Orwell (20-10-2012)

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IL IL F UTUR UTUR O O HA HA RAD RAD I C I C I ANTICHE ANTICHE www.pubblicogiornale.it SABATO 20 OTTOBRE 20 1 2 DIRETTORE LUCA TELESE - A CURA DI CHRISTIAN RAIMO di ALBERTOPICCININI Quando eravamo cyberpunk, più di vent anni fa, Internet quasi neppure esi- steva. Avevamo dei personal computer grandi come televisori, e dentro i modem avresti giurato di sentire ticchettare i vecchi telefoni grigi che anco - ra tenevamo in casa. La memoria si salvava in certi dischetti di plas tica nera flessibile, così precari da tenerti in ansia per le sorti di qualsiasi scarab occ hio trascritto dal macchina col caratteristico fruscio delle testine magnetiche. Quando eravamo cyberpunk leggevamo le prime traduzioni italiane di Wil- liam Gibson, impaginate con tanta poca cura tra le copertine della fanta- scienza Urania o Edizioni Nord. Neur omant e cominciava così: Il cielo sopra il porto aveva il colore della te- levisione sintonizzata su un canale morto . In Giù nel ciberspazio potevi leg- gere dialoghi come questo: Co s è? . E un deck ciberspazio Mass-Neotek . La notte che bruciammo Chrome(1984) descriveva la prima esperienza dell essere-in-rete: Un ondata fosforescente si sollevò nel mio campo visi- vo mentre la matrice cominciava a dispiegarmisi nella mente, una scacchie- ra tridimensionale perfettamente trasparente che si estendeva all i nfi ni to . Ne fummo entusiasti. E avevamo già visto Blade Runner , la guerra in diretta dall Iraq, i cartoni ani- mati giapponesi, Non è la Rai . Ascoltato i Kraftwerk, ballato la techno di De- troit, impasticcati ai rave. Speculato sulla fosca bellezza di certe perife rie moderniste e disperate. Imparammo a sentirci a casa in quel mondo costruito all incrocio tra il noir degli anni 40 e la paranoia pop di Philip K. Dick e James G. Ballard. Era fa nta- scienza, ma non era fantascienza. Non c erano dischi volanti, macchine vo- lanti, marziani, alieni. A pensarci bene non volava quasi niente in quel mon- do, proprio come nel nostro. Ci sono libri capaci di svelare un mondo intero, anche se quel mondo ce l hai già sotto agli occhi. Oss ervando nient altro che lo schermo e la tastiera del suo computer Apple di antica generazione, William Gibson aveva dato nomi a cose che non esistevano. I suoi romanzi svelavano il web un attimo prima che incartasse il pia neta Terra. Più o meno come Marx e Engels avevano svelato a loro tempo i meccanismi della società industriale a venire. Qualche mese fa, in un intervista a Wired (un ex bibbia del cyberpunk), lo scrittore ha ripetuto per l ennesima volta che gli scrittori di fantascienza, compreso se stesso, quasi mai predicono il futuro, e comunque non è la cosa più interessante del loro lavoro. Ogni futuro immaginato diventa obsoleto come un gelato che si scioglie mentre uscite dalla gelateria all'angolo , dice- va. E scherzando: Ho fatto un sacco di errori. Dove sono i telefoni cellulari? SEGUE A PAGINA IV DAL CYBERPUNK AL WEB Quando c era il futuro PER NON M ORIRE PASOLINANI Roma fantastica di CHRISTIAN RAIMO Vi ricordate, l'ultimo film di Woody Allen dedicato a Ro- ma era così farlocco che persino Carlo Verdone si con- cesse di stroncarlo: finto come un presepe, una cartolina per tabaccai. Si potrebbe anche rincarare la dose e rico- noscere come in tutta l'ultima produzione vacanziera europea di Allen... SEGUE A PAGINA II IMPRIGIONATI NEL REVIVAL La leg ge dei 20 ann i di VALERIO MATTIOLI Quando tre anni fa morì Dash Snow, i galleristi più smaliziati da qui a New York trovarono infine il loro martire: un artista giovane (ventott o anni) e maledetto (era un tossico), di suc- cesso (l overdose lo colse in una stanza d albergo da 325 dol- lari a notte) e che era riuscito a imporsi quale proverbiale vo- ce di una generazione. SEGUE A PAGINA IV

Transcript of Orwell (20-10-2012)

 

I LI L FF U T U RU T U R OO H AH A R A DR A D I CI C II A N T I C H EA N T I C H E

www.pubblicogiornale.it– SABATO 20 OTTOBRE 20 1 2DIRETTORE LUCA TELESE - A CURA DI CHRISTIAN RAIMO

di ALBERTO PICCININI

Quando eravamo cyberpunk, più di vent ’anni fa, Internet quasi neppure esi-steva. Avevamo dei personal computer grandi come televisori, e dentro imodem avresti giurato di sentire ticchettare i vecchi telefoni grigi che anco -ra tenevamo in casa. La memoria si salvava in certi dischetti di plas tica neraflessibile, così precari da tenerti in ansia per le sorti di qualsiasi scarabocc hiotrascritto dal macchina col caratteristico fruscio delle testine magnetiche.Quando eravamo cyberpunk leggevamo le prime traduzioni italiane di Wil-liam Gibson, impaginate con tanta poca cura tra le copertine della fanta-scienza Urania o Edizioni Nord.Neur o man t e cominciava così:“Il cielo sopra il porto aveva il colore della te-levisione sintonizzata su un canale morto”. InGiù nel ciberspazio potevi leg-gere dialoghi come questo: “Co s’è?”. “E’ un deck ciberspazio Mass-Neotek”.La notte che bruciammo Chrome(1984) descriveva la prima esperienzadell’essere-in-rete: “Un ondata fosforescente si sollevò nel mio campo visi-vo mentre la matrice cominciava a dispiegarmisi nella mente, una scacchie-ra tridimensionale perfettamente trasparente che si estendeva all’i nfi ni to”.Ne fummo entusiasti.E avevamo già visto Blade Runner , la guerra in diretta dall’Iraq, i cartoni ani-mati giapponesi, Non è la Rai . Ascoltato i Kraftwerk, ballato la techno di De-troit, impasticcati ai rave. Speculato sulla fosca bellezza di certe periferi emoderniste e disperate.Imparammo a sentirci a casa in quel mondo costruito all’incrocio tra il noirdegli anni ’40 e la paranoia pop di Philip K. Dick e James G. Ballard. Era fa nta-scienza, ma non era fantascienza. Non c’erano dischi volanti, macchine vo-lanti, marziani, alieni. A pensarci bene non volava quasi niente in quel mon-do, proprio come nel nostro.Ci sono libri capaci di svelare un mondo intero, anche se quel mondo ce l’h aigià sotto agli occhi. Oss ervando nient’altro che lo schermo e la tastiera delsuo computer Apple di antica generazione, William Gibson aveva dato nomia cose che non esistevano. I suoi romanzi svelavano il web un attimo primache incartasse il pia neta Terra. Più o meno come Marx e Engels avevanosvelato a loro tempo i meccanismi della società industriale a venire.Qualche mese fa, in un’intervista a Wired (un ex bibbia del cyberpunk), loscrittore ha ripetuto per l’ennesima volta che gli scrittori di fantascienza,compreso se stesso, quasi mai predicono il futuro, e comunque non è la cosapiù interessante del loro lavoro.“Ogni futuro immaginato diventa obsoletocome un gelato che si scioglie mentre uscite dalla gelateria all'angolo”, dice-va. E scherzando: “Ho fatto un sacco di errori. Dove sono i telefoni cellulari?”

SEGUE A PAGINA IV

DAL CYBERPUNK AL WEB

Quando c’era il futuro

P E R N O N M O R I R E P A S O L IN A N I

Roma fantastica

di CHRISTIAN RAIMO

Vi ricordate, l'ultimo film di Woody Allen dedicato a Ro-

ma era così farlocco che persino Carlo Verdone si con-

cesse di stroncarlo: finto come un presepe, una cartolina

per tabaccai. Si potrebbe anche rincarare la dose e rico-noscere come in tutta l'ultima produzione vacanziera

europea di Allen...

SEGUE A PAGINA II

I M P R I GI O N A T I N E L R E V I V A L

L a l e gg e d e i 2 0 a n n i

diVALERIO MATTIOLI

Quando tre anni fa morì Dash Snow, i galleristi più smaliziatida qui a New York trovarono infine il loro martire: un artistagiovane (ventotto anni) e maledetto (era un tossico), di suc-cesso (l’overdose lo colse in una stanza d ’albergo da 325 dol-lari a notte) e che era riuscito a imporsi quale proverbiale vo-ce di una generazione.

SEGUE A PAGINA IV

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IIS A B AT O

20 OTTOBRE 2012

COSA CAMBIA CON LA CABLATURA DELL’A F RI C A ?

Capitan Nemo e ildigital divide

SEGUE DALLA COPERTINAVi ricordate, l'ultimo film di Woody Allen dedicato a Roma era così far-locco che persino Carlo Verdone si concesse di stroncarlo: finto comeun presepe, una cartolina per tabaccai. Si potrebbe snche rincarare ladose e riconoscere come in tutta l'ultima produzione vacanziera euro-pea di Allen (quella che va da Match Point a Vicky Cristina Barcelona aMidnight in Paris fino appunto al film paccottigliaTo Rome with love), ilVecchio Continente per Allen non sia solo un conglomerato di stereoti-pi, ma una non-realtà particolarmente razzista: nelle sue Londra, Bar-celona, Parigi, Roma per dire qualcuno ha mai visto passeggiare un neroo un povero?Ok, ma perché tanto accanimento contro questa visione posticcia-wa-sp? Perché può servirci come chiave per comprendere come mai unanarrazione così reazionaria e fasulla ottenga ancora ascolto, pubblico,credibilità. È chiaro che se uno può starsi a vedere ancora il pizzardonedi Piazza Venezia albertosordeggiante, può anche ciucciarsi ogni altroracconto con un tasso leggermente inferiore di luoghi comuni. La Romache viene fuori dai romanzi e dai film italiani è spesso una Roma che nonesiste se non nell'ottica autocentrica di un'élite che di volta in volta puòessere quella borghese, quella radical-chic, quella paternalistica-soli-dale, quella con velleità di denuncia sociale. Una città uguale a se stessa,prevedibilmente gretta e provinciale, copia-carbone di qualche suopassato recente o remoto, multietnica solo in un modo marginale, geo-graficamente identificabile con quello che accade all'interno della ZTL, odentro delle Mura, o al massimo dentro il Raccordo Anulare.Mentre la cintura urbana è un melting pot in cui i pidgin sono irriconosci-bili, ancora a leggere - per dire - i libri di Giorgio Montefoschi o GianricoCarofiglio, o a vedere i film - per dire - di Francesco Bruni o Cristina Co-mencini sembra che le persone a Roma parlino la lingua delle fiction tvin cui vengono ritratti; la vita reale un'idea tutta mentale, una storia difamiglia circoscritta a una dimensione banalmente finzionale . Già, per-ché l'immagine di Roma la fa la televisione: le serie sulle tv generaliste,le interviste “in tempo reale”al mercato di Ponte Milvio (il più vicino allasede Rai di via Teulada)... Allo stesso m odo quando si vuole affilare unanarrazione popolare, in questi ultimi anni si è affidati quasi esclusiva-mente a uno sguardo noir, condito di tinte sociali. Il mondo degli post-accattoni pasoliniani mescolato a quello dei polizieschi anni '70, il tuttoshakerato da Romanzo criminale, ha fatto scuola, si è autocanonizzato,a tal punto da sovrapporre la dimensione narrativa (con tanto di feticci,tipo gli accendini con le facce del Libanese o del Freddo) a quella storica.Prova ne sia (complici le teorie di Wu Ming sul far sfumare ricostruzionedocumentaria e invenzione tutto in un new italian epic ) la sostanzialesovrapponibilità di testi di saggistica e n arrazioni: I fatti della banda della maglian a di Bianconi con De Cataldo; i cataloghi di storie criminose di unCristiano Armati o di uno Yari Selvetella con la narrativa sociologizzante(facciamo un esempio? l'ultimo libro bruttarello del consigliere di Selprestato al romanzo Massimiliano Smeriglio, Roma suk ovest ).È strano pensare che se Los Angeles ha avuto Philip K. Dick, e Londra Ja-mes Ballard, a una città multistratificata come Roma non sia toccatonemmeno un autore che s ia riuscito a trasformarla in un luogo efficace-mente fantastico. Quanto si siano im posti un Moravia o un Pasolini (leloro due versioni, appunto: borghese e popolare) o e quanto poco Fellini(o Flaiano, o Morselli, o Landolfi) nel racconto di Roma, l'ha notato unodei pochi scrittori che invece negli ultimi anni ha provato - e è riuscito - ascrivere un romanzo capitolino di pseudo-fantascienza: Tommaso Pin-cio con Cinacit t à .Ora, da qualche mese fa, Pincio ha pubblicato un piccolo libro quasi al-trettanto bello, edito da Il Saggiatore, che si chiamaPulp Roma , in cuidopo aver voluto condividere con il lettore una discussione sulla proble-maticità di scrivere un "romanzo romano" (la stessa che - racconta Pin-cio - hanno avuto in fondo Dostoevskij o Henry James) ci regala un rac-conto distopico su una Roma futura distrutta da una perenne estateapocalittica e colonizzata da criminali cinesi; e insieme una piccola me-ravigliosa graphic-story, in omaggio a un altro dei pochissimi autori ca-paci per esempio di immaginarsi un Colosseo in plexiglas, il giovane Ste-fano Tamburini inventore della saga di Ranx Xerox. Perché allo ra cichiediamo insieme a Pincio noi dickiani, ballardiani, felliniani, la Roma diRanx Xerox se la ricordano solo i nostalgici di Cannibale (cioè alla finesempre noi?). La sola piccola consolazione che ci possiamo dare è chein questo desiderio di trasfigurazione Pulp roma ultimamente non è cosìsolo: un cabotaggio tra gli scaffali librari e all'eccentrico Altare della pa-

t r ia di Ferruccio Parazzoli possiamo mettere vicino almeno tre voci discrittori nemmeno-trentenni, che rispetto alla vieta tradizione immagi-naria hanno un rapporto felicemente iconoclasta. SonoDev o z io n e diAntonella Lattanzi,L'es t r an eo di Tommaso Giagni, e i due fume tti di Ze-rocalcare: i capolavori La profezia dell ’ armadillo e (appena uscito) Un

polpo alla gola . Ecco che in una città dove è difficile persino stupirsi del-l'esistenza del futuro, loro riescono a farci intravvedere come è fatto.

CHRISTIAN RAIMO

di CARLO MAZZA GALANTI

“Il cavo elettrico era ricoperto di conchiglie, foraminifereecc., lasciava a malapena distinguere là sotto l'involucro pie-troso che si opponeva ai molluschi perforanti. Ma era tran-quillo, al riparo dai movimenti oceanici con la sua pressionefavorevole al trasmettersi della scintilla elettrica da un con-tinente all'altro in trentadue centesimi di secondo. La duratadel cavo sarà praticamente infinita.”E' con un atto di fede nelle magnifiche sorti del progresso econ il consueto contegno di ammirato distacco che PierreAronnax - principale portavoce di Jules Verne - osserva daglioblò del Nautilus il primo cavo telegrafico transatlantico,soffermandosi per un paio di pagine sulla storia di quel filotirato dall'Irlanda a Heart's Content, in Canada, nel 1866:momento fatidico della “rivoluzione elettrica” che secondoMcLuhan inaugurò una nuova era dell'umanità. Nel frattem-po il capitano Nemo - ricchissimo principe indiano caduto indisgrazia - medita vedetta contro le potenze europee chehanno deciso la fine del suo mondo, usando i loro stessistrumenti. In pochi lo sanno, ma il portento tecnologico delNautilus è teatro del conflitto morale di uno dei più livorosi eambigui militanti anticoloniali della storia della letteraturao c ci d ental e.“The digital revolution in Africa is set to occur in late 2012 ”

recita il sito della maggiore compagnia telefonica dell'Africaoccidentale: Orange, principale branca commerciale di Fran-ce Telecom. ACE (Africa Coast to Europe) è il nome del cavoatlantico in fibra ottica che dovrebbe diventare operativoproprio in questi mesi. Unirà la Francia al Sudafrica, toccan-do tutti i paesi della costa occidentale. WACS (West AfricaCable System) è invece stato ultimato nel mese di maggio eha unito sulla stessa tratta l'Inghiterra a quei paesi (in mag-gioranza anglofoni) dove il mercato è in mano alla principaleresponsabile di questa grande opera, la sudafricana MTN. Sitratta di due eventi importanti, di enormi investimenti daiquali ci si aspetta grandi risultati sul piano economico e cul-turale, anche se la presenza ingombrante di attori occiden-tali ricorda molto da vicino vecchie corse coloniali. Chi fre-quenta quella parte del pianeta conosce le bibliche atteseche tocca affrontare davanti al computer: la precedente ca-blatura faceva il s uo lavoro con lentezza estenuante per noiipercinetici comunicatori. Ora, però, le grandi compagniegiurano che il digital divide sarà drasticamente ridotto. E seguardiamo a come la telefonia mobile ha attecchito sul so-strato orale delle culture africane possiamo ben immagina-re, come ci annunciano i profeti del progresso, che di qui aqualche anno buona parte della popolazione locale passeràmolto tempo davanti all'imitazione cinese di smartphoneeuropei e americani. La connettività si espande a macchiad'olio sulla superficie accidentata di quel mondo lontano: aDakar le star della lotta senegalese pubblicizzano telefonini

agli angoli delle strade; a Conakry, dove la poca elettricitàdisponibile viene razionata tra i quartieri con turni micragno-si, il negozio più in vista del corso centrale è un grande inter-net café nel quale, nonostante i costi ancora proibitivi, spes-so non è facile trovare posto; ad Abidjan, traumatizzata dauna crisi decennale, capita d'incontrare nei locali di Zone4 eYopougon giovani yuppie con i tablet: se chiedi ai fortunatipossessori di guardare una cosa su internet potrebbero im-barazzarsi perché la connessione funziona malissimo, e for-se neppure ce l'hanno. Ma cambierà. Sta cambiando. Se lenuove tecnologie impattano violentemente sulle culture lo-cali (o su ciò che ne resta in ambiente urbano) per altri versisembra che queste ultime non aspettino altro. S'intuisce ilpotenziale straordinario di internet 2.0 in un mondo dove in-ternet 1.0 non è quasi passato ma dove il fare rete è la basestessa della convivenza sociale. Quale sarà il risultato deltrapianto: diritti, istruzione, alfabetizzazione come sosten-gono i fautori dello sviluppo? Nessuno lo sa davvero. Che nesarà ad esempio del dating in un mondo dove i matrimonicombinati sono ancora diffusissimi? Un'amica cooperantemi ha raccontato che in Guinea certe madri investono soldisulle figlie pagandogli tempo su internet per cercare di ri-morchiare qualche ricco Europeo. A osservare la dedizionecon cui i giovani africani compulsano le pagine facebook po-tremmo chiederci da quale stato mentale prossimo all'ipnosisiano posseduti, un po' come succede anche a noi. Il dubbiooscilla tra l'immagine inquietante di un'omologazione globa-le e quella di nuove creature dai volti sconosciuti e bizzarri.Un paio di anni fa mi trovavo a Parigi, nella biblioteca nazio-nale, credo uno dei luoghi più asettici e funzionali del mondoavanzato e la cui gelida anomia è stata raccontata da unoscrittore di memoria e storia come Sebald, in Austerlitz, ilsuo capolavoro. Ero seduto al mio tavolo quando mi sonoaccorto di un uomo, evidentemente africano, che navigavaalla postazione internet tra siti pornografici. Guardava im-magini porno e nessuno faceva una piega. Nemmeno un'oc-chiata. Mi sembrava di essere il solo a stupirmi. Sappiamotutti che il porno è tra i principali motori del web ma questonon deve certo v eder si . Quell'uomo stava invece mostran-dolo a tutti, in un posto così formale. Il re è nudo. Forse misono fatto suggestionare dai colori del suo abito africano, ela cosa sarebbe potuta benissimo succedere con un france-se, ma non ho potuto fare a meno di vedere la scena comeuna specie di allegoria. Dell'imprevedibilità dei comporta-menti prodotti dalle nuove tecnologie una volta spostate inuno spazio culturale a cui non appartengono storicamente. Edella totale incapacità nostra, di noi che facciamo finta diniente, di guardare in faccia al problema. Tanto “la civiltànon indietreggia mai, e sembra prendere in prestito tutti isuoi diritti alla necessità” come lamentava il principe Dakkar,alias Nemo, dopo aver rivelato la sua identità segreta nell' I-

sola misteriosa .

CHI SIAMO E CHI (NON) DIVENTEREMO

Le immagini di questo numero sono tavole originali di MP5, cheringraziamo infinitamente. I suoi lavori sono sumpcinque.wordpress.com. Gli spot a pag. III e IV sono di Lisa NurSultan. Ringraziamo anche tutta laredazione, e Carolina Cutolo,

 jumpinshark, Carlo Mazza Galanti.Durante la settimana ci potete seguiresulle pagine di Pubblico, su facebook(Rivista Orwell) e su twitter (@orwellp).

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IIIS A B AT O

20 OTTOBRE 2012

APOCALITTICI, INTEGRATI, POPULISTI DELLA RETE

Qualunquismo 2.0

SCIENZA IRRIPRODUCIBILE

Una startupsalverà NewtondiANDREA CAPOCCI

“La filosofia della scienza è utile agli scienziati quanto l'ornitologia agliuccelli”, disse una volta il fisico Richard Feynman. In effetti, il rapportotra epistemologi e scienziati per tutto il novecento non è stato affattoidilliaco. I primi si sono accaniti a dimostrare che il metodo scientificonon esiste; i secondi hanno fatto finta di niente, ritenendo che il clamo-roso progresso tecnico della modernità bastasse a dimostrare che, do-po Galileo, la scienza ha davvero cambiato marcia.Gli assalti alla cittadella scientifica oggi sono più rari. Il metodo speri-mentale, però, non ha guadagnato in solidità: a quanto pare, le riviste piùprestigiose, quelle che selezionano con parsimonia e severità le ricercheda pubblicare, pullulano di scienza non riproducibile. Non è cosa da po-co, perché la riproducibilità dell'esperimento è uno dei fondamenti delmetodo galileiano. Ripetere un esperimento e trovarne l'errore permet-te alla comunità scientifica di filtrare la buona scienza da que lla cattiva.Nella realtà le cose vanno diversamente, come ha denunciato su Nat ur eGlenn Begley, ex-direttore della ricerca sul cancro presso la casa far-maceutica statunitense Amgen. Su 53 esperimenti selezionati in un de-cennio dal suo gruppo in vista di eventuali applicazioni farmaceutiche,solo in 6 casi è stato possibile confermare i risultati dichiarati dai ricer-catori. Sempre su Nat u r e, ma un anno prima, i laboratori della Bayeravevano raccontato un'esperienza analoga: i tre quarti delle sperimen-tazioni descritte sulle principali riviste scientifiche non sono risultate ri-producibili. E per fugare il dubbio che sia una patologia riservata allescienze mediche, ci soccorre la collezione di casi raccolta dal fisico Ste-fano Ossicini dell'università di Modena, nel suo recenteL'universo è fat-

to di storie, non solo di atomi (ed. Neri Pozza): truffe ed e rrori rintracciatipersino nelle scienze “dure”per eccellenza, come la fisica e la chimica.Bene, si dirà: significa che la cattiva scienza prima o poi viene a galla?Mica tanto. Come osserva lo stesso Ossicini, i meccanismi di controllostentano a tenere il passo di un sistema di ricerca in espansione a livellointernazionale, in cui cresce il numero di ricercatori ed esperimenti maanche degli interessi economici e dei relativi conflitti. Chi lavora in un'a-zienda farmaceutica non segnalerà le ricerche irriproducibili, dopo aversprecato tanto tempo al loro inseguimento: lascerà che ci sbattano ilmuso anche i concorrenti. Nemmeno le università rappresentano un ef-ficace fact -checker , perché la ripetizione delle scoperte altrui non fruttapubblicazioni né finanziamenti. Dunque, ricerche scadenti continuano acondizionare carriere e danari. Alla lunga, ne paghiamo noi le conse -guenze: nonostante la rivoluzione biotecnologica, il nu mero di nuovifarmaci non è aumentato e ricerche indipendenti dimo strano che soloun nuovo farmaco su dieci presenta un'efficacia terapeutica superioreai prodotti precedenti.C'è chi corre ai ripari: la Science Exchange, una do t co m della Silicon Val-ley, propone ai ricercatori di certificare la riproducibilità degli esperi-menti grazie a una rete di esperti disposti a fare da esaminatori. Questomarchio di qualità, come ogni servizio, si pagherà. In cambio, la maggio-re affidabilità attrarrà investitori pubblici e privati, favorevoli a puntaresu linee di ricerca di origine controllata. Però è una sconfitta per la co-munità scientifica, che da sempre preferisce governarsi da sé: immagi-nate Sir Isaac Newton rivolgersi ad un mercante per veder riconosciutala legge della gravitazione universale?L'iniziativa della Science Exchange è solo una risposta parziale. Le mi-nacce alla verificabilità della ricerca arrivano anche da altri fronti. Unbrevetto, ad esempio, vieta di sfruttare una tecnologia senza l'autoriz-zazione dell'inventore. Un esperimento che usi un microscopio elettro-nico o una sequenza genetica brevettati, dunque, non può esse re ripro-dotto liberamente se non vent'anni dopo. Sulla carta, il divieto riguardasolo le aziende, perché la ricerca no profit è tradizionalmente esentatadal rispetto della proprietà intellettuale. Ma con la privatizzazione dell'i -struzione e dell'università, un processo in atto a livello planetario, que -sta distinzione tende a sfumare: già nel 2003 l'americana Duke Univer-sity, in quanto privata, fu condannata per aver utilizzato un brevetto diun ex-dipendente senza autorizzazione. Potrebbe accadere anche alleuniversità italiane, che dopo la riforma Gelmini possono trasformarsi infondazioni di diritto privato.Le regole del gioco scientifico stanno cambiando e qualche filosofo inpiù avrebbe fatto comodo, se gli scienziati devono ora ricorrere ad unasocietà sub-appaltatrice per salvare la faccia. Ma si abitueranno, in fon-do è un ritorno all'antico: anche ai tempi di Galileo gli scienziati avevanobisogno dell'imprimatur papale. E forse è più facile trattare con unastart-up che con il cardinal Bellarmino.

di J U M PI N S H A R K

Uniamo tre punti: Guido Ceronetti l ’apocalittico che riflettesul cellulare nuovo, Riccardo Luna l ’innovatore che candidaInternet al Nobel per la Pace, Sidro Italico il difensore (nonrichiesto) di Beppe Grillo che grida “La Rete NON perdona!”.Cosa si ottiene? Il web italiano, in una delle sue frequentigiornate storte. Il 10 Giugno 2012 il Corriere si pregia di of-frire ai lettori un ar ticolo di Guido Ceronetti, sontuosamentetitolato e sottotitolato: “Maledetto telefonino, pulce con lostomaco da elefante - Le riflessioni apocalittiche del filoso-fo dopo l'acquisto del suo primo cellulare: la corsa a modellisempre più nuovi spinge l'umanità nel baratro”.La meditazione non è prelevata dall’archivio, per comme-morare il ventennale dell'articolessa di noto intellettualeover 60 su "IO e il telefonino come Metafora del MondoModerno". Nel 1992 Ceronetti non se l ’era infatti sentita dicomprare il Motorola e adornarlo di componimento giorna-listico (nonostante l ’appropriata nascita nel 1927); vent’annidopo recupera e rilancia, informandoci pure del suo deside-rio di un “cellulare discretissimoche avvertisse il sentimen-tale Utente con il passo che «sfiorava l'arena» mentre «lu-cean le stelle»” e lamentando subito: “Ma a chi potrebbetoccare un simile sussurro di privilegio? A un burocrate eu-nuco, a una casalinga da carrello…”. A noi toccano ancora insorte (o ci meritiamo – se preferite) questi filosofi apocalit-tici, che frizzano e trillano sulle suonerie; negli USA la criticaalla tecnologia e alla Rete ha autori come Jaron Lanier, chenel suo “m a ni f es to”Tu non sei un gadget  unisce una com-prensione culturalmente ricca e tecnicamente precisaall’appassionato impegno teorico e morale. E, per dirla insimbolo,discute che ruolo abbia nella definizione del pano-rama musicale contemporaneo il MIDI (uno standard per larappresentazione digitale della musica, usato ad es. dal pri-mo cellulare con suonerie multiple, nel 1996) invece di faresvolazzi suTosca, casalinghe ed eunuchi.Passando, secondo prassi, dai peggio apocalittici ai più en-tusiasticamente integrati, riserviamo il posto d ’onore a Ric-cardo Luna, ex-direttore di Wired Italia ed editorialista diRepubblica. Nel Novembre 2009 candidò Internet al Nobelper la Pace 2010 e - forse inavvertitamente, forse con per-fetto calcolo di questa e altre analoghe campagne - candi-dò se stesso all ’antonomasia parodica del tecnoentusiasta.Luna sogna - in un sogno che si sogna implementazione -un mondo nuovo dove, con tanto ottimismo e buona volon-tà, le cose finalmente partono ( “Startup, Italia!”), le pesanticatene del passato sono spezzate dalla forza dell ’innova-zionedegli “startupperoi” e un avvenire di pace e prosperitàviene garantito alla negletta Italia e quindi al mondo. Il si-toCheFuturo.it, con l ’editore CheBanca! (gruppo Medioban-ca) e il direttore Riccardo Luna, si propone organizzare leenergie positive per questo cambiamento. Ospita occasio-

nalmente interventi di grande prestigio ma si distingue perl’abbondanza di materiale legittimamente propagandisticoe per l’apologetica diretta, che si vorrebbe tecnoevangeli-smo e rimane invece ferma al fervorino letterario. QuandoLuna scrive “ilbarbecueper le salsicce che fanno tanto Sili-con Valley”, riguardo a un incontro saltato tra alcuni star-tupper italiani e il ministro Passera (immaginato, per con-sonanza giovane & dinamica, “sul prato in maniche di cami-cia”), ci vuole proprio un cuore di pietra per non ridere, epiangere sulle nostre miserie. (E ci si domanda inquieti:hamburger e hot dog sono ancora troppo avanti o si cercauna via italiana all’abuso di carne?)Indulgerò, di nuovo e brevemente, nell ’esterofilia da con-fronto, ricordando che in USA autori come Clay Shirky e te-sti comeCognitive Surplus: Creativity and Generosity in a 

Connected Age, pur all’interno di una prospettiva di grandeottimismo e con chiari fini di divulgazione e persuasione,non confondono mai l ’argomentazione col lancio pubblicita-rio. Chiudiamo col botto, le botte e la comica finale, facendoseguire al profeta di sventure Ceronetti e all ’aspirante bat-tista Luna il monaco guerriero. Nel Luglio 2012 viene diffusaun’analisi del pubblico di Grillo su Twitter, “secondo la qua-le” - cito dal Corriere - “oltre la metà dei follower del leaderdel Movimento Cinque Stelle sarebbero falsi e generati dalco mpu t e r”. Grillo non la prende bene e, rivelando passatilegami dell’autore Marco Camisani Calzolari con Silvio Ber-lusconi, sentenzia: “la memoria della Rete non perdona!”.Ilblogger Sidro Italico, esaltato dalla frase e motivatissimonella difesa del suo beniamino, scende quindi in campo conun post inneggiante al “mail bombing” verso Calzolari (chesubito, arcitaliano, dichiara di temere per la famiglia). E ver-ga, serio, frasi come “BEPPE CHIAMA, LA RETE RISPONDE!AL MIO SEGNALE SCATENATE L’INFERNO!”. In esse si com-pendia il peggio di una nuova figura antropologica: la Gentedel Web, “onesta e incazzata”, che abbonda in maiuscoleper chiarire il momento supremo digitale e oggi venera“Beppe” come piccolo padre di Internet. La Gente del Webche immagina la Rete come duro e puro cristallo d ’i n for m a -zioni sempre vere, una dimensione separata del reale, innulla compromessa con la realtà vile del Paese. La Gentedel Web che per giusta vendetta contro la “casta dei politi-ci”, i “venduti dell’in fo rm azi o n e”, gli “zo m bi” scatena l’Infer-no. La Gente del Web che, cito dall ’epigrafe finale di SidroItalico, sempre ricorda, rispettivamente, a nemici e soda-li:La Rete NON perdona!, COPINCOLLA IL MESSAGGIO E FAIGIRARE!.mensione separata del reale, in nulla compromes-sa con la realtà vile del Paese. La Gente del Web che pergiusta vendetta contro la “casta dei politici”, i “v endutidell’i n fo r m azi o ne”, gli “zo m b i” scatena l’Inferno. La Gentedel Web che, cito dall ’epigrafe finale di Sidro Italico, semprericorda, rispettivamente, a nemici e sodali:La Rete NONperdona!, COPINCOLLA IL MESSAGGIO E FAI GIRARE!

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IVS A B AT O

20 OTTOBRE 2012

PERCHÉ SIAMO SCHIAVI DEL REVIVAL CULTURALE

La legge dei vent’anniSEGUE DALLA COPERTINADa anni, spiegava infine, scrive libri che della fantascienza hanno sol-tanto l’aspetto, ambientati“in un futuro così vicino da assomigliare auna versione allucinata del giorno in cui è stato scritto”.D’altra parte il ciberspazio non era internet. L’ultimo romanzo di WilliamGibson si chiama Zero History . È ambientato nel mondo della m oda, deicercatori di tendenze, dello spionaggio militare. E adesso Gibson si in-contra facilmente su Twitter (@GreatDismal).Non su Facebook, perché non l’ha mai amato. Twitter invece, dice, gli ri-corda l’esperienza di stare in mezzo alla strada, a sbirciare quel che ac-cade. Qualche giorno fa ha postato un finto programma elettorale diMitt Romney sull’economia: se clicchi il rettangolino“maggiori spiega-zi oni”quello si allontana dalla freccetta del mo use. Più avanti ha linkatola pubblicità di una fondina per coltelli da sushi e l’articolo sulla tombahi-tech costruita per un potente narcotrafficante messicano.L’eroe di Neur o mant e si chiamava Case. Case, il cowboy del ciberspazio,passava i giorni e le notti attaccato al proprio deck. Combatteva unaguerra contro le potenti zaibatsu, padrone assolute di segreti industriali,saperi arcani, brevetti di biotecnologie. Il ciberspazio, l’a l l uci n azio n econdivisa dentro la quale ogni cosa del mondo reale ha un suo alias, eraun luogo dove no n valevano più ideologie, patrie, politica.Se usciva di casa, Case vagava nello sprawl, l’Agglomerato, la metropolisenza confini. Poteva incontrare donne bellissime e senz’anima, animesenza corpo e memorie smarrite in un chip, baristi robot e ologrammi.Se tutto andava male, trovava conforto nel simstim, la realtà virtuale.Diventò il nostro eroe. Era un pirata, un irregolare, un avventuriero soli-tario. Il conflitto, lo stato di natura del ciberspazio. La guerra senzaquartiere contro il potere dei grandi conglomerati industriali, un gestodisperatamente punk. Johnny Lydon, giù di lì: “Non so cosa voglio ma socome ottenerlo”. La solitudine di Case è ancor’oggi la nostra stessa soli-tudine moltiplicata per milioni di solitudini di fronte ai computer in Rete.Le zaibatsu sono più potenti che mai. Avevano la faccia feroce. Hannoimparato a mostrare una faccia buona, seducente. Promettono di m i-gliorare per sempre la nostra vita, di connetterci indefinitamente agli al-tri e al mondo, di aprire per noi la biblioteca di Babele. Giurano di esserein grado di rovesciare regimi, moltiplicare la democrazia, diffondere ilsapere, smascherare i ladri e i corrotti. Ci aiutano a trovare la strada, lacanzone della nostra vita, la ricetta del pollo allo zen zero. Come faceva-mo senza? Sarebbe malinconico ritrovare anche il nome di Case tra unodei milioni di“mi piace”cliccati ogni giorno su Facebook. Certe voltepreferirei sapere che Case ha spento la consolle e se ne è andato, la-sciando la Rete a cliccarsi “mi piace”da sola. Poco cyber, molto punk.

ALBERTO PICCININI

ccc SEGUE DALLA COPERTINA. Il New York Times titolò “The End for an Enfant Terrible”, danoi La Stampa replicò con “Dash Snow, l’ultimo maledetto”.Roba da antologia, insomma. Per la mise ria, era persino mortoalla stessa identica età di Basquiat!Se Snow non lo conos cete, provo a raccontarvi qualche suaopera. Che è sempre cruda, sporca, zepp a di sangue, sudore esperma. Prendiamo il Polaroid Wall del 2005: un muro ricopertodi… polaroid, appunto. Raffiguranti tizi che scopano, un o che sifa una pera, scene di vita dissoluta ecce tera. Detta così nonsuona granché, ma noi, che di Snow eravamo coetanei, ne re-stammo estasiati. Stando alle parole dell’artista, quel muro erapiù che un diario: era una vera e propria “banca dati” della me-moria. Solo che ecco, uno si domanda: perché la polaroid? Era-vamo nel 2005: non poteva usare, chessò, un telefo nino? Eperché quella polaroid ci sembrò così appropriata? Insomma,come aveva fatto il correlativo oggettivo analogico dei 70 e so-prattutto degli 80, ad assurgere al rango di filtro per eccellenzadegli ipertecnologici 2000?Mi ricordo che solo qualche anno prima, diciam o all’incirca nel2001, con gli amici si andava per c lub a ballare l ’e l e c t ro c l as h .Questo electroclash era una musica che fondamentalmenterecuperava i tipici suoni e colori degli anni 80, ed era diventatouna faccenda grossa persino nel mainstream: Kilye Minoguepubblicò Can't Get You Out of My Head e Madonna, sempre unpasso avanti, aveva preceduto tutti con Music . Ora, nel mondodella cultura pop esiste una regola che si chiam a “la legge deive n t’anni”.

cccSignifica che ogni decen nio pretende il suo revival riferito a cir-ca vent’anni prima, perché al pubblico ormai ma turo piace ri-cordare le canzoni, i film e gli oggetti della propria infanzia: è lostesso motivo per cui nei 70 imperarono i fifties di Amer ican

Gr affit i , diHappy Days e – a suo modo– del punk. Da questopunto di vista, che a inizi 2000 si andasse a ballare musica dive n t’anni prima e che uno dei più quotati artisti contemporaneirecuperasse la Polaroid, era perfettamente logico. Qualcosaperò deve essere andato storto. Siamo ne l 2012, e dai vent’annisi è passati ai trenta: il social network più chiac chierato dopoFacebook si chiama Instagram, un’applicazione che trasformale foto col cellulare in simulacri pseudoan alogici giusto a formadi polaroid. Questi benedetti smartphone poi, sono oggetti de-licati. Ci vuole quasi sempre un a custodia, e quella che va per lamaggiore è una in plastica che replica le fattezze de lle vecchiecassette a nastro. Il film chiave della stagione scorsa fu Super 

8, e la popstar più famosa in circolazione è Lady Gaga, un con -centrato di ottantismi tanto da essere sta ta eletta a direttorecreativo di…Polaroid, ovvio. La legge dei vent’anni è stata sti-

racchiata al punto che quelli in attesa de l revival anni 90 stannoancora lì che aspettano. Cos’è successo?Esistono varie spiegazioni a riguardo. Una è che son o i caratteridella nostra stessa contemporaneità a imporre una sorta dicompulsivo sguardo all’indietro, perché questa contempora-neità porta un nome su tutti: internet. E internet è, sostanzial-mente, un immenso archivio o banca dati che gioca sul concet-to di memoria esattamente come il Polaroid Wall di Dash Snow.

cccPer essere uno dei più futuribili manu fatti che l’umanità abbiamai concepito, la Rete è un paradossale s chedario di nostalgie,di ricordi sacrificati all’immortalità virtuale, di eterno presenteche per sua natura abdica all ’idea di futuro. È la tesi per esem-pio di Simon Reynolds e del su o fortunatoRet r oman ia . Al qualeperò una volta chiesi: va bene, ma perché proprio gli 80, perchéancora loro? Sarà mica che gli 80 non sono un de cennio comeun altro, e che segnarono invec e l’atto di nascita di una vera epropria (ahem…) nuova era? Pensateci: furono gli anni dell’in-formatica che precipitava negli interni domestici, del Commo-dore e dei primi Mac, una specie di alba leggendaria che è prati-camente mito di fondazion e: se così fosse, l’ottantismo infinitodei 2000 sa non di revival m a di ritorno al folklore, un po’ co m ese l’era della Rete chiedesse conferma dei suoi natali.Solo che di folklore la Rete ne h a partorito in abbondanza, sen-za per forza tornare agli 8 bit degli vecchi processori Intel.Qualche anno fa due artisti e stu diosi come Olia Lialina e Dra-gan Espenschied recuperarono tutto quel campionario di gestie costumi che va dall’emoticon alle customizzazioni MySpace,dai primordiali blog agli sgraziati esperimenti di grafica in 3d, elo ribattezzarono proprio così: Digital Folklore. Nel frattempo,gli osservatori più acuti del panorama popular vanno discet-tando da qualche mese di una roba chiama ta v apo r w av e, ecioè “the pop art of the virtual plaza”.

cccTra i nomi di punta, magazine a cavallo tra arte e fashion com eDis, e progetti musicali come– toh – Internet Club nonché il fa-migerato James Ferraro, stando a Dummy Magazine “l’AndyWarhol della nostra generazione” (nientemeno). Il quale Ferra-ro, col nome di BEBETUNE$, sostituisce agli an ni 80 dei primivideogames e del synthpop ballerino un’indigesta epica perWindows 95, muzak in DDD e unicorni in 3d. Che la legge deiv e n t’anni si stia, pur se in ritardo, di nuovo avverando? Che do-po il ritorno agli 80 sia infine il momento dell’agognato recupe-ro dei 90? Che finalmente stia arrivando il futuro? E che questofuturo viaggi a 56k?

VALERIO MATTIOLI

di FRANCESCA GENTI

Siamo a Milano, in Duomo, in Galleria,umili e in fila, fratelli e sorelle,neri, studenti, pensionati e rom:non importa il colore della pelle,fedeli al culto della proteina strongadepti della mucca schizofrenicaferoci partigiani del BigMac(Xavier lo ha messo come sfondo al proprio Mac),stretti nella rabbia e nel doloreche questa volta lo stomaco non chiude(anzi lo apre in un abisso senza fondo)qui stiamo a celebrare altra chiusura:quella della Gloriosa Sede,- di amori e indigestioni crocevia -del più figo fast food di tutta Europa:il Mcdonald’s di Milano in Galleria.“È un chiaro segno della Maya Profeziaprivare noi, paria del reddito e del gusto,di una razione big&cheap di coca&chips,è una vergogna, è uno schifo, non è giusto! ”Urliamo tutti insieme, mai stati così uniti,mentre forziamo le porte di McDonald ’sper la razione gratuita di paninie i più spietati distruggono il Clown Ronald.(E pur non conoscendo Pasoliniil nostro desiderio collettivoè quello di crepare come Straccine La Ricotta, profetico suo film).

L’ULTIMO PRANZO AL MAC

L’apocalisse a M ilano

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