opuscula /193 - Monoskop

288
opuscula /193

Transcript of opuscula /193 - Monoskop

Page 1: opuscula /193 - Monoskop

opuscula /193

Page 2: opuscula /193 - Monoskop

First published by Verso 1985Copyright © 1985, Ernesto Laclau and Chantal Mouffe

This second edition published by Verso 2001Copyright © 2001, Ernesto Laclau and Chantal Mouffe

Copyright © 2011, il nuovo melangolo s.r.l.Genova - Via di Porta Soprana, 3-1

www.ilmelangolo.com

ISBN 978-88-7018-776-2

Titolo originale:Hegemony and Socialist Strategy

Page 3: opuscula /193 - Monoskop

Ernesto Laclau - Chantal Mouffe

Egemonia e strategia socialistaVerso una politica

democratica radicale

Traduzione a cura diFORTUNATO CACCIATORE e MICHELE FILIPPINI

il melangolo

Page 4: opuscula /193 - Monoskop
Page 5: opuscula /193 - Monoskop

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA

1.Può darsi che nella storia del concetto di struttura sia intervenuto qual-cosa che si potrebbe definire un “avvenimento”, se questa parola nonimplicasse una carica di senso che l’esigenza strutturale – o struttura-lista – ha per l’appunto la funzione di ridurre o di tenere in sospetto1.

Così, Jacques Derrida nel 1966.Oggi, molti si precipiterebbero a collocare tale intervento

sotto le insegne del cosiddetto post-strutturalismo. In generale,e in nome di una sorta di etica della lettura, diciamo subito chesarebbe il caso di evitare, nell’analisi di qualsiasi testo, ognifacile riduzione a questo o a quello dei tanti –ismi circolanti neidibattiti contemporanei, che è sempre il modo più semplice pernon leggere e non affrontare i problemi. Senza contare la caricadi razzismo filosofico che, spesso, attraverso gli –ismi, tende aescludere pensieri ritenuti scomodi dal mainstream (o dalla ege-monia) politico-culturale2.

5

1. J. DERRIDA, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scien-ze umane (1966), ora in ID., La scrittura e la differenza, tr. it. a cura di G. Pozzi,con una introduzione di G. Vattimo, Einaudi, Torino 1990, p. 359. In questotesto, la lettura decostruttiva di Derrida ha di mira, in particolare, l’antropologiastrutturale di Lévi-Strauss e la declinazione da essa impressa alle “scienzeumane” nel loro complesso.

2. Cfr., a riguardo, É. BALIBAR, Le structuralisme: une destitution dusujet?, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, Paris, PUF, n° 1, janvier 2005:

Page 6: opuscula /193 - Monoskop

Fino all’avvenimento segnalato in esergo, la strutturalitàdella struttura sarebbe stata neutralizzata ab imis da un gesto, o,meglio, da una pluralità di gesti, differenti ma omologhi, chehanno tentato di ancorarla a un centro, per limitare il gioco dellastruttura stessa e non solo per organizzarne la totalità. Pensatocome fondamento o essenza che sfugge alla strutturalità, si èsempre collocato il centro, paradossalmente, all’interno e all’e-sterno della struttura, arrestando (apparentemente), nel suo non-luogo, la sostituzione dei contenuti, degli elementi, dei terminiche la costituiscono. La storia del concetto di struttura potrebbeessere ripercorsa, allora, come una catena di determinazioni delcentro, che chiudono ciò che aprono e rendono possibile, rice-vendo (come di fatto hanno ricevuto), indifferentemente, i nomidell’archè e del telos3.

Ora, la frattura avrebbe fatto irruzione proprio nel momen-to in cui si è avvertita l’esigenza di pensare la strutturalità dellastruttura, quando si è imposta la necessità di dar conto dell’in-giunzione, che ha dominato (e continua, per molti versi, a domi-nare) “il desiderio del centro” e che ha prescritto (e continua, permolti versi, a prescrivere) i suoi spostamenti e le sue sostituzionialla legge di una “presenza centrale”, o di una ultima istanza. Masi tratta di una presenza che non è mai stata presente, essendostata fin dal’inizio “trasferita fuori di sé nel suo sostituto”. Findall’inizio, ovvero: il sostituto non si sostituisce a qualcosa che,un tempo, gli sia preesistito, ma è essenzialmente tale… sempreche i valori stessi di essenza o di origine, altri nomi della pre-senza centrale, siano messi radicalmente in gioco4.

6

“Repenser les structures”. Balibar rinvia a questo saggio nella sua prefazionealla traduzione francese di Hegemony e scrive: “il presunto motivo ‘post-strut-turalista’ della incompletezza o dell’incertezza costitutive del sistema è, essostesso, fin dall’inizio, inerente alla descrizione degli effetti della struttura” (cfr.Un feu d’artifice du structuralisme en politique, Preface à Hégémonie et straté-gie socialiste. Vers une politique démocratique radicale, traduit par J. Abriel, LesSolitaires Intempestifs, Besançon 2009, p. 11).

3. Ivi, p. 360.4. Ivi, pp. 360-361.

Page 7: opuscula /193 - Monoskop

2. Il libro che introduciamo, pubblicato in Inghilterra nel1985, può essere, forse, considerato come uno dei primi tentati-vi di coinvolgere, senza intenti riduzionisti, anche i marxisminegli effetti di una cesura già sempre inscritta nell’emergenzadel concetto di struttura e dei suoi svariati prestanome (o giàsempre promessa all’interno di tutti gli strutturalismi).

Sono gli stessi Laclau e Mouffe che, in un punto crucialedi Egemonia, rinviano alle pagine appena citate di Derrida e, inparticolare, al seguente passaggio:

Da quel punto si è dovuto cominciare a pensare che non c’era centro,che il centro non poteva essere pensato nella forma di un essente-pre-sente, che il centro non aveva un posto naturale, che non era un postofisso, bensì una funzione, una specie di non-luogo nel quale si pro-ducevano senza fine sostituzione di segni5.

È il momento in cui il linguaggio sembra “invadere ilcampo problematico universale” e, nel contempo, a mostrare isuoi limiti. O, in altre parole, “tutto diviene discorso”… a con-dizione, tuttavia, che, con “discorso”, s’intenda un “sistema”,nel quale, come si è letto, il significato centrale, originario e/oteleologico e/o trascendentale, non è mai stato presente in asso-luto al di fuori di un sistema di differenze6.

7

5. Ivi., p. 361.6. Infra, p. 166: “[…] Derrida generalizza il concetto di discorso in un

modo coincidente con il nostro. Il “discorso” – essi scrivono – è un “sistema dientità differenziali”, che si dà solo come limitazione parziale di un surplus disignificazione. Inerente a ogni situazione discorsiva, tale eccedenza è definita daLaclau e Mouffe “campo della discorsività”: una formula che segnala “il carat-tere necessariamente discorsivo di ogni oggetto” e, al tempo stesso, “l’impossi-bilità, per ogni discorso, di operare una sutura finale”. È importante precisare (ascanso di equivoci che, certo, sono sempre possibili e, persino, legittimi) che,nella prospettiva di Egemonia e strategia socialista, la concezione secondo cuiogni oggetto si costituisce come “oggetto di discorso” non ha niente a che farecon le opposizioni o separazioni nette tra mondo esterno e pensiero, ovvero trarealismo e idealismo. Due osservazioni per riassumere al massimo: 1) è impor-tante rimarcare che Laclau e Mouffe fanno leva sul concetto di “discorso”, inrelazione alla società e alla storia, per liberare l’analisi del politico e delle ideo-

Page 8: opuscula /193 - Monoskop

A questo punto sarebbe necessario soffermarsi a lungosullo scarto tra il concetto di “discorso” e quelli di “testo” 7 o di“archi-scrittura”8 elaborati da Derrida. Non solo per un’esigen-za filologica o storico-filosofica, ma per rilevare, nel pensierodei nostri autori, una possibile tensione tra il riferimento alladecostruzione, da un lato, e quello alla psicoanalisi lacaniana,dall’altro. Nell’economia di Egemonia e strategia socialista,Lacan entra in gioco dopo Derrida, là dove Laclau e Mouffe

8

logie dal sistema fondato sulla distinzione e opposizione gerarchica struttu-ra/sovrastruttura in tutte le sue varianti (e qui assumono particolare importanzale interpretazioni critiche di Gramsci e Althusser); 2) i concetti di “discorso” edi “formazione discorsiva” richiamano chiaramente alla memoria il pensiero diMichel Foucault, come riconoscono Laclau e Mouffe stessi, i quali, tuttavia,rifiutano, per la ragioni sopra riportate, la distinzione tra pratiche discorsive epratiche non discorsive che ancora si conserva ne L’archeologia del sapere.

7. Dobbiamo la segnalazione della problematica a Francesco Vitale ealla lettura del suo saggio intitolato La scrittura e lo spazio in, AA VV., Spettridi Derrida, a cura di C. Barbero, S. Regazzoni, A. Valtolina, il melangolo,Genova, 2010, pp. 477-493. Qui ci limitiamo a ricordare che “testo”, nella scrit-tura di Derrida, non si riduce alla “grafia”, né al “libro”, né al “discorso”, e nem-meno alla “sfera semantica, rappresentativa, simbolica, ideale o ideologica”, maimplica “tutte le strutture cosiddette ‘reali’, ‘economiche’, ‘storiche’, socio-isti-tuzionali, in breve tutti i referenti possibili”. Il che non comporta affatto la lorosospensione, negazione, chiusura entro i confini di un logos o di un testo scritti(un libro, ad esempio), come si è spesso imputato a Derrida e alla decostruzio-ne: significa, piuttosto, che ogni “referente”, ogni “realtà” si articolano in unarete complessa di rinvii, ritenzioni e protensioni, secondo la struttura della “trac-cia differenziale” (Cfr. J. DERRIDA, Limited Inc., Paris, Galilée, 1990; p. 273;trad. it. di N. Perullo, Limited Inc., Milano, Raffaello Cortina, 1997, p. 220).

8. Ciò che Derrida chiama “archi-scrittura” non coincide con la scrittu-ra fonetica (anzi ne fa vacillare la lunga egemonia scientifica, filosofica, e anchepolitica, nella tradizione occidentale), né si risolve nel recupero delle altre formepossibili di inscrizione rimosse, o riesumate acheologicamente in vista del teloslogocentrico. “Archi-scrittura” è, piuttosto, il nome di una condizione irriduci-bile dell’esperienza: “apertura della prima esteriorità in generale”, ovvero del“rapporto del vivente al suo altro”. Nessuna memoria, nessuna coscienza, nes-suna soggettività/oggettività senza tale “spaziamento” (espacement): spazializ-zazione del tempo e temporalizzazione dello spazio (cfr. J. DERRIDA, De laGrammatologie, Paris, Minuit, 1967, p. 103; trad. it. a cura di R. Balzarotti, F.Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Della grammatologia, Milano,Jaca Book, 1969, p. 79).

Page 9: opuscula /193 - Monoskop

ricorrono alla nozione di punti nodali, per rimarcare non solo lapossibilità, ma la necessità di fissazioni parziali (punti di capi-tone nel lessico lacaniano), nonostante (o proprio per) l’impos-sibilità di un centro che arresti il flusso delle differenze. Senzacondensazioni, o senza cesure, per quanto precarie, nel fluttua-re significante, come si potrebbero formare le articolazioni ege-moniche? A contatto con l’eredità marxista, la posta in gioco,apparentemente “formale” o “teorica”, diviene ipso facto politi-ca: ne va delle condizioni di possibilità (dunque, di impossibi-lità) dell’egemonia e dei suoi rapporti con la democrazia. Comeavviene, se avviene, l’incontro tra egemonia e democrazia? Equali sono i suoi limiti? Sono ipotesi di lavoro che, per ilmomento, lasciamo aperte.

Torniamo al decentramento da cui siamo partiti9 e preci-siamo che il suo movimento non si risolve nella rimozione inge-nua dei concetti metafisici tradizionali, come se fosse possibiledisfarsene immediatamente e voltare pagina: non si dispone,infatti, di alcun linguaggio, sintassi e lessico, che sia totalmenteestraneo alla loro storia (e, si sa, il rimosso ritorna in modi inat-tesi e inauditi)10. Ecco perché si può dire che la decostruzione

9

9. Decentramento filosofico e scientifico e, insieme, geo-politico-cultu-rale-economico-tecnologico: il decostruirsi della storia della metafisica coinci-de (nella seconda metà del XX secolo) con la provincializzazione (come usa direoggi) della cultura europea. Approfittiamo di questa nota, per ricordare che duefra i testi di Laclau e Mouffe, che possono essere considerati seminali delle tesisviluppate in Egemonia (rispettivamente: Tesis acerca de la forma hegemónicade la política e Hegemónia, política y ideología) furono elaborati (al di fuori delcontesto europeo, pur ereditandone criticamente la tradizione) per la pubblica-zione degli atti del cosiddetto Seminario de Morelia, tenutosi nella città messi-cana, sotto il patrocinio della UNAM, nel 1980. In questo dibattito, e alla lucedegli eventi politici latinoamericani del tempo, assumeva un ruolo di primopiano il pensiero di Antonio Gramsci. Al convegno parteciparono (oltre ai nostridue autori e molti altri) pensatori e militanti politici come José Aricó e JuanCarlos Portantiero (due fra i maggiori studiosi di Gramsci in America latina). Ilmateriale del convegno fu poi pubblicato, a cura di Julio Labastida Martín delCampo, con il titolo: Hegemonía y alternativas políticas en América Latina,Siglo Veintiuno Editores, 1985 (1998, seconda edizione).

10. Derrida, op. cit., p. 362.

Page 10: opuscula /193 - Monoskop

della tradizione marxista, rimessa in gioco da Laclau e Mouffe,prende avvio all’interno dei testi stessi di Luxemburg, Kautsky,Antonio Labriola, Bernstein, Adler, Sorel, Plekhanov, Lenin e,soprattutto, Gramsci (per citare solo qualche nome e fatte ledebite differenze), che già rispondevano alla sua “crisi” (o al suostesso decostruirsi). Così, criticare radicalmente i concetti diclasse operaia come agente storico privilegiato del cambiamen-to o quello di determinazione in ultima istanza non significanecessariamente, secondo il detto comune, gettare via il bambi-no con l’acqua sporca.

Ecco perché, inoltre, se proprio deve assegnarsi al progettoteorico-politico di Egemonia e strategia socialista l’etichetta“post-marxista”, occorre raddoppiarne la lettura e sottolineare,insieme e volta per volta, tanto l’una quanto l’altra parte del-l’attributo (post-marxista e post-marxista): è attraverso lo svi-luppo di riflessioni interne al marxismo, insieme, come è inevi-tabile, alla inibizione rimozione di alcune altre, che il concettodi egemonia, secondo Laclau e Mouffe, può rilanciarsi in nomedella lotta per una “democrazia radicale, libertaria e plurale”.Ma il concetto di egemonia non avrebbe alcuna presa sulle tra-sformazioni in atto del mondo contemporaneo, se non si aprissealle sollecitazioni provenienti da altri orientamenti, che ne per-mettono differenti traduzioni, modificandone retroattivamentele condizioni di (im)possibilità.

3. L’inattualità (già nel 1985) dei primi due capitoli diEgemonia11, che a qualche lettore frettoloso sembrerà un attar-

10

11. Ci riferiamo ai primi due capitoli, intitolati rispettivamenteEgemonia: genealogia di un concetto (nel quale sono analizzati testi diLuxemburg, Kautsky, Plekhanov, Antonio Labriola, Otto Bauer, Max Adler,Bernstein, Sorel, vale a dire le varie risposte alla “crisi del marxismo” annun-ciata già da Thomas Masaryk nel 1898) ed Egemonia: la difficile emergenza diuna nuova logica politica (nel quale, a partire dall’emergere del concetto di ege-monia nella socialdemocrazia russa – Plekhanov ancora e Axelrod – si approfon-discono la categoria di “sviluppo ineguale e combinato” a contatto con l’esten-dersi della “logica del contingente”, la posizione teorico-politica di Trotsky, la

Page 11: opuscula /193 - Monoskop

darsi su questioni ormai consegnate ai giardini degli eruditiruminanti o, peggio ancora, alla pattumiera della storia, permet-te, invece, di riscoprire la varietà e la ricchezza della “discorsi-vità marxista”: una pluralità di posizioni, impoverita tanto dal-l’imporsi del dogma marxista-leninista ad usum Stalin12, quan-to dall’antimarxismo di mestiere à la nouveaux philosophes.Nell’uno come nell’altro caso, nell’apologia come nella deni-grazione pregiudiziali del materialismo storico e/o dialettico, sidà credito, con segno opposto, a una “concezione ingenua e pri-mitiva del ruolo e del grado di unità di una dottrina” che restalegata, volente nolente, all’“immaginario stalinista”. Il passag-gio oltre una grande tradizione non ha mai luogo “nella formaimprovvisa del collasso, ma in modo simile alle acque di infiume che, originatesi da una fonte comune, fluiscono in variedirezioni e si mescolano con correnti che sgorgano da altrefonti”13.

Non a caso, dunque, tutto ruota intorno al (quasi) concettodi egemonia14 che si è costituito all’interno delle teorie e dellestrategie politiche di un campo marxista tutt’altro che monoliti-co (c’è più di un marxismo). Si tratta, per Laclau e Mouffe, di

11

categoria di “alleanza di classe”, ovvero alcuni testi di Lenin e del leninismo, adesempio Zinoviev, il pensiero e le nuove proposte politiche di Gramsci etc.). Lascelta di muovere da una “decostruzione delle varie superfici discorsive delmarxismo classico” – la “validità di un tale punto di partenza”, per rilanciarestrategicamente il concetto di “egemonia” – non dipende da un privilegio accor-dato a questa tradizione, piuttosto che a un’altra, ma – come ammettono Laclaue Mouffe – si fonda sul fatto che essa rappresenta il loro stesso passato.

12. Rubiamo l’espressione “marxismo-leninismo ad usum Stalin” adAtilio A. Boron, che la usa nel saggio introduttivo a J.C. MARIÁTEGUI, 7 Ensayosde interpretación de la realidad peruana, Capital Intelectual, Buenos Aires2009, p. 12.

13. Infra, p. 25.14. Quasi-concetto, nel senso che nella parola “egemonia” e nei suoi usi

si inscrivono, insieme, eterogenee, ma indissociabili, una dimensione “teorico-constativa” e una dimensione “strategico-performativa”: cfr. V. GERRATANA, Leforme dell’egemonia, in ID., Gramsci. Problemi di metodo, Roma, EditoriRiuniti, 1997, pp. 119-126.

Page 12: opuscula /193 - Monoskop

una nuova logica del sociale, che complica la determinazioneeconomica nelle sue varie forme (diretta, mediata, in ultimaistanza) e segna il passaggio al post-marxismo. Parassitando levisioni scientifiche della storia e della società, intese come tota-lità trasparenti a se stesse e del tutto intellegibili, l’egemonias’insinua alla stregua di un fattore o di un intervento comple-mentare e contingente, reso, tuttavia, necessario dagli “squilibricongiunturali all’interno di un paradigma evoluzionista la cuivalidità essenziale o ‘morfologica’ non viene messa in questio-ne nemmeno per un momento”15.

Tuttavia, con il precipitarsi degli eventi, in un periodo cheha i suoi segnatempo nei nomi di Lenin e Gramsci, le aree diapplicazione del concetto di egemonia si ampliano in manieratale da costringere quella pietra angolare che era stata la “neces-sità storica” a ritrarsi dall’orizzonte della storia.

Prima di giungere a quello che gli autori chiamano lo“spartiacque gramsciano”16, bisogna però ricostruire la genealo-gia di questo apparente complemento, risalendo il corso dellastoria del marxismo fino alla socialdemocrazia russa17. La

12

15. Infra, pp. 23-24.16. Infra, pp. 106-115. Cfr. anche quanto scrivono Laclau e Mouffe nella

Prefazione alla seconda edizione di Egemonia: “Solo l’esempio isolato diGramsci, che scrive dalle carceri di Mussolini, può essere citato come un nuovopunto di partenza, produttivo di un nuovo arsenale di concetti […] che sono l’av-vio delle nostre riflessioni […]” (infra, p. 7).

17. È, precisamente, all’interno dei dibattiti della socialdemocrazia russa,tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, che comincia ad emergere il pro-blema dell’egemonia. La prospettiva generalmente accettata era che la Russiafosse ormai pronta per una rivoluzione democratico-borghese che avrebbe eli-minato il regime zarista, in analogia con i movimenti rivoluzionari che, inOccidente, avevano spazzato via il sistema feudale e l’assolutismo dell’ancienrégime. Tuttavia, la realizzazione di questa previsione trovava un ostacolo insor-montabile nei ritardi e nella debolezza della borghesia russa, incapace di porta-re a termine i suoi (presunti) compiti storici. Se ne deduceva che questi ultimidovessero essere assunti da un altro settore sociale che, date le premesse “sta-diali” fissate dalla visione evoluzionista della storia e posta comunque la neces-sità della transizione democratica, non era considerato come il loro agente natu-rale: la classe operaia. Con Laclau e Mouffe, si può tradurre in termini trascen-

Page 13: opuscula /193 - Monoskop

prima parte del libro si assume questo compito. Il concetto diegemonia nasce come risposta a una crisi, quella del marxismointeso come previsione scientifica della evoluzione storica, chea mano a mano mostra la corda di fronte alla complessità cre-scente delle lotte e delle stratificazioni politico-sociali. La teo-ria dell’egemonia serve quindi inizialmente a giustificare lesmentite della presunta necessità storica da parte di eventi inat-tesi e inauditi, a spiegare teoricamente gli sviluppi contradditto-ri di una classe che assume su di sé compiti non suoi (dinamicadel legame egemonico), a salvare il rigido impianto teorico delmarxismo della Seconda Internazionale, nello sforzo di trovareuna impossibile collocazione razionale all’evenemenzialità ealla contingenza18. Si delineano in questo solco le tre rispostealla crisi ricostruite da Laclau e Mouffe: l’ortodossia marxista,il revisionismo e il sindacalismo rivoluzionario.

