neanche se ne accorgeva, probabilmente era molto più occupato dai pensieri che riguardavano i lavori da ultimare in orto, che da quelli vicini alle gelosie e alle invidie. È quando il tempo passa piano che l’uomo partorisce visioni di-storte, influenzabili degli animi umani.

Lavorava sempre, si occupava del carro, lo mante-neva in vita cercando di tenerlo a posto percio che fun-zioni sempre. Il carro era il mezzo che serviva per ogni cosa, per ogni spostamento, per ogni vendita che la fa-miglia doveva fare nei mercati circostanti. E Tullio gli aveva insegnato che quel mezzo di trasporto serviva più di ogni giornata passata a seminare o a raccogliere. Sen-za, l’intero modo di vivere poteva cambiare, quasi mai in meglio, il più delle volte in peggio.

Amava una ragazza che aveva un po’ di sangue cro-ato, l’altro po’ italiano. Si erano conosciuti in una di quelle feste che padre Giovanni aveva tanto promosso negli anni addietro, per far si che tutti, indistintamen-te, partecipassero alla vita di Buie. Lei dava una mano come cameriera, girava per i tavoli e le panche, chie-dendo cosa desiderassero le persone. Si muoveva con vivacità, correndo, fermandosi per degli istanti a canta-re con i vecchi del paese, quelli che sapevano le canzoni antiche, forse, quelle più solari.

E poi quando qualche piccola ed improvvisata or-chestra si metteva ad accompagnare questi canti antichi, c’era sempre qualcuno che la chiedeva come compagna per un ballo. Niente che avesse a che fare con un inte-resse sottaciuto, solo un semplice ballo, che non voleva significare assolutamente niente. Anche padre Giovanni incitava le coppie a ballare, era un modo bello per di-vertirsi assieme, senza che l’individualismo avesse pos-sibilità di prevalere.

E puntualmente lei scappava via perché non vole-va danzare con chiunque glielo chiedesse. Non sarebbe stato giusto, quello che gli avevano insegnato suo padre e sua madre era che una persona che non conosci bene e una persona che può farti del male. E poi voleva essere lei a scegliere l’uomo con cui danzare, non viceversa.

Fu in questo modo che trovo Stefano. Lui non chie-deva mai a nessuna di ballare, se ne stava li a guardare

gli altri mentre si scambiavano le donne con cui prova-re a ballare, per provarci. E questo lei l’aveva notato; le donne osservano molto di più.

Nacque tutto presto. Gli chiese di ballare, gli altri guardavano Vera – così si chiamava – che per la prima volta dopo tanto tempo si rivolgeva a qualcuno che le piaceva. Le donne commentavano sottovoce, gli uomi-ni attoniti non credevano ai loro occhi e come per uno strano scherzo del destino in quel momento la piccola orchestra suonava una canzone che nessuno dei due co-nosceva.

Davanti ai musicanti non c’era nessuno.Stefano si alzo per rispetto e disse che era lusinga-

to del fatto che una signorina così bella gli chiedesse di ballare. Lei gli prese la mano e lo accompagno fino da-vanti a quella musica che suonava solo per loro due. Si misero in posizione e senza contare ad alta voce, come facevano spesso le altre coppie, come per incanto co-minciarono a muoversi leggeri nello stesso istante.

Lei sorrise.Lui fece lo stesso.Continuarono a girare su se stessi mentre gli altri

continuavano a guardare. Qualcuno rideva, qualcu-no ebbro d’invidia cercava speranzoso lo sguardo di uno dei musicanti a cui la musica non piaceva, per non trovarsi solo. L’orchestra al contrario, era coin-volta come non era mai accaduto. Tutti i musicanti muovevano la testa a ritmo di musica ed ogni tanto avevano tra loro sguardi di compiacimento, di con-divisione.

Appoggiato al pilo che molti decenni prima servi-va per innalzare la bandiera di San Marco, padre Gio-vanni sorrideva. Aveva più volte visto quei due figli dell’Istria, che non si buttavano mai dentro ai balli col-lettivi, cioe quando a danzare si potevano contare anche trenta coppie. Anche Tullio, quel torrido pomeriggio d’agosto, era li al ballo del paese. Ma si era scolato una bucaletta di Malvasia praticamente da solo ed ora par-lava a gran voce con un suo vecchio amico, anch’egli alticcio. Non li vide danzare assieme in quel modo, era troppo occupato a spiegare al suo amico l’insoddisfa-zione per la poca pioggia caduta in quegli ultimi gior-ni. D’altronde aveva appuntamento con lui, per tornare a casa, appena quando le campane del Duomo avessero suonato le sette. Prima tutti e due potevano fare quello che volevano.

Lei sorrise.Lui fece lo stesso.Dopo un paio di giri d’orchestra lei appoggio la te-

sta, essendo un po’ più bassa di Stefano, sul suo petto. Gli chiese gentilmente cosa stesse facendo e lei, perché un silenzio alle volte e più indicativo di qualsiasi paro-la, alzò di poco la testa ed appoggiò il palmo della mano sulle sue labbra, come se avesse desiderato solamente stare ad ascoltare il suo cuore.

Allora Stefano capì, chiuse gli occhi e sorrise.Lei fece lo stesso.Nove anni più tardi, dal loro matrimonio nacque

Dante, un nome che scelse lei, anche se al croato della sua famiglia non piacque tanto. Avrebbero preferito un altro nome, ma alla fine nessuna polemica ebbe concre-

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tezza, le decisioni per il nome di un nuovo arrivato pas-sarono in secondo piano.

L’impero all’epoca, in quell’autunno del 1879, aven-do unificato le due corone gia da piu di dieci anni si diede da solo il colpo di grazia confermando quella cri-si che ormai perdurava da quando gli ungheresi aveva-no tentato di invadere la capitale, fatto abdicare Ferdi-nando e minacciato seriamente l’unita politica. Le due teste dell’aquila, chiamata dai più galìna, non si guar-davano più, una girata verso oriente, l’altra verso occi-dente. Ma avevano bisogno l’una dell’altra e dopo una lunghissima convivenza decisero allora di sposarsi.

Nel frattempo in famiglia, Franco non se la passa-va molto bene. Anni di duro lavoro e di fatiche di cam-pagna lo avevano stancato, nel vero senso della parola. Non ce la faceva più a reggere carichi di lavoro che una volta si sarebbero dimostrati accessibili, se non addirit-tura leggeri. D’altronde aveva raggiunto l’età di quasi ottant’anni, eta per l’epoca rispettata ed almeno invi-diabile.

Aveva avuto in quegli ultimi anni la fortuna che Ste-fano lo aiutava sempre e che quando poteva si adopera-va per la vendita dei frutti della loro terra, a Buie o alle volte sino al mare, in quel di Umago. Tuttavia si senti-va sempre molto affaticato e si sentiva di avere spesso qualche piccola febbre. Lui pensava che fosse normale, a quell’eta era comprensibile avere qualche acciacco. L’affaticamento però comincio a perdurare e con esso comparvero i giorni in cui non aveva appetito a certe ore del giorno ed altri durante i quali proprio non man-giava. Nel giro di poche settimane questo necessario bi-sogno si fece sentire e il suo corpo comincio a perdere del peso.

Era disperato perché da un paio di mesi suo figlio Tullio si era gravemente ammalato e nessuno sapeva come sarebbe potuto guarire. Qualcuno riusci a far ve-nire un dottore fin da Pirano ma l’esito non fu soddi-sfacente. Cerco di utilizzare i metodi che aveva im-parato a Vienna, all’Università, e quelli con cui con-viveva nella città di Tartini. Dopo alcune brevi ma indicative domande, comincio a palpare alcune zone dell’addome, prima a destra poi a sinistra. Poi di nuo-vo a destra, un po’ più in basso, di nuovo in alto. Fece respirare forte Tullio, gli misuro il battito del cuore. Quella fu l’unica cosa che non lo convinse più di tan-to perché era oltre che minimamente irregolare anche un po’ affaticato.

Neanche quel figlio di Ippocrate sapeva cosa potes-se disturbare l’anima di Tullio.

Quel giorno stava un po’ meglio ma nei precedenti la follia più violenta, il dolore più subdolo che un uomo può conoscere e gli improvvisi attacchi in cui non riu-sciva a respirare, lo facevano pensare che la fine sareb-be arrivata da un momento all’altro. Dentro di se spe-rava in quella notte. Quella si che era la notte giusta, l’attimo in cui salutare tutti, baciare la sposa, brindare ad una nuova vita, rivedere gli amici di un tempo, pen-sare alle occasioni perse e a quei peccati mai confes-sati, pensare a casa sua, al mare e alle colline intorno a Buie, ai tramonti dalla Madonna della Misericordia, Alle sue vigne, a quelle di suo padre, a quelle di Stefa-

no. Alla maestra di suo figlio, quella cara signora ve-nuta da Capodistria per far studiare i ragazzini.

Quella notte era il momento perfetto.L’idea di sopravvivere ad un figlio terrorizzava

Franco, in quel momento in cui l’inesorabile soprag-giungere della vecchiaia lo aveva indebolito.

Il dottore piranese se ne ando anch’egli sconsola-to. Disse che gli dispiaceva, le sue diagnosi forse non erano corrette, ma che lui non aveva trovato niente. Si mise il cappello, infilo gli occhiali piccoli e tondi, guardo l’ultima volta gli occhi del padre da cui scen-deva una minuscola lacrima e si volto verso il carro che l’avrebbe riportato rapido a casa, sul mare. Era sempre la soluzione più facile per non appassionar-si alle storie personali che potevano trasformarsi in incubi.

Franco era affranto, distrutto dal dolore. Le uniche cose che gli restavano erano in bilico. Certo c’erano i nipoti, Stefano e l’appena nato Giulio, ma Tullio era suo figlio, quel figlio nato dall’amore con Lidia, la donna di una vita.

Cosa poteva fare adesso che non poteva lavora-re più? La casa diventava sempre più triste, Lidia se n’era andata e solo la figlia di Marijia, la levatrice morlacca, veniva ad aiutarlo nelle faccende domesti-che più complicate. Solo la nascita di Dante e diveni-re bisnonno gli avevano messo addosso una sorriden-te, anche se breve, energia.

Ma per il resto niente sembrava vivo come prima. Qualcuno aveva detto basta alla sua voglia di vivere e a quella di suo figlio. Gli avevano fatto smettere di giocare, quasi un castigo.

Fu la cosa che gli fece più male. Pensare di non farcela più, di restare inesorabilmente indietro rispet-to a quelli più giovani e vedere la forza ed il coraggio di una volta salutarlo per sempre, chiusero, una vol-ta per tutte gli occhi di quel soldato buiese. Fece te-stamento direttamente per Chiara, Stefano e sua mo-glie; Giulio era ancora troppo piccolo. Avrebbero, se l’avessero voluto, abitato tutti assieme in quella casa che lasciava. A Stefano lasciava anche il carro, la ba-racca giu nella valle ed il fucile della leva.

Ando a dormire con la forza per andarsene. Quel-la sera se ne andarono tutti e due, padre e figlio. Nes-suno dei due poteva sopportare il dolore che l’anima sentiva. Così, senza svegliare nessuno, si abbandona-rono ad un sonno sempre più irreversibile.

Della famiglia, in quella primavera del 1879, re-stavano solo Giulio, Stefano e Dante. Stefano era di-ventato papa ed inconsciamente assunse, dopo la sin-crona morte del padre e del nonno, il ruolo respon-sabile di pater familias. Ora era tutto sulle sue spal-le, avrebbe dovuto badare ad ogni faccenda, risolvere con sapienza ogni questione.

Giulio era piccolo e viveva con spensieratezza quei suoi momenti anche se suo fratello lo aveva già mes-so in guardia, indicandoli quando poteva, la corretta strada. Dante, per ultimo, era appena nato ed in quel attimo difficile fu l’unico lampo in un paese, Gam-bozzi, che all’improvviso smise di sorridere.

(2 - continua)

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Panorama 39

Novità in libreriaAndrea Camilleri

UNA LAMA DI LUCEVentinovesimo volume con pro-

tagonista l’ispettore Montalbano (tra raccolte e romanzi). La vicenda pren-de il La da uno sbarco di immigrati tu-nisini a Lampedusa, talmente tragico da richiedere l’arrivo sull’isola del mi-nistro dell’Interno, che decide di fare tappa a Vigata. Schivo come sempre, Montalbano pensa bene di evitarlo dedicandosi a una mostra d’arte nella nuova galleria d’arte del paese, dove

conosce Maria Angela, la proprieta-ria. Donna talmente attraente da far vacillare il rapporto con Livia. Intanto il crimine non va in vacanza: il pro-prietario di un supermercato denun-cia una rapina con stupro della mo-glie, ma quanto tutto sembra chiaro l’ex della donna viene assassinato e a Montalbano la tesi della vendetta non piace. Le varie vicende si intrecciano, tra loro e con la vita privata di Salvo nella vita cui va crescendo un senso di solitudine, con Livia che resta una voce al telefono e dall’altro lato una donna fatale in carne e ossa.Editore Sellerio Editore PalermoPagine 263. Prezzo 14,00 euro

James Patterson e Mark SullivanPRIVATE GAMES

Londra, luglio 2012. Mancano po-chi giorni all’inizio delle Olimpiadi e la città è parata a festa, pronta ad ac-cogliere gli atleti provenienti da ogni parte del mondo per celebrare il gran-de rito dello sport. Ma c’è qualcuno convinto che l’antico spirito olimpico sia stato tradito dalla moderna corru-zione e che questi Giochi non debba-no avere luogo. Il primo omicidio è un segnale chiaro: davanti al cadave-re di Sir Denton Marshall, uomo chia-ve del Comitato organizzatore, i cin-

que cerchi olimpici disegnati con la vernice spray sono coperti da una X. Tracciata con il sangue. Per la filiale londinese della famosa agenzia di in-vestigazione Private International, al comando di Peter Knight, abilissimo detective e uomo tormentato da un passato di dolore, inizia una dramma-tica corsa contro il tempo e contro un nemico spietato e invisibile, che si fir-ma Crono e che, come l’antica divi-nità di cui ha preso il nome, intende «divorare» i Giochi e i suoi atleti. E mentre le gare hanno inizio in un cli-ma di angoscia e di massima allerta, Knight indaga e arriva fino a mettere

a rischio ciò che ha di più caro perché la fiamma di Olimpia non si trasformi in fuoco di distruzione, ma resti luce di speranza per tutti...Editore Longanesi Pagine 336. Prezzo 14,11 euro

Valeria Della Valle e Giuseppe PatotaCILIEGIE O CILIEGE?

E altri 2406 dubbi della lingua italianaChi può dire di non aver mai avu-

to un dubbio, scrivendo un tema, un articolo, o anche solo una mail (o un mail?), di non essersi mai trova-to faccia a faccia (o a faccia a fac-cia?) con una parola dall’accen-to incerto? Sbagliare non è questio-ne d’ignoranza o della sclèrosi (o

scleròsi?) delle nostre arterie, ma di-pende spesso dalla complessità della nostra bella lingua. Non è dunque il caso che ci vergognamo (o vergognia-mo?) quando ci chiediamo se sia me-glio comprare un ananas o un’ananas, consultare due chirurghi o due chirur-gi, partire alle tre e mezzo o alle tre e mezza. Capita a tutti. E grazie a que-sto libro, decidere sarà questione di un attimo!Editore Sperling & KupferPagine 242. Prezzo 14,90 euro

Siri HustvedtL’ESTATE SENZA UOMINIAlla separazione, Mia reagisce

con una via di mezzo fra un esauri-mento nervoso e una crisi psicotica, con conseguente ricovero in ospeda-le psichiatrico. Recuperato un preca-rio equilibrio, Mia decide di trascor-rere alcune settimane nella cittadina dov’è cresciuta e dove ancora vive, in una struttura residenziale per an-ziani, sua madre. Questa sarà la sua “estate senza uomini”. Durante que-sta forzata vacanza, Mia ripensa al passato ma soprattutto coltiva le re-lazioni con le persone che abitano il microcosmo che la circonda: la ma-dre e le sue amiche novantenni (al-cune delle quali non mancheranno di sorprenderla con il loro spirito vitale e i loro lubrichi “divertimenti segre-ti”), le sette allieve adolescenti di un corso di scrittura creativa tenuto dal-la protagonista nel circolo culturale cittadino (ragazze che daranno prova di tutta la tenerezza e la perfidia del-la loro difficile età), la famiglia dei vicini di casa e, infine, un misterioso corrispondente, aggressivo e geniale, che firma le proprie e-mail “Signor Nessuno”. Editore EinaudiPagine 151. Prezzo 17.00 Euro

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40 Panorama

Made in ItalyCarmelo Chiaramida di Cividale ha spopolato al Festival del settore

Un gelato muffin al cioccolato a cura di Ardea Velikonja

I toscani hanno gradito, e gli esper-ti del settore di calibro nazionale pure: Carmelo Chiaramida, ge-

lataio (molto) attivo a Cividale del Friuli, dopo aver spopolato al Firenze gelato festival ed essere comparso su numerose pubblicazioni italiane, farà la suapresenza anche su su una rivista americana specializzata.

Alla manifestazione dello scorso maggio,in piazza Santa Maria Novel-la, il gusto proposto da Carmelo è sta-to quello più mantecato: 9 quintali in 5 giorni; ciò significa che l’operoso gelataio ha lavorato davvero fino allo sfinimento. “Presenti al festival tanti gelatieri selezionati da tutto il mon-do - racconta Chiaramida -; ho scelto di offrire ai partecipanti una mia ri-cetta particolare: muffin al cioccolato fondente e amarena. E sono rientrato tra i primi 3, probabilmente sono il primo, che hanno mantecato più ge-lato alla manifestazione. Non facevo in tempo a produrlo che finiva subito, era il gusto più richiesto”.

Carmelo è titolare della gelateria artigiana Al Duomo, aperta a Civida-le del Friuli nel 2007 con i soci Ga-

briele Bianchini e Giuseppe Mangia-villano (un’altra, “Dolci pensieri”, è attiva a Pozzuolo del Friuli). Tutti e tre hanno conseguito il diploma di gelateria alla Scuola Fabbri 1905 di Bologna.

Dopo un periodo di sana gavet-ta, i giovani raccolgono tante soddi-sfazioni e molte gratificazioni: “ab-biamo sempre puntato sulla qualità, niente coloranti e polverine. Lavoria-mo col latte crudo, che ha elevati va-lori energetici di termini di proteine e calcio; non essendo stato trattato ter-micatamente, infatti, lo pastorizzia-mo una sola volta. A giorni ricevere-

Il formaggio “Nostrano Valtrompia” diventa DOP e sale così a 242 il numero delle denominazioni italiane registrate.Infatti è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Euro-

pea il regolamento n. 629/2012 della Commissione europea con cui viene registrata la Denominazione di Origine Protetta “Nostrano Valtrompia”. La domanda di iscrizione era stata presentata agli uffici comunitari il 22 settembre del 2010.

Il formaggio “Nostrano Valtrompia” DOP è un formaggio semigras-so a pasta extra dura, prodotto tutto l’anno, a partire da latte crudo e con l’aggiunta di zafferano. La pasta ha gusto e aroma pieni ed intensi, senza percezione di note acide a maturazione minima e quando molto stagio-nata anche con note di pungente appena accennate; il colore della pasta è giallo paglierino con tendenza al giallo verde.

La zona di produzione e di stagionatura del formaggio “Nostrano Val-trompia” DOP appartiene ai comuni della Provincia di Brescia ricadenti nella Valle Trompia.●

Ancora un formaggio DOPSi tratta del Nostrano Valtrompia

mo un attestato dall’azienda agricola Bianchini Fratelli di Flumignano che certifica che la nostra gelateria è la prima in provincia (ma sicuramente anche in regione) ad aver utilizzato il latte crudo di Solo Pezzata Rossa Ita-liana; un altro attestato giungerà dalla Geatti per essere stato il primo in re-gione ad aver acquistato un manteca-tore Bravo trittico Bio per l’utilizzo del latte crudo in gelateria”.

“La nostra cittadina si caratteriz-za da sempre per la particolare quali-tà delle attività artigiani del compar-to dolciario – osserva Daniela Ber-nardi, assessore alle attività produtti-ve del Comune di Cividale del Friuli -. Un settore estremamente gradito, non solo dalla cittadinanza ma anche dai turisti che la visitano da ogni par-te dell’Italia e del mondo. Oltre altre proposte d’arte e cultura, uniche, le-gate alla civiltà dei Longobardi, Ci-vidale del Friuli, infatti, è un centro che offre grande varierà di speciali-tà gastronomiche peculiari: il gelato, come nel caso specifico, ma anche la pasticceria e la rinomata gubana, sen-za dimenticare gli strucchi. Panifici artigianali storici e attività del setto-re dolciario tramandate di generazio-ne in generazione sono valse, negli anni, premi e riconoscimenti impor-tanti a molte ditte, aziende e impre-se locali della Città. Anche per que-sto l’Amministrazione comunale di Cividale del Friuli opera fattivamen-te e con costanza per la promozione, conoscenza e valorizzazione di que-ste realtà uniche”.

Buono e genuino, il gelato civida-lese di Carmelo ha colpito anche un giornale blasonato come il Sole 24 Ore: “con una telefonata mi hanno avvisato che realizzeranno una colla-na dedicata ai prodotti tipici italiani; quindi pizze, birre, gelati; e mi han-no selezionato per l‘inserimento”. Si colgono quindi i frutti di questi 3 gio-vani artigiani che, tra non poche dif-ficoltà, hanno intarpreso un’attività in tempi non proprio facili. “Ci pre-mia la qualità su cui abbiamo sempre puntato, gli affari sono in crescen-do”.●

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Panorama 41

Sarà l’Italia il Paese che ospite-rà il Campionato del mondo di magia FISM 2015, l’importan-

te e prestigiosa competizione interna-zionale di illusionismo che vede riu-niti, una volta ogni tre anni, tutti i più autorevoli e stupefacenti esponenti del settore.

L’assegnazione è avvenuta a Blackpool, nel Regno Unito, nell’ul-timo giorno del Campionato 2012. L’Italia ha sbaragliato l’agguerrita concorrenza coreana aggiudicandosi, con la città di Rimini, il grande even-to magico, che si terrà nella città ro-magnola dal 6 all’11 luglio 2015.

Direttore artistico del FISM 2015 sarà Arturo Brachetti, artista famoso e acclamato in tutto il mondo, consi-derato un mito vivente nel mondo del teatro e della visual performing art.

A ricevere l’assegnazione dell’evento il Circolo Amici della Magia di Torino, che ha formalmen-te posto la candidatura e di cui Artu-ro Brachetti è membro onorario. La regia operativa di questa importan-te operazione è di Walter Rolfo, ap-prezzato illusionista e autore televi-sivo, presidente di Masters of Magic che ha coordinato un lavoro di rela-zioni lungo e delicato, iniziato anni fa. Al loro fianco i club magici di tut-ta Italia, che hanno sostenuto la can-didatura.

”Si tratta di una giornata vera-mente speciale”, ha commentato a caldo Walter Rolfo, da Blackpool. “Sono certo che l’Italia realizzerà il più bell’evento di magia di sempre. È nella sua natura: siamo il Paese della fantasia, solo qui la magia mondiale può trovare casa”.

Marco Aimone, presidente del Circolo Amici della Magia, ha volu-to “ringraziare l’amico Walter Rolfo e Masters of Magic per il sogno che ci hanno permesso di condividere: adesso ci aspetta un lavoro lungo e impegnativo. Credo che sarà una ma-gica avventura grazie all’entusiasmo e l’energia che certamente non man-cheranno”.

Il Campionato del mondo di ma-gia è il più importante evento di il-

lusionismo mondiale, per il qua-le sono previsti oltre 4.000 parteci-panti. Durante la settimana di lavori si tiene la prestigiosa competizione che designa i Campioni del mon-do di magia nelle singole specialità (grandi illusioni, magia generale da scena, close up, magia comica, ma-nipolazione, ecc.) oltre che meeting, conferenze, incontri sui temi legati all’illusionismo.

Ma i successi per l’Italia non ter-minano qui. Nel corso della sessio-ne conclusiva del Campionato di Blackpool è stato nominato il nuovo presidente della FISM, la Federazio-ne internazionale delle Società Magi-che: la scelta è caduta su Domenico Dante, stimato esponente del mondo dell’illusionismo italiano e presiden-te del Club Magico Italiano.

Il Gran Premio F.I.S.M. per la sce-na è stato vinto da un manipolatore coreano: Yu Ho Jin, che ha presentato un numero molto poetico tutto basato sulla manipolazione di carte, produ-zioni di vario tipo, carte che cambia-vano colore tra le sue mani, sparizio-ni. Il tutto con una tecnica raffinata.

Bisogna dire che i coreani in que-sto momento sono molto avanti ri-spetto alle altre nazioni, creano nu-

meri originali, hanno doti manipola-torie che pochi hanno. Infatti hanno vinto sia il primo, il secondo e il terzo premio di manipolazione.

Il Primo Premio di Magia Gene-rale è stato vinto dal finlandese Mar-ko Karvo, già presente in preceden-ti F.I.S.M. Ha presentato un classi-co numero di colombe con un fina-le dove apparivano alcune gabbie, un cacatua e un ara che dopo aver fat-to un giro in teatro gli volava sulla spalla. Un numero che pur essendo un “classico” ha riscosso un enorme successo.

Una citazione particolare merita il Primo Premio di Grandi Illusioni vinto dal team olandese Prince of Il-lusions. Attrezzi originali e molto cu-rati, un esecuzione perfetta di giochi poco visti e soprattutto una storia in-dovinata.

Il Gran Premio di Close Up è sta-to vinto dal francese Yann Frisch. Un numero molto bello, anche perchè innovativo, dove la scena è quella di un personaggio schizofrenico che lotta con una tazza da cui vorrebbe bere e una palla che sul tavolo di casa continua ad apparirgli, moltiplicarsi e spartire, con attimi di virtuosismo davvero eccellenti.● (aise)

Made in Italy

Appena concluso in Inghilterra, nel 2015 sarà ospitato a Rimini

Campionato mondiale di magia

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Italiani nel mondoLo chiedono i docenti con una lettera al presidente Giorgio Napolitano

Annullare la dismissione della scuo la all’esteroa cura di Ardea Velikonja

Un passo indietro sulla riduzio-ne dei docenti italiani all’este-ro prevista dal decreto sul-

la spending review. È quanto richie-sto da un gruppo di docenti italiani all’estero che hanno scritto al Presi-dente della Repubblica, Giorgio Na-politano, per chiedere un suo inter-vento in merito.

Si tratta, spiega Anna Rita Sordo, dei docenti che si sono riuniti su Face-book in gruppo denominato “Insegna-re all’estero”, che conta ormai più di 6.000 iscritti.

”Onorevole e Illustrissimo Pre-sidente, - si legge nella lettera – sia-mo un gruppo di Insegnanti di Scuo-le Statali di vari ordini e gradi in Ita-lia e all’Estero, che hanno espletato in Dicembre scorso la Pubblica Selezio-ne per l’Accertamento Linguistico in-detto dal Ministero Affari Esteri al fine di insegnare e divulgare la Lingua e la Cultura Italiana nelle Istituzioni pub-bliche all’Estero”.

”Pur essendo in attesa dell’Ordi-nanza per la dichiarazione dei titoli professionali e culturali e della relati-va formulazione delle Graduatorie, va-levoli dal 1 settembre 2013, - continua la missiva – Le scriviamo per esprime-re preoccupazione riguardo a quanto emerso nell’ultimo periodo in relazio-ne agli ulteriori tagli - sulla già vessa-ta scuola pubblica - previsti dal D. L. 6 luglio 2012, n. 95, sullo Spending Re-view, recentemente varato dal gover-no, in cui il contingente statale all’este-ro verrebbe ridotto del 40%. Non ci sembra di ravvisare alcuna coeren-za con quanto votato con larga mag-gioranza dal Senato della Repubblica, che, nella seduta del 3 e 4 luglio scorsi si era espresso a favore e sostegno del-le Istituzioni Pubbliche all’estero, boc-ciando l’emendamento al DDL n. 3331 presentato dal Sen. Micheloni, volto a richiamare gli insegnanti di ruolo in servizio all’Estero a favore invece di finanziamento a enti gestori privati”.

Per i firmatari della lettera, “merita un plauso la sua recente dichiarazione

del 10 luglio scorso all’indirizzo del Presidente della Repubblica di Slo-venia circa un “bisogno di più Euro-pa, di più integrazione”, così come ci appare degna di nota l’inchiesta “Italiano 2010. Lingua e cultura ita-liana all’estero” promossa dal MAE, da cui emerge l’interesse che la Lin-gua e Cultura Italiana suscitano fuo-ri dai confini nazionali. Siamo tutta-via sconcertati da quanto ci sembra di ravvisare nel D.L. succitato circa il diritto fondamentale all’Istruzione pubblica e libera, sancito dagli artt. 33 e 34 della Costituzione. Decreto che, con la scusa di una giustifica-bile e necessaria Spending Review, ridurrà drasticamente - se converti-to in legge - le Istituzioni Pubbliche all’Estero per gli anni a venire (com-ma 11, lettera b “non possono esse-re disposte nuove selezioni per il per-sonale da destinare all’estero ai sensi dell’articolo 639 del decreto legislati-vo 16 aprile 1994, n. 297, né possono essere rinnovati i relativi comandi o fuori ruolo”), diversamente da quan-

«Un uomo che ha dedicato la vita alla politica, alle lotte per

il lavoro e l’emancipazione dell’uo-mo, all’associazionismo e agli italia-ni all’estero». Così Elio Carozza ri-corda Luigi Sandirocco, consigliere del Cgie scomparso il 12 luglio scorso all’età di 91 anni. Nel comunicare la notizia ai consiglieri, il segretario ge-nerale esprime la sua “tristezza e co-sternazione” per la scomparsa di “Gi-getto” che, scrive Carozza, “nelle ulti-me plenarie, per ragioni di salute, non è stato tra di noi e la sua mancanza si é fatta sentire”.

Sandirocco è stato “un uomo che ha dedicato la vita alla politica, alle lotte per il lavoro e l’emancipazione dell’uomo, all’associazionismo e agli italiani all’estero. Un uomo forgiato dalle forti convinzioni, determinato

nel difendere, valorizzare e far vivere i valori di solidarietà, di giustizia, fra-tellanza eguaglianza. Abbiamo avuto, nel Consiglio generale, l’opportuni-tà di apprezzare le sue infinite qualità. Gigetto manifestava, con naturalezza, i senso più alto, del rispetto, dell’ascol-to, del dialogo, delle diversità cultura-li. In ogni momento agiva per ricer-care fino all’impossibile le conver-genze, con argomenti e ragionamenti profondi, orientato solo al bene delle nostre Comunità all’estero e alla sua rappresentanza. Gigetto ha saputo co-gliere i cambiamenti e con acuta intel-ligenza ha interpretato dentro e fuori il CGIE le espressioni più avanzate che emergevano tra gli italiani che vivono all’estero”.

”A noi tutte e tutti che abbiamo avu-to la fortuna di conoscerlo, di ascol-

tarlo, di lavorarci insieme mancherà moltissimo”, continua Carozza. “Così come sono sicuro che resterà nelle no-stre menti il ricordo di un uomo giusto e di un uomo che ha insegnato come interpretare la politica e come farla vivere. Personalmente perdo un ami-co, un vero amico. Ho avuto la fortu-na di incontrarlo spesso, soprattutto d’estate nella sua Pescara. Amava la vita e i suoi piaceri. la buona tavola e il buon vino abruzzese. Amava la sua terra e la sua gente. Ho conosciuto Gi-getto, nel lontano 1980, a Perugia ad un Congresso della FILEF, il primo a cui partecipavo. Da quel primo in-contro ho ammirato la capacità di un grande uomo pieno di valori ed idea-li. Sapeva, grazie alla sua intelligenza ed esperienza, cogliere le esigenze che emergevano dalle giovani generazio-

È scomparso Luigi SandiroccoConsigliere del CGIE aveva 91 anni

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Panorama 43

Italiani nel mondo

Lo chiedono i docenti con una lettera al presidente Giorgio Napolitano

Annullare la dismissione della scuo la all’esteroto proposto, per esempio, da Francia e Germania”.

”In qualità di Insegnanti – prose-guono – non possiamo fare altro che scrivere anche a Lei, così come abbia-mo fatto con tutti i Senatori e Deputa-ti dal nostro attivissimo gruppo virtua-le “Insegnare all’Estero” su Facebook, con la richiesta precisa di vederLa con-tinuamente impegnata nel vigilare con attenzione, in qualità di Garante della Costituzione, sull’eventuale Progetto di dismissione della Scuola Pubblica all’Estero allo scopo di salvaguardare la dignità dell’Italia, la sua prestigiosa Cultura e la sua meravigliosa Lingua”.

”Sperando che non vengano vani-ficate le risorse, sin qui investite, dal-lo Stato nel bandire il concorso e dai 22.000 concorrenti che vi hanno parte-cipato, restiamo a disposizione per un eventuale incontro con la Signoria Vo-stra. Cogliamo inoltre l’occasione per ringraziarLa – concludono – per quan-to di utile e giusto è stato e sarà fat-to nonché per porgerLe distinti saluti”. (aise)

L’improvvisa scomparsa di Andrea Amaro è una di quel-

le notizie che come primo impul-so destano un senso di ribellione. Non si è mai pronti ad accettare che un amico ci lasci prima che l’età ci convinca che il momento sia arrivato.

Tanto più, come nel caso di An-drea, quando si tratti di una perso-na che dell’intelligenza, dell’iro-nia, dell’impegno civile ed etico ha fatto un abito quotidiano, un modo di relazionarsi agli altri e di segna-re una presenza nella vita quotidia-na e in quella sociale”. Incredulo e commosso il ricordo dei deputati del Pd eletti all’estero, che espri-mono il proprio cordoglio per la scomparsa di Andrea Amaro, vice-segretario del Cgie, morto ieri a 69 anni.

Nella nota – firmata dai depu-tati Gino Bucchino, Gianni Farina, Marco Fedi, Laura Garavini, Fran-co Narducci e Fabio Porta – insie-me a Norberto Lombardi, Stefania Pieri, Virginio Aringoli e a tutto lo staff dei deputati del Pd Estero, si ricorda che “ciò che quasi stupiva di lui era la sorridente levità che dimostrava anche nelle situazioni e nelle decisioni più difficili e, con-siderando lo spessore delle respon-sabilità che aveva assunto nella sua vita sindacale, la libertà dai condi-zionamenti, l’assenza di incrosta-zioni”.

”Egli – ricordano dal Pd Mon-do – era stato, infatti, Segretario generale della Camera del Lavo-ro di Bologna, nei tempi difficili in cui Aldo Moro veniva sequestrato e ucciso, Segretario nazionale de-gli alimentaristi della CGIL, e poi degli elettrici, per passare infine all’Ufficio internazionale del suo sindacato. Ha rappresentato, inol-tre, la CGIL nel Consiglio genera-le degli italiani all’estero, dove era stato eletto Vice segretario per la componente di nomina governati-

va. In questi ultimi anni ha avuto modo di conoscere direttamente le nostre comunità sparse per il mon-do, di assumerne le tematiche e di diventarne un punto di riferimento serio, affidabile. Conoscendo attra-verso le relazioni sindacali le real-tà sociali dei paesi di insediamen-to degli italiani, Egli riusciva a co-gliere con particolare acutezza le questioni inerenti all’integrazione e al ruolo dei nostri connaziona-li. Insomma, la sua intelligenza e la sua esperienza gli consentivano di guardare costantemente in avan-ti, senza lasciare per strada quelli che soprattutto in età avanzata han-no bisogno di sostegno e di solida-rietà”.

”Andrea, dunque, ci manca come amico e ci manca come rife-rimento e guida politica. Dopo la recente scomparsa di Gigetto San-dirocco – annotano – un altro col-po, in un momento difficile, per la comunità degli italiani nel mondo. Il ricordo che conserveremo di Lui, senza sonori proclami che non gli sarebbero piaciuti e sui quali sareb-be stato il primo a ironizzare, lo vi-vremo come una promessa e – con-cludono – un impegno di continua-re nel suo campo di azione e lungo la stessa rotta”. (aise)

Un profondo conoscitore degli italiani all’estero

Morto all’età di 65 anni Andrea Amaro

ni, le faceva sue e con grande capacità di sintesi sapeva tradurle in azioni po-litiche e associative”. ”Mi mancheran-no i suoi consigli e i sui insegnamenti, sempre puntuali e espressi con passio-ne, serenità e determinazione. Gigetto viveva il senso vero del volontariato e della militanza. Alla FILEF il mio più sentito cordoglio e la mia solidarietà. Ai figli Carla e Luigi, alla moglie Pu-petta il mio più forte abbraccio pieno-di amicizia e affetto”.●

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MusicaIn anteprima tutto il programma del 56.esimo Festival della creatività contempora nea che si terrà a Venezia (1)

Nel panorama odierno minimalismi e massimalismia cura di Ardea Velikonja

Dal 6 al 13 ottobre Venezia sarà il palcoscenico della musica contemporanea con la 56.ma

edizione del Festival organizzato dalla Biennale di Venezia presieduta da Pa-olo Baratta. Saranno otto giorni densi di appuntamenti, tre al giorno, tra con-certi, installazioni sonore, atelier, per-formance audiovisive e opere di teatro musicale che presenteranno al pubblico 51 novità, di cui 28 in prima esecuzio-ne assoluta.

La manifestazione è stata intitola-ta +EXTREME- ed intende mettere a confronto minimalismi e massimali-smi musicali del nostro tempo. “Ciò che colpisce particolarmente nel pano-rama musicale dei nostri giorni – dice il neo direttore Ivan Fedele – sono gli orientamenti estremi: minimalismi e massimalismi che vogliono abitare le regioni di frontiera del linguaggio mu-sicale, approcci apparentemente anti-tetici che in comune hanno la radicali-tà dell’intento estetico-poetico, abban-donando di fatto l’atteggiamento poli-tically correct del pezzo che funziona o suona bene”. Il 56. Festival presen-ta alcuni significativi attori di queste pratiche “dell’eccesso”, contestualiz-zati e messi a confronto con i “classi-ci” del radicalismo: dai grovigli con-

trappuntistici di Brian Ferneyhough, per esempio, alla saturazione operata dai quarantenni Franck Bedrossian e Raphaël Cendo, dalla smaterializza-zione del suono di Salvatore Sciarri-no e gli aneliti mistici di Sofija Guba-jdulina alla musica costruita sull’uni-tà minima di un solo bit del trentenne Tristan Perich, passando per la fissità ipnotica di Kirill Shirikov o l’urgenza espressiva di Nikolai Popov e Alexan-der Khubeev, poco più che ventenni compositori russi di intrigante spre-giudicatezza.

Vecchi e giovani leoniIl 56. Festival Internazionale di

Musica Contemporanea si inaugura sabato 6 ottobre con i protagonisti dei Leoni della Biennale di Venezia: Pier-re Boulez che, come già annunciato, riceverà il Leone d’oro alla carriera, e il Quartetto Prometeo, giovane ma già affermata formazione cameristica ita-liana, a cui verrà assegnato il Leone d’argento, premio che la Biennale de-stina alle nuove realtà musicali.

Con un repertorio che spazia da Bach a Sciarrino e una qualità inter-pretativa riconoscibile, eletto com-plesso residente presso la Britten Pe-ars Academy di Aldeburgh nel 1998 e invitato nelle migliori stagioni con-certistiche italiane e internazionali, il

Quartetto Prometeo sarà alla Sala del-le Colonne di Ca’ Giustinian con un concerto che porta nel vivo di Extre-me. Dagli immoti paesaggi sonori di Phil Niblock, classe 1933, fra i pio-nieri del minimalismo americano, si passa attraverso il minimalismo melo-dico della tedesca Carola Bauckholt, per arrivare alle sonorità distorte dei francesi Franck Bedrossian e Raphaël Cendo, esponenti di una vero e pro-prio movimento estetico, quello del “saturazionismo”, considerato da ta-luni una deriva “acida” dello spettra-lismo francese.

Il concerto al Teatro alle Tese of-frirà invece un binomio inscindibi-le: Pierre Boulez e l’Ensemble Inter-contemporain. Compositore, direttore d’orchestra, teorico, promotore appas-sionato della musica del XX secolo, di Pierre Boulez si eseguiranno Sur in-cises, uno fra i pezzi più spettacolari della sua recente produzione che, se-condo un modulo caro al composi-tore, sviluppa ed espande la matrice originaria, Incises, un frammento per pianoforte solo. I due brani sono inter-calati dall’altrettanto travolgente So-nata per due pianoforti e percussioni di Béla Bartók.

Cyber suoniFa pensare a un universo astrale,

composto da cyber suoni quell’ampia fetta della musica elettronica che tro-va impulso e sviluppo dall’inarresta-bile innovazione tecnologica, che pro-duce e inventa suoni in una dimensio-ne acusmatica, cioè in totale assenza di strumenti acustici. All’incontro tra musica e informatica il 56. Festival dedica un episodio importante intito-lato a IanniX, una piattaforma multi-mediale che elabora dati visivi e sono-ri rendendo più immediato il rapporto tra segno grafico ed evento musicale. Come una lavagna su cui disegna-re con un led varie tipologie di dise-gni geometrici – rette, curve, poligo-ni, solidi - che si traducono in suono. Il nome è in omaggio all’immagini-fico compositore franco-greco Iannis Xenakis, che nel ’75 per primo ideò un sistema di “suoni grafici”, Upic, di

Pierre Boulez, direttore d’orchestra, saggista e compositore francese di musica contemporanea, riceverà il Leone d’oro alla carriera

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Panorama 45

Musica

In anteprima tutto il programma del 56.esimo Festival della creatività contempora nea che si terrà a Venezia (1)

Nel panorama odierno minimalismi e massimalismi

cui Iannix è l’evoluzione più avanza-ta grazie agli studi, sostenuti dal Mini-stero della cultura francese, di Thierry Coduys e del suo laboratorio parigino La Kitchen. IanniX oggi è in grado di dialogare non soltanto sul fronte mu-sicale, ma con un gran numero di lin-guaggi – da OSC (l’iPad “parla” OSC) a MIDI - assecondando la moderna rete tecnologica.

A questo metodo di composizio-ne visiva, che sfrutta la creatività del-la grafica per individuare strutture mu-sicali, il Festival ha dedicato un ate-lier, condotto dallo stesso Coduys per 8 compositori selezionati, suddiviso in tre fasi: una propedeutica di studio del linguaggio Iannix (3 > 5 maggio), una di progettazione musicale (7 > 9 giugno) e una di realizzazione (5 > 11 ottobre). Questa fase produttiva vedrà il suo esito finale l’11 ottobre al Tea-tro alle Tese con sei prime assolute di Ivàn Solano, Marcello Liverani, Cesa-re Saldicco, Julian Scordato, Stefanio Alessandretti e Giovanni Sparano, Da-vide Gagliardi e Victor Nebbiolo Di Castri. Sarà un concerto-performance, perché con questa pratica il composi-tore è anche l’esecutore che con il suo gesto manipola la partitura.

Un’altra immagine dallo spazio

In un’area omologa, animata sem-pre dall’idea di amplificare i suo-ni, estenderli, manipolarli, crearli ex novo, si svolgono altri tre appunta-menti del Festival. È il territorio del-

la musica elettroacustica, che fa dia-logare gli strumenti tradizionali con tutta la gamma di supporti elettronici via via offerti dallo sviluppo tecnolo-gico - magnetofoni, radio, registratori, sensori e “protesi” tecnologiche fino ai moderni laptop. Così, fra echi ed ener-gie “sottili”, va in scena il concerto al Conservatorio di Venezia il 9 ottobre (Sala Concerti, ore 15.00), ideato dalla flautista Federica Lotti, allieva di Ro-berto Fabbriciani e Severino Gazzello-ni, qui coadiuvata dal mago del suo-no Alvise Vidolin, che ha realizzato le opere elettroniche dei maggiori com-positori italiani, Nono, Berio, Sciarri-no. Il concerto giustappone la musica-lità pura del flauto solo di Classifying the thousand shortest sounds in the world di Claudio Ambrosini, presenta-to in prima esecuzione assoluta, ai ri-verberi tra strumento voce e live elec-tronics degli altri brani. Sono le novità firmate da Luigi Sammarchi e Tao Yu, fra le più apprezzate compositrici ci-nesi della nuova generazione, e le spe-rimentazioni di Corrado Pasquotti e Agostino Di Scipio.

Sempre Agostino Di Scipio, questa volta al computer e al live electronics, è protagonista in duo con Ciro Longo-bardi, fra i nostri più versatili pianisti tra repertorio, improvvisazione, pro-getti multimediali, del concerto pre-sentato nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian il 12 ottobre (ore 15.00). Il programma scorre dalla partitura “hi-tech” di Vittorio Montalti (Leone d’ar-gento alla Biennale Musica 2010) co-stituita da 6 pezzi per pianoforte solo

dedicati e ispirati a Martha Argerich, Keith Jarrett, Friedrich Gulda, Bruno Canino, Glenn Gould e Bill Evans, a quella “lo-tech”, deliberatamente po-vera fino all’annullamento, dei 3 pezzi muti dello stesso Di Scipio, in cui “il gesto del pianista prende contatto con la superficie dello strumento ma senza davvero suonare, senza ‘affondare’ sui tasti” (A. Di Scipio). In mezzo, Kla-vierstuck IX di Stockhausen, con la sua struttura insistita eppure variabile di un accordo di 4 note, e Electronic Music for Piano di Cage, nella sua pri-ma esecuzione integrale interamente live electronics, come originariamen-te era stata concepita dall’autore, che l’aveva scritta su un foglio di carta in un Hotel di Stoccolma, integrando am-pie porzioni delle sue Music for Piano con note vaghe e criptiche.

E ancora da Cage prende spunto “Out of a landscape”, il concerto ospi-tato nella Sala Concerti del Conserva-torio di Venezia l’8 ottobre (ore 15.00) e che sul ciclo Imaginary landscape costruisce il “contrappunto” delle nuo-ve partiture di Luca Richelli, Michele Del Prete e Marco Gasperini. Due va-riazioni che partono da un punto per trasmigrare verso altri lidi, prendendo alla lettera le indicazioni che Cage die-de per la celebre serie, e che potreb-bero essere prese a epitome di questa sezione di concerti offerta dal Festi-val: “Non si tratta di un paesaggio fi-sico, è un paesaggio del futuro. Come se si usasse la tecnologia per decolla-re e, come Alice, passare attraverso lo specchio”. ● (1-continua)

Agostino Di Scipio, questa volta al computer e al live electronics, è protagonista in duo con Ciro Longobardi

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46 Panorama

Mondo animaleLanciato dalla Bird Life International, l’allarme riguarda per ora soprattu tto l’Europa del Nord

Passero, più che solitario diventa introvabiledi Marin Rogić

Passeggiare accanto al mare, per le vie della città, lungo le verdi pra-terie delle nostre campagne, fer-

marsi, sedersi per riposarsi oppure per ammirare il paesaggio, raccogliere un fiore, annusarlo e sentirsi felici. Da con-torno il suono del cinguettio del passero a dare quel tocco di musica per creare un ambiente idilliaco. Quando Giaco-mo Leopardi descriveva in versi la ma-linconia del passero solitario, l’imma-gine di un unico uccello immobile, in-tento a osservare in cima al campanile era insolita, ma negli anni a venire po-trebbe diventare sempre più frequente, visto che quella del passero è una spe-cie che sta diminuendo in modo preoc-cupante. I passerotti, i simpatici uccel-lini, tozzi e furbissimi, che da sempre consideriamo onnipresenti, pare non ce la facciano più a stare al mondo, né in città né in campagna.

Gli ornitologi di tutta Europa han-no cominciato a precepirne il decre-mento una trentina di anni fa, poi questo s’è fatto sempre più deciso, fino a divenire, ultimamente, addirit-tura allarmante. L’informazione vie-ne da Bird Life International, un’or-ganizzazione che coinvolge un cen-tinaio di associazioni e in cui ope-rano molti valenti professionisti. L’allarme riguarda, per ora, soprat-tutto il nord europa. Nel Regno Uni-to, per esempio, la popolazione nidi-ficante del passero domestico (Passer domesticus) che all’inizio degli anni ’70 era di circa 12 milioni di coppie, oggi conta solo 6-7 milioni di coppie, tant’è che qualche anno fa il giornale ‘The Independet’ aveva deciso di of-frire un premio di 5000 sterline a chi avesse fornito un’ ipotesi scientifica accettabile a contrastare questo feno-meno. Molteplici i motivi . In alcune aree urbane è totalmente scomparso. Al St’James Park di Londra si incon-trano merli, tordi e cince, ma i passeri sono totalmente scomparsi dal 1990. Lo stesso fenomeno si è verificato in altri parchi di grandi capitali come Dublino, Amburgo, Edinburgo, Pra-ga e Mosca, toccando la punta del 95

p.c.in quasi tutte le aree verdi di Ver-savia in confronto con una media eu-ropea pari al 39 p.c. ma ha curiosa-mente risparmiato Parigi e Berlino.

In trent’anni coppie dimezzate

Si potrebbe pensare che 6-7 milio-ni di coppie siano sufficienti per non destare allarme, ma bisogna tentere conto che nel giro di 30 anni sono di-mezzate. Per rendere meglio l’imma-gine più chiara, provate solo per un istante ad immaginare che catastrofe e che conseguenze avrebbe l’umanità, se nel giro di qualche decennio metà della popolazione terrestre svanisse. Come reagiremmo? Certamente ci sa-rebbe uno stato di allarme difficile da prevedere e spiegare in poche righe e anche se le righe fossero sufficienti mancherebbero le parole. Tutti, o per lo meno quasi, conosciamo l’ormai vecchio detto ‘una rondine non fa pri-mavera’, ormai perchè è un detto non più valido. Quando al giorno d’oggi diamo uno sguardo al cielo, ben rara-mente vediamo una rondine spiccare il volo, ed anche questa è considera-

ta una specie fortemente a rischio. Il paragone con la rondine è appropria-to per capire la situazione del passe-ro. La rondine di per sé è una di quelle specie animali la cui esistenza dipen-de da pochi fattori, scomparsi quelli, la sua esistenza è messa in grave diffi-coltà. Un’altro esempio per spiegarmi meglio: se in una riserva acquatica vi-vono balene che si nutrono prevalen-temente di plancton e questo venisse a scomparire, la balena sarebbe in gran-dissima difficoltà e nel giro di poco tempo si estinguerebbe. Per il passero la situazione è diversa, è uno straor-dinario generalista il quale può nutrir-si in tanti modi differenti, ma la cosa più importante è la sua adattabilità all’ambiente, è capace di trovare solu-zioni quando si trova in pericolo. Gli etologi lo chiamano ‘risoluzione del problema deltour’, che vuol dire che, se per raggiungere un luogo deve ini-zialmente allontanarvisi, lui lo sa fare. Sa costruirsi una mappa mentale del tragitto. E questo non è tutto - come hanno dimostrato alcuni tra gli etolo-gi europei più importanti – è capace di trasmettere per via d’apprendimento le soluzioni dei problemi. Ecco allora

Il passero è un uccello molto intelligente

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Panorama 47

Mondo animale

Lanciato dalla Bird Life International, l’allarme riguarda per ora soprattu tto l’Europa del Nord

Passero, più che solitario diventa introvabileperchè il declino dei passeri contiene qualcosa di vagamente allarmante.

La situazione italiana In Italia i popolari uccelli sono

rappresentati da quattro specie: l’euro-peo (Passer domesticus), che si trova solo in una stretta fascia appena al di qua delle Alpi; la mattugia (P. monta-nus), che normalmente schiva le città ma che si trova un pò dovunque nelle campagne; la passera sarda (P. hispa-niolensis), che abita le due grandi iso-le e la penisola iberica e infine l’italica (P. italiae), che è esclusivamente ita-liana ed è distribuita in tutta la peni-sola. Molti sono gli ornitologi italiani c he da anni, sono impegnati a censi-re le popolazioni di passeri e, ultima-mente, anche a identificare le possibi-li cause del loro declino (la Lipu pe-riodicamente organizza un censimen-to). Le ultime notizie non sono buone, perché il decremento demografico, purtroppo, non fa che progredire. I dati dicono che i decrementi oscilla-no dal 20 al 40-50 p.c.questo dato ri-specchierebbe ciò che avviene un pò dappertutto nel continente europeo. Il problema più importante, quello che desta le maggiori preoccupazioni in Italia, è rappresentato nell’area pada-na, dalla quale, e se ne sono accorti in tanti, parrebbero essere quasi scom-parsi del tutto i passeri. “Il fenome-no è manifesto – ha autovevolmen-te confermato Luigi Sala, docente di Conservazione e gestione della fauna all’Università di Modena e Reggio in una intervista di qualche tempo fa – e non certo da oggi, ma già da qual-che anno a questa parte. Tanto è vero che stiamo collaborando con la Lipu che ha sviluppato al riguardo un pro-getto tematico nell’ambito di un pro-gramma nazionale di ricerca. Perché non è tanto l’interesse pratico, che ci sta a cuore: il passero non rappresenta molto per l’uomo, da questo punto di vista. È piuttosto il segnale che è fon-te d’inquietudini: che cosa succede? Perchè di punto in bianco e dopo mil-lenni di convivenza con noi e le altre specie, da qualche anno a questa parte i passeri sono spariti?”

Le causeLe cause sono molteplici e ad effet-

to cumulativo. Determinante è la ca-renza di insetti, specie afidi, nella loro dieta. Mentre gli adulti si nutrono di granaglie, i piccoli hanno bisogno di insetti che vengono portati dai genito-ri. La carenza di questi, porta i picco-li ad una dieta quasi solo vegetale che ne fà morire molti già nel nido e quelli che scampano sono deboli e in segui-to vittime di infezioni. Un’altra ragio-ne è data dalla difficoltà di nidificazio-ne nelle grandi città. Le nuove costru-zioni non hanno grondaie o rientranze che diano riparo: sono state progettate pensando a stento agli esseri umani, fi-guriamoci i passeri. Anche la gestione del verde pubblico è sempre più fina-lizzata: pochi giardini e con piante ed erbe spontanee sempre più rare.

Per le aree extraurbane, invece, ri-sulta assai negativa la trasformazione e l’intensificazione delle pratiche agri-cole, in particolar modo quella delle monocolture, nonché la scomparsa dei terreni incolti, consumati dall’espan-sione urbanistica. Vi sono poi le intos-sicazioni da metalli pesanti e da pesti-cidi. Ciò che ancora non sappiamo è se riusciranno a trovere un nuovo equili-brio, oppure se il loro declino impla-cabilmente continuerà. Speriamo nel-la prima ipotesi, e vediamo di dar loro una mano. A proposito la Lipu in Ita-lia propone ai cittadini di finanziare il progetto di sostenimento dei passeri, adottando per 20 euro un nido di pas-seri da mettere in un parco, oppure fi-nanziando con 30 euro la messa in si-curezza di dieci metri di barriere fonoi-

solante in autostrada. Secondo la Lipu, in Italia, ogni anno muoiono quasi 4 milioni di passeri, perchè si schianta-no contro i vetri degli edifici oppure contro i pannelli antirumore delle stra-de. Donando 50 euro si contribuisce ad organizzare un evento di educazio-ne ambientale e di ecologia urbana in una classe. La LIPU da molti anni si dedica all’educazione ambientale. Co-noscendo la natura, i giovanissimi im-parano ad amarla e proteggerla, rispet-tando tutti gli esseri viventi.

Per i più facoltosi, con 100 euro si aiuta ad organizzare una giorna-ta di studi ornitologici per monitora-re la popolazione dei Passeri, con 200 euro si sostiene l’impegno LIPU nella sensibilizzazione e nel supporto tecni-co alle amministrazioni comunali per migliorare la pianificazione urbanisti-ca in senso ecologico, come abbiamo visto prima i passeri scompaiono dalle nostre città anche per le scelte adottate nella gestione dei parchi e dei giardini, a causa della mancata organizzazione del territorio. In tempo di crisi econo-mica si è propensi a ragionare su ogni danaro da spendere e sono sempre più le volte che pochi euro, per molti, sono tanti. Ma è bene farci un pensiero, per non ritrovarci un giorno un pò più tri-sti, senza la musica del cinguettio che fa molte volte da cornice alle nostre giornate, ai nostri ricordi, alle nostre passeggiate in riva al mare o in mezzo alla natura, distesi sul prato o seduti su una panchina all’ombra di un pino.

Per i lettori che desiderassero ap-profondire tutti gli aspetti della crisi dei passeri, consiglio di visitare il sito www.lipu.it●

Per quanto tempo li vedremo ancora appollaiati sui recinti?

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48 Panorama

Tra storia e gustoIl ventesimo secolo apporta sconvolgimenti, car estie e parecchie novità

Dalle raffinatezze dei banchetti ru ssi alla liofilizzazionedi Sostene Schena

La morte del grande Escoffier concluse un periodo importan-te della grande cucina. La sua

opera: la “Guide culinaire”, pubblica-ta per la prima volta nel 1902, diven-ne la più importante fonte di studio e di applicazione per i grandi cuochi di tutto il mondo. La fama e l’immagi-ne non conobbero mai confini. La na-zione più grande estimatrice del cele-bre maestro fu la Russia: fu per molto tempo il cuoco dello Zar Nicola III e proprio dalla gelida terra russa si diffusero in tutta Europa piatti consi-derati tuttora internazionali; il “boef Strogonoff”, il “bortsch”, i “blinis” e il mitico caviale nelle varietà ros-so, nero, grigio. I granduchi di Russia amavano molto la Francia, soprattut-

to la vita mondana di Parigi e il clima mite della Costa Azzurra. In Francia i ricchi dignitari di Pietroburgo im-pararono ad apprezzare lo Cham-pagne e l’impareggiabile Chateau d’Yquem. A Parigi il locale d’elezio-ne era “Chez Maxim”, Place Vendo-me ne divenne il salotto, il Ritz tappa d’obbligo per i soggiorni nella “Ville Lumière”. La vita era lussuosa, raffi-

nata, intima, i pesanti banchetti non entrarono più negli usi e nei costumi della nobiltà. Non più grandi portate quindi, ma una rara pernice, una pre-stigiosissima “terrina d’aragosta”, un raffinato “patè”, costituivano l’atmo-sfera unica e sognante della “Belle Epoque”.

La prima guerra mondiale, can-cellò definitivamente il bel sogno, i lussuosi alberghi di Parigi e della Co-sta azzurra, le grandi residenze pri-vate vennero frequentemente adibiti a caserme e ospedali; allo Champa-gne, ai celebrati vini francesi e italia-ni, alle raffinatezze dei menù elabo-rati dalla “grand cuisine” si sostitui-rono le tessere, le razioni, l’annona-ria, i cibi conservati importati dagli americani.

Dopo il primo dopoguerra un lie-ve spiraglio di luce si intravide ver-so il 1930. Nulla tuttavia apparve di estremamente esaltante; i menù si li-mitarono all’essenziale, la cucina si rivolse sempre più alle massaie, ven-nero pubblicate le prime ricette su quotidiani e riviste. In Italia apparve il primo periodico di carattere gastro-nomico: “La Cucina Italiana”, tuttora rivista mensile fra le più apprezzate. Un nuovo movimento culturale tutta-via sconvolse la tradizione e la sem-plicità della rinata cucina italiana; “il futurismo” fondato da Filippo Tom-maso Marinetti. Questa stravagante

corrente si inserì in ambito culinario, quando nel 1930 venne pubblicato il manifesto della “cucina futurista”. Il provocatorio movimento non incon-trò particolari seguaci, e i messaggi del fantasioso Marinetti svanirono perdendo ogni significato. Intanto il secondo conflitto mondiale seminò orrore e morte, Nagasaki ed Hiroshi-ma, subirono conseguenze catastrofi-che e devastanti.

Nel 1950 si sviluppò una nuova rivoluzione alimentare, la scoperta della surgelazione. Ben presto com-parvero alimenti conservati con altre tecniche innovative: la disidratazio-ne, l’essiccazione, la liofilizzazione. L’agricoltura segnò nuovi sviluppi, allevamenti di carni e di pesci trova-rono collocazione in ogni zona d’Ita-lia. Vi fu un ritorno alla cucina sem-plice, contadina. Le nuove tecniche di conservazione degli alimenti non soddisfacevano tuttavia i palati più esigenti; si ricercarono i gusti natu-rali e puri. Per sempre fu cancellata la storica tradizione degli imponenti banchetti d’onore; anche il ceto bor-ghese ricercò l’osteria e la locanda “fuori porta”. I nuovi gastronomi de-gli anni Sessanta, formatisi presso le prestigiose scuole alberghiere d’Ita-lia e d’Europa, proposero una nuova riforma gastronomica: la “Nouvelle Cousine”. Il nuovo stile gastronomi-co antepose il gusto e la freschezza

Esempio di clientela con cui si trovava a lavorare Escoffier nei primi del 900

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Panorama 49

Tra storia e gusto

Il ventesimo secolo apporta sconvolgimenti, car estie e parecchie novità

Dalle raffinatezze dei banchetti ru ssi alla liofilizzazione

dei sapori naturali all’aspetto coreo-grafico. Le semplici e pratiche teorie elaborate da Paul Bocuse portarono all’esaltazione degli stimoli gustati-vi, alla corretta interpretazione delle ricette, alla valorizzazione delle ca-ratteristiche organolettiche determi-nate dall’accordo degli aromi e dal-la sapiente impostazione delle tecni-che di cottura. La sperimentazione e il confronto con realtà gastronomi-che di tutto il mondo, le multiformi

esperienze, la creatività e la raffina-tezza nella preparazione delle vivan-de, hanno determinato così una gran-de espressione della professionalità della cucina e della tavola, un’intesa cordiale fra il cuoco e il buongusta-io, accordata dall’amore per il cibo e dall’esaltazione del gusto.

Un menu secondo le regole at-tuali e gastronomicamente corretto: non servire due volte la stessa carne o lo stesso pollame; variare i colo-

ri, non servire di seguito due vivan-de con salsa bruna o con salsa bian-ca; variare i contorni, variare la pre-parazione, per esempio: non servire un pesce lesso e poi un pollo lesso, una prima portata a base di uova e un dessert a base di uova; servire mi-nestre dense, pietanze cotte nel gras-so; nella stagione fredda non servire conserve di leguni quando tali legumi si trovano freschi. ●

BibliografiaA TAVOLA NEL RINASCIMEN-

TO - Odillon Sabban Serventi, Later-za ed.; ANNI A TAVOLA - J. Francoise Revel, Rizzoli ed.; DELLA GASTRO-NOMIA ITALIANA - C. Benporat, Mursia ed.; CUCINA E LA TAVOLA - J. Fernot-J. Le Goff, Dedalo Ed.; FAME E L’ABBONDANZA-Storia dell’ali-mentazione in Europa - M. Montana-ri, Laterza ed.; ANNI A TAVOLA - M. Alberini, Piemme ed.; DELLA CUCI-NA ITALIANA - M. Alberini, Piem-me ed.; PUNTA DI FORCHETTA - I. Babitsch-M.Shiaffino, Idea Libri ed.; DEL GUSTO A TAVOLA - G. Vaccari-ni, A.I.S. ed.; GRANDE LIBRO DEL-LA CUCINA FRANCESE - A. Escof-fier, Newton Compton ed.; CUCINA REGIONALE ITALIANA - A: Boni, Newton Compton ed.; SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DEL MANGIAR BENE - P. Artusi, Gulliver ed.; PICCO-LO PELLAPRAT LA GRANDE CU-CINA PER TUTTI - H. P. Pellaprat, Sansoni ed.

Paul Bocuse, il pluristellato cuoco Michelin tra i più famosi al mondo, è stato nominato il miglior chef del XX secolo per “aver trasformato il

cibo e la vita delle persone per cui ha cucinato“

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MultimediaIndagine a tutto campo del mensile CHIP su qual è la porta più idonea ve rso Internet. (2 e fine)

Il miglior browser? È Chrome il nuo vo numero 1

Firefox 11, tuttofare con nuove funzioni

Ogni sei settimane Mozilla rila-scia una nuova versione di Firefox, una frequenza di release abbastanza vantaggiosa per sviluppatori e utenti perché permette a Mozilla di concen-trarsi sulla risoluzione dei problemi e sull’implementazione graduale di nuove feature. Per non stancare trop-po l’utente con l’aggiornamento del software, a partire dalla versione 10, Firefox si aggiorna automaticamen-te in background, un accorgimento

geniale per offrire sempre il massi-mo della protezione senza stressa-re l’utente. Anche le versioni prece-denti si aggiornavano in background, ma l’utente doveva lanciare l’update manualmente. I nostri test sulla sicu-rezza hanno dato un quadro della si-tuazione altalenante: il browser rico-nosce le pagine web di phishing più attuali decisamente meglio di Inter-net Explorer, mentre il test sulla si-curezza di Browserscope non riporta particolarità nelle feature per la sicu-rezza di Firefox che, con 12 punti su 17 (si veda il benchmark a destra) di-

a cura di Igor Kramarsich

Firefox o Internet Explorer? Questo è sempre stato il dilemma tra gli utenti del web. Chi utilizzava Firefox era moderno, chi navigava con IE era spesso deriso. Poi è comparso Chrome a spaventare i due

colossi, presentandosi veloce, snello e accattivante, anche se un po’ im-maturo. E oggi com’è? Abbiamo testato i tre top browser, analizzandone velocità e sicurezza e verificando le relative impostazioni sulla privacy e la praticità delle funzioni. Uno sguardo più attento è stato dedicato al fu-turo standard Html5 perché molti siti web utilizzano già la nuova tecno-logia. Inoltre abbiamo preso in esame le funzioni per la sincronizzazione e le versioni mobili dei browser, visto che molti utenti navigano da smart-phone e tablet, quindi l’armonia tra piattaforma mobile e pc è importante. Non abbiamo preso in esame i browser Opera e Safari della concorrenza perché sui desktop non hanno quote rilevanti di mercato.

venta il fanalino di coda. Manca an-che il filtro Xss per le minacce Cross Site Scripting. Per risolvere il proble-ma non resta che ricorrere a tool ag-giuntivi come NoScript.

Cura dimagrante per Firefox

Due dei principali punti critici era-no il tempo di risposta relativamen-te lento e l’enorme occupazione della Ram, entrambi ampiamente risolti da Mozilla. Firefox non è riuscito a po-sizionarsi al primo posto in nessuno dei benchmark ma, allo stesso tempo, il browser non è mai andato al di sot-to di un certo livello. Particolarmen-te positivo è il risultato ottenuto per l’occupazione della Ram che rima-ne ridotta anche con più schede aper-te.Oltre a questi miglioramenti, dalla versione 11 Mozilla ha implementato la pratica funzione di sincronizzazio-ne che consente di allineare i book-mark, le password, le impostazioni e gli add-on. Per godere di questi bene-fici, è necessario un account Mozilla, attivabile da Strumenti/Configurazio-ne di Sync. Purtroppo, invece per mo-dificare le impostazioni o per installa-re gli add-on è sempre necessario ri-avviare il browser, mentre Chrome dimostra che se ne può fare a meno.Per restare al passo con le nuove mo-dalità di navigazione, Mozilla sta la-vorando intensamente a una versione mobile per Android (nel momento in cui scriviamo è disponibile la versio-ne beta). Grazie alla funzione Sync, è possibile passare dal desktop allo smartphone senza problemi.

Inoltre, diversamente da Google Chrome, gli add-on possono essere installati anche da smartphone: per esempio Adblock Plus, che blocca i fastidiosi annunci pubblicitari, ridu-ce i tempi di caricamento della pa-gina e il traffico dei dati. Purtroppo i comandi non sono ancora ottimali, il menù delle impostazioni non è anco-ra accessibile da tutti i livelli né, tan-to meno, le schede aperte, che sullo smartphone risultano ancora troppo piccole.

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Panorama 51

Multimedia

Indagine a tutto campo del mensile CHIP su qual è la porta più idonea ve rso Internet. (2 e fine)

Il miglior browser? È Chrome il nuo vo numero 1Internet Explorer 9,

il gigante mostra segni di debolezza

Sebbene a partire da Windows 7, Internet Explorer non sia più instal-lato di default, è ancora sempre il browser più diffuso al mondo, anche se le quote calano rapidamente. La versione attuale di IE9 è sicuramen-te il browser migliore nella storia di Microsoft. Mentre Chrome e Firefox sono sempre più simili, Internet Ex-plorer offre interessanti punti di svi-luppo propri, per esempio nella pro-tezione contro il malware. Mentre la concorrenza con Phishing Protection e Safe Browsing propone una sorta di blacklist delle minacce, Microsoft in-troduce il filtro SmartScreen, che ri-conosce le Url pericolose tramite una black list, e in aggiunta un controllo basato sulla reputazione. Ciò signifi-ca che un filtro predisposto verifica se un dato file è già conosciuto come mi-naccia e, in caso di pericolo, ne bloc-ca il download. Uno studio recente-mente condotto e pubblicato dall’Isti-tuto Fraunhofer per la Sicurezza in-formatica e supportato da Microsoft riconosce IE come il migliore stru-mento per il riconoscimento del mal-ware. Questo però non è un buon mo-tivo per rallegrarsi perché anche IE trova soltanto il 39,1% delle minacce (Chrome 11,1%, Firefox 8,1%). Il no-stro test sul phishing mostra un risul-tato completamente diverso: se da un

lato IE non presenta alcun problema nel riconoscere le pagine web di phi-shing più vecchie di un giorno, falli-sce totalmente nel riconoscimento di quelle del giorno stesso.

Da progetto modello a binario morto

Nella lotta per essere lo standard del web, IE è sempre stato in prima li-nea. Nel frattempo le cose sono cam-biate: per la prima volta nell’evolu-zione del browser questa versione su-pera il test Acid3 che verifica l’effetti-va risposta allo standard W3C. Tanto per avere un riferimento, basta pen-sare che IE8 ha ottenuto soltanto 20 punti su 100. Anche la versione 9 ha problemi con le innovazioni web: il risultato relativo al supporto Html5 è decisamente il peggiore di tutti. Al browser mancano codec audio e vi-deo e il rendering 3D per le applica-zioni interattive come i giochi. L’Ht-

ml5 non è ancora ufficialmente lo standard, ma molti siti lo impiega-no già largamente. In questo caso, IE mostra la pagina in modo errato op-pure non la visualizza affatto (si veda la schermata qui a destra).

Le opzioni funzionali non temo-no la concorrenza perché Microsoft gioca in casa e lavora sul proprio si-stema operativo: i bookmark, per esempio, sono accessibili non solo dal browser ma anche da Esplora ri-sorse. L’utente può inoltre aggiun-gere sulla barra delle applicazioni il link alle singole pagine web. Man-ca la funzione di sincronizzazio-ne che può essere sostituita soltanto con strumenti aggiuntivi come Live Mesh. Se Microsoft sarà in grado di riguadagnare utenti dipende da Win-dows 8 e da Internet Explorer 10 per-ché Microsoft ha intenzione d’impo-starli sull’Html5 e rendere il passag-gio dal desktop ai dispositivi mobili assolutamente fluido.●

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52 Panorama

Anniversari

Il reggiseno compie un secolo: storia di un’evoluzionea cura di Nerea Bulva

Nessuna donna ne può fare a meno, perché il reggiseno, oltre ad essere un indumento intimo

dalla importante funzione pratica di so-stenere e dare una forma al seno, è so-prattutto un simbolo di femminilità. Se, infatti, lo slip, pur con tutte le differen-ze che non è necessario stigmatizzare, lo indossano uomini, donne e bambini,

il “reggipetto” (come lo chiamavano, un po’ pudicamente, le nostre nonne) è ad esclusivo appannaggio femmini-le. Ecco perché nel nostro immaginario esso rappresenta soprattutto uno stru-mento di seduzione, anche quando sia declinato nella sua espressione più ba-sic e neutra.

Ma questo indumento di lingerie è il più “giovane” nella storia della biancheria intima femminile, infatti, proprio nel 2012 festeggia il suo com-pleanno: 100 anni! Un secolo dal suo primo prototipo, assolutamente nien-te nella storia dell’umanità. Eppure così rivoluzionario. Pensate che ven-ne letteralmente “costruito”, in modo molto rudimentale, per la prima volta

proprio nel 1912 da una donna (e non poteva essere diversamente): Mary Phelps Jacob. Si trattava di un model-lo che, probabilmente, ora come ora ci farebbe solo ridere: era costituito da una bretella a cui, sul davanti, erano stati cuciti dei fazzoletti e delle fasce da bebè. Forse bruttino da vedere, ma certamente geniale nell’idea. Conte-nere e separare il seno, questo era lo scopo da raggiungere, niente a che ve-dere con gli scomodissimi corsetti che erano stati usati dalle donne fino ad al-lora. A “inventarlo” l’ereditiera ameri-cana, nipote di Robert Fulton, proprio per rispondere a una semplice e bana-le esigenza: poter indossare un abito molto scollato e trasparente senza mo-strare il corsetto sottostante. La giova-ne dichiarò: “Non posso dire che il reggiseno cambierà il mondo come il battello a vapore del mio antenato, ma quasi”. Questa curiosa affermazione, rilasciata nel 1912, ha in sé un po’ di verità: in fin dei conti la prima forma “ergonomica”, che modellava il corpo

femminile senza costringerlo, fu pro-prio quella ideata dalla ragazza ameri-cana. Per renderlo sin da subito sofisti-cato la sua ideatrice pensò di dargli un nome che per la prima metà fosse in-glese e per la seconda parte francese: backless brassiere. La parola inglese vuol dire “senza schiena” e la parola francese derivava invece da un’antica parola che significa “braccio superio-re”. Da quel momento il termine, in-tero o abbreviato in brass, significò reggiseno.

Prima di allora le donne erano ob-bligate a sostenere il seno con mez-zi di fortuna: le antiche romane, per esempio, usavano il mammillare, una fascia di cuoio che lo appiattiva ren-dendolo aderente al busto, oppure il cestus che esaltava i seni più pro-sperosi; le signore dell’antica Gre-cia, invece, indossavano l’apodesmo, un bendaggio di stoffa. Si trattava di reggiseni primordiali ma che comun-que riuscivano a intrigare gli uomini. Scriveva Marziale su questo accesso-

Dal prototipo all’ultima generazione di reggiseni

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Panorama 53

Anniversari

Il reggiseno compie un secolo: storia di un’evoluzionerio così misterioso: “Una trappola cui nessun uomo può sfuggire, un’esca che riaccende di continuo l’impetuo-sa fiamma”.

Poi toccò al pelicon, un corpetto foderato di pelliccia che furoreggiava tra le donne del Medioevo, fino ad ar-rivare ai busti con le stecche di bale-na che dal Rinascimento ai primi anni del Novecento rappresentarono un do-loroso strumento di costrizione per le donne.

L’invenzione di Mary Phelps Ja-cob non ebbe un successo immediato, ci volle l’arrivo delle prime fibre sin-tetiche - il nylon e rayon, negli anni Trenta - perché si potesse commercia-lizzare il reggiseno senza che avesse un costo esorbitante. La prima, gran-de innovazione, per quanto riguarda il

modello, si ebbe negli anni Cinquanta, il decennio delle pin up, delle maggio-rate, che sfoggiavano tutte il reggiseno “Very Secret”, una specie di push up preistorico, che era costruito in modo

da aumentare le forme. Inoltre, sem-pre negli anni ’50, venne prodotto un nuovo tessuto sintetico perfetto per la biancheria intima, e in particolare per il reggiseno: la lycra, tuttora usatissi-ma, comoda, morbida ed elastica. Con il ’68, però, cominciano le prime con-testazioni del femminismo, e il reggi-seno, simbolo dell’omologazione fem-minile a semplice strumento sessuale per l’uomo, viene bruciato in piazza.

Tuttavia, non bisogna attendere molto per vedere il “nostro” di nuo-vo in auge. Negli anni Settanta, infatti, viene prodotto il primo modello senza ferretto e senza cuciture, che non strin-ge ma asseconda la forma naturale del seno. Sul mercato compaiono modelli sempre più confortevoli, ma è a par-tire dagli anni Ottanta, dai balconcini in pizzo di Madonna, che il reggiseno diventa una vera a propria star dell’ab-bigliamento femminile, sempre più in vista, sempre più colorato e sensuale.

Nei primi anni Novanta, una nuova rivoluzione: nasce il push up, che re-gala almeno una taglia anche alle più “scarse”, ma non a scapito della co-modità. Ora le fanciulle possono sce-gliere tra modelli di ogni tipo, dai su-per tecnologici con gel, camere d’aria e quant’altro, a modelli praticamente invisibili. Lunga vita a questo indu-mento nato dal genio di una donna, un secolo fa.

Oggi il reggiseno ha assunto varie forme e viene prodotto in diversi tes-suti a seconda delle esigenze: sportivo con materiali tecnici per resistere alla pressioni esterne, in lycra per maggior

comfort, in pizzo per chi considera la lingerie un indumento sexy o in coto-ne ecologico, per chi è attenta all’am-biente. Non mancano poi le evoluzioni delle coppe, in silicone, imbottite con poliestere, olio, aria, tutte varianti per continuare, con moderne tecnologie, a fare quello che il reggiseno ha sempre fatto, ridurre o esaltare, nascondere o mostrare il corpo della donna, e la par-te femminile per eccellenza, il seno.●

Mary Phelps Jacob mostra orgogliosa la sua invenzione

Le donne greche lo chiamavano apodesmo e lo usavano durante le manifestazioni sportive, mentre le ragazze etrusche e romane più alla moda ne indossavano uno dal

nome taenia

Dal Medioevo al Novecento i corsetti rappresentarono un doloroso stru-

mento di costrizione per le donne

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A prima vista potrebbe sembrare strano - ma in realtà non lo è af-fatto - che l’exhibit number one,

l’attrazione numero uno, della nuova California Academy of Sciences di San Francisco all’interno del Golden Gate Park, disegnata dall’architetto Renzo Piano, sia il tetto. La copertura vegetale è parte integrante dell’edificio e anzi ne costituisce una peculiarità, il simbolo di un design innovativo, sostenibile sotto il profilo ambientale.

I diecimila metri quadrati del tetto sono costituiti da un “tappeto vivente” di piante e di fiori selvatici della Califor-nia, quattro specie di tipo perenne e cin-que annuali, frutto di una selezione che ha riguardato trenta graminacee in grado di sopravvivere senza utilizzo di fertiliz-zanti e senza irrigazione. Complessiva-mente, in cinquantamila “vassoi” in fi-bra di cocco sono contenute un milione e 700 mila piante che, insieme agli iso-lanti termici, garantiscono un abbassa-mento della temperatura interna di circa dieci gradi, rendendo possibile quindi la totale mancanza di impianti “artificiali” di raffreddamento dell’aria.

“Il tetto” spiega Piano “rappresen-ta una sperimentazione coerente con la missione dell’Accademia delle scien-ze, che è uno dei musei più antichi degli Stati Uniti. Non è un progetto moralisti-co, bensì improntato a una visione etica. Con un centinaio di scienziati abbiamo lavorato sul tema della sostenibilità e il risultato, partendo dal tetto, e che è pos-sibile realizzare edifici che consumano pochissima energia e rispettano l’am-biente”. La copertura si spinge oltre il perimetro dei muri garantendo ombra, protezione dalla pioggia ed energia fo-tovoltaica catturata dal sole attraverso 60 mila cellule, foglioline che creano l’effetto di essere sotto un albero. Tut-

ti questi accorgimenti volti al risparmio energetico, che comprendono anche la giusta esposizione solare degli spazi, il riciclo dell’acqua, l’accurata scelta dei materiali e così via, hanno fatto ottene-re al museo - primo negli Stati Uniti - la più alta certificazione di ecosostenibili-tà: il Platinum Level LEED.

Il nuovo edificio firmato dall’archi-tetto italiano è quello che, nel mondo, più si avvicina alle emissioni zero. “Il museo di San Francisco” aggiunge Pia-no “è visivamente, grazie alla traspa-

renza garantita dalle vetrate, è funzio-nalmente collegato al parco del Golden Gate. Metaforicamente si può dire che abbiamo sollevato un pezzo del parco e ci abbiamo messo sotto l’edificio, una fetta di California del secolo scorso”. A “spingere” il tetto verso il cielo, forman-do così un paesaggio collinare, sono due strutture sferiche sottostanti, il Planeta-rio e la Biosfera che contiene la foresta pluviale, e l’ingresso dell’Acquario. Al centro, un grande lucernario trasparente garantisce l’illuminazione naturale allo spazio centrale - “The Piazza”, all’italia-na - punto focale del complesso.

Quando il museo nacque, nel 1853, era in realtà su un veliero, l’Academy, che durante la bella stagione effettua-va esplorazioni e ricerche raccogliendo specie e nei mesi più freddi era ormeg-giato a un molo visitabile dal pubblico. Così andò fino a quando non scese de-finitivamente a terra, trovando sede nel parco del Golden Gate, che dal 1916 fino al 1991 si è articolata nella costru-zione di una serie di edifici, fino a con-tarne undici.

L’architetto Renzo Piano

Ambiente

California Academy of Sciences: il mu seo ecologico

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Panorama 55

Ambiente

California Academy of Sciences: il mu seo ecologicoNel 1989 il terremoto che devastò

San Francisco provocò danni ingenti an-che all’Accademia e così nacque l’idea di ricostruire il complesso. Quasi tut-te le strutture sono state demolite, con il permesso - che non era inizialmente scontato - di realizzare nuovi spazi. Pia-no ha voluto mantenere però, come te-stimonianze storiche, il Padiglione afri-cano e quello del Nord America, oltre all’ingresso dell’Acquario, che si svilup-pa sotto il nuovo edificio. “Per un Paese giovane come gli Stati Uniti” dice Pia-no “era un po’ come parlare del Colos-seo e poi era giusto non fare tabula rasa perché quelle costruzioni fanno parte del Dna della città. Un gesto di rispetto ver-so chi andava al museo da bambino, ac-compagnato dai genitori, e adesso maga-ri ci ritorna da nonno”.

Il progetto della nuova Academy di San Francisco è nato e si è sviluppato a migliaia di chilometri di distanza, a Genova, nel “buen retiro” dello studio Rpbw a Punta Nave: qui si sono svolte decine di seminari - “un lavorìo a metà strada tra scienza, ricerca, architettura, storia, antropologia, un po’ tipo Archi-mede Pitagorico”, sorride Piano - con gli scienziati californiani. Il progetto si è sviluppato a partire dal 2000, quan-do Piano vinse un concorso a inviti cui parteciparono anche importanti studi di architettura americani. L’Academy era però alla ricerca di un tipo di sensibilità “europea”, che sapesse coniugare inno-vazione e memoria, attenzione all’am-biente e alla partecipazione del pubbli-co. “C’è sempre stata un’etica di fon-do” racconta Piano, che ha lavorato a stretto contatto con l’attuale direttore esecutivo Greg Farrington, un educato-re, mentre il suo predecessore era uno scienziato di base, specialista in orga-nismi marini.

Vesima, aggrappata alla collina e af-facciata sul mare, si è rivelata il luogo ideale per mettere a punto il progetto, i cui lavori hanno poi preso il via nel set-tembre del 2005. “Era un progetto che richiedeva riflessione, che poteva cre-scere solo nel silenzio” ragiona l’archi-tetto. “Spesso in questo mestiere ci si muove sull’onda della stravaganza, per-dendo di vista l’ispirazione vera, di fon-do, che sta alla base del lavoro dell’ar-chitetto. La ricerca di un nuovo linguag-gio si esprime qui nella consapevolezza che la Terra è fragile, un sentimento che in Europa è giunto a maturazione più che negli Stati Uniti”. Un tema cultura-le e sociale che sta entrando con forza nell’agenda politica. “Non è un caso che questa spinta nasca dalla California, da San Francisco, che è tra le città più at-tente e sensibili ai temi del clima, dove più fortemente sono attive le associazio-ni che si occupano di ambiente, con le quali ci siamo confrontate”.

Così la nuova Academy è diventa-ta una struttura che parla con la natu-ra, che respira con la natura, quel tetto verde sotto il quale convivono le fun-zioni della storica istituzione california-na - esplorare, spiegare e proteggere il mondo naturale - e sotto il quale si arti-

colano i campi di intervento, che si svi-luppano su cinque piani, di cui due sot-toterra: esposizione, attività educativa, conservazione e ricerca. C’è stata qual-che spinta iniziale a separare i ricercato-ri dal museo, rigettata però con succes-so. “Sono entità complementari” spie-ga Piano “Separarle avrebbe significato tradire il significato stesso dell’Aca-demy: il veliero, a metà dell’Ottocen-to, racchiudeva tutto”. L’insegnamento dettato dalla vela torna nel sistema di ventilazione che sfrutta “la forma buf-fa del tetto”, cattura le brezze e cancel-la gli impianti di aria condizionata. La passione di Piano è entrata in campo anche in questo progetto. San Francisco e Vesima unite da un veliero “verde”: “L’acqua le unisce: in fondo è la stessa che tiene assieme il mondo”.

Qualche curiosità: all’interno sono accolti un acquario, una riproduzione di foresta pluviale, un planetario, il museo di storia naturale, un teatro 3D, laborato-ri, una biblioteca e un archivio scientifi-co (con più di 20.000.000 di campioni). Una sezione speciale è dedicata ai terre-moti, un simulatore è in grado di ripro-durre gli effetti del sisma che colpì il 17 gennaio 1995 la città di Kobe in Giap-pone.●

Il tetto ecologico

Il planetario L’acquario La foresta pluviale

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56 Panorama

Appartenenti entrambi alla fa-miglia delle Cucurbitacee, anguria e melone sono con-

siderati gli alimenti tipici dell’estate perché, freschi, dissetano facilmen-te e reintegrano alla perfezione tutti i sali minerali che si perdono con il su-dore, poiché sono vere fonti di acqua, nutrienti e vitamine.

Innanzitutto, come sceglier-li? All’acquisto, controllate sempre bene che la buccia del cocomero sia di un verde intenso, tesa, turgida e lu-cida e che, se lo picchiettate con le nocche, produca un suono sordo. Il melone invece, deve avere un colo-re giallastro, la scorza non deve pre-sentare “ferite” o ammaccature e non

deve produrre alcun suono. Se av-vicinate il naso, dovete sentire un profumo molto dolce e intenso. Una volta portati a casa, i due frutti non devono essere esposti al sole o al ca-lore; anche se l’anguria si mantiene a lungo, il liquido suo interno mar-cisce velocemente. Il melone non deve esser esposto a temperature ri-gide (sotto i 5°), può resistere anche una settimana se è stato acquistato ancora acerbo e non deve essere po-sto nel frigorifero insieme alle ver-dure: produce una sostanza (etile-ne) che le deteriora velocemente. Se mantenendolo in frigorifero, si av-verte che il suo profumo abbia “con-tagiato” tutto lo spazio, è sufficiente mettere una patata spellata, e taglia-ta a metà, su un ripiano.

Come già detto, entrambi sono considerati i cibi per eccellenza dell’estate, ecco perché:

Il cocomero, o anguria, è costitu-ito per il 95 p.c. di acqua, è privo di grassi, ha poche calorie (15 circa, per 100 gr di frutto) e pochi zuccheri: no-nostante ciò che normalmente si cre-de a causa del suo gusto molto dol-ce contiene meno di 4 gr di zucchero in 100 gr. Il sapore è dato dagli aro-mi naturali che contiene, e che danno anche il senso di sazietà: dunque, il cocomero è un ottimo alleato anche per chi è a dieta! Mangiarne una fet-ta prima di pranzare, riduce la fame e assottiglia e soddisfa anche la natura-le voglia di dolce.

Inoltre, è depurativo, diuretico, protettivo per il fegato e deconge-stionante delle vie respiratorie; e non è difficilmente digeribile, in realtà è una conseguenza della cattiva abitu-dine di mangiare l’anguria a fine pa-sto. Mangiando una fetta di 600 gr circa, s’ingerisce circa mezzo litro d’acqua la quale diluisce i succhi ga-strici e rallenta così la digestione ma ciò non significa che l’anguria non sia digeribile: abituatevi a mangiarla prima o lontano dai pasti!

Come proprietà nutritive, possie-de anche buone quantità di vitami-na A, C e potassio ed i semi hanno effetto purgante… non mangiateli.

Il licopene che contiene, gli dona il colore rosso, è un antiossidante atto a contrastare i radicali liberi e l’in-vecchiamento della pelle ed ha ca-pacità protettive della vista, cardio-vascolari, antitumorali e di rafforza-mento e potenziamento del sistema immunitario; i sali minerali come il potassio, il sodio, il calcio, il fosfo-ro, permettono al fisico di combatte-re la spossatezza e stanchezza tipica dell’estate e del caldo.

La compresenza del potassio e della vitamina C fa del cocomero una vera “potenza” diuretica e dissetan-te, quindi un vero alleato per chi è soggetto a ritenzione idrica, cellulite, gonfiore alle gambe e ipertensione. Da recenti studi pare che, se mangia-ta a temperatura ambiente, l’anguria possieda il 40 p.c. in più di licopene e dal 50 al 139 p.c. in più di betacaro-tene rispetto a se ingerita fredda, che sono sinonimo di stimolazione mag-giore di melanina e quindi di abbron-zatura uniforme ed intensa.

Il melone è il frutto ideale per chi accusa gli effetti del caldo per-ché è ricchissimo di sali minerali e di potassio (è quello che ne contie-ne di più in assoluto). Fornisce 30 Kcal per 100 gr, ha molta vitamina

Brioche allo zenzero Ingredienti: 4 brioche tonde all’uvetta, 1 fetta di anguria, ½ melo-

ne, 2 cm di radice di zenzero fresco, 1 pezzo piccolino di zenzero candito, 1 cucchiaio di zucchero di canna, 3 cucchiai di Cointreau, 1 pezzetto di cannella in stecca

Preparazione: sbucciare, pulire e tagliare a pezzetti la polpa di an-guria e melone. Porli in una ciotola e aggiungere la cannella, il Coin-treau, lo zucchero e mescola-re. Pelare la radice di zenzero, grattugiarne la polpa con una grattugia a fori medi e aggiun-gerla al composto: mescolare e lasciar riposare in frigorife-ro per mezz’ora circa. Prende-re le brioche e scavarle in alto, creando una conca in cui po-ter riversare il composto pre-parato (ricordarsi di togliere la stecca di cannella prima). Prendere lo zenzero candito e farne dei bastoncini sottili per guarnire il tutto.

Alimentazione

Anguria e melone, delizie d’estate

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Panorama 57

A e C (60mg in 200 gr!!!), zuccheri in quantità non eccessiva (lo posso-no mangiare tranquillamente anche i diabetici e coloro che sono a dieta) e ferro (ideale per gli anemici in quan-to è una fonte vegetale di ferro).

La vitamina A consente di com-battere i radicali liberi dell’organi-smo e quindi ostacolare l’insorgenza di tumori; la vitamina B invece, lotta in prima linea contro la depressione. Inoltre, è un ottimo integratore die-tetico perché contiene vitamine del gruppo B e licopene, è leggermente lassativo e amico dell’intestino, dis-seta, rinfresca e favorisce la diuresi.

E ancora, stimola la produzione della melanina (contiene betacarote-ne), è un antiossidante, contribuisce a mantenere pelle e capelli sani, re-gola il sistema nervoso e la pressio-ne arteriosa e fortifica le ossa ed il cervello con il calcio e ferro. Evitare anche per il melone, i suoi semi che hanno effetto lassativo.

Melone e anguria a confronto: quindi, entrambi sono ipocalorici, dissetanti e freschi; l’anguria è meno zuccherina, contiene più acqua ed è particolarmente diuretica; il melone però, contiene maggiori vitamine A, B e C ed ha più proprietà lassative o stimolanti gli intestini pigri. Sono perfetti per chi deve seguire una die-

ta dunque, ma anche solo per rinfor-zare il nostro organismo, soprattutto d’estate con il caldo.

Ricordare però che entrambi an-drebbero consumati da soli, per me-renda o spuntino, a digiuno, poiché in tal maniera non si “fermano” nel-lo stomaco insieme all’altro cibo in-gerito e passano direttamente all’in-testino: a fine pasto invece, non fan-no altro che prolungare la digestione totale che appare così pesante, inter-minabile e talvolta dolorosa.

Melone e anguria ben si prestano come basi per macedonie e insalata (a cui dare una nota croccante con il pistacchio) e ricette più gustose:

Aspic all’arancia Ingredienti: 1 melone, 1 fetta di anguria, 3,5 dl di vino spumante, 1/2

dl di succo fresco d’arancia, 2 fogli di gelatina da 5 gr, 1 cucchiaio di zucchero, 1 rametto di erba limoncina

Preparazione: porre la gelatina in acqua fredda. Versare il vino e il succo d’arancia in una casseruola, unire lo zucchero e mescolare per farlo sciogliere: mettere dunque la pentola sul fuoco e portare ad ebollizione. Strizzare la gelatina, mescolarla al liquido caldo (tolto dal fuoco) e farla sciogliere; aggiungere l’erba limoncina (ne basta qualche foglia) e lasciar intiepidire. Pulire anguria e melone e tagliare a fettine la polpa. Versare un mestolino di gelatina sul fondo di uno stampo da ½ lt facendolo scor-rere e aderire uniformemente an-che sulle pareti. Porre lo stampo in frigorifero e, quando la gela-tina si rapprende, riempirlo con la frutta: alternare anguria e me-lone ponendo, dopo ogni strato, la gelatina lentamente e facendo in modo che la frutta sia sempre coperta. Lasciar riposare in fri-gorifero per almeno 8 ore. Pri-ma di servire in tavola, sformare l’aspic sul piatto e guarnire con foglioline di erba limoncina.

Coppe alla mentaIngredienti: 2 piccoli melo-

ni maturi, la scorza di 2 limo-ni verdi non trattati, una fetta spessa di anguria, 2 rametti di menta fresca, un bicchierino di rum per dolci

Preparazione: tagliate a metà i meloni, privateli della par-te centrale con i semi e sbuccia-teli. Riducete la polpa a cubetti regolari, trasferitela in una ter-rina e profumatela con il liquo-re. Staccate la buccia dei limoni, riducetela a filini corti e sottili, uniteli ai meloni, mescolate, co-

prite e mettete in frigo. Per evitare di togliere anche la parte bianca interna, di sa-pore amarognolo, utilizza-te un pelapatate. Sbucciate l’anguria, privatela dei semi e frullate la polpa. Distribu-ite il frullato di anguria in 4 coppe ben raffreddate in freezer per qualche minu-to, unite i cubetti di melone con il loro succo di macera-zione, decorate ogni coppa con le foglie di menta puli-te, mescolate molto delica-tamente e servite. ●

Alimentazione

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PassatempiORIZZONTALI: 1. Vi sorge un

castello reale nei pressi di Torino – 9. Manovra l’imbarcazione a vela nelle regate – 15. Il mobiletto con la sveglia – 16. Possono essere prefe-renziali – 17. Il nome di Kachaturian – 18. Ripostigli sotto il tetto – 20. Fu regina di Svezia – 22. Ricoperto di peli come le pecore – 24. La lin-gua dei boeri – 26. Salsa piccante a base di peperoncino – 27. Accordo per lo più segreto – 28. Un cappio… all’inglese – 30. Malattia contagio-sa del cuoio capelluto – 32. Se son matte sono fischioni – 34. Articolo maschile – 35. Parte estrema dello schieramento – 37. L’albero delle renette – 39. Quello dei due mondi è Garibaldi – 40. Fa seguito al bis – 41. Il mezzo all’aria – 42. Cameretta per chi naviga – 44. Recipienti per spedizioni – 46. Bocconcino tradi-tore – 48. Organizzazione dell’ONU per l’educazione, la scienza e la cul-tura – 50. Ristagno negli affari – 52. In testa alla classifica – 54. Il Buster che non rideva mai – 55. Un passa-to… trapassato – 56. Depone… per i capi – 58. La regista Wertmüller

– 59. Il mal sottile – 61. Lavorano al distributore di carburante – 63. Il territorio… di Sandokan – 64. Prov-vedere al sostentamento.

VERTICALI: l. Tirar… pedate – 2. Il rotolo sacro del rabbino – 3. Noi nel complesso – 4. Impugnature per cassetti – 5. Il bidello meno bello – 6. L’inseparabile amico di Eurialo – 7. La matrigna di Elle – 8. L’altopia-no conteso tra Siria e Israele – 9. La fine del discorso – 10. Isola vulcani-ca tra Giava e Sumatra – 11. Si gri-da per sollevare assieme cose pesanti – 12. Ha la funzione di… un pappa-gallo – 13. Unisce più pezzi insieme – 14. Lo Stewart cantante – 16. Patria di Aristippo e Callimaco – 19. Picco-la ulcera della bocca – 21. Formano l’arcipelago – 23. Parte dell’intestino

crasso – 25. Scorre nel Trentino-Alto Adige – 27. Trasparenti come il ve-tro – 29. Le… colleghe del Pipelet di Eugène Sue – 31. Poco chiari, foschi – 33. Si formano con molta gente pi-giante – 36. Prive di asperità – 38. Obiettiva e corretta – 40. Le donne di Chieti – 42. Il tettuccio apribile della spider – 43. Si tracciano in prima ele-mentare – 45. Fu direttore della Pra-vda – 47. Sigaretta americana – 49. Vecchio quartiere delle città arabe – 51. Localizza oggetti sommersi – 53. Il cantante Redding – 54. La contea con Maidstone – 55. Gli zingari at-tuali – 57. Dieci inglesi – 60. Le han-no zia e cugina – 62. I confini dello Zimbabwe.

Pinocchio

Soluzione del numero precedente

L’arma segreta contro le zanzare? Le sorelle «ogm»Sembra la trama di un film di guer-

ra americano. Tipo, creato in la-boratorio un super soldato killer che spazzerà l’umanità intera. Ecco, l’unica differenza è che qui si parla di zanzare. In particolare di una su-per zanzara che farebbe piazza pulita di... una sua simile, quella portatrice di una terribile malattia, la malaria. Frutto di vent’anni di sperimenta-zione degli scienziati dell’Università della California, la zanzara “ogm” è stata modificata geneticamente gra-zie ad un gene che l’ha resa immune

dalla ma-l a t t i a . Quindi è i n c a p a c e d i trasmetterla. Nel far questo però i ricercatori han-no scoperto di aver creato una zanzara di una specie dominante che avrebbe il sopravvento sulla zanzara comune.

Secondo gli scienziati quindi ba-sterebbe produrre delle colonie di zan-zare geneticamente modificate e rila-

sciarle in luo-

ghi dove si tro- v a n o gli insetti portato- ri della ma-lattia che, in breve tempo, verrebbero sopraffatti. La zanzara modificata da-gli scienziati è Anopheles stephensi, la più pericolosa e portatrice del ceppo più mortale della malattia.●

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Panorama 59

45.esima edizione della Grisia La più popolare Galleria all’aperto

di Rovigno, la Grisia, quest’an-no ha compiuto 45 anni e vi hanno partecipato 250 artisti tra i quali 63 accademici e 12 studenti di pittura. La manifestazione, nata nel 1997 sulla scalinata della popolare via ro-vignese, è cresciuta nel tempo tanto da inondare di quadri, ma anche di pubblico, tutta la città. Un’apposita giuria, formata per la prima volta da tre giovani esperte di storia dell’ar-te, ha assegnato il primo premio a Bojan Šumonja, talentuoso pitto-re accademico di Pola con una lau-rea dell’Accademia delle belle arti di Venezia. La sua è una tecnica che permette di inserire nello stesso qua-dro più immagini che si alternano in base al punto di vista dell’osservato-re. Il primo dei due quadri premiati del giovane polese alterna immagi-ni di politici croati mentre il secondo unisce dettagli punk alla figura del Papa. (Foto di Sandro Petruz)

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