È poi, come si è accennato, nel passaggio da Lenin aGramsci, che la logica ancillare del concetto di egemonia tendesempre più a trasformarsi in una logica genetico/strutturale del

13

dentali questa emergenza storica nel modo seguente: la condizione fondamenta-le per il costruirsi di una relazione egemonica consiste nell’azione di una forzasociale, o di un gruppo di forze sociali, che si fanno carico della rappresenta-zione di una universalità che resta incommensurabile con esse.

18. Cfr. Balibar, Prefazione all’edizione francese di Egemonia, cit., pp.10-11. Si può sostenere che le analisi che, in Egemonia, rileggono i dibattiti stra-tegici della II e della III Internazionale mostrano come le varie posizioni, in essipresenti, siano abitate spettralmente da una irriducibile tensione democratica,ogni volta ridotta dal ricorso a un’ultima istanza (quasi sempre dal riferimentoalla classe operaia come agente fondamentale). Senza dimenticare, però, l’altroversante della problematica, che riassumiamo con le parole di Balibar: “la formain cui noi stessi ereditiamo, al giorno d’oggi, alcuni temi della questione demo-cratica (o, meglio, della ‘democrazia radicale’, ovvero del progetto di democra-tizzazione della democrazia, che deve permettere di salvaguardarne le acquisi-zioni, estendendole, di fronte alle tendenze autoritarie o tecnocratiche) è marca-ta irreversibilmente dalla costruzione del discorso socialista in quanto discorsod’emancipazione”. Le osservazioni di Balibar consentono di tenere conto, seb-bene in forma solo introduttiva, tanto della strategia socialista quanto della pro-spettiva di una democrazia radicale, ovvero delle due problematiche che, sin daltitolo del libro di Laclau e Mouffe, trovano il loro punto di correlazione e di ten-sione nel concetto di egemonia.

Page 14: opuscula /193 - Monoskop

sociale: la sola a partire dalla quale – questa la tesi di Laclau eMouffe – una nuova strategia socialista può essere ripensata. Seil concetto leninista di alleanza tra le classi presuppone l’iden-tità preliminare di queste ultime, stabilita dalla loro posizioneentro i rapporti di produzione, e il ruolo guida della classe ope-raia come soggetto privilegiato, il concetto gramsciano di ege-monia richiede, invece, una serie di relazioni tra gruppi diffe-renti che eccedono la loro collocazione strutturale. In breve,l’articolazione non è secondaria e complementare, ma costituti-va del legame egemonico, retroagendo sull’identità dei settori,dei soggetti, dei compiti che ne entrano a far parte. Solo met-tendo in gioco lo schema classista, un gruppo di forze partico-lari (qui, almeno in linea di principio, l’uso del plurale divieneobbligatorio) può adempiere al suo ruolo di sineddoche egemo-nica (parte che si fa carico della rappresentazione di un tutto chele resta incommensurabile). Vale a dire: ogni egemonia non puòessere che parziale, precaria, storicamente contingente e nonpuò darsi nessuna classe fondamentale come suo referenteprimo o ultimo.

4. Tocchiamo qui un punto centrale nella lettura di Egemoniae strategia socialista: uno snodo che ha funzionato, tra l’altro,come detonatore per una stagione di “usi eterodossi” degli scrit-ti gramsciani e per una loro diffusione mondiale, con risultatiteorici di portata differente e con implicazioni politiche altret-tanto varie, se non conflittuali19. Nonostante sia giudicato comeil marxista che, più di ogni altro, si sarebbe spinto in avanti nelpensare e rinnovare le dinamiche politico-ideologiche, Gramsciresterebbe ancorato a un residuo di essenzialismo. Nei Quadernidel carcere, la logica dell’egemonia scardina, infatti, le identitàrendendole relazionali, ovvero contingenti, ma non rinuncia adue presupposti, che persistono al di qua della logica della con-tingenza: l’unicità del principio che unifica le lotte e il caratte-

14

19. Cfr. M. FILIPPINI, Gramsci globale. Guida pratica agli usi di Gramscinel mondo, Odoya, 2011.

Page 15: opuscula /193 - Monoskop

re di classe del soggetto che incarna questo principio. A suavolta, dunque, il pensiero gramsciano appare “sospeso inun’ambiguità fondamentale che concerne lo statuto della classeoperaia, e che lo conduce alla fine a una posizione contradditto-ria”20. Il giudizio non è sbrigativo, e contiene sicuramente unnucleo di verità. Gramsci non rinuncia mai al principio secondoil quale sarebbero i rapporti materiali a determinare la coscien-za e segnala più volte come “il contenuto dell’egemonia politi-ca […] deve essere prevalentemente di ordine economico”21.Laclau e Mouffe riconoscono questo limite posto alla “logicadecostruttrice dell’egemonia”22 e ne dichiarano l’inconsistenza,inserendo l’economia stessa nel campo della contingenza e del-l’articolazione, slegando quindi definitivamente la capacità sto-rica dei soggetti in lotta dalla loro posizione all’interno dei mec-canismi capitalistici.

“Né al primo, né all’ultimo istante, suona mai l’ora solita-ria della ‘ultima istanza’”23. Si può dire che Laclau e Mouffeprendano sul serio questa affermazione di Althusser, più diquanto non abbia fatto quest’ultimo, il quale finisce per dene-gare la radicalità della sua stessa critica, salvando la pertinenza,sebbene relativa, della categoria di ultima istanza24, e restandofedele alla possibilità di tracciare una linea di separazione netta

15

20. Infra, p. 113.21. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 1053.22. Infra, p. 111.23. L. ALTHUSSER, Contraddizione e surdeterminazione (1962), tr. it. di

A. Cavazzini, in ID., Per Marx, edizione a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano2008, pp. 81-107, qui p. 104. Si legge subito prima: “Bisogna andare allora finoin fondo, e dire che questa surdeterminazione non concerne le situazioni appa-rentemente singolari o aberranti della storia (ad esempio la Germania), ma cheessa è universale, e che giammai la dialettica economica funziona allo statopuro, che mai nella Storia si vedono queste istanze che sono le sovrastruttureecc., farsi rispettosamente da parte dopo aver svolto il proprio compito o dissi-parsi come puro fenomeno per lasciar incedere sulla via regia della dialettica suaMaestà l’Economia poiché i Tempi sarebbero venuti”.

24. Infra, p. 146.

Page 16: opuscula /193 - Monoskop

tra una concezione rigorosa, scientifica dei concetti marxisti(“di ciò che loro appartiene in proprio”) e i “loro fantasmi”(come se essi non potessero essere surdeterminati, a loro volta,da altri concetti, provenienti da altrove)25.

Gli agenti sociali “non hanno alcuna essenza” – scrivonoLaclau e Mouffe26. E portare alle estreme conseguenze gli effet-ti dei concetti di articolazione egemonica (Gramsci) e surdeter-minazione (Althusser) significa non solo rinunciare al riduzio-nismo di classe, ma induce a sostenere, più in generale, l’im-possibilità di un’entità perfettamente suturata e presente a sestessa come la società27.

In Egemonia e strategia socialista, l’“esperienza” dei limi-ti di ogni “oggettività”, ovvero l’impossibilità di una sutura defi-nitiva del sociale, prende il nome di antagonismo28. Questa stes-sa impossibilità apre il gioco interminabile tra logica della dif-ferenza e logica dell’equivalenza: da un lato, le identità (diffe-renze: rivendicazioni, gruppi sociali, movimenti politici, posi-zioni soggettive) si costituiscono solo in relazione differenzialetra loro, scindendosi entro se stesse e esponendosi a effetti uni-versalizzanti che ne trascendono la mera particolarità; dall’altrolato (ma si tratta di aspetti eterogenei e indissociabili), l’estrema

16

25. ALTHUSSER, op. cit., p. 107. Al concetto di “surdeterminazione”, èdedicato, in Egemonia, un paragrafo – Formazione sociale e surdeterminazione– del terzo capitolo a sua volta intitolato Oltre la positività del sociale: antago-nismo ed egemonia. Sulla prossimità tra Gramsci e Althusser (soprattutto riguar-do alla rielaborazione del concetto di ideologia entro il campo marxista), maanche sulle loro profonde differenze, cfr. MOUFFE, Hegemonía, Política eIdeología, in AA.VV., Hegemonía y alternativas políticas en América Latina,cit., pp. 125-145.

26. Occorre precisare che la critica della società come totalità chiusa nonsi risolve nel suo contrario, ossia nella fissità delle varie posizioni soggettivedecentrate. Se così fosse, non si farebbe altro che sostituire un essenzialismo conun altro.

27. Infra, p. 169: “Il sociale è articolazione perché la società è impossi-bile”. Date queste premesse assume tutta la sua pregnanza e complessità l’inter-pretazione dell’egemonia come “teoria della decisione presa su un terreno inde-cidibile” (infra, p. 10, Prefazione alla seconda edizione).

Page 17: opuscula /193 - Monoskop

precarietà di tutte le identità (differenze) le rende equivalentirispetto all’esperienza del limite insignificabile del sistema (odella società), che assume, a seconda delle situazioni storiche,configurazioni non determinabili in anticipo. Senza il concate-narsi di equivalenze e senza la divisione del sociale in posizionio campi antagonisti non si darebbe alcuna egemonia; ma, se l’e-quivalenza si imponesse come completa e onnicomprensiva,verrebbe altrettanto meno la condizione di possibilità di ogniarticolazione: l’apertura costitutiva del sociale29.

Tra gli estremi della differenza e dell’equivalenza assolute,l’esperienza della democrazia radicale e plurale – scrivonoLaclau e Mouffe – consisterebbe proprio nel riconoscere, altempo stesso, la molteplicità delle logiche sociali e la necessitàdi ricreare e rinegoziare costantemente la loro interrelazione,escludendo qualsiasi equilibrio finale30.

5. Nel percorso di ricerca teorica iniziato con questo libro i dueautori si pongono saldamente con i piedi nel Novecento, dentro lacrisi del marxismo che dagli anni ’60 in poi ha prodotto diversitentativi di fuoriuscita. Lo fanno rielaborando i materiali pratici eteorici del movimento operaio, dei suoi teorici, delle sue lotte.

17

28. Infra, p. 181ss. Cfr. infra, p. 13 (Prefazione alla seconda edizione):“La nostra tesi – ribadiscono Laclau e Mouffe – è che gli antagonismi non sonorelazioni oggettive, ma relazioni che rivelano i limiti di ogni oggettività”.

29. Infra, pp. 256-257: “L’equivalenza totale non esiste: ogni equivalenzaè penetrata da una precarietà essenziale derivata dalla disuguaglianza del socia-le. In tale misura, la precarietà di ogni equivalenza esige di essere completa-ta/limitata dalla logica dell’autonomia”. Ne deriva che, in un progetto di demo-crazia radicale e plurale, la rivendicazione dell’uguaglianza deve essere bilan-ciata con quella della libertà (e viceversa). Sulla complessità della relazione tralogica della differenza e logica dell’equivalenza, cfr. R. GASCHÈ, How empty canempty be? On the place of the universal, in AA.VA., Laclau. A Critical Reader,edited by Simon Critchley and Oliver Marchart, Routledge, London-New York2004, pp. 17-34.

30. Infra, p. 262. Ma, appunto, i giochi non sono chiusi, perché a questopunto si ripropone una problematica cruciale che, in questa sede, preferiamo,lasciare aperta: in che modo pensare e praticare la relazione tra “logica demo-cratica” e “progetto egemonico”?

Page 18: opuscula /193 - Monoskop

Tradurre in italiano, a quasi un trentennio di distanza, unodei testi che più hanno contribuito a rilevare e a rilanciare le pos-sibilità strategiche aperte dal rinnovarsi della crisi del marxismopuò agevolare la comprensione delle ragioni di quest’ultima e, altempo stesso, indicare la strada per procedere oltre le sue stret-toie, in direzione di una democrazia radicale, capace di ereditarecriticamente la tradizione socialista. Va però tenuto a mente unfatto: il momentaneo (o presunto) superamento della prima crisidel marxismo ebbe luogo attraverso un evento e un gesto politi-ci, non semplicemente teorici. O, meglio, come argomentaGramsci nei suoi Quaderni, un evento e un gesto politici conincredibili conseguenze teoriche31. Stiamo parlando ovviamentedella Rivoluzione d’ottobre (la Rivoluzione contro il Capitale,secondo la celebre definizione gramsciana). Analogamente, ilpercorso teorico di Laclau e Mouffe si è configurato a strettocontatto con le loro concrete esperienze politiche, precedenti econtemporanee a Egemonia e strategia socialista32.

Il progetto di questo libro nasceva anche per rispondere(teoricamente e politicamente) all’egemonia neoliberale e neo-

18

31. Così Gramsci: “in questo campo è da ricercare l’apporto teorico mas-simo di Ilici [Lenin] alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire[effettivamente] la filosofia [come filosofia] in quanto fece progredire la dottri-na e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quantocrea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e deimetodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico” (A.GRAMSCI, Quaderni del carcere, cit., p. 1250).

32 . In un’intervista del 1988 Laclau ricorda come “la [sua] prima lezionedi ‘egemonia’” avvenne nelle lotte politiche dell’Argentina peronista, e comequesto “segno pratico” continui a rappresentare la base per le sue elaborazioni:“quando oggi leggo Della grammatologia, S/Z o gli Scritti di Lacan, gli esempiche mi saltano continuamente in testa non sono quelli dei testi filosofici o lette-rari, ma quelli presi da una discussione in un sindacato argentino, da uno scontrodi slogan opposti in una manifestazione, da un dibattito durante un congresso dipartito”; “tutto ciò che ho cercato di pensare teoricamente in seguito – la diaspo-ra delle posizioni soggettive, la ricomposizione egemonica delle identità fram-mentate, la ricostruzione delle identità sociali tramite l’immaginario politico –tutto questo è qualcosa che ho imparato in quegli anni di attivismo politico” (E.LACLAU, New reflections on the revolution of our time, cit., pp. 200 e 180).

Page 19: opuscula /193 - Monoskop

conservatrice (di matrice reaganiana e tatcheriana, per intender-ci) e all’ideologia della fine delle ideologie, ovvero al dogmadella “ingovernabilità” imputata all’“eccesso di democrazia”33.Si trattava, quindi, di ripensare le categorie della sinistra storica(marxista e non solo) alla luce dell’estensione della conflittua-lità sociale che rendeva (e rende) necessaria una continua riela-borazione teorica34.

Ciò non significa stabilire alcun ordine di preminenza ogerarchia tra “politica” e “filosofia”. Se si presupponesse laprassi politica come fondamento unico della teoria, non si fareb-be altro che tradurla (o ridurla), a sua volta e di contrabbando,in un centro o significato trascendentale (come se la parola e ilconcetto di “politica” non s’inscrivessero, a loro volta, nell’ere-dità del pensiero occidentale e non fossero cariche di tradizionemetafisica, a partire almeno da Platone e Aristotele35). Ma nem-

19

33. Infra, p. 233: si tratta della tesi sostenuta da Samuel Huntington, nelsuo rapporto presso la Commissione Trilaterale, nel 1975. La forza dell’“idealedemocratico” – tale la conclusione del politologo statunitense, citata da Laclaue Mouffe – “pone un problema di governabilità della democrazia”.

34. Infra, p. 21: “Un complesso di nuovi fenomeni positivi è stato allabase di quei mutamenti che hanno reso così urgente il compito di una riconsi-derazione teorica: l’emergere del nuovo femminismo, i movimenti di protestadelle minoranze etniche, nazionali e sessuali, le lotte ecologiche anti-istituzio-nali condotte da strati marginalizzati della popolazione, il movimento antinu-cleare, le forme atipiche di lotta sociale nei paesi della periferia capitalista. Tuttoquesto implica un’estensione della conflittualità sociale a un’ampia gamma diaree che crea il potenziale, ma non più che un potenziale, per un progresso versosocietà più libere, democratiche ed egalitarie” (infra, p. 21). È chiaro che occor-re tracciare, oggi, con il senno di poi, che non è necessariamente il più sicuro,un bilancio di queste lotte, soprattutto alla luce delle difficoltà a imporsi sullascena mondiale di un movimento, quello definito anti-globalizzazione, che, soloqualche anno fa, sembrava offrire nuove possibilità per contrapporsi all’egemo-nia neo-liberale, a sua volta in crisi, e un alternativa alle esangui sinistre istitu-zionali.

35. La riduzione della teoria all’immanenza della prassi sembra infattiessere la moda filosofica del momento. Come scrive ironicamente PeterThomas: “Se, un tempo, nei circoli intellettuali radicali, ci si sentiva obbligati adichiarare con veemenza le proprie credenziali “materialiste”, oggi si potrebbedire una cosa simile rispetto all’affermazione di tendenze immanentiste: ora

Page 20: opuscula /193 - Monoskop

meno si deve ricercare, in Egemonia e strategia socialista, faci-li ricette teoriche per l’azione e l’organizzazione politica.

Come scrivono Laclau e Mouffe, occorre rileggere le lororiflessioni “nel punto medio” del “duplice movimento tra il teo-rico e il politico”36, sapendo che non si è dato e non si darà maiuna risoluzione definitiva della tensione tra il “momento sov-versivo” della democrazia e il “momento positivo dell’istituzio-ne del sociale”, nello spazio di un gioco che non è stato e nonsarà mai a “somma zero”37.

Fortunato Maria CacciatoreMichele Filippini

20

siamo tutti anti-trascendentalisti” (P. Thomas, The Gramscian Moment, Leiden,Boston, 2009, p. 339-340. Una voce fuori dal coro, in questo senso, è rappre-sentata da Mario Tronti, cfr. Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma, 2011).

36. Infra, p. 22.37. Infra, pp.

Page 21: opuscula /193 - Monoskop

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Egemonia e strategia socialista fu pubblicato per la primavolta nel 1985, e da allora è stato al centro di molte discussioniteorico-politiche importanti, nel mondo anglosassone comealtrove. Molte cose sono cambiate da allora nello scenario con-temporaneo. Per riferirci solo agli sviluppi principali, è suffi-ciente menzionare la fine della Guerra fredda e la disintegrazio-ne del sistema sovietico. A questo dobbiamo aggiungere le dra-stiche trasformazioni della struttura sociale che sono alla radicedi nuovi paradigmi nella costituzione delle identità sociali e poli-tiche. Per percepire la distanza epocale tra i primi anni ’80 delNovecento, quando questo libro è stato scritto, e il presente,occorre ricordare come in quel periodo l’Eurocomunismo eravisto ancora come un progetto politico praticabile, oltre il lenini-smo e la socialdemocrazia, e che da allora ad assorbire la rifles-sione intellettuale della sinistra sono stati per lo più i dibattiti suinuovi movimenti sociali, sul multiculturalismo, sulla globalizza-zione, sulla deterritorializzazione dell’economia e sull’insiemedi problematiche legate alla questione della postmodernità.Potremmo dire – parafrasando Hobsbawm – che il “secolobreve” sia finito a un certo punto dei primi anni ’90, e che oggisiamo di fronte sostanzialmente a problemi di ordine nuovo.

Data l’entità di questi mutamenti epocali, ripercorrendo lepagine di questo libro non tanto recente, ci siamo sorpresi diquanto poco si dovesse mettere in questione la prospettiva intel-lettuale e politica che avevamo sviluppato. Molto di ciò che èaccaduto ha seguito da vicino il modello suggerito nel nostro

21

Page 22: opuscula /193 - Monoskop

libro, e le questioni che all’epoca erano centrali per i nostri inte-ressi sono divenute sempre più preminenti nelle discussioni con-temporanee. Potremmo anche dire che consideriamo la prospetti-va teorica sviluppata allora – radicata com’era nella matricegramsciana e nella centralità della categoria di egemonia – comeun approccio alle problematiche contemporanee molto più ade-guato rispetto all’apparato intellettuale che ha spesso accompa-gnato le recenti discussioni sulla soggettività politica, sulla demo-crazia, sulle tendenze e conseguenze politiche dell’economia glo-balizzata. Ecco perché intendiamo ricapitolare, a mo’ di introdu-zione a questa seconda edizione, alcuni punti centrali del nostrointervento teorico, per contrapporre alcune di quelle conclusionipolitiche alle recenti tendenze nella discussione sulla democrazia.

Cominciamo col dire qualcosa a proposito del progetto intel-lettuale di Egemonia e della prospettiva teorica a partire dallaquale è stato scritto. Alla metà degli anni ’70 del Novecento lateoria marxista era chiaramente giunta a una impasse. Dopo unperiodo eccezionalmente ricco e creativo negli anni ’60, i limiti diquesta espansione – che ebbe il suo epicentro nell’atthusserismo,ma anche nel rinnovato interesse per Gramsci e per i teorici dellaScuola di Francoforte – erano diventati fin troppo visibili. C’eraun distanza crescente tra la realtà del capitalismo contemporaneoe ciò che il marxismo poteva legittimamente sussumere sotto leproprie categorie. È sufficiente ricordare le contorsioni semprepiù disperate che hanno avuto luogo intorno a nozioni come“determinazione in ultima istanza” e “autonomia relativa”.Questa situazione, nel complesso, ha provocato due tipi di atteg-giamento: la negazione dei mutamenti oppure il ritrarsi senza con-vinzione in un bunker ortodosso; l’assunzione ad hoc delle anali-si descrittive delle nuove tendenze tramite una semplice giustap-posizione – senza integrazione – a un corpo teorico che restavalargamente immutato.

Il nostro modo di trattare la tradizione marxista era del tuttodifferente e poteva essere, forse, espresso nei termini della distin-zione husserliana tra “sedimentazione” e “riattivazione”. Le cate-gorie teoriche sedimentate sono quelle che nascondono gli attidella loro istituzione originaria, mentre il momento della riattiva-

22

Page 23: opuscula /193 - Monoskop

zione rende di nuovo visibili quegli atti. Per noi – in opposizionea Husserl – questa riattivazione doveva mostrare la contingenzaoriginaria della sintesi che le categorie marxiane tentavano di sta-bilire. Invece di trattare nozioni come “classe”, la triade dei livel-li (economico, politico e ideologico) o la contraddizione tra forzeproduttive e rapporti di produzione come feticci sedimentati, ten-tavamo di mettere in gioco le precondizioni che rendevano la lorooperazione discorsiva possibile, e ci interrogavamo sulla loro con-tinuità o discontinuità nel capitalismo contemporaneo. Il risultatodi questo esercizio è stata la comprensione del campo della teoriamarxista come molto più ambivalente e diversificato rispetto almonolite che il marxismo-leninismo ci ha presentato come storiadel marxismo. Questo deve essere detto chiaramente: l’effettoteorico duraturo del leninismo è stato uno spaventoso impoveri-mento del campo della diversità marxiana. Mentre alla fine delperiodo della Seconda internazionale i campi in cui operava ladiscorsività marxista si stavano sempre più diversificando – spa-ziando, specialmente nell’Austromarxismo, dal problema degliintellettuali alla questione nazionale e dalle inconsistenze internedella teoria del valore e del lavoro alla relazione tra socialismo edetica – la divisione del movimento operaio internazionale, e lariorganizzazione della sua ala rivoluzionaria intorno all’esperien-za sovietica, portò a una discontinuità in questo processo creati-vo. Il caso patetico di Lukács, che ha prestato le sue innegabilicapacità intellettuali al consolidarsi di un orizzonte teorico-politi-co che non trascendeva l’intera gamma degli slogan della Terzainternazionale, è un esempio estremo ma tutt’altro che isolato.Vale la pena puntualizzare come molti dei problemi affrontati dauna strategia socialista nelle condizioni del tardo capitalismosiano già contenuti in nuce nella teoria dell’Austromarxismo, cheha però una breve durata nel periodo tra le due guerre. Solo l’e-sempio isolato di Gramsci, che scrive dalle carceri di Mussolini,può essere citato come un nuovo punto di partenza, produttivo diun nuovo arsenale di concetti – guerra di posizione, blocco stori-co, volontà collettiva, egemonia, direzione intellettuale e morale –che sono l’avvio delle nostre riflessioni in Egemonia e strategiasocialista.

23

Page 24: opuscula /193 - Monoskop

Rivisitare (e riattivare) le categorie marxiste alla luce di que-sta serie di nuovi problemi e degli ultimi sviluppi doveva condur-re, necessariamente, alla decostruzione delle stesse, vale a dire aldislocamento di alcune delle loro condizioni di possibilità e allosviluppo di nuove possibilità che non si configurassero nei termi-ni dell’applicazione di una categoria. Sappiamo, grazie aWittgenstein, che non esiste qualcosa come l’“applicazione di unaregola”: l’istanza dell’applicazione diventa parte della regola stes-sa. Rileggere la teoria marxista alla luce dei problemi contempo-ranei implica quindi necessariamente la decostruzione delle suecategorie centrali. Questo è quello che è stato chiamato il nostro“post-marxismo”. Non abbiamo inventato noi questa definizione:essa appare solo marginalmente (e non come un’etichetta)nell’Introduzione al nostro libro. Ma poiché è stata generalizzataper caratterizzare il nostro lavoro possiamo dire che non ci oppo-niamo a essa, a condizione che venga intesa propriamente comeil processo di riappropriazione di una tradizione intellettuale, eallo stesso tempo del suo superamento. Nel portare avanti questocompito è importante sottolineare come esso non possa essereconcepito unicamente come una storia interna al marxismo. Moltiantagonismi sociali, molte problematiche cruciali per la com-prensione delle società contemporanee, appartengono a campi didiscorsività esterni al marxismo, e non possono essere riconcet-tualizzati nei termini delle categorie marxiste, visto che è la lorostessa presenza a mettere in questione il marxismo come sistemateorico chiuso e porta all’affermazione di nuovi punti di partenzaper l’analisi sociale.

Al riguardo intendiamo sottolineare un aspetto in particola-re. Ogni mutamento sostanziale nel contenuto ontico di uncampo di ricerca conduce anche a un nuovo paradigma ontologi-co. Althusser era solito dire che dietro la filosofia di Platonec’era la matematica greca, dietro il razionalismo settecentesco lafisica galileiana e dietro la filosofia di Kant la teoria newtonia-na. Ponendo l’argomento in termini trascendentali: la questionerigorosamente ontologica si interroga sul modo di essere delleentità, così da rendere possibile l’oggettività di un campo parti-colare. C’è un processo di feedback reciproco tra l’incorporazio-

24

Page 25: opuscula /193 - Monoskop

ne di nuovi campi di oggetti e le categorie ontologiche generaliche governano, in un momento dato, ciò che è pensabile all’in-terno di un campo generale di oggettività. L’ontologia implicitanel freudismo, per esempio, è diversa e incompatibile con il para-digma biologista. Da questo punto di vista è nostra convinzioneche nella transizione dal marxismo al post-marxismo il muta-mento non sia solo ontico, ma anche ontologico. I problemi diuna società globalizzata e informatizzata sono impensabili all’in-terno dei due paradigmi ontologici che governano il campo delladiscorsività marxista: prima quello hegeliano, poi quello natura-listico.

Il nostro approccio si basa sul privilegio il momento del-l’articolazione politica, e la categoria centrale dell’analisi politi-ca è, a nostro avviso, quella di egemonia. In tal caso – per ripe-tere la nostra questione trascendentale – come deve essere unarelazione tra entità perché sia possibile una relazione egemoni-ca? La condizione fondamentale è che una forza sociale partico-lare assuma la rappresentazione di una totalità che le è radical-mente incommensurabile. Una comunità politica può raggiunge-re solamente un’“universalità egemonica” di questo tipo. Daquesto punto di vista la nostra analisi dovrebbe essere distinta daquelle in cui l’universalità trova nel campo sociale un’espressio-ne diretta, non mediata egemonicamente, e da quelle in cui leparticolarità sono meramente sommate senza che tra loro siapensabile alcuna mediazione, come in alcune forme di postmo-dernismo. Ma perché una rappresentazione della relazione ege-monica sia possibile, deve esserne definito lo statuto ontologico.È a questo punto che, per la nostra analisi, diventa di capitaleimportanza una nozione del sociale concepito come spaziodiscorsivo, che renda cioè possibili relazioni di rappresentazionerigorosamente impensabili all’interno di un paradigma fisicalistao naturalista. In altri lavori abbiamo mostrato come la categoriadi “discorso” abbia un pedigree nel pensiero contemporaneo cherisale alle tre correnti principali del Ventesimo secolo: la filoso-fia analitica, la fenomenologia e lo strutturalismo. In esse il seco-lo è cominciato con un’illusione di immediatezza, di un accessonon mediato discorsivamente alle cose stesse: rispettivamente il

25

Page 26: opuscula /193 - Monoskop

referente, il fenomeno e il segno. Ma in tutte e tre, comunque,tale illusione di immediatezza si è a un certo punto dissolta e hadovuto essere sostituita da una qualche forma di mediazionediscorsiva. È quello che è accaduto nella filosofia analitica conl’opera del tardo Wittgenstein, nella fenomenologia con l’anali-tica esistenziale di Heidegger e nello strutturalismo con la criti-ca post-strutturalista del segno. È anche quello che, secondo lanostra prospettiva, è avvenuto nell’epistemologia con il verifica-zionismo di transizione – Popper, Kuhn, Feyerabend – e nelmarxismo con l’opera di Gramsci, là dove la pienezza delle iden-tità di classe del marxismo classico viene sostituita da identitàegemoniche costituite attraverso mediazioni non-dialettiche.Tutte queste correnti hanno in una certa misura nutrito il nostropensiero, ma è il post-strutturalismo il terreno sul quale abbiamotrovato la fonte principale della nostra riflessione teorica, e all’in-terno del campo post-strutturalista la decostruzione e la teorialacaniana hanno avuto un’importanza decisiva nella formulazio-ne del nostro approccio all’egemonia. Per quanto riguarda ladecostruzione, è stata cruciale la nozione di indecidibilità. Se,come si mostra nel lavoro di Derrida, gli indecidibili permeano ilcampo precedentemente considerato come governato dalla deter-minazione strutturale, allora si può considerare l’egemonia comeuna teoria della decisione presa su un terreno indecidibile. Livellipiù profondi di contingenza richiedono articolazioni egemoni-che, ovvero contingenti, il che è un altro modo di dire che ilmomento della riattivazione non significa altro che riattivare unatto di istituzione politica che trova la sua fonte e la sua motiva-zione solo in se stesso. Non senza relazione con queste ragioni,la teoria lacaniana fornisce strumenti decisivi per la formulazio-ne di una teoria dell’egemonia. In tal senso la categoria di puntodi capitone (punto nodale nella nostra terminologia) o di signifi-cante-maestro implica la nozione di un elemento particolare cheassume una funzione strutturante “universale” all’interno di uncerto campo discorsivo – in realtà qualsiasi organizzazione delcampo è solo il risultato di questa funzione – senza che la parti-colarità dell’elemento per se predetermini una tale funzione. Inmodo simile, la nozione di soggetto prima della soggettivazione

26

Page 27: opuscula /193 - Monoskop

stabilisce la centralità della categoria di “identificazione”, ren-dendo così possibile pensare transizioni egemoniche pienamentedipendenti dalle articolazioni politiche, e non da entità costituiteal di fuori del campo politico, come gli “interessi di classe”. Difatto le articolazioni politico-egemoniche creano retroattivamen-te gli interessi che dicono di rappresentare.

L’egemonia ha condizioni di possibilità assai precise, sia dalpunto di vista di ciò che una relazione richiede per essere conce-pita come egemonica, sia nella prospettiva della costruzione di unsoggetto egemonico. Come per il primo aspetto, la già menziona-ta dimensione dell’indecidibilità strutturale è la condizione stessadell’egemonia. Se l’oggettività sociale determinasse, attraverso lesue leggi interne, qualsiasi organizzazione strutturale esistente(come in una concezione puramente sociologica della società)non vi sarebbe spazio per riarticolazioni egemoniche contingenti,né dunque per la politica come attività autonoma. Perché vi siaegemonia, il requisito fondamentale è che alcuni elementi, nonpredeterminati a entrare in un tipo di organizzazione piuttosto chein un’altra, tuttavia si uniscano come risultato di una pratica ester-na o articolatoria. La visibilità degli atti di istituzione originaria –nella loro contingenza specifica – è a questo proposito il requisi-to di ogni formazione egemonica. Ma dire articolazione contin-gente significa enunciare una dimensione centrale della “politi-ca”. Il privilegio accordato al momento politico nella struttura-zione del sociale è un aspetto essenziale del nostro approccio. Ilnostro libro mostra come, storicamente, la categoria di egemoniavenga originariamente elaborata nella socialdemocrazia russacome tentativo di indirizzare l’intervento politico autonomo, resopossibile dalla dislocazione strutturale tra attori e compiti demo-cratici che risultava dal tardo sviluppo del capitalismo in Russia;come in seguito la nozione di “sviluppo ineguale e combinato” laestenda alle condizioni generali della politica nell’era imperiali-sta; come infine, con Gramsci, tale dimensione egemonica vengaritenuta costitutiva della soggettività degli attori storici (che ces-sano dunque di essere semplicemente attori di classe). Potremmoaggiungere che questa dimensione di contingenza, e la concomi-tante autonomizzazione della politica, sono ancora più visibili nel

27

Page 28: opuscula /193 - Monoskop

mondo contemporaneo, nelle condizioni del capitalismo avanzatoin cui le riarticolazioni egemoniche sono molto più generalizzateche al tempo di Gramsci.

Come per la soggettività egemonica, il nostro argomento siintreccia con l’intero dibattito sulla relazione tra universalismo eparticolarismo, che è diventato alquanto centrale negli ultimianni. Una relazione egemonica ha senza dubbio una dimensioneuniversalistica, ma si tratta di un tipo di universalismo molto par-ticolare, del quale è importante precisare le caratteristiche prin-cipali. Non è il risultato di una decisione contrattuale, come nelcaso del Leviatano di Hobbes, in quanto il legame egemonicotrasforma l’identità dei soggetti egemonici. Non è necessaria-mente legata a uno spazio pubblico, come nella nozione hegelia-na di una “classe universale”, in quanto le riarticolazioni egemo-niche cominciano al livello della società civile. Non è, infine,assimilabile alla nozione marxiana del proletariato inteso comeclasse universale, in quanto essa non risulta da una riconciliazio-ne umana ultima che conduce al deperimento dello Stato e allafine della politica; il legame egemonico è, al contrario, costituti-vamente politico.

Qual è allora l’universalità specifica inerente all’egemonia?Quello che sosteniamo nel testo è che essa risulta dalla dialetticaspecifica tra ciò che chiamiamo logica della differenza e logicadell’equivalenza. Gli attori sociali occupano posizioni differen-ziali all’interno dei discorsi che costituiscono la fabbrica sociale.In tal senso essi sono tutti, a rigor di termini, delle particolarità.D’altro canto, ci sono antagonismi sociali che creano frontiereinterne alla società. Di fronte alle forze oppressive, ad esempio,un insieme di particolarità stabiliscono tra loro relazioni di equi-valenza. Diventa tuttavia necessario rappresentare la totalità dellacatena, oltre il mero particolarismo differenziale dei legami equi-valenziali. Quali sono i mezzi di questa rappresentazione? Noisosteniamo che solo una particolarità il cui corpo è scisso, tra-sforma quest’ultimo nella rappresentazione che lo trascende,senza cessare, tuttavia, di essere una particolarità (quella dellacatena di equivalenze). Questa relazione, attraverso la quale unacerta particolarità assume la rappresentazione di un’universalità

28

Page 29: opuscula /193 - Monoskop

del tutto incommensurabile con essa, è ciò che chiamiamo rela-zione egemonica. Ne risulta che la sua universalità è contamina-ta: 1) perché vive in una tensione irrisolvibile tra universalità eparticolarità; 2) perché la sua funzione di universalità egemonicanon è acquisita per sempre ma è, al contrario, sempre reversibi-le. Sebbene per molti aspetti radicalizziamo senza dubbio l’in-tuizione gramsciana, pensiamo che qualcosa del genere siacomunque implicito nella distinzione che egli fa tra classe cor-porativa e classe egemonica. La nostra nozione di universalitàcontaminata si distingue da una concezione come quella diHabermas, per il quale l’universalità ha di per sé un proprio con-tenuto, indipendente da ogni articolazione egemonica. Ma evitaanche l’altro estremo, rappresentato forse nel modo più puro dalparticolarismo di Lyotard, la cui concezione della società comecostituita da una pluralità di incommensurabili giochi linguistici,interagenti nella sola forma del torto, rende ogni riarticolazionepolitica impossibile.

Il nostro approccio concepisce quindi l’universalità comeuniversalità politica, come dipendente da frontiere interne allasocietà. Il che ci conduce, forse, all’argomento centrale delnostro libro, legato alla nozione di antagonismo. Abbiamo spie-gato perché secondo la nostra prospettiva né le opposizioni reali(la Realrepugnanz di Kant) né la contraddizione dialettica pos-sono rendere conto della relazione specifica che definiamo“antagonismo sociale”. La nostra tesi è che gli antagonismi nonsono relazioni oggettive, ma relazioni che rivelano i limiti di ognioggettività. La società si costituisce intorno a tali limiti, e si trat-ta di limiti antagonistici. In questo caso la nozione di limite anta-gonistico deve essere concepita letteralmente: vale a dire non c’èalcuna “astuzia della ragione” che si realizza attraverso le rela-zioni antagonistiche. Né c’è alcun tipo di “grande gioco” che sot-tomette gli antagonismi al suo sistema di regole. Ecco perchéconcepiamo la politica non come una sovrastruttura, ma comedotata dello statuto di un’ontologia del sociale.

Ne consegue che per noi la divisione sociale è inerente allapossibilità della politica – come sosteniamo nell’ultima parte dellibro – e alla possibilità stessa di una politica democratica.

29

Page 30: opuscula /193 - Monoskop

Vorremmo enfatizzare questo punto. L’antagonismo è infat-ti al centro della rilevanza attuale del nostro approccio, tanto alivello teorico quanto a livello politico. Questo potrebbe sembra-re paradossale, considerando che una delle principali conseguen-ze delle profonde trasformazioni che hanno avuto luogo nei quin-dici anni trascorsi dalla pubblicazione di questo libro è stata lacancellazione della nozione di antagonismo dal discorso politicodella sinistra. Ma a differenza di coloro che vedono in questo unprogresso, noi crediamo che proprio qui risieda il problema prin-cipale. Esaminiamo come e perché questo è accaduto. Si potevasperare che il collasso del modello sovietico avrebbe dato unimpeto rinnovato ai partiti socialdemocratici, finalmente liberatidall’immagine negativa del progetto socialista presentato dal lorovecchio antagonista. Tuttavia, col fallimento della sua variantecomunista, è stata l’idea stessa del socialismo ad essere statascreditata. Lungi dal ravvivarsi, la socialdemocrazia si è ritrova-ta nel caos. Invece che della riformulazione del progetto sociali-sta, nell’ultimo decennio siamo stati testimoni del trionfo delneoliberismo, la cui egemonia è diventata così pervasiva da avereun effetto profondo sulla stessa identità della sinistra. Si può direanche che il progetto della sinistra è in una crisi più profondaoggi che al tempo in cui scrivevamo, all’inizio degli anni ’80.Con il pretesto della “modernizzazione” un crescente numero dipartiti socialdemocratici si è sbarazzato della propria identità disinistra, ridefinendosi eufemisticamente come “centro-sinistra”,rivendicando l’obsolescenza delle nozioni di destra e sinistra eritenendo necessaria una politica di “centro radicale”. Il princi-pio fondamentale di quella che si presenta come una “terza via”– con il crollo del comunismo, le trasformazioni socio-economi-che legate all’avvento della società dell’informazione e il pro-cesso della globalizzazione – è che siano scomparsi gli antago-nismi. Sarebbe quindi ora possibile una politica senza frontiere,una politica che vada a vantaggio di tutti e nella quale si possa-no trovare soluzioni in grado di favorire ognuno all’interno dellasocietà. Questo implica che la politica non si strutturerebbe piùintorno alla divisione sociale e che i problemi politici sarebberodiventati semplicemente problemi tecnici. Secondo Ulrich Beck

30

Page 31: opuscula /193 - Monoskop

e Anthony Giddens – i teorici di questa nuova politica – vivrem-mo ora nelle condizioni di una “modernizzazione riflessiva”, incui il modello antagonistico della politica, quello del noi controloro, non sarebbe più valido. I due sociologi sostengono chesaremmo entrati in una nuova era in cui la politica deve essereconsiderata in modo completamente diverso. La politica radicaledovrebbe riguardare le questioni della “vita” ed essere “generati-va”, e lasciando realizzare le cose alle persone e ai gruppi; lademocrazia dovrebbe essere considerata nella forma di un “dia-logo”, in cui le questioni controverse sarebbero risolte attraversol’ascolto reciproco. Al giorno d’oggi si parla molto di “democra-tizzazione della democrazia”. Non c’è niente di errato, in linea diprincipio, in questa prospettiva, e a prima vista pare consona allanostra idea di “democrazia radicale e plurale”. C’è tuttavia unadifferenza cruciale, perché noi non abbiamo mai inteso il pro-cesso che stiamo sostenendo di radicalizzazione della democra-zia come avente luogo su un terreno neutrale la cui topologia nonsarebbe stata toccata, ma come una profonda trasformazionedelle relazioni di potere esistenti. Per noi l’obiettivo è di stabili-re una nuova egemonia, che richiede la creazione di nuove fron-tiere politiche, non la loro scomparsa. È senza dubbio positivoche la sinistra abbia fatto i conti con l’importanza del pluralismoe delle istituzioni liberal-democratiche, ma il problema è chequesto passo si è accompagnato alla convinzione errata che biso-gnasse anche abbandonare ogni tentativo di trasformare il pre-sente ordine egemonico. Da questo deriva la sacralizzazione delconsenso, lo sfarinarsi delle frontiere tra destra e sinistra e lospostamento verso il centro.

Ma questo significherebbe trarre la conclusione sbagliatadalla caduta del comunismo. Certo, è importante comprendereche la democrazia liberale non è il nemico da distruggere percreare, attraverso la rivoluzione, una società completamentenuova. È di fatto quanto abbiamo già sostenuto in questo libroinsistendo sulla necessità di ridefinire il progetto della sinistranei termini di una “radicalizzazione” della democrazia. Nellanostra prospettiva, il problema delle democrazie liberali “esi-stenti” non risiede nei loro valori costitutivi, cristallizzati nei

31

Page 32: opuscula /193 - Monoskop

principi di libertà e uguaglianza per tutti, ma nel sistema di pote-re che ridefinisce e limita il funzionamento di tali valori. Eccoperché il nostro progetto di “democrazia radicale e plurale” èstato concepito come una nuova fase nell’approfondimento della“rivoluzione democratica”, come estensione delle lotte democra-tiche per l’uguaglianza e la libertà a una più ampia gamma direlazioni sociali.

Ciononostante non abbiamo mai pensato che l’abbandonodel modello politico giacobino dell’amico/nemico come para-digma adeguato della politica democratica dovesse condurreall’adozione di un modello liberale, che considera la democra-zia come una semplice competizione tra interessi che ha luogosu un terreno neutrale, anche se si pone l’accento sulla dimen-sione “dialogica”. Tuttavia è precisamente questo il modo in cuimolti partiti di sinistra si prospettano ora il processo democrati-co. Ecco perché essi sono incapaci di afferrare la struttura dellerelazioni di potere e la possibilità di stabilire una nuova egemo-nia. Di conseguenza, l’elemento anticapitalista che è semprestato presente nella socialdemocrazia – in entrambe le varianti,di destra e di sinistra – è stato ormai sradicato nella sua suppo-sta versione moderna. Da qui la mancanza nel suo discorso diogni riferimento a un’alternativa possibile al presente ordineeconomico, assunto come l’unico possibile, come se il ricono-scimento del carattere illusorio di una rottura totale con un’eco-nomia di mercato precludesse necessariamente la possibilità dipensare modi diversi di regolazione delle stesse forze di merca-to, e significasse l’assenza di alternative all’accettazione totaledelle loro logiche.

La giustificazione che di solito viene data al “dogma dellamancanza di alternativa” è la globalizzazione, e l’argomentousato di solito contro le politiche redistributive socialdemocrati-che è quello che presenta le rigide restrizioni fiscali affrontatedai governi come l’unica possibilità realistica in un mondo in cuii mercati globali non permettono alcuna deviazione dall’ortodos-sia neoliberale. Questo argomento dà per scontato il terreno ideo-logico che è stato creato come risultato di anni di egemonia neo-liberale, trasformando una situazione congiunturale in una

32

Page 33: opuscula /193 - Monoskop

necessità storica. Presentate come frutto esclusivo dalla rivolu-zione informatica, le forze della globalizzazione sono separatedalle loro dimensioni politiche e appaiono come un fato cui tuttidobbiamo sottometterci. Così ci dicono che non ci sono più poli-tiche economiche di sinistra e di destra, ma solo politiche buonee politiche cattive!

Pensare in termini di relazioni egemoniche significa rom-pere con tali luoghi comuni. Analizzare il cosiddetto “mondoglobalizzato” attraverso la categoria di egemonia elaborata inquesto libro può aiutarci infatti a comprendere come la congiun-tura presente, lungi dall’essere l’unico ordine sociale naturale opossibile, sia l’espressione di una certa configurazione dellerelazioni di potere. Si tratta del risultato dei movimenti egemoni-ci da parte di specifiche forze sociali, che sono state capaci diimplementare una profonda trasformazione nelle relazioni traimprese capitaliste e stati-nazione. Tale egemonia può essere sfi-data. La sinistra dovrebbe cominciare a elaborare un’alternativacredibile all’ordine neoliberale invece di provare semplicementea gestirlo in una maniera più umana. Questo richiede, certo, ildelinearsi di nuove frontiere politiche, e il riconoscimento chenon può darsi politica radicale senza la definizione di un avver-sario. Significa insomma accettare l’inestirpabilità dell’antago-nismo.

C’è un altro modo in cui la prospettiva teorica sviluppata inquesto libro può contribuire al ripristino della centralità del poli-tico, mostrando i punti deboli di quella che è correntemente pre-sentata come la visione più promettente e sofisticata di una poli-tica progressista: il modello della “democrazia deliberativa” pro-posto da Habermas e dai suoi allievi. È utile contrapporgli ilnostro approccio, perché ci sono in effetti alcune similitudini conla nostra concezione della democrazia radicale. ComeHabermas, noi critichiamo il modello aggregativo di democrazia,che riduce il processo democratico all’espressione degli interes-si e delle preferenze registrate in un voto il cui scopo è la sele-zione dei leader che realizzeranno le politiche scelte. Come loro,riteniamo che questa sia una concezione povera della politicademocratica, la quale non riconosce il fatto che le identità politi-

33

Page 34: opuscula /193 - Monoskop

che non sono date in anticipo, ma vengono costituite e ricostitui-te attraverso il dibattito nella sfera pubblica. La politica, credia-mo, non consiste semplicemente nel registrare interessi già esi-stenti, ma gioca un ruolo cruciale nel delineare i soggetti politi-ci. Su questi temi concordiamo con gli habermasiani. Siamo inaccordo con loro anche sulla necessità di rendere conto dellemolte voci diverse che una società democratica comprende, esull’estensione del campo delle lotte democratiche.

Tuttavia ci sono importanti punti di divergenza tra la nostraprospettiva e la loro, che dipendono dalla struttura teorica cheinforma le nostre rispettive concezioni. Il ruolo centrale giocatodalla nozione di antagonismo nel nostro lavoro preclude ognipossibilità di una riconciliazione finale, di ogni tipo di consensorazionale, di un “noi” pienamente inclusivo. Per noi una sferapubblica dell’argomentazione razionale non-esclusiva è un’im-possibilità concettuale. Conflitto e divisione, nella nostra pro-spettiva, non sono né disturbi che purtroppo non possono essereeliminati, né impedimenti empirici che rendono impossibile larealizzazione piena di un’armonia, irraggiungibile in quanto nonsaremo mai capaci di abbandonare completamente le nostre par-ticolarità per agire in accordo con il nostro sé razionale, un’ar-monia che nondimeno costituirebbe l’ideale verso cui tendere.La nostra opinione è che senza conflitto e divisione una politicademocratica pluralista sarebbe impossibile. Credere che unarisoluzione finale dei conflitti possa essere eventualmente possi-bile – anche se intesa come un approccio asintotico all’idea rego-lativa di un consenso razionale – lungi dal fornire l’orizzontenecessario per il progetto democratico lo mette a rischio.Concepita in tal senso, la democrazia pluralista diventa un “idea-le auto-confutatorio”, perché il momento stesso della sua realiz-zazione coinciderebbe con la sua disintegrazione. Ecco perchésosteniamo che è vitale per la politica democratica riconoscereche ogni forma di consenso è il risultato di un’articolazione ege-monica, e che c’è sempre un “fuori” che impedisce la sua pienarealizzazione. A differenza degli habermasiani, consideriamoquesta non come una minaccia per il progetto democratico, macome la sua stessa condizione di possibilità.

34

Page 35: opuscula /193 - Monoskop

Un’ultima considerazione a proposito di come immaginia-mo i compiti più urgenti per la sinistra. Di recente si è sentita piùdi una voce invocare il “ritorno alla lotta di classe”. La denunciache viene fatta è quella della troppa vicinanza della sinistra alleproblematiche “culturali” e l’abbandono della lotta contro ledisuguaglianze economiche. È tempo, si dice, di lasciare da partel’ossessione per la “politica dell’identità” e di mettersi di nuovoin ascolto delle rivendicazioni della classe operaia. Cosa dire diqueste critiche? Ci troviamo forse oggi in una congiuntura oppo-sta a quella che ha fornito il retroterra alla nostra riflessione,basata sulla critica di una sinistra incapace di prendere in consi-derazione le lotte dei “nuovi movimenti”? È vero che l’evoluzio-ne dei partiti di sinistra li ha portati a interessarsi della classemedia, a discapito degli operai. Ma questo è dovuto alla loroincapacità di concepire un’alternativa al neoliberismo e all’ac-cettazione acritica degli imperativi della “flessibilità”, non a unasupposta infatuazione per le questioni dell’identità. La soluzionenon può allora essere quella di abbandonare la lotta “culturale”per ritornare alla politica “reale”. Uno dei punti fermi diEgemonia e strategia socialista è la necessità di creare una cate-na di equivalenze tra le diverse lotte democratiche contro varieforme di subordinazione. Abbiamo sostenuto che le lotte controil sessismo, il razzismo, la discriminazione sessuale e a difesadell’ambiente richiedessero di essere articolate con quelle deglioperai in un nuovo progetto egemonico della sinistra. Con unaterminologia divenuta recentemente di moda, insistevamo sulfatto che la sinistra dovesse affrontare questioni tanto di “redi-stribuzione” quanto di “riconoscimento”. Ecco ciò che intende-vamo con “democrazia radicale e plurale”.

Oggi questo progetto resta più che mai valido, il che perònon significa che sia diventato più facile da realizzare. In effettia volte sembra quasi che, piuttosto che pensare la “radicalizza-zione” della democrazia, la priorità sia di difenderla contro leforze che la minacciano insidiosamente dall’interno. Invece dirinforzare le sue istituzioni, sembra che il trionfo della democra-zia sul suo avversario comunista abbia contribuito al loro inde-bolimento. La disaffezione nei confronti del processo democrati-

35

Page 36: opuscula /193 - Monoskop

36

co sta raggiungendo proporzioni preoccupanti e il cinismo neiconfronti della classe politica è così diffuso da minare la fonda-mentale fiducia dei cittadini nel sistema parlamentare. Certo,non c’è alcuna ragione di rallegrarsi per lo stato attuale dellapolitica nelle società liberal-democratiche. In alcuni paesi questasituazione è abilmente sfruttata dai demagoghi populisti didestra, e il successo di personaggi come Haider e Berlusconitestimonia come questa retorica possa attrarre un seguito moltosignificativo. Fino a quando la sinistra rinuncia alla lotta egemo-nica, e insiste nell’occupare il terreno del centro, le speranze diinvertire tale situazione sono assai poche. Ad essere sinceriabbiamo cominciato a osservare l’emergenza di una serie di resi-stenze al tentativo delle aziende transnazionali di imporre il loropotere sull’intero pianeta. Ma senza una visione di quale possaessere un modo differente di organizzare le relazioni sociali, cheristabilisca la centralità della politica sulla tirannia delle forze delmercato, questi movimenti resteranno di natura difensiva. Se sivuole costruire una catena di equivalenze tra lotte democratichebisogna stabilire una frontiera e definire un avversario, ma que-sto non è sufficiente. Bisogna anche sapere per cosa si lotta,quale tipo di società si intende costituire. Il che richiede da partedella sinistra una comprensione adeguata della natura delle rela-zioni di potere e delle dinamiche della politica. La posta in giocoè la costruzione di una nuova egemonia. Dunque il nostro mottoè: “ritorno alla lotta egemonica”.

Page 37: opuscula /193 - Monoskop

INTRODUZIONE

Il pensiero di sinistra si trova oggi di fronte a un bivio. Le“verità evidenti” del passato – le forme classiche di analisi e dicalcolo politico, la natura delle forze in conflitto, il significatostesso delle lotte e degli obiettivi della sinistra – sono state seria-mente messe in questione da una valanga di mutamenti storiciche hanno minato il fondamento sul quale si erano costituite.Alcuni di questi mutamenti corrispondono senza dubbio a deifallimenti e a delle delusioni: da Budapest a Praga al colpo distato in Polonia, da Kabul alla serie di vittorie comuniste inVietnam e Cambogia, si è posto un interrogativo sempre piùinsistente su un intero modo di concepire tanto il socialismoquanto le strade che dovrebbero condurre ad esso. Questo hadato nuova energia al pensiero critico, a un tempo corrosivo enecessario, sul terreno teorico e politico su cui si era tradizio-nalmente costituito l’orizzonte intellettuale della sinistra. Mac’è dell’altro. Un complesso di nuovi fenomeni positivi è statoalla base di quei mutamenti che hanno reso così urgente il com-pito di una riconsiderazione teorica: l’emergere del nuovo fem-minismo, i movimenti di protesta delle minoranze etniche,nazionali e sessuali, le lotte ecologiche anti-istituzionali condot-te da strati marginalizzati della popolazione, il movimento anti-nucleare, le forme atipiche di lotta sociale nei paesi della peri-feria capitalista. Tutto questo implica un’estensione della con-flittualità sociale a un’ampia gamma di aree che crea il poten-ziale, ma non più che un potenziale, per un progresso versosocietà più libere, democratiche ed egalitarie.

37

Page 38: opuscula /193 - Monoskop

Questa proliferazione di lotte si presenta anzitutto come un“surplus” del sociale rispetto alle strutture razionali e organiz-zate della società, vale dire dell’“ordine” sociale. Numerosevoci, provenienti specialmente dal campo liberal-conservatore,hanno sostenuto con insistenza che le società occidentali sono difronte a una crisi di governabilità e a una minaccia di dissolu-zione a causa del pericolo egalitario. Tuttavia le nuove forme delconflitto sociale hanno messo in crisi anche le strutture teorichee politiche più vicine a quelle che coinvolgeremo nel dibattito inquesto libro. Esse corrispondono ai discorsi classici della sini-stra e ai modi caratteristici in cui quest’ultima ha concepito gliagenti del mutamento sociale, lo strutturarsi degli spazi politicie gli argomenti privilegiati per lo scatenamento delle trasforma-zioni storiche. In crisi è un’intera concezione del socialismofondata sulla centralità ontologica della classe operaia, sul ruolodella Rivoluzione con la “R” maiuscola come momento fonda-tivo nella transizione da un tipo di società a un’altra, sulla pro-spettiva illusoria di una volontà collettiva perfettamente unitariae omogenea che renderebbe inutile il momento della politica. Ilcarattere plurale e multiforme delle lotte sociali contemporaneeha finito col dissolvere il fondamento ultimo di tale immagina-rio politico. Popolato da soggetti “universali” e costruito con-cettualmente intorno alla Storia al singolare, esso ha postulato la“società” come una struttura intelligibile che potrebbe essereintellettualmente dominata sulla base di certe posizioni di clas-se e ricostituita, come ordine razionale e trasparente, attraversoun atto fondativo di carattere politico. Oggi la sinistra è testi-mone dell’atto finale della dissoluzione di tale immaginario gia-cobino.

Così, la ricchezza e la pluralità stesse delle lotte socialicontemporanee hanno dato luogo a una crisi teorica. È nel puntomedio di questo duplice movimento tra il teorico e il politico chesi collocherà il nostro discorso. In ogni momento abbiamo ten-tato di impedire che un descrittivismo impressionistico e socio-logistico, che vive dell’ignoranza delle condizioni della sua stes-sa discorsività, colmasse il vuoto teorico generato dalla crisi. Ilnostro scopo è stato l’esatto opposto: mettere a fuoco alcune

38

Page 39: opuscula /193 - Monoskop

39

categorie discorsive che, a prima vista, sembravano essere deipunti-di-condensazione privilegiati per molti aspetti della crisi,e dipanare il significato possibile di una storia nelle varie sfac-cettature di questa rifrazione multipla. Fin dall’inizio è statoescluso ogni eclettismo od oscillazione discorsiva. Come siafferma in un “manifesto” inaugurale del periodo classico,quando si entra in un nuovo territorio si deve seguire l’esempiodei “viaggiatori che, quando si trovano persi in qualche foresta,non devono né vagare, girando un po’ da una parte un po’ dal-l’altra, né fermarsi in un posto, ma camminare sempre il piùpossibile diritto nella stessa direzione, senza cambiarla perdeboli ragioni, quand’anche, all’inizio, fosse stato solo il caso adeterminarli nella scelta. In questo modo, infatti, se anche nonsi dirigono precisamente dove vogliono, perlomeno, alla fine,giungeranno da qualche parte, dove, verosimilmente, starannomeglio che nel mezzo di una foresta”1.

Il filo conduttore della nostra analisi sono state le trasfor-mazioni del concetto di egemonia, considerato come una super-ficie discorsiva e un punto nodale fondamentale della teoriapolitica marxista. La nostra conclusione principale è che dietroil concetto di “egemonia” sia nascosto qualcosa di più che untipo di relazione politica complementare alle categorie fonda-mentali della teoria marxista. L’egemonia introduce infatti unalogica del sociale incompatibile con queste ultime. Di fronte alrazionalismo del marxismo classico, che presentava la storia e lasocietà come totalità intelligibili costituite intorno a leggi espli-cabili concettualmente, la logica dell’egemonia si presenta findall’inizio come un’operazione complementare e contingente,richiesta da squilibri congiunturali all’interno di un paradigmaevoluzionista la cui validità essenziale o “morfologica” nonviene messa in questione nemmeno per un momento (uno deicompiti centrali di questo libro sarà di determinare questa logi-ca specifica della contingenza). Nel momento in cui le aree di

1. DESCARTES, Discorso sul metodo, tr. it. a cura di G. Belgioioso, in ID.,Opere 1637-1649, testo francese e latino a fronte, Bompiani, Milano 2009, p. 51.

Page 40: opuscula /193 - Monoskop

applicazione del concetto andavano ampliandosi, da Lenin aGramsci, si espandeva anche il campo delle articolazioni ege-moniche, e la categoria della “necessità storica” – che era statala pietra angolare del marxismo classico – si ritraeva nell’oriz-zonte della teoria. Come sosterremo negli ultimi due capitoli,l’espansione e la determinazione della logica sociale implicitanel concetto di “egemonia” – in una direzione che va molto oltreGramsci – ci fornisce un ancoraggio a partire dal quale le lottesociali contemporanee possono essere pensabili nella loro spe-cificità, così come ci permette di delineare una nuova politicaper la sinistra basata sul progetto di una democrazia radicale.

Resta aperta una questione: perché dovremmo affrontarequesto compito attraverso una critica e una decostruzione dellevarie superfici discorsive del marxismo classico? Diciamo anzi-tutto che non c’è un discorso e un sistema di categorie attraver-so il quale il “reale” possa parlare senza mediazioni. Operandodecostruttivamente all’interno delle categorie marxiste nonrivendichiamo di scrivere una “storia universale”, di inscrivere ilnostro discorso come un momento di un processo di conoscen-za unico, lineare. Proprio come è finita l’era delle epistemologienormative, così è giunta alla fine anche quella dei discorsi uni-versali. Le conclusioni politiche di questo libro potrebberoapprossimarsi a formazioni discorsive molto differenti – peresempio alcune forme di Cristianesimo o di discorsi libertariestranei alla tradizione socialista – nessuna delle quali potrebbeaspirare ad essere la verità della società (o “la filosofia insupe-rabile del nostro tempo”, come diceva Sartre). Per questa stessaragione, tuttavia, il marxismo è una delle tradizioni attraversocui diviene possibile formulare questa nuova concezione dellapolitica. Per noi, la validità di tale punto di partenza è basatasemplicemente sul fatto che esso rappresenta il nostro stessopassato.

Ma non è che ridimensionando le pretese e l’area di vali-dità della teoria marxista stiamo rompendo con qualcosa diprofondamente inerente a questa teoria, ovvero la sua aspirazio-ne monista a catturare con le sue categorie l’essenza o il signi-ficato soggiacente alla storia? La risposta non può che essere

40

Page 41: opuscula /193 - Monoskop

affermativa. Solo se rinunciamo a ogni prerogativa epistemolo-gica basata sulla posizione ontologicamente privilegiata di una“classe universale” sarà possibile discutere seriamente il gradopresente di validità delle categorie marxiste. A questo puntodovremmo ammettere chiaramente di trovarci su un terrenopost-marxista. Non è più possibile conservare la concezionedella soggettività e delle classi elaborata dal marxismo, né la suavisione del corso storico dello sviluppo capitalista, né di certo laconcezione del comunismo come società trasparente in cui gliantagonismi scompariranno. Ma se il nostro progetto intellet-tuale, in questo libro, è post-marxista, esso è anche, evidente-mente, post-marxista. È stato attraverso lo sviluppo di alcuneintuizioni e forme discorsive costituite all’interno del marxismo,insieme all’inibizione o alla rimozione di alcune altre, cheabbiamo costruito un concetto di egemonia che, nella nostraprospettiva, può essere un utile strumento nella lotta per unademocrazia radicale, libertaria e plurale. Qui il riferimento aGramsci, sebbene parzialmente critico, è di capitale importanza.Nel testo abbiamo cercato di riscoprire parte della varietà e dellaricchezza della discorsività marxista che nell’era della Secondainternazionale era stata tendenzialmente obliterata dall’immagi-ne impoverita e monolitica della corrente “marxista-leninista”,nell’era staliniana e in quella post-staliniana, e che ora vieneriprodotta, quasi intatta, sebbene con segno opposto, da alcuneforme contemporanee di “anti-marxismo”. Né i difensori di un“materialismo storico” glorioso, omogeneo e invulnerabile, né iprofessionisti di un anti-marxismo à la nouveaux philosophes, sirendono conto di quanto le loro apologie o le loro diatribe sianougualmente radicate in una concezione ingenua e primitiva delruolo e del grado di unità di una dottrina che, in tutte le suedeterminazioni essenziali, è ancora debitrice dell’immaginariostalinista. Il nostro approccio ai testi marxisti ha, al contrario,tentato di riscoprire la loro pluralità, di comprendere le numero-se sequenze discorsive – in misura considerevole eterogenee econtraddittorie – che costituiscono la loro struttura e ricchezzainterna e ne garantiscono la sopravvivenza come punto di riferi-mento per l’analisi politica. Il superamento di una grande tradi-

41

Page 42: opuscula /193 - Monoskop

42

zione intellettuale non ha mai luogo nella forma improvvisa delcollasso, ma in modo simile alle acque di un fiume che, origi-natesi da una fonte comune, fluiscono in varie direzioni e simescolano con correnti che sgirgano da altre fonti. È questo ilmodo in cui i discorsi che costituivano il campo del marxismoclassico possono contribuire a formare il pensiero di una nuovasinistra: lasciando in eredità alcuni dei loro concetti, trasfor-mando o abbandonandone altri, sciogliendosi nell’infinita inter-testualità dei discorsi emancipatori in cui prende forma la plu-ralità dei compiti sociali.

Page 43: opuscula /193 - Monoskop

43

IEGEMONIA: GENEALOGIA DI UN CONCETTO

Inizieremo tracciando la genealogia del concetto di “egemo-nia”. Dobbiamo però sottolineare una cosa: questa non sarà lagenealogia di un concetto dotato sin dall’inizio di una piena posi-tività. Usando piuttosto liberamente un’espressione di Foucault sipuò infatti dire che il nostro scopo è quello di tracciareun’“archeologia di un silenzio”. Il concetto di egemonia non èemerso con lo scopo di definire un nuovo tipo di relazione nellasua specifica identità, ma per riempire un vuoto che si era apertonella catena della necessità storica. “Egemonia” alluderà a unatotalità assente e ai vari tentativi di ricomposizione e riarticola-zione che, nel tentativo di superare questa assenza originaria, ren-dono possibile alle lotte di avere un senso e alle forze storiche didotarsi di una piena positività. I contesti nei quali il concettoapparirà saranno quelli caratterizzati da una faglia (nel senso geo-logico del termine), da una fenditura che deve essere riempita, dauna contingenza che deve essere superata. “Egemonia” non saràla maestosa apparizione di un’identità, ma la risposta a una crisi.

Il concetto di “egemonia”, anche nelle sue umili origininella socialdemocrazia russa, dove veniva utilizzato per coprireun’area limitata di effetti, allude già a una sorta di interventocontingente richiesto dalla crisi o dal collasso di quello chesarebbe stato un “normale” sviluppo storico. In seguito, con illeninismo, diventa una chiave di volta nella nuova forma del cal-colo politico richiesto dalle “situazioni concrete” contingentinelle quali si verifica la lotta di classe nell’età dell’imperialismo.Infine, con Gramsci, il termine acquista un nuovo tipo di centra-

Page 44: opuscula /193 - Monoskop

44

lità, che trascende i suoi usi tattici o strategici: “egemonia”diventa il concetto chiave per comprendere la stessa unità vigen-te in una concreta formazione sociale. Ognuna di queste esten-sioni del termine è stata comunque accompagnata da un’espan-sione di quella che possiamo provvisoriamente chiamare una“logica della contingenza”. A sua volta, questa espressione èderivata dalla frattura e dal ritiro dall’orizzonte esplicativo delsociale della categoria di “necessità storica”, che è stata la pietraangolare del marxismo della Seconda internazionale. Le alterna-tive al montare di questa crisi – e le diverse risposte, delle qualila teoria dell’egemonia è solo una tra le tante – saranno l’ogget-to del nostro studio.

I dilemmi di Rosa Luxemburg

Evitiamo ogni tentazione di tornare alle “origini”.Scegliamo semplicemente un momento nel tempo e proviamo aindividuare la presenza di quel vuoto che la logica dell’egemoniacercherà di riempire. Questo inizio arbitrario proiettato in unavarietà di direzioni ci offrirà, se non il senso di una traiettoria,almeno le dimensioni di una crisi. È nelle molteplici e ondulantiriflessioni nello specchio rotto della “necessità storica” che unanuova logica del sociale inizia a insinuarsi, una logica che riu-scirà a pensare se stessa solo mettendo in discussione la lettera-lità stessa dei termini che articola.

Nel 1906 Rosa Luxemburg pubblica Sciopero di massa,partito, sindacati. Una breve analisi di questo testo, che presentagià tutte le ambiguità e i punti critici del nostro tema, ci forniràun iniziale punto di riferimento. Rosa Luxemburg si occupa di unargomento specifico: l’efficacia e il significato dello sciopero dimassa come arma politica. Per lei, questo implica la considera-zione di due problemi vitali per la causa socialista: l’unità dellaclasse operaia e la strada per la rivoluzione in Europa. Lo scio-pero di massa, forma principale di lotta nella prima rivoluzionerussa, viene analizzato tanto nei suoi meccanismi specifici quan-to nelle sue possibili implicazioni per la lotta dei lavoratori in

Page 45: opuscula /193 - Monoskop

45

Germania. Le tesi di Rosa Luxemburg sono ben note: mentre ildibattito sull’efficacia dello sciopero di massa in Germania si eraconcentrato quasi esclusivamente sullo sciopero politico, l’espe-rienza russa aveva invece dimostrato un’interazione, un recipro-co e costante arricchimento, tra la dimensione politica e quellaeconomica dello sciopero di massa. Nel contesto repressivo delloStato zarista, nessun movimento di rivendicazioni parziali pote-va rimanere confinato in se stesso: si trasformava inevitabilmen-te in un esempio e in un simbolo di resistenza, alimentando efavorendo la nascita di altri movimenti. Questi movimenti emer-gevano in punti imprevedibili e tendevano a espandersi e a gene-ralizzarsi in forme imprevedibili, ponendosi oltre la capacità diregolazione e di organizzazione di ogni direzione politica o sin-dacale. Questo è il significato dello “spontaneismo” luxembur-ghiano. L’unità tra la lotta economica e quella politica – sarebbea dire l’unità stessa della classe operaia – è una conseguenza diquesto movimento di controeffetti e interazioni. Ma questo movi-mento, a sua volta, non è altro che il processo della rivoluzione.

Se ci spostiamo dalla Russia alla Germania, prosegue RosaLuxemburg, la situazione si presenta in modo assai diverso. Latendenza dominante è quella della frammentazione tra le variecategorie di lavoratori, tra le diverse rivendicazioni dei vari movi-menti, tra la lotta economica e quella politica.

È cioè soltanto nell’aria temporalesca del periodo rivoluzionario cheogni piccolo conflitto parziale fra lavoro e capitale può crescere finoalla dimensione di un’esplosione generale. In Germania si verificanoogni anno e ogni giorno gli scontri più accesi e più brutali fra operai eimprenditori, senza che la lotta valichi mai i confini dei singoli rispet-tivi rami d’industria [...]. Neppure uno solo però di questi casi si tra-sforma in una azione comune di classe. E se anche si sviluppano da séa singoli scioperi di massa, che indubbiamente hanno una tinta politi-ca, anche allora non accendono nessuna tempesta generale.1

1. R. LUXEMBURG, Sciopero di massa, partito, sindacati, in Id., Scrittipolitici, a cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 332.

Page 46: opuscula /193 - Monoskop

46

Questo isolamento e questa frammentazione non rappresen-tano un evento contingente: sono invece un effetto strutturaledello Stato capitalistico, che può essere superato solo in un’at-mosfera rivoluzionaria.

Infatti la divisione fra lotta politica e sindacale, e l’indipendenza dientrambe non è che un prodotto artificioso, quantunque storicamentecondizionato, del periodo parlamentare. Da un lato in questo periodo,nel corso tranquillo, “normale” della società borghese, la lotta econo-mica viene spezzettata, dissolta in una molteplicità di singole lotte inogni impresa, in ogni branca della produzione. Dall’altro lato la lottapolitica non viene condotta dalla massa stessa in una azione diretta, masecondo le forme dello Stato borghese, per via rappresentativa,mediante la pressione sulle rappresentanze legislative.2

In queste condizioni – e dato che lo scoppio rivoluzionarioin Russia può essere spiegato da fattori come la relativa arretra-tezza del paese, l’assenza di libertà politiche o la povertà del pro-letariato russo – le prospettive per una rivoluzione in Occidentenon vengono posposte sine die? Qui, man mano che assume unaforma precisa, la risposta di Rosa Luxemburg si fa esitante emeno convincente: il tentativo è quello di minimizzare le diffe-renze tra il proletariato russo e quello tedesco, mostrando le areedi povertà e l’assenza di organizzazione nei vari settori dellaclasse operaia tedesca, così come la presenza del fenomenoinverso nei settori più avanzati del proletariato russo. Ma cosasignificavano queste sacche di arretratezza in Germania? Non sitrattava di settori residuali che dovevano essere spazzati via dallosviluppo capitalistico? E in questo caso, cosa garantiva l’emer-gere di una situazione rivoluzionaria? La risposta alla nostradomanda – Rosa Luxemburg non la formula mai, da nessunaparte, in questo testo – ci viene data in modo secco e inequivo-cabile qualche pagina dopo:

(la socialdemocrazia) deve, come sempre, precorrere lo sviluppo dellecose, cercare di affrettarlo. Ma essa non può farlo distribuendo

2. Ivi, p. 356.

Page 47: opuscula /193 - Monoskop

47

improvvisamente, al momento giusto o sbagliato, la “parola d’ordine”campata per aria di uno sciopero generale, ma innanzi tutto chiarendoai più vasti strati proletari la venuta inevitabile di questo periodo rivo-luzionario, i momenti sociali interni che ad esso conducono e le con-seguenze politiche.3

Le “inevitabili leggi dello sviluppo capitalistico” si affer-mano quindi come garanzia per la futura situazione rivoluziona-ria in Germania. Ora è tutto più chiaro: siccome non c’erano piùmiglioramenti democratico-borghesi da ottenere in Germania(sic), l’avvento di una situazione rivoluzionaria poteva prodursisolamente in una direzione socialista; il proletariato russo – lot-tando contro l’assolutismo, ma in un contesto storico dominatodalla maturità del capitalismo mondiale che gli impediva di sta-bilizzare le sue stesse lotte al livello dello stadio borghese – eral’avanguardia del proletariato europeo e indicava alla classe ope-raia tedesca il suo futuro. Il problema delle differenze tra Orientee Occidente, così importante nei dibattiti sulla strategia del socia-lismo europeo da Bernstein a Gramsci, veniva qui risolto elimi-nandolo.4

Analizziamo i diversi momenti di questa notevole sequenza.Rispetto al meccanismo costitutivo dell’unità di classe, la posi-zione di Rosa Luxemburg è chiara: nella società capitalista laclasse operaia è inevitabilmente frammentata e la ricomposizio-ne della sua unità si verifica solamente attraverso il processostesso della rivoluzione. Tuttavia, la forma di questa ricomposi-

3. Ivi, p. 347.4. È importante notare come l’intervento di Bernstein nel dibattito tede-

sco sullo sciopero di massa (Der Politische Massenstreik und die Politische Lageder Sozialdemokratie in Deutschland) rimandi a due differenze fondamentali traOriente e Occidente – la complessità e la resistenza della società civile inOccidente e la debolezza dello Stato in Russia – che più tardi saranno al centrodel lavoro di Gramsci. Per una panoramica sul tema si veda M. SALVADORI, Lasocialdemocrazia tedesca e la rivoluzione russa del 1905. Il dibattito sullo scio-pero di massa e sulle differenze fra Oriente e Occidente, in E.J. HOBSBAWM (etal.), Storia del marxismo, Vol. 2, Einaudi, Torino 1979, pp. 547-94.

Page 48: opuscula /193 - Monoskop

48

zione rivoluzionaria consiste in un meccanismo specifico chenon ha niente a che vedere con una spiegazione meccanicistica.È qui che lo spontaneismo entra in gioco. Si può pensare che lateoria “spontaneista” affermi semplicemente l’impossibilità diprevedere la direzione di un processo rivoluzionario, data lacomplessità e la diversità delle forme che può assumere. Ma que-sta spiegazione è insufficiente. Quello che è in gioco non è sol-tanto la complessità e la diversità inerenti alla dispersione dellelotte – quando queste sono viste dal punto di vista di un analistao di un leader politico – ma anche la costituzione dell’unità delsoggetto rivoluzionario sulla base di questa complessità e di que-sta diversità. Già questo ci mostra come, nel cercare di determi-nare il significato dello “spontaneismo” luxemburghiano, nondobbiamo concentrarci solo sulla pluralità delle forme di lotta,ma anche sulle relazioni che queste stabiliscono tra loro e suglieffetti unificanti che ne derivano. E qui il meccanismo di unifi-cazione è chiaro: in una situazione rivoluzionaria è impossibilefissare il senso letterale di ogni lotta isolata, perché ogni lottaeccede la sua stessa letteralità e finisce per rappresentare, nellacoscienza delle masse, un momento singolo di una lotta piùgenerale contro il sistema. E così succede che, mentre in unperiodo di stabilità la coscienza di classe del lavoratore – comecoscienza globale costituita attorno ai suoi “interessi generali” –è “latente” e “teorica”, in una situazione rivoluzionaria diventa“attiva” e “pratica”. Così, in una situazione rivoluzionaria, ilsignificato di ogni mobilitazione appare, per così dire, scisso:oltre che le sue rivendicazioni letterali specifiche, ogni mobilita-zione rappresenta il processo rivoluzionario nel suo insieme, equesti effetti totalizzanti sono visibili nella surdeterminazione dialcune lotte da parte di altre. Questa, tuttavia, non è altro che lacaratteristica specifica del simbolo: l’eccedere del significatorispetto al significante.5 L’unità della classe è perciò un’unità

5. Cfr. T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. De Vecchi, Garzanti,Milano 1991, p. 320. “Si potrebbe dunque dire che vi è condensazione ognivolta che un solo significante ci induce alla conoscenza di più di un significato;

Page 49: opuscula /193 - Monoskop

49

simbolica. Questo è senza dubbio il punto più alto nell’analisidella Luxemburg e quello che ne stabilisce la massima distanzadai teorici ortodossi della Seconda internazionale (per i quali l’u-nità di classe è stabilita semplicemente dalle leggi della strutturaeconomica). Sebbene in molte altre analisi dello stesso periodoun ruolo venga dato alla contingenza – eccedendo il momentodella teorizzazione “strutturale” – pochi testi quanto quelli diRosa Luxemburg si spingono tanto avanti nel determinare i mec-canismi specifici di questa contingenza e nel riconoscere la por-tata dei suoi effetti pratici.6

Da una parte l’analisi di Rosa Luxemburg ha moltiplicato imomenti di antagonismo e le forme di lotta – che d’ora in poichiameremo posizioni soggettive – fino al punto da distruggereogni capacità di controllo e di pianificazione di queste lotte daparte di un sindacato o di una direzione politica; dall’altra ha pro-posto la surdeterminazione simbolica come un meccanismo con-creto per l’unificazione di queste lotte. Da qui però iniziano iproblemi, perché per Rosa Luxemburg questo processo di surde-terminazione istituisce un’unità molto precisa: un’unità di clas-se. Eppure, nella teoria dello spontaneismo, non c’è niente chesupporti logicamente questa conclusione. Al contrario, la stessalogica dello spontaneismo sembra implicare che il tipo conse-guente di soggetto unitario debba rimanere per lo più indetermi-nato. Nel caso dello Stato zarista, se la condizione di surdeter-minazione dei punti di antagonismo e le diverse lotte formano uncontesto politico repressivo, perché i limiti di classe non posso-

o più semplicemente: ogni volta che il significato eccede rispetto al significan-te. Già in questo modo definiva il simbolo il grande mitologo romanticoCreuzer: mediante ‘l’inadeguatezza dell’essere e della forma e l’eccedenza delcontenuto rispetto alla sua espressione’”.

6. Anche se il lavoro di Rosa Luxemburg rappresenta il punto più altonell’elaborazione teorica del meccanismo dello sciopero di massa, quest’ultimovenne pensato come la forma fondamentale di lotta da tutta la Neue Linke. Siveda per esempio A. PANNEKOEK, Marxist Theory and Revolutionary Tactics, inD.A. SMART, Pannekoek and Gorter’s Marxism, Pluto Press, London 1978, pp.50-73.

Page 50: opuscula /193 - Monoskop

50

no essere superati nella direzione di una costruzione, ad esempio,di soggetti parziali unificati la cui determinazione fondamentalesia popolare o democratica? Nello stesso testo della Luxemburg– malgrado la rigidità dogmatica dell’autrice, per la quale ognisoggetto deve essere un soggetto di classe – appare più volte ilsuperamento delle categorie di tipo classista.

Per tutta la primavera del 1905 e fino all’estate inoltrata fermentò intutto il gigantesco impero un’instancabile lotta economica di tutto ilproletariato contro il capitale, una lotta che in alto abbracciò tutte leprofessioni piccolo-borghesi e liberali, impiegati di commercio, fun-zionari di banca, tecnici, attori di teatro, professioni artistiche, e inbasso penetrò fin nella servitù domestica, nei gradi subalterni dellapolizia, persino negli strati del sottoproletariato, e contemporanea-mente dilagò dalla città nella campagna e finanche bussò alle ferreeporte delle caserme.7

Cerchiamo di essere chiari rispetto al significato della nostradomanda: se l’unità della classe operaia fosse un dato strutturalecostituito fuori dal processo di surdeterminazione rivoluzionaria,il problema riguardante il carattere di classe del soggetto rivolu-zionario non si porrebbe. Difatti, sia la lotta politica sia quellaeconomica sarebbero espressioni simmetriche di un soggetto diclasse costituito anteriormente alle lotte stesse. Ma se l’unità èquesto processo di surdeterminazione, allora deve essere data unaspiegazione indipendente del motivo per cui dovrebbe esserci unasovrapposizione necessaria tra la soggettività politica e le posi-zioni di classe. Sebbene Rosa Luxemburg non offra una spiega-zione di questo tipo – non avvertendo in realtà nemmeno il pro-blema – il suo background di pensiero chiarisce quale sarebbestata la sua interpretazione: ovvero un’affermazione del caratterenecessario delle leggi oggettive dello sviluppo capitalistico, checonducono a una crescente proletarizzazione della classe media edei contadini e, così, al confronto diretto tra la borghesia e il pro-

7. Luxemburg, cit., p. 314.

Page 51: opuscula /193 - Monoskop

51

letariato. Di conseguenza, gli effetti innovativi della logica dellospontaneismo appaiono rigorosamente limitati sin dall’inizio.8

Non c’è dubbio che gli effetti sono così limitati perché l’a-rea sulla quale questi operano è estremamente circoscritta. Maanche perché, in un secondo e più importante senso, la logicadello spontaneismo e la logica della necessità non convergonocome due principi distinti e positivi per spiegare le situazioni sto-riche, ma funzionano al contrario come logiche antitetiche, cheinteragiscono l’una con l’altra solo attraverso la limitazione reci-proca dei loro effetti. Esaminiamo ora con attenzione il puntodove divergono. La logica dello spontaneismo è una logica delsimbolo, nel senso che funziona esattamente attraverso l’interru-zione di ogni significato letterale. La logica della necessità èinvece una logica del letterale: opera attraverso fissazioni che,proprio perché necessarie, stabiliscono un significato che elimi-na ogni variazione contingente. In questo caso, tuttavia, la rela-zione tra le due logiche è una relazione di frontiere, che possono

8. Una serie di studi hanno recentemente discusso il carattere fatalisticoo non-fatalistico dello spontaneismo luxemburghiano. Secondo la nostra opi-nione, tuttavia, questi studi hanno enfatizzato troppo un problema relativamen-te secondario: quello dell’alternativa tra il crollo meccanico e l’intervento con-sapevole della classe. L’affermazione che il capitalismo crollerà meccanicamen-te è tanto assurda che, per quanto ne sappiamo, nessuno l’ha mai sostenuta. Ilproblema determinante è invece quello di sapere se il soggetto della lotta anti-capitalista costituisce o meno interamente la sua identità all’interno delle rela-zioni capitalistiche di produzione, e rispetto a questo la posizione di RosaLuxemburg è inequivocabilmente affermativa. Per questa ragione le affermazio-ni sull’inevitabilità del socialismo non sono semplicemente concessioni allaretorica del tempo, o il risultato di una necessità psicologica come sostieneNorman Geras (cfr. N. GERAS, The legacy of Rosa Luxemburg, Verso, London1976, p. 36), ma piuttosto il punto nodale che dà significato alla sua intera strut-tura teorica e strategica. Come per Rosa Luxemburg l’avvento del socialismodeve essere spiegato interamente sulla base della logica dello sviluppo capitali-stico, così il soggetto rivoluzionario può essere solo la classe operaia (sullafedeltà dogmatica della Luxemburg alla teoria dell’impoverimento di Marxcome base per la determinazione rivoluzionaria della classe operaia si veda G.BAIDA, L’analisi dello sviluppo capitalistico in Rosa Luxemburg, Annali,Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1974, p. 252).

Page 52: opuscula /193 - Monoskop

52

espandersi nell’una o nell’altra direzione, ma che non superanomai l’irriducibile dualismo introdotto nell’analisi.

In realtà, siamo qui alle prese con l’emergere di un duplicevuoto. Vista dalla categoria della necessità, la dualità delle logi-che si fonda sull’opposizione determinabile/indeterminabile:indica quindi soltanto i limiti operativi di quella categoria. Ma lastessa cosa accade dal punto di vista dello spontaneismo: ilcampo della “necessità storica” si presenta come un limite al fun-zionamento del simbolico. I limiti sono, concretamente, limita-zioni. Se la specificità di questa limitazione degli effetti non èimmediatamente evidente è perché viene pensata come una con-fluenza di due principi esplicativi positivi e diversi, ognuno vali-do nel proprio ambito, e non invece in relazione a quello cherealmente sono: l’uno l’opposto puramente negativo dell’altro. Ilduplice vuoto creato dal dualismo diventa così invisibile. Marendere un vuoto invisibile non è la stessa cosa che colmarlo.

Prima di esaminare le forme mutevoli di questo duplicevuoto, potremmo posizionarci per un momento al suo interno egiocare l’unico gioco che ci permette: quello di spostare le fron-tiere che separano le due opposte logiche. Se allarghiamo l’areacorrispondente alla necessità storica, il risultato è una ben notaalternativa: o il capitalismo conduce, attraverso le sue legginecessarie, alla proletarizzazione e alla crisi, oppure queste legginecessarie non funzionano come previsto, nel qual caso, seguen-do la stringente logica del discorso luxemburghiano, la fram-mentazione tra le diverse posizioni soggettive cessa di essere un“prodotto artificiale” dello Stato capitalistico e diventa una realtàpermanente. È il gioco a somma zero intrinseco a tutte le conce-zioni economiciste e riduzioniste. Se, al contrario, spostiamo ilconfine nella direzione opposta, fino al punto in cui la natura diclasse dei soggetti politici perde il suo carattere necessario, lospettacolo che ci appare davanti agli occhi non è del tutto imma-ginario: si tratta delle forme originali di surdeterminazioneassunte dalle lotte sociali nel Terzo Mondo, nelle quali la costru-zione delle identità politiche ha poco a che fare con i rigidi con-fini di classe; è l’ascesa del fascismo, che fece sparire brutal-mente l’illusione del carattere necessario di alcune articolazioni

Page 53: opuscula /193 - Monoskop

53

di classe; sono le nuove forme di lotta nei paesi a capitalismoavanzato, all’interno delle quali negli ultimi decenni abbiamoassistito all’emergere costante di nuove forme di soggettivitàpolitica che tagliano trasversalmente le categorie della strutturasociale ed economica. Il concetto di “egemonia” emergerà preci-samente in un contesto dominato dall’esperienza della frammen-tazione, dall’indeterminatezza delle articolazioni tra le diverselotte e le diverse posizioni soggettive. Offrirà una risposta socia-lista in un universo politico-discorsivo che ha assistito al ritrarsidella categoria della “necessità” dall’orizzonte del sociale. Neltrattare i tentativi da affrontare la crisi di un monismo essenzia-lista attraverso una proliferazione di dualismi – libero arbi-trio/determinismo; scienza/etica, individuo/collettività, causa-lità/teleologia – la teoria dell’egemonia baserà la sua risposta suuno spostamento di quel terreno che rende possibile la stessaalternativa monismo/dualismo.

Un’ultima considerazione prima di lasciare RosaLuxemburg. La limitazione degli effetti che le “leggi necessarie”producono nel suo discorso funziona anche in un’altra importan-te direzione: come limitazione delle conclusioni politiche deriva-bili dalle “tendenze osservabili” nel capitalismo avanzato. Ilruolo della teoria non è di elaborare intellettualmente le tenden-ze osservabili della frammentazione e della dispersione, ma digarantire che queste tendenze abbiano un carattere transitorio.C’è una divisione tra “teoria” e “pratica” che è il chiaro sintomodi una crisi. Questa crisi – per la quale l’emergeredell’“ortodossia” marxista è solo una delle soluzioni – è il puntodi inizio della nostra analisi. Ma per identificare il paradigma cheentra in crisi dobbiamo però posizionarci in un punto preceden-te a questo inizio. Per fare questo possiamo rivolgerci a un docu-mento di eccezionale chiarezza e sistematicità: il commento diKautsky del 1892 al Programma di Erfurt, il famoso manifestodella socialdemocrazia tedesca.9

9. K. KAUTSKY, Il programma di Erfurt, introduzione di A.G. Ricci,Samonà e Savelli, Roma 1971.

Page 54: opuscula /193 - Monoskop

54

La crisi al grado zero

Il programma di Erfurt è un tipico testo kautskiano che pro-pone un’indissociabile unità di teoria, storia e strategia.10 Rilettooggi appare certo un testo estremamente naïf e semplicistico.Bisogna però indagare le diverse dimensioni di questa sempli-cità, per poter capire sia le caratteristiche strutturali del paradig-ma sia le ragioni che lo portano alla crisi nel passaggio al nuovosecolo.

Il paradigma è semplice, in un senso primario e letterale, inquanto Kautsky stesso lo presenta, abbastanza esplicitamente,come una teoria della crescente semplificazione della strutturasociale e degli antagonismi al suo interno. La società capitalistaprogredisce nella direzione di una crescente concentrazione dellaproprietà e della ricchezza nelle mani di poche imprese, e unarapida proletarizzazione dei più svariati strati sociali e categorieprofessionali si accompagna al crescente impoverimento dellaclasse operaia. Questo impoverimento, e le leggi necessarie dellosviluppo capitalistico che sono alla sua origine, impediscono unareale autonomizzazione delle sfere e delle funzioni all’internodella classe operaia: la lotta economica può avere solo successiparziali e precari, e questo porta alla subordinazione de facto delsindacato al partito, l’unico che può modificare sostanzialmentela posizione del proletariato attraverso la conquista del poterepolitico. Anche le circostanze o i momenti strutturali dellasocietà capitalistica mancano di ogni forma relativa di autono-mia. Lo Stato, per esempio, è raffigurato nei termini del più cras-

10. “Lo scopo di tutta la sua battaglia contro il revisionismo era statoquello di preservare una concezione del programma inteso non come comples-so di rivendicazioni politiche determinate, destinate a stabilire la iniziativa delpartito in specifiche fasi di lotta, in quanto tali volta a volta modificabili, macome un blocco indissolubile di teoria e politica, all’interno del quale i due ter-mini perdevano i rispettivi campi di autonomia e il marxismo diveniva ideologiafinalistica del proletariato” (L. PAGGI, Intellettuali, teoria e partito nel marxismodella Seconda Internazionale, introduzione a M. ADLER, Il socialismo e gli intel-lettuali, a cura di L. Paggi, De Donato, Bari 1974, p. 14).

Page 55: opuscula /193 - Monoskop

55

so strumentalismo. Così, la semplicità del paradigma kautskianoconsiste, prima di tutto, in una semplificazione del sistema delledifferenze strutturali costitutive della società capitalistica.

Il paradigma kautskiano è però semplice anche in un secon-do senso, che viene citato meno di frequente e che è invece dicruciale importanza per la nostra analisi. Qui il problema non ètanto che il paradigma riduca il numero delle differenze struttu-rali pertinenti, ma piuttosto che fissi queste differenze tramitel’attribuzione a ognuna di un significato unico, pensato come unaposizione precisa all’interno di una totalità. Letta nel primosenso, l’analisi kautskiana era semplicemente economicista eriduzionista; ma se questo fosse stato il suo unico problema, ilcorrettivo avrebbe potuto essere semplicemente quello di intro-durre le “autonomie relative” del politico e dell’ideologico, ren-dendo l’analisi più complessa tramite la moltiplicazione dei casiall’interno di una topografia del sociale. Così ognuno di questicasi in moltiplicazione, o momenti strutturali, avrebbe avutoun’identità tanto fissa e singolare quanto quella dei casi delparadigma kautskiano.

Per mostrare questa unicità del significato, vediamo comeKautsky spiega la relazione tra la lotta economica e quella poli-tica:

Si è voluto opporre la lotta politica a quella economica e si è dichiara-to necessario che il proletariato si occupi esclusivamente dell’una odell’altra. In realtà non è possibile separarle l’una dall’altra. La lottaeconomica esige quei diritti politici di cui abbiamo parlato, e che perònon cadono dal cielo ma hanno bisogno della più energica attività poli-tica per essere conquistati ed affermati. La stessa lotta politica è d’al-tra parte in ultima analisi anche una lotta economica.11

Anche Rosa Luxemburg affermava l’unità dei due tipi dilotta, ma muoveva da una differenza iniziale, e l’unità era un’u-nificazione, il risultato di una surdeterminazione di elementi

11. K. KAUTSKY, Il programma di Erfurt, cit., p. 175.

Page 56: opuscula /193 - Monoskop

56

discreti senza alcuna forma di articolazione fissa o a priori. PerKautsky l’unità è invece un punto di partenza: la classe operaialotta sul terreno della politica in virtù di un calcolo economico.È quindi possibile passare da una lotta all’altra attraverso unatransizione puramente logica. Nel caso di Rosa Luxemburg, ognilotta aveva più di un significato; come abbiamo già visto, ognilotta veniva duplicata in una seconda dimensione simbolica. Enemmeno il suo significato era fissato: dipendeva dalle articola-zioni variabili che, nella sua prospettiva spontaneista, rifiutavanoogni determinazione a priori (dentro i limiti che abbiamo segna-lato). Kautsky semplifica invece il significato di ogni antagoni-smo o elemento sociale riducendo entrambi a una specifica posi-zione strutturale, già fissata dalla logica del modo di produzionecapitalistico. La storia del capitalismo descritta ne Il programmadi Erfurt consiste in una pura relazione di interiorità. Si può pas-sare dalla classe operaia ai capitalisti, dalla sfera economica aquella politica, dalla manifattura al capitalismo monopolisticosenza per questo dover abbandonare per un solo istante la razio-nalità e l’intelligibilità interna di un paradigma chiuso. Il capita-lismo ci si presenta senza dubbio come agente su di una realtàsociale a esso esterna, ma questa realtà sociale semplicemente sidissolve una volta che questo vi entra in contatto. Il capitalismocambia, ma questo mutamento non è altro che lo sviluppo dellesue tendenze endogene e delle sue contraddizioni. Qui la logicadella necessità non è limitata da alcunché: è questo che fa de Ilprogramma di Erfurt un testo pre-crisi.

Infine, la semplicità del paradigma è tale anche in una terzadimensione, quella che fa riferimento al ruolo della teoria stessa.Se compariamo questo testo del giovane Kautsky con altri testiappartenenti a una tradizione marxista precedente o successiva,troviamo che contiene una caratteristica piuttosto sorprendente:non si presenta come un intervento per svelare il senso nascostodella storia, ma come la sistematizzazione e la generalizzazionedi un’esperienza trasparente, che è lì, disponibile, sotto gli occhidi tutti. Siccome non c’è alcun geroglifico sociale da decifrare,c’è una perfetta corrispondenza tra la teoria e le pratiche delmovimento operaio. A proposito della costituzione dell’unità di

Page 57: opuscula /193 - Monoskop

57

classe, Adam Przeworski ha sottolineato la peculiarità del testo diKautsky: mentre Marx, a partire dall’epoca della Miseria dellafilosofia, presentava l’unità dell’inserimento economico e del-l’organizzazione politica della classe operaia come un processoincompiuto – era questo lo iato che la distinzione tra “classe insé” e “classe per sé” cercava di colmare – Kautsky ragionavacome se la classe operaia avesse già completato la formazionedella sua unità.

Sembra che Kautsky credesse che nel 1890 la costituzione del prole-tariato in classe fosse un fatto compiuto; era già formato come classee così sarebbe rimasto nel futuro. Il proletariato organizzato non dove-va fare altro che perseguire la sua missione storica, e il partito potevasolo concorrere a questa realizzazione.12

In modo analogo, quando Kautsky parla della crescente pro-letarizzazione e del crescente impoverimento, dell’inevitabilecrisi del capitalismo o dell’avvento necessario del socialismo,non sembra parlare di potenziali tendenze rivelate dall’analisi,ma di realtà empiricamente osservabili nei primi due casi, e diuna transizione di breve periodo nel terzo. Nonostante la neces-sità sia la categoria dominante nel suo discorso, la sua funzionenon è quella di garantire un significato che va oltre l’esperienza,ma di sistematizzare l’esperienza stessa.

Ora, malgrado la combinazione di elementi che sta alla basedi questo ottimismo e di questa semplicità sia presentata comeparte di un processo universale di costituzione di classe, essa rap-presenta in realtà solamente il coronamento di un’assai specificaformazione storica della classe operaia tedesca. In primo luogo,l’autonomia politica della classe operaia tedesca era il risultato didue fallimenti: quello della borghesia tedesca, dopo il 1849, diporsi come forza egemonica di un movimento liberal-democrati-

12. A. PRZEWORSKI, Proletariat into a Class. The process of ClassFormation from Karl Kautsky’s The Class Struggle to Recent Controversies, inPolitics & Society, Vol. 7, n. 4, 1977.

Page 58: opuscula /193 - Monoskop

58

co, e quello del tentativo corporativo lassalliano di integrare laclasse operaia nello Stato bismarkiano. In secondo luogo, lagrande depressione del 1873-96, e la conseguente insicurezzaeconomica che colpì tutti gli strati sociali, alimentò un generaleottimismo sull’imminente crollo del capitalismo e sull’avventodella rivoluzione proletaria. In terzo luogo, la classe operaiaaveva un basso grado di complessità strutturale: i sindacati erano,allo stato embrionale, subordinati al partito sia politicamente chefinanziariamente, e nel contesto di una depressione lunga unventennio le prospettive per un miglioramento delle condizionidei lavoratori attraverso l’attività sindacale sembravano estrema-mente limitate. Solo con grande difficoltà la Commissione gene-rale dei sindacati tedeschi (Allgemeinen DeutschenGewerkschaftsbundes, ADGB), fondata nel 1890, fu capace diimporre la sua egemonia sul movimento operaio, contro la resi-stenza dei potenti sindacati locali e lo scetticismo generale dellasocialdemocrazia.13

In queste condizioni l’unità e l’autonomia della classe ope-raia, come il crollo del sistema capitalistico, apparivano quasi unfatto dell’esperienza. Erano questi i parametri di lettura che dava-no al discorso kautskiano la sua ammissibilità. In realtà, tuttavia,questa situazione era peculiare della Germania – o, al limite, tipi-ca di alcuni paesi europei dove la borghesia liberale era debole –e non corrispondeva certo a quei processi di formazione dellaclasse operaia nei paesi con una forte tradizione liberale

13. Per esempio, al congresso della SPD, a Colonia nel 1893, Legien pro-testava contro le dichiarazioni del Vorwärts, secondo le quali “la lotta per il pote-re politico resta, in ogni momento, la più importante, mentre la lotta economicatrova sempre gli operai profondamente divisi, e quanto più disperata è la situa-zione, tanto più acuta e nociva diviene la divisione. La lotta in scala ridottaavrebbe certamente i suoi vantaggi, ma sarebbero di secondaria importanza perl’obiettivo finale del partito”. Legien poneva il seguente interrogativo: “Le tesiproposte dall’organo del partito sono adeguate per attrarre gli operai indifferen-ti verso il movimento? Ne dubito seriamente” (Citato nell’antologia di docu-menti sulla relazione tra partito e sindacati a cura di Nicola Benvenuti, Partito esindacati in Germania, 1890-1914, La pietra, Milano 1981, pp. 70-71).

Page 59: opuscula /193 - Monoskop

59

(Inghilterra) o democratico-giacobina (Francia), o dove le iden-tità etniche e religiose erano predominanti rispetto a quelle diclasse (Stati Uniti). Ma finché, nella vulgata marxista, la storia simuoveva verso una semplificazione sempre maggiore degli anta-gonismi sociali, l’estremo isolamento e il corso contrastato delmovimento operaio tedesco avrebbe acquisito il prestigio di unparadigma verso il quale altre situazioni nazionali che figurava-no solo come approssimazioni inadeguate, avrebbero dovutoconvergere.14

La fine della depressione portò all’inizio della crisi di que-sto paradigma. La transizione al “capitalismo organizzato”, e l’e-poca di prosperità che durò fino al 1914, resero incerta la pro-spettiva di una “crisi generale del capitalismo”. In queste nuovecondizioni, una serie di vittoriose lotte economiche sindacali per-misero ai lavoratori di consolidare il loro potere organizzativo ela loro influenza sulla socialdemocrazia. Ma, a questo punto, ini-ziò a manifestarsi una costante tensione tra i sindacati e la dire-zione politica all’interno del partito, tale che l’unità e la risolu-tezza socialista della classe operaia si fecero sempre più proble-matiche. In tutti i settori della società si realizzava un’autono-mizzazione delle sfere, la quale implicava che ogni tipo di unitàpoteva essere realizzata solamente attraverso instabili e comples-se forme di riarticolazione. Da questa nuova prospettiva si mate-rializzava un serio interrogativo rispetto all’apparentemente logi-ca e semplice sequenza dei diversi momenti strutturali del para-digma kautskiano tracciato nel 1892. Siccome la relazione tra lateoria e il programma politico era di totale implicazione, la crisipolitica si riprodusse come crisi teorica. Nel 1898 Thomas

14. Questo modo di trattare il problema dell’unità della classe, secondo ilquale le deviazioni da un paradigma sono concettualizzate nei termini di “osta-coli” contingenti e “impedimenti” alla sua piena validità, continua a dominarealcune tradizioni storiografiche. Mike Davis, ad esempio, in un articolo moltointeressante e stimolante (Why the US Working Class is Different, in “New LeftReview”, 123, set.-ott. 1980), mentre mostra le specificità della formazionedella classe operaia americana, concettualizza queste specificità come deviazio-ne da uno schema normale che, a un certo punto della storia, alla fine si imporrà.

Page 60: opuscula /193 - Monoskop

60

Masaryk coniò un’espressione che presto divenne famosa: “crisidel marxismo”.

Questa crisi, che fece da sfondo a tutti i dibattiti marxisti dalvolgere del nuovo secolo fino alla prima guerra mondiale, sem-bra essere stata caratterizzata da due momenti fondamentali: lanuova consapevolezza dell’opacità del sociale, della complessitàe della resistenza di un capitalismo sempre più organizzato, e laframmentazione delle diverse posizioni degli agenti sociali, chesecondo il paradigma classico avrebbero dovuto essere unite.15 Inun famoso passo della lettera a Lagardelle, Antonio Labriolaall’inizio del dibattito sul revisionismo, affermava:

In verità, al di sotto di tutto questo rumore di disputa, c’è una questio-ne grave ed essenziale: le speranze ardenti, vivissime, precoci di qual-che anno fa – quelle aspettative dai dettagli e dai contorni troppo pre-cisi – vengono a cozzare ora contro la più complicata resistenza deirapporti economici e contro i più imbrogliati congegni del mondo poli-tico.16

Sarebbe sbagliato giudicare questa crisi meramente transi-toria; al contrario, il marxismo smarrì definitivamente la suainnocenza in quel periodo. Nella misura in cui la sequenza para-digmatica delle sue categorie era soggetta alla “pressione struttu-rale” di situazioni sempre più atipiche, diventava sempre più dif-ficile ridurre le relazioni sociali a momenti strutturali interni aqueste categorie. Una proliferazione di cesure e discontinuità ini-ziò a rompere l’unità di un discorso che si considerava profon-damente monista. Da allora in avanti il problema del marxismo èstato quello di pensare quelle discontinuità e, al tempo stesso, di

15. Dobbiamo precisare che quando parliamo di “frammentazione” o“dispersione” lo facciamo sempre in riferimento a un discorso che postula l’u-nità degli elementi frammentati e dispersi. Se questi “elementi” non sono consi-derati in riferimento a un discorso, l’uso di termini come “dispersione” e “fram-mentazione” non ha alcun senso.

16. A. LABRIOLA, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma1977, p. 302.

Page 61: opuscula /193 - Monoskop

61

cercare forme per ricostituire l’unità di elementi disseminati edeterogenei. Le transizioni tra i diversi momenti strutturali hannoperso la loro originaria trasparenza logica, rivelando un’opacitàche si riferisce alle relazioni contingenti e faticosamente costrui-te. La specificità delle diverse risposte alla crisi di questo para-digma risiede nel modo di concepire il momento relazionale, lacui importanza cresce nella misura in cui la sua natura diventameno evidente. Ciò è quello che dobbiamo analizzare ora.

La prima risposta alla crisi: la formazione dell’ortodossiamarxista

L’ortodossia marxista, così per come si presenta in Kautskye Plekhanov, non è una semplice estensione del marxismo classi-co. Ne rappresenta invece una particolare modulazione, caratte-rizzata dal nuovo ruolo assegnato alla teoria. Invece di servire asistematizzare le tendenze storiche osservabili – come era neltesto kautskiano del 1892 – la teoria si erige a garanzia che que-ste tendenze coincideranno alla fine con il tipo di articolazionesociale proposto dal paradigma marxista. In altri termini, l’orto-dossia si costituisce sul terreno di una crescente frattura fra lateoria marxista e la pratica politica della socialdemocrazia. Sonole leggi di movimento della struttura, garantite dalla “scienza”marxista, che preparano il terreno per il superamento di questafrattura, e che assicurano sia il carattere transitorio delle tenden-ze attuali sia la futura ricostituzione rivoluzionaria della classeoperaia.

Esaminiamo a questo proposito la posizione di Kautskyrispetto al rapporto tra partito e sindacati, così per come è enun-ciata nella controversia con i teorici del movimento sindacale.17

Kautsky è assolutamente consapevole delle forti tendenze alla

17. Gli scritti principali di Kautsky su questo tema sono contenuti nel-l’antologia a cura di N. BENVENUTI, Partito e sindacati in Germania, 1890-1914,cit.

Page 62: opuscula /193 - Monoskop

62

frammentazione presenti nella classe operaia tedesca: il sorgeredi un’aristocrazia operaia, la contrapposizione tra lavoratori sin-dacalizzati e non sindacalizzati, gli interessi contrapposti dellevarie categorie salariali, la cosciente politica della borghesia perdividere la classe operaia, la presenza di masse cattoliche di lavo-ratori soggette al populismo della chiesa che li allontana daisocialdemocratici, e così via. Kautsky è altrettanto consapevoledel fatto che più predominano gli interessi materiali immediatipiù si affermano le tendenze verso la frammentazione, e chequindi la pura azione sindacale non può garantire né l’unità né ladeterminazione socialista della classe operaia.18 Queste ultimepossono essere rinsaldate solo se gli interessi materiali immedia-ti della classe operaia sono subordinati all’Endziel, l’obiettivofinale socialista, e questo presuppone la subordinazione dellalotta economica a quella politica, quindi dei sindacati al partito.19

Ma il partito può rappresentare questa istanza totalizzante solonella misura in cui è il depositario della scienza, cioè della teoriamarxista. Il fatto evidente che la classe operaia non stesse seguen-do una direzione socialista – il sindacalismo inglese era un chia-ro esempio, e sul volgere del secolo non poteva ancora essere alungo ignorato – portò Kautsky a rivendicare un ruolo privilegia-to per gli intellettuali, che avevano già avuto una così importante

18. “La natura dei sindacati non è dunque definita fin dall’inizio. Essipossono divenire uno strumento della lotta di classe, ma possono anche essereun freno per quest’ultima” (K. KAUTSKY, Partito e sindacati in Germania, cit.,p. 186).

19. “Il partito cerca […] di raggiungere uno scopo finale che liquidi unavolta per tutte lo sfruttamento capitalistico. Rispetto a questo scopo finale illavoro sindacale, pur così indispensabile e importante, può ben essere definitocome un lavoro di Sisifo non nel senso di un lavoro inutile, ma di un lavoro chenon finisce mai e deve cominciare sempre di nuovo. Da tutto ciò risulta che làdove esiste un partito socialdemocratico forte e tenuto in considerazione, essoha la possibilità, molto più facilmente dei sindacati, di individuare la lineanecessaria per la lotta di classe e perciò anche di indicare la direzione nella qualesi devono muovere le singole organizzazioni proletarie della lotta di classe chenon fanno parte direttamente del partito; in tal modo può essere salvaguardatal’indispensabile unità della lotta di classe” (ivi, p. 195).

Page 63: opuscula /193 - Monoskop

63

influenza nel Che fare? di Lenin. Una tale mediazione intellet-tuale è però limitata nei suoi effetti perché, secondo la formulaspinoziana, la sua sola libertà consiste nell’essere la coscienzadella necessità. Questo comporta nientemeno che l’emergere diun legame di articolazione che non può essere semplicementeriferito alla catena della necessità concepita monisticamente.

La crepa aperta nell’identità della classe, la crescente disso-ciazione tra le diverse posizioni soggettive dei lavoratori, potevaessere superata solamente da un movimento futuro della struttu-ra economica, il cui avvento era assicurato dalla scienza marxi-sta. Di conseguenza, tutto dipendeva dalla capacità predittiva diquesta scienza e dal carattere necessario di queste predizioni.Non è un caso che la categoria della “necessità” doveva essereaffermata con sempre maggior virulenza. È noto come la “neces-sità” veniva pensata dalla Seconda internazionale: come unanecessità naturale, fondata su una combinazione di marxismo edarwinismo. L’influenza darwinista è stata spesso presentatacome un volgare sostituto marxista della dialettica hegeliana, mala verità è che, nella concezione ortodossa, hegelismo e darwini-smo si combinano per formare un ibrido capace di soddisfare leesigenze strategiche. Il darwinismo da solo non offre “garanzieper il futuro”, visto che la selezione naturale non opera in unadirezione predeterminata.20 Solo se una sorta di teleologia hege-

20. Cfr. le osservazioni di LUCIO COLLETTI in Tramonto dell’ideologia,Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 173-76. Jacques Monod sostiene come sia “parti-colarmente significativo il fatto che, volendo fondare l’edificio delle loro dot-trine sociali proprio sulle leggi della Natura, Marx e Engels si siano avvalsianch’essi, tuttavia molto più chiaramente e deliberatamente di quanto non abbiafatto Spencer, della ‘proiezione animistica’ […]. Il postulato hegeliano, secondocui le leggi più generali che regolano l’evoluzione dell’universo sono d’ordinedialettico, si inserisce perfettamente nel quadro di un sistema che non conoscealcuna realtà permanentese non quella dello spirito […]. Ma conservare immu-tate queste ‘leggi’ soggettive per farne le leggi di un universo esclusivamentemateriale significa realizzare la proiezione animistica in tutta la sua chiarezzacon tutte le sue conseguenze, a cominciare dal rifiuto del postulato di oggetti-vità” (J. MONOD, Il caso e la necessità: saggio sulla filosofia naturale della bio-logia contemporanea, trad. it. di A. Busi, Mondadori, Milano 2004, pp. 43-44).

Page 64: opuscula /193 - Monoskop

64

liana è sommata al darwinismo – il quale è del tutto incompati-bile con essa – un processo evolutivo può essere presentato comegaranzia per future trasformazioni.

Questa concezione dell’unità di classe come unità futura,garantita dall’azione di leggi ineluttabili, ha avuto effetti su unapluralità di livelli: sul tipo di articolazione attribuita alle varieposizioni soggettive, sul modo di trattare le differenze che nonpossono essere assimilate al paradigma, sulla strategia di analisidegli eventi storici. Per quanto riguarda il primo punto è chiaroche, se il soggetto rivoluzionario stabilisce la sua identità di clas-se al livello dei rapporti di produzione,21 la sua presenza neglialtri livelli può essere solamente una posizione di esteriorità, chedeve prendere per forza la forma di una “rappresentanza di inte-ressi”. Il terreno della politica non può essere allora che unasovrastruttura, nella misura in cui è il terreno della lotta tra agen-ti la cui identità, concepita nella forma dell’“interesse”, si è costi-tuita su un altro livello. Questa identità essenziale veniva così fis-sata, una volta per tutte, come un fatto inalterabile, in relazionealle diverse forme della rappresentazione politica e ideologicaalle quali la classe operaia partecipava.22

21. Questo non contraddice la nostra affermazione precedente secondocui, per Kautsky, gli interessi materiali immediati non possono costituire l’unitàe l’identità della classe. Il punto in questo caso è che il momento “scientifico”,come momento separato, determina la totalità delle implicazioni dell’inseri-mento dei lavoratori nelle forze produttive. La scienza, quindi, riconosce gliinteressi dei differenti frammenti di classe dei quali, nella loro parzialità, questiframmenti non hanno piena consapevolezza.

22. Questo ovviamente semplifica il problema della previsione in unasituazione nella quale la chiarezza e la trasparenza degli interessi riduce il pro-blema delle strategie alle condizioni ideali di una “scelta razionale radicale”.Michel de Certeau ha recentemente dichiarato: “Per ‘strategia’ intendo il calco-lo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un sog-getto di volontà e di potere è isolabile in un ‘ambiente’… La razionalità politi-ca, economica o scientifica è stata costruita su questo modello strategico.Intendo al contrario per ‘tattica’ un calcolo che non può contare su una base pro-pria, né dunque su una frontiera che distingue l’altro come una totalità visibile”(M. DE CERTEAU, L’invenzione del quotidiano, trad. it. di M. Baccianini, prefa-

Page 65: opuscula /193 - Monoskop

65

Per quanto riguada il secondo punto l’argomentazione ridu-zionista si serve di due tipi di ragionamento – che possiamo iden-tificare come tesi dell’apparenza e tesi della contingenza – perfare i conti con le differenze che non possono essere assimilatealle sue categorie. Queste le ragioni della tesi dell’apparenza:ogni cosa che si presenta come diversa può essere ricondotta aidentità. Ciò può assumere due forme: o l’apparenza è un meroartificio di dissimulazione, oppure è la forma necessaria dellamanifestazione dell’essenza (un esempio del primo caso: “ilnazionalismo è un paravento che nasconde gli interessi della bor-ghesia”; un esempio del secondo: “lo Stato liberale è una formapolitica necessaria del capitalismo”). Queste invece le ragionidella tesi della contingenza: un settore o una categoria socialepuò non essere riducibile alle identità fondamentali di un certotipo di società, ma in quel caso la sua stessa marginalità di fron-te al fondamentale corso dello sviluppo storico ci permette diescluderlo in quanto irrilevante (ad esempio: “siccome il capita-lismo spinge per una proletarizzazione delle classi medie e deicontadini, possiamo ignorarli e concentrare la nostra strategia sulconflitto tra borghesia e proletariato”). Così, secondo la tesi dellacontingenza, l’identità è riscoperta in un totalità diacronica: un’i-nesorabile successione di stadi permette di dividere la realtàsociale esistente in fenomeni che sono necessari o contingenti, inbase allo stadio di maturità di questa società. La storia è pertan-to una concretizzazione continua dell’astratto, un’approssima-zione a una purezza paradigmatica che si presenta insieme comesenso e come direzione del processo.

Infine, il paradigma ortodosso, in quanto analitica del pre-sente, postula una strategia del riconoscimento. Visto che ilmarxismo pretende di conoscere l’inevitabile corso della storianelle sue determinazioni essenziali, la comprensione di un even-

zione di M. Maffesoli, introduzione di A. Abruzzese, postfazione di P. di Cori,Edizioni Lavoro, Roma 2010, p. 15). Alla luce di questa distinzione è chiaro che,nella misura in cui gli “interessi” dei soggetti kautskiani sono trasparenti, ogniprevisione è di natura strategica.

Page 66: opuscula /193 - Monoskop

66

to reale può significare solamente la sua identificazione comemomento di una successione temporale fissata a priori. Da qui lediscussioni del tipo: la rivoluzione dell’anno x nel paese y è larivoluzione democratico-borghese? Oppure, quale forma dovreb-be assumere la transizione al socialismo in questo o quel paese?

I tre ambiti di effetti appena analizzati hanno una caratteri-stica comune: il concreto è ridotto all’astratto. Diverse posizionisoggettive sono ridotte a manifestazioni di un’unica posizione, lapluralità delle differenze o è ridotta o è rigettata come contin-gente, il senso del presente si rivela attraverso la sua posizione inuna successione di stadi definiti a priori. Proprio perché il con-creto è ridotto in questo modo all’astratto, la storia, la società egli agenti sociali hanno, per l’ortodossia, un’essenza che funzio-na come loro principio di unificazione. E siccome questa essen-za non è immediatamente visibile, è necessario distinguere trauna superficie o apparenza della società e una realtà soggiacen-te, alla quale il senso definitivo di ogni presenza concreta devenecessariamente essere riferito, indipendentemente dal livello dicomplessità nel sistema delle mediazioni.

Era chiaro quale concezione strategica poteva essere dedot-ta da questa visione del corso del capitalismo. Il soggetto di que-sta strategia era, ovviamente, il partito degli operai. Kautskyrespinse vigorosamente la nozione revisionista di un “partitopopolare”, perché, secondo lui, implicava un trasferimento diinteressi di altre classi all’interno del partito e, conseguentemen-te, una perdita del carattere rivoluzionario del movimento. La suasupposta posizione radicale, basata sul rifiuto di ogni compro-messo o alleanza, fu tuttavia l’elemento centrale di una strategiaessenzialmente conservatrice.23 Visto che il suo radicalismo sifondava su un processo che non richiedeva alcuna iniziativa poli-tica, questo poteva solo condurre al quietismo e all’attesa. Lapropaganda e l’organizzazione erano i due basilari – in realtà i

23. Cfr. E. MATTHIAS, Kautsky e il kautskismo: la funzione dell’ideologianella socialdemocrazia tedesca fino alla prima guerra mondiale, De Donato,Bari 1971.

Page 67: opuscula /193 - Monoskop

67

soli – compiti del partito. La propaganda non era rivolta allacreazione di una più ampia “volontà popolare” attraverso la con-quista di nuovi settori alla causa socialista, ma soprattutto arinforzare l’identità dalla classe operaia. Quanto all’organizza-zione, il suo sviluppo non implicava una più vasta partecipazio-ne politica su un certo numero di fronti, ma la costruzione di unghetto dove la classe operaia poteva condurre un’esistenza auto-centrata e segregata. Questa progressiva istituzionalizzazione delmovimento era funzionale a una prospettiva secondo la quale lacrisi finale del sistema capitalistico sarebbe venuta dall’operastessa della borghesia, mentre la classe operaia avrebbe dovutosolamente prepararsi a intervenire al momento opportuno. Giànel 1881 Kautsky aveva dichiarato: «Il nostro compito non èquello di organizzare la rivoluzione, ma di organizzarci per larivoluzione, non fare la rivoluzione, ma usarla».24

Le alleanze non rappresentavano ovviamente per Kautskyun principio strategico essenziale. Nelle situazioni concrete, unamolteplicità di alleanze era possibile al livello delle tatticheempiriche; ma nel lungo periodo, proprio perché la rivoluzioneavrebbe avuto un carattere puramente proletario, la classe ope-raia avrebbe occupato una posizione isolata nella lotta anticapi-talista. L’analisi di Kautsky delle contraddizioni interne agli altrisettori dimostra precisamente l’impossibilità di stabilire con que-sti alleanze anticapitaliste e democratiche di lungo periodo. Nelcaso dei contadini Kautsky cerca di dimostrare come essi rap-presentino un settore in disintegrazione, tanto che la difesa deiloro interessi da parte della classe operaia rappresenta una poli-tica reazionaria contraria allo sviluppo generale del progressoeconomico. Analogamente, nell’analisi kautskiana dell’imperia-lismo, le classi medie sono sempre più compatte sotto il dominioideologico del capitale finanziario e del militarismo. In modotipico, Kautsky non è consapevole nemmeno per un istante del

24. SYMMACHOS (K. KAUTSKY), “Verschwörung oder Revolution?”, DerSozialdemokrat, 20/2/1881, citato in H.J. STEINBERG, Il partito e la formazionedell’ortodossia marxista, in E.J. HOBSBAWM (et. al.), cit., Vol. 2, p. 190.

Page 68: opuscula /193 - Monoskop

68

fatto che questa tesi politica e ideologica accentua pericolosa-mente l’isolamento degli operai, e che di fronte all’offensiva delcapitale la classe operaia dovrebbe invece rispondere con unacontroffensiva per guadagnare le classi medie alla causa antica-pitalista. A Kautsky questo ragionamento è precluso perché,nella sua analisi, il carattere sempre più reazionario delle classimedie corrisponde a processi oggettivi e inalterabili. Per lo stes-so motivo, l’isolamento dei lavoratori non è una minaccia per ilsocialismo, perché questo è garantito dalle leggi storicamentedate che, nel lungo periodo, dimostreranno l’impotenza di tuttele macchinazioni borghesi.

Un buon esempio di come Kautsky concepisca la lotta pro-letaria può essere individuato nella sua concezione della “guerradi logoramento”. Questa non si riferisce a una tattica precisa, maalla totalità delle azioni politiche intraprese dalla classe operaiadagli anni ’60 dell’Ottocento. Tre sono gli aspetti coinvolti nellaguerra di logoramento: 1) l’identità precostituita della classe ope-raia, che mina sempre più il potere dell’avversario ma non simodifica significativamente nel corso della lotta; 2) un’altrettan-to precostituita identità della borghesia, che aumenta o riduce lasua capacità di dominio ma in nessun caso altera la sua proprianatura; 3) una linea di sviluppo prestabilita – ancora una volta le“leggi inesorabili” – che predispone una tendenza direzionaleverso la guerra di logoramento. Questa strategia è stata paragona-ta alla “guerra di posizione” di Gramsci,25 ma in realtà le due sonoprofondamente diverse. La guerra di posizione presuppone il con-cetto di egemonia che, come vedremo, è incompatibile con l’ideadi uno sviluppo lineare, predeterminato, e soprattutto con il carat-tere precostituito dei soggetti kautskiani.

Il ruolo assegnato alla teoria dal marxismo ortodosso cipone davanti a un paradosso. Da una parte, il suo ruolo aumentanella misura in cui la distanza crescente tra la “coscienza attua-le” e la “missione storica” della classe può essere colmata ester-

25. Si veda P. ANDERSON, Ambiguità di Gramsci, Laterza, Roma-Bari1978.

Page 69: opuscula /193 - Monoskop

69

namente solamente tramite l’intervento politico. Dall’altra, sic-come la teoria che sorregge l’intervento politico è presentatacome coscienza di una determinazione meccanica e necessaria,l’analisi diviene ancora più determinista ed economicista nellamisura in cui la composizione delle forze storiche dipende sem-pre più dalla mediazione teorica. Questo è ancora più evidente inPlekhanov che in Kautsky. L’incipiente sviluppo del capitalismoin Russia fallì nel creare una civiltà borghese, con il risultato cheil significato della realtà russa poté essere scoperto solo attraver-so una comparazione con lo sviluppo capitalistico occidentale.Per i marxisti russi, quindi, i fenomeni sociali del loro paeseerano i segni di una partitura che li trascendeva e che era dispo-nibile a una piena ed esplicita lettura solo nell’Occidente capita-listico. Questo significava che la teoria era straordinariamentepiù importante in Russia che in Occidente: se le “leggi necessa-rie della storia” non erano universalmente valide, la sfuggenterealtà di uno sciopero, di una manifestazione, di un processo diaccumulazione rischiavano di dissolversi. Un riformista comeGuglielmo Ferrero26 poteva ironizzare sull’affermazione orto-dossa che il marxismo costituiva un campo di studi coerente eomogeneo. In fin dei conti, se la dottrina era eclettica e strava-gante, ciò influenzava appena la materialità di una pratica socia-le sancita dall’insieme delle istituzioni proletarie; una praticache, nella controversia revisionista, iniziava a instaurare i suoipropri rapporti di esteriorità con la teoria. Questa, tuttavia, nonpoteva essere la posizione di Plekhanov, poiché egli si confronta-va con dei fenomeni che non puntavano spontaneamente in unadirezione precisa, ma il cui significato dipendeva dal loro inseri-mento all’interno di un sistema interpretativo. Più il significatodel sociale dipendeva dalla formulazione teorica, più la difesadell’ortodossia si trasformava in un problema politico.

Dati questi argomenti, non sorprende che ai principi del-l’ortodossia marxista venisse data una formulazione più rigida in

26. G. FERRERO, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord,Treves, Milano 1897, p. 95.

Page 70: opuscula /193 - Monoskop

70

Plekhanov che non in Kautsky. È risaputo, ad esempio, che fuPlekhanov a coniare l’espressione “materialismo dialettico”. Maegli fu anche responsabile del naturalismo radicale che portò auna così rigida separazione tra struttura e sovrastruttura, dove laseconda veniva considerata nient’altro che una combinazione diespressioni necessarie della prima. Inoltre, il concetto di struttu-ra economica di Plekhanov non tiene in alcun conto l’interventodelle forze sociali: il processo economico è totalmente determi-nato dalle forze produttive, intese qui come tecnologia.27 Questarigida determinazione gli consente di presentare la società comeuna gerarchia rigorosa di casi, con gradi di efficacia decrescenti:

1) stato delle forze di produzione;2) rapporti economici condizionati da queste forze;3) regime socialpolitico, edificato su una data “base” economica;4) psicologia dell’uomo sociale, determinata in gran parte direttamen-te dall’economia, in parte da tutto il regime sociale-politico edificatosu essa;5) ideologie diverse riflettenti tale psicologia.28

Negli scritti Il socialismo e la lotta politica e Le nostredivergenze, Plekhanov formula un’altrettanto rigida successionedi stadi attraverso i quali il processo rivoluzionario russo dovevapassare, così da eliminare ogni “sviluppo ineguale e combinato”dal campo della strategia.

Tutte le prime analisi del marxismo russo – dal “marxismolegale” di Peter Struve, passando per Plekhanov come momentocentrale, fino a Lo sviluppo del capitalismo in Russia di Lenin –tendono a rimuovere lo studio delle specificità, rappresentando-le come nient’altro che forme esternamente apparenti o contin-genti di una realtà essenziale: lo sviluppo astratto del capitalismoattraverso il quale ogni società deve passare.

27. Cfr. A. ARATO, L’antinomia del marxismo classico: marxismo e filo-sofia, in E.J. HOBSBAWM (et. al.), cit., Vol. 2, pp. 702-7.

28. G. PLEKHANOV, Le questioni fondamentali del marxismo, a cura di A.D’Ambrosio, Istituto editoriale italiano, Milano 1947, p. 99.

Page 71: opuscula /193 - Monoskop

71

Concediamoci un’ultima osservazione sull’ortodossia.Come abbiamo visto, la teoria sosteneva che la crescente scon-nessione tra l’obiettivo finale e le pratiche politiche attuali sareb-be stata risolta in un qualche momento futuro, che avrebbe fun-zionato come coincidentia oppositorum. Siccome questa praticadi ricomposizione non poteva tuttavia essere lasciata interamenteal futuro, una lotta doveva in qualche modo essere dichiarata nelpresente contro le tendenze alla frammentazione. Ma poiché que-sta lotta comportava forme di articolazione che non erano, inquell’epoca, un risultato spontaneo delle leggi del capitalismo,era necessario introdurre una logica sociale diversa dal determi-nismo meccanico, vale a dire uno spazio in grado di restaurarel’autonomia dell’iniziativa politica. Anche se minimo, questospazio è presente in Kautsky: comprende le relazioni di esterioritàtra la classe operaia e il socialismo che richiedono la mediazionepolitica degli intellettuali. C’è qui un nesso che non può esserespiegato con la semplice determinazione storica “oggettiva”.Questo spazio era necessariamente più ampio per quelle tenden-ze che, per superare la divisione tra le pratiche quotidiane e l’o-biettivo finale, si sforzavano maggiormente di interrompere ilquietismo e di ottenere effetti politici sul presente.29 Lo sponta-neismo di Rosa Luxemburg e, più in generale, le strategie politi-che della Neue Linke lo confermano. Le tendenze più creativeall’interno dell’ortodossia cercarono di limitare gli effetti della“logica della necessità”, me l’esito inevitabile fu quello di inqua-drare i loro stessi discorsi in un dualismo permanente tra una“logica della necessità”, che produceva sempre meno effetti nei

29. Questa relazione tra la logica della necessità e il quietismo era certa-mente percepita dai critici dell’ortodossia. Sorel sosteneva che: “Leggendo leopere dei socialisti democratici si rimane sorpresi dalla sicurezza colla qualeessi dispongono dell’avvenire; essi sanno che il mondo cammina verso una rivo-luzione inevitabile, della quale essi conoscono le conseguenze generali. Alcunidi essi anzi hanno una tale fiducia nelle loro teorie, che finiscono al quietismo”(G. SOREL, Saggi di critica del marxismo, prefazione di V. Racca, Samonà eSavelli, Roma 1970, p. 59).

Page 72: opuscula /193 - Monoskop

72

termini della pratica politica, e una “logica della contingenza”,che non determinando la propria specificità era incapace di teo-rizzarsi.

Vediamo due esempi di questo dualismo creato da questitentativi parziali di “riaprire il gioco”. Il primo è il concetto diprevisione morfologica di Antonio Labriola. Scrive Labriola:

La previsione storica […] (nel Manifesto dei comunisti) non implica-va, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipinturaanticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delleantiche e nuove profezie e apocalissi. […] nella teoria del comunismocritico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processogenerale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto salientedella sua curva, fa luce a sé stessa per dichiarare la legge del suo movi-mento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava,era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirlain una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica.30

Labriola combatte qui una guerra su due fronti. Il primo èquello contro le concezioni critiche del marxismo – Croce,Gentile31 – le quali, basando l’imprevedibilità della storia sulcarattere non sistematico degli eventi, trovano un ordine unitariosolo nella coscienza degli storici. Da parte sua, Labriola insistesul carattere oggettivo delle leggi storiche. Tuttavia, queste sonomorfologiche: ovvero il loro campo di validità è ristretto ad alcu-ne tendenze fondamentali. Il secondo fronte è invece quello con-tro le forme di dogmatismo che convertono le tendenze generaliin fatti immediatamente leggibili sulla superficie della vita stori-ca. Ora, è chiaro che il modo in cui su questi due fronti si com-batte non può che introdurre un dualismo che, in Labriola, trovala sua manifestazione nella contrapposizione tra lo sviluppo sto-rico come narrazione e come morfologia; ma anche, più in gene-

30. A. LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei Comunisti, in Id., Saggisul materialismo storico, cit., pp. 34-35.

31. Sull’intervento di Labriola nel dibattito sulla revisione del marxismosi veda R. RACINARO, La crisi del marxismo nella revisione di fine secolo, DeDonato, Bari 1978.

Page 73: opuscula /193 - Monoskop

73

rale, nella sempre minore capacità del paradigma dialettico diEngels di spiegare la storia.32 Inoltre, questa dicotomia presentalo stesso duplice vuoto che abbiamo trovato in Rosa Luxemburg,perché gli elementi “narrativi” sono contrapposti a quelli“morfologici” non come qualcosa di positivo, con la sua internanecessità, ma come un rovescio contingente della necessitàmorfologica. Secondo Badaloni,

lo sviluppo reale dei fatti può dare luogo ad intricate e imprevedibilivicende. Ciò che conta è però che la comprensione di quelle vicendeavvenga all’interno della ipotesi genetica (la contraddizione delle clas-si e la sua progressiva semplificazione). Il proletariato non si collocacosì in un tempo storico indeterminato, ma in quel particolare tempostorico che è dominato dalla crisi della formazione sociale borghese.33

In altre parole, la “necessità morfologica” costituisce un ter-reno teorico-discorsivo che comprende non solo il proprio territo-rio distintivo, ma anche ciò che questo esclude: la contingenza. Seun insieme di “eventi” sono concettualizzati come “contingenti”,essi non sono concettualizzati affatto, tranne che nella mancanzadi alcuni attributi esistenti nelle tendenze morfologiche a loroopposte. Tuttavia, siccome la vita della società è sempre più com-plessa delle categorie morfologiche del discorso marxista – e que-sta complessità è il punto di partenza di Labriola – la sola conse-guenza possibile è che la teoria diventi un arnese sempre menorilevante per la comprensione dei processi sociali concreti.

Così, per evitare di cadere in un completo agnosticismo, ènecessario introdurre a un certo punto altre categorie esplicative.Labriola lo fa, per esempio, nella sua analisi concreta, dove sva-riate categorie sociali non sono semplicemente concettualizzatenella loro “contingenza”, ma sono dotate di una certa necessità olegalità in se stesse. Qual è la relazione tra questi complessi strut-turali “fattuali” e le strutture che sono l’oggetto della previsione

32. Cfr. N. BADALONI, Il marxismo di Gramsci: dal mito alla ricomposi-zione politica, Einaudi, Torino 1975, pp. 27-28.

33. Ivi, p. 13.

Page 74: opuscula /193 - Monoskop

74

morfologica? Una prima possibile soluzione potrebbe essere“dialettica”: mantenere una prospettiva monista che concepiscala complessità come un sistema di mediazioni.34 Labriola nonpoteva però scegliere questa soluzione, perché essa lo avrebbeobbligato a estendere gli effetti della necessità alla superficiedella vita storica, che era proprio l’area dalla quale voleva rimuo-verli. Ma se si scarta la soluzione dialettica, non è possibile pas-sare logicamente da un’analisi morfologica alla legalità caratteri-stica delle totalità parziali. La transizione assume allora un carat-tere esterno, il che significa dire che la concettualizzazione diqueste legalità è esogena alla teoria marxista. La teoria marxistanon può quindi essere il “sistema-mondo completo e armonioso”presentato da Plekhanov e pensabile solo all’interno di un model-lo chiuso. Il dualismo necessità/contingenza apre la strada a unapluralità di legalità strutturali le cui logiche interne e le cui mutuerelazioni devono essere determinate.

Questo può essere visto in modo ancora più chiaro se esa-miniamo l’austromarxismo, il nostro secondo esempio diun’“ortodossia aperta”. Qui troviamo uno sforzo più radicale esistematico di quello di Labriola di diversificare i punti di parten-za, di moltiplicare le categorie teoriche e di autonomizzare le areedella società nelle loro determinazioni specifiche. Otto Bauer, nelnecrologio a Max Adler, fa riferimento all’inizio della scuola neiseguenti termini: “Mentre Marx ed Engels iniziarono da Hegel, ei marxisti successivi dal materialismo, i più recenti austro-marxi-sti hanno il loro punto di partenza in Kant e Mach”.35 Gli austro-

34. Secondo Badaloni questa è la soluzione alla quale Labriola avrebbedovuto arrivare: “forse l’alternativa posta da lui era erronea e la vera alternativastava invece in un approfondimento e sviluppo della morfologia storica tropposemplificata nella esposizione engelsiana” (ivi, p. 28). Così, certamente, il dua-lismo sarebbe stato superato, ma a prezzo di eliminare quell’area di indetermi-natezza morfologica la cui esistenza era essenziale per il progetto teorico diLabriola.

35. O. BAUER, Was ist Austro-Marxismus, in Arbeiter-Zeitung, 3/11/1927. Tradotto nell’antologia di testi austro-marxisti: T. BOTTOMORE - P. GOODE

(edited by), Austro-Marxism, Clarendon Press, Oxford 1978, pp. 45-48.

Page 75: opuscula /193 - Monoskop

marxisti erano coscienti degli ostacoli frapposti all’unità dellaclasse operaia nell’Impero austro-ungarico, e del fatto che questaunità dipendeva da una costante iniziativa politica. Perciò capiva-no bene quello che, da una prospettiva diversa da quella leninista,veniva definito come uno sviluppo “ineguale e combinato”.

Nella monarchia austro-ungarica si possono trovare esempi di tutti itipi di economia europei, inclusa la Turchia […]. La luce della propa-ganda socialista irradia ovunque in mezzo a queste condizioni politi-che ed economiche divergenti. Questo crea una situazione di estremadiversità […]. Quello che esiste nell’Internazionale come sviluppocronologico – il socialismo degli artigiani, dei garzoni, di chi lavoranella manifattura, degli operai, dei contadini, che subisce alterazioni,con la predominanza dell’aspetto politico, sociale o intellettuale delmovimento che predominano in ogni momento – in Austria ha luogocontemporaneamente.36

In questo mosaico di contesti sociali e nazionali era impos-sibile pensare alle identità nazionali come a qualcosa di “sovra-strutturale”, o all’unità di classe come una conseguenza necessa-ria della struttura economica. Questa unità dipendeva invece dauna complessa costruzione politica. Con le parole di Otto Bauer:

È una forza intellettuale che mantiene l’unità […]. L’“austro-marxi-smo” oggi, come prodotto dell’unità e come forza per il mantenimen-to dell’unità, non è altro che l’ideologia dell’unità del movimento ope-raio.37

Il momento dell’unità di classe è perciò un momento politi-co. Il centro costitutivo di quella che possiamo chiamare unaconfigurazione relazionale della società, o anche la sua formaarticolatoria, è dislocato nel campo delle sovrastrutture, tanto darendere sfocata e problematica la fondamentale distinzione trastruttura economica e sovrastruttura. I principali interventi teori-

75

36. Editoriale del primo numero di Der Kampf, 1907-08, riprodotto in T.BOTTOMORE - P. GOODE (edited by), Austro-marxism, cit., pp. 45-48.

37. Ivi, p. 55.

Page 76: opuscula /193 - Monoskop

76

ci degli austromarxisti strettamente legati a questa nuova pro-spettiva strategica sono di tre tipi: il tentativo di limitare l’area divalidità della “necessità storica”, la proposta di nuovi fronti dilotta basati sulla complessità del sociale caratteristica del capita-lismo maturo, lo sforzo di pensare in modo non riduttivo la spe-cificità di posizioni soggettive diverse da quelle di classe. Ilprimo tipo di intervento è connesso soprattutto alla riformulazio-ne filosofica di Max Adler e alla sua peculiare forma di neokan-tismo. La rilettura kantiana del marxismo ebbe una serie di effet-ti liberatori: allargò la platea a cui si rivolgeva il socialismo, inquanto la giustezza dei suoi postulati poteva essere posta nei ter-mini di un’universalità che trascendeva i confini di classe; ruppecon le concezioni naturaliste delle relazioni sociali e, elaborandoconcetti come quello di “a priori sociale”, introdusse un elemen-to rigorosamente discorsivo nella costituzione dell’oggettivitàsociale; infine, permise ai marxisti di immaginare la strutturacome un terreno la cui conformazione dipendeva dalle formedella coscienza, non dal movimento naturalistico delle forze pro-duttive. Anche il secondo tipo di intervento mette in crisi ladistinzione struttura/sovrastruttura. Nel dibattito sullo scritto diKautsky La via al potere, Bauer, ad esempio,38 cercò di dimo-strare quanto fosse sbagliato concepire l’economico come uncampo omogeneo dominato da una logica endogena, dato chenella fase dei monopoli e dell’imperialismo le trasformazionipolitiche, tecnico-organizzative e scientifiche facevano semprepiù parte dell’apparato industriale. Dal suo punto di vista, se leleggi della concorrenza funzionavano prima come potenze natu-rali, ora dovevano invece passare attraverso le menti degli uomi-ni e delle donne. Da qui l’accento posto sul crescente intrecciotra lo Stato e l’economia, che negli anni ’20 avrebbe portato aldibattito sul “capitalismo organizzato”. Cambiano anche le pro-

38. Su questo dibattito, e più in generale sulla traiettoria politico-intellet-tuale dell’austromarxismo, si veda l’eccellente introduzione di GIACOMO

MARRAMAO alla sua antologia di testi Austro-marxismo e socialismo di sinistrafra le due guerre, La Pietra, Milano, 1977.

Page 77: opuscula /193 - Monoskop

77

spettive sui punti di rottura e di antagonismo prodotti dalla nuovaconfigurazione del capitalismo: questi non erano più situati sola-mente nei rapporti di produzione, ma in una serie di aree dellastruttura politica e sociale. Da qui anche l’importanza attribuitaalla dispersione stessa delle lotte quotidiane (revolutionäreKleinarbeit), concepita né in senso evoluzionista né riformista,39

e la nuova importanza acquisita dal momento dell’articolazionepolitica (che si tradusse, tra le altre cose, in un nuovo modo diporre il rapporto tra il partito e gli intellettuali).40 Infine, rispettoalle nuove posizioni soggettive e alla conseguente rottura con ilriduzionismo di classe, è sufficiente menzionare il lavoro diBauer sulla questione nazionale e quello di Renner sulle istitu-zioni giuridiche.

Il modello generale dell’intervento teorico-strategico del-l’austromarxismo dovrebbe ora essere chiaro: nella misura incui l’efficacia pratica dell’intervento politico autonomo si allar-ga, il discorso sulla “necessità storica” perde la sua rilevanza esi ritira dall’orizzonte del sociale (proprio nello stesso modo incui, nel discorso deista, gli effetti della presenza di Dio nelmondo si riducono drasticamente). Questo, a sua volta, richiedeuna proliferazione di nuove forme discorsive per occupare il ter-reno rimasto vacante. Gli austromarxisti, tuttavia, non arrivanoa rompere con il dualismo e a eliminare il momento della neces-sità “morfologica”. Nell’universo teorico-politico del marxismo

39. “Vedere il processo di trasformazione della società capitalistica insocietà socialista non più disposto secondo i tempi di un meccanismo logico-sto-rico unitario e omogeneo, bensì come risultante di una moltiplicazione e proli-ferazione dei fattori endogeni di mutamento dei rapporti di produzione e di pote-re, se per un verso implica sul piano teorico un grande sforzo di disaggregazio-ne empirico-analitica della previsione morfologica di Marx e sul piano politicoun oltrepassamento della mistificante alternativa tra ‘riforme’ e ‘rivoluzione’,per l’altro non comporta affatto un’opzione di tipo evoluzionistico: quasi che ilsocialismo sia realizzabile ‘in dosi omeopatiche’” (G. MARRAMAO, Tra bolsce-vismo e socialdemocrazia: Otto Bauer e la cultura politica dell’austro-marxi-smo, in E.J. HOBSBAWM, et. al., cit., Vol. 3, p. 259).

40. Si veda M. ADLER, Il socialismo e gli intellettuali, cit.

Page 78: opuscula /193 - Monoskop

78

fin-de-siècle questo passo viene fatto solo da Sorel, attraverso lasua distinzione tra “mélange” e “bloc”. Ma torneremo su questopiù avanti.

La seconda risposta alla crisi: il revisionismo

La risposta dell’ortodossia alla “crisi del marxismo” cerca-va di superare la separazione tra la “teoria” e le “tendenze osser-vabili del capitalismo”, affermando in modo intransigente la vali-dità della prima e il carattere artificiale o transitorio delle secon-de. Sarebbe però troppo semplice concludere che la risposta revi-sionista fu l’opposto simmetrico, specialmente dal momento cheBernstein stesso insistette in molte occasioni sul non avere dis-sensi significativi sul programma e sulle pratiche della SPD percome si erano materializzate dal congresso di Erfurt, e che il soloscopo del suo intervento fu quello di realizzare un aggiornamen-to per adattare la teoria alle pratiche concrete del movimento.Una tale conclusione oscurerebbe però le dimensioni fondamen-tali dell’intervento di Bernstein. In particolare, ci farebbe com-mettere l’errore di identificare il riformismo con il revisioni-smo.41 I dirigenti sindacali, che erano i veri portavoce di una poli-tica riformista all’interno dell’SPD, non manifestarono moltointeresse per le proposte teoriche di Bernstein e rimasero rigoro-samente neutrali nella successiva controversia, quando nonappoggiarono apertamente l’ortodossia.42 In più, nelle discussio-

41. “Viene misconosciuta la peculiarità del revisionismo quando lo sipone acriticamente sullo stesso piano del riformismo o lo si concepisce addirit-tura come espressione, sin dal 1890, della prassi socialriformistica del partito. Ilproblema delle origini del revisionismo deve quindi limitarsi sostanzialmentealla persona di Bernstein e non può essere ricondotto a Vollmar o a Höchberg”(H.-J. STEINBERG, Il socialismo tedesco da Bebel a Kautsky, Editori Riuniti,Roma 1979, p. 118).

42. Sul rapporto tra revisionismo e sindacati si veda P. GAY, The Dilemmaof Democratic Socialism: Eduard Bernstein’s Challenge to Marx, Collier Books,New York 1962, pp. 37-40.

Page 79: opuscula /193 - Monoskop

79

ni politiche cruciali sullo sciopero di massa43 e sull’atteggia-mento da tenere davanti alla guerra, la posizione di Bernsteinnon fu solo diversa, ma assolutamente contraria a quella dei diri-genti riformisti nei sindacati e nel partito. Per identificare la dif-ferenza specifica tra riformismo e revisionismo dobbiamo allo-ra sottolineare come quello che è essenziale in una pratica rifor-mista è il quietismo politico e la segregazione corporativa dellaclasse operaia. Il dirigente riformista cerca di difendere le con-quiste e gli interessi immediati della classe, tende di conseguen-za a considerarla come un settore isolato, dotato di identità elimiti perfettamente definiti. Ma una teoria “revisionista” non èindispensabile a questo scopo; una teoria “rivoluzionaria” puòinvece – in molti casi – adempiere meglio allo stesso ruolo, iso-lando la classe operaia e lasciando a un futuro indeterminatoqualunque interrogativo sulle strutture di potere esistenti.Abbiamo appena fatto riferimento al carattere conservatore delrivoluzionarismo kautskiano. Il riformismo non si identifica connessuno dei termini dell’alternativa revisionismo/ortodossia, mali trascende entrambi.

Il problema fondamentale che oppose i teorici revisionisti aquelli ortodossi non fu perciò il problema del riformismo. Non funemmeno il problema della transizione pacifica o violenta dalcapitalismo al socialismo, in relazione alla quale l’“ortodossia”non aveva una posizione chiara e condivisa. Il principale puntodi contrasto fu invece che, mentre l’ortodossia considerava chele caratteristiche di frammentazione e divisione della nuova fasecapitalistica sarebbero state superate attraverso mutamenti nellastruttura economica, il revisionismo sosteneva che questo risul-tato doveva essere raggiunto tramite un intervento politico auto-nomo. L’autonomia della politica rispetto alla struttura economi-

43. La difesa di Bernstein dello sciopero di massa come arma difensivaprovocò la seguente risposta del leader sindacale Bömelburg: “Talvolta EduardBernstein non sa quanto lontano deve spingersi verso destra, talaltra parla dellosciopero di massa. Questi letterati… recano un danno al movimento operaio”(citato in P. GAY, The Dilemma of Democratic Socialism, cit., p. 138).

Page 80: opuscula /193 - Monoskop

80

ca è la vera novità del ragionamento bernsteiniano. È stato infat-ti notato come,44 dietro a ogni critica di Bernstein alla teoriamarxista classica, si nasconda un tentativo di recuperare l’inizia-tiva politica in ambiti specifici. Il revisionismo, nei suoi momen-ti migliori, rappresentò un autentico sforzo per rompere l’isola-mento corporativo della classe operaia. È anche vero, tuttavia,che proprio mentre il politico stava emergendo come istanzaautonoma, fu usato per giustificare una pratica “riformista” cheper molti versi rappresentava il suo opposto. Questo è il para-dosso che dobbiamo cercare di spiegare, che ci rinvia ad alcunilimiti nella rottura di Bernstein con l’economicismo e che saran-no rigorosamente superati solo con Gramsci. L’autonomia delpolitico e i suoi stessi limiti: dobbiamo ora esaminare come sonostrutturati questi due momenti.

È importante riconoscere come Bernstein, più chiaramentedi ogni rappresentante dell’ortodossia, capì i mutamenti che sta-vano investendo il capitalismo all’inizio della sua fase monopo-listica. Le sue analisi furono, in questo senso, più vicine alle pro-blematiche di Hilferding o di Lenin che alle teorizzazioni orto-dosse dell’epoca.45 Bernstein capì anche le conseguenze politi-che della riorganizzazione capitalistica. I tre mutamenti princi-pali – l’asimmetria tra la concentrazione delle imprese e quelladei patrimoni, la sussistenza e la crescita di una classe media, ilruolo della pianificazione economica nella prevenzione dellecrisi – potevano comportare una trasformazione generale dei pre-supposti sui quali la socialdemocrazia si era basata fino a quelmomento. Non era vero che lo sviluppo economico aveva prole-tarizzato le classi medie e i contadini, o accresciuto la polarizza-zione della società, né che si poteva attendere la transizione alsocialismo come conseguenza di una rottura rivoluzionaria risul-tante da una grave crisi economica. In queste condizioni il socia-lismo doveva cambiare terreno e strategia, e il momento teorico

44. L. PAGGI, Intellettuali, teoria e partito nel marxismo della SecondaInternazionale, cit., p. 29.

45. Cfr. L. COLLETTI, Ideologia e società, Laterza, Bari 1972, p. 83.

Page 81: opuscula /193 - Monoskop

81

centrale fu la rottura con la rigida distinzione struttu-ra/sovrastruttura, che aveva impedito ogni concezione dell’auto-nomia del politico. Il momento della ricomposizione e il supera-mento della frammentazione furono trasferiti quindi, nell’analisirevisionista, su quest’ultimo elemento.

Le scienze, le arti, e una maggiore serie di relazioni sociali dipendonooggi molto meno dall’economia che in qualsiasi epoca precedente. Omeglio, per evitare fraintendimenti: il grado di sviluppo economicooggi raggiunto lascia ai fattori ideologici, e specialmente a quelli etici,un’autonomia molto più ampia che nel passato. Di conseguenza ilnesso causale tra la sviluppo tecnico-economico e lo sviluppo dellealtre istituzioni sociali si fa sempre più mediato, e così le necessitànaturali del primo diventano sempre meno decisive per la configura-zione del secondo.46

È solo la sua autonomizzazione in opposizione ai dettamidella struttura economica, che permette al politico di giocare unruolo di ricomposizione e riunificazione, contro le tendenzestrutturali che, se abbandonate a se stesse, conducono solo allaframmentazione. Tutto questo può essere visto chiaramente nellaconcezione bernsteiniana della dialettica di unione e divisionedella classe operaia. La classe operaia si presenta economica-mente sempre più divisa. Il proletariato moderno non è quellamassa spossessata che Marx ed Engels descrivevano nelManifesto: “proprio nelle industrie di fabbrica più avanzate èpossibile trovare tutta una gerarchia di operai differenziati, tra icui gruppi sussiste soltanto un modesto sentimento di solida-rietà”.47 Questa diversificazione degli interessi – che è più evi-dente nel caso inglese – non è semplicemente il residuo di unpassato corporativo, come aveva sostenuto Cunow, ma il risulta-to dell’istituzione di uno Stato democratico. Anche se, nelle con-dizioni di una repressione politica, l’unità nella lotta colloca gli

46. E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della social-democrazia, introduzione di L. Colletti, Laterza, Bari 1968, p. 38.

47. Ivi, p. 141.

Page 82: opuscula /193 - Monoskop

82

interessi settoriali su un livello secondario, questi tendono a rina-scere nuovamente in un contesto di libertà.

Ora, se la tendenza verso la divisione è inscritta fin dentrola struttura del capitalismo moderno, qual è la fonte del momen-to opposto, ovvero la tendenza verso l’unificazione? SecondoBernstein è il partito. Per questo parla della

necessità di un organo della lotta di classe che tenga insieme l’interaclasse malgrado la sua frammentazione in diverse occupazioni, e cheè la Socialdemocrazia come partito politico. In essa, l’interesse parti-colare del gruppo economico è subordinato all’interesse generale diquelli che dipendono da un salario per il loro lavoro, di tutti gli svan-taggiati.48

Per Kautsky, come abbiamo già visto, il partito rappresentaanche il momento universale della classe, ma mentre nel suo casol’unità politica è la prefigurazione scientifica di un’unità reale daraggiungere attraverso i movimenti della struttura economica,per Bernstein il momento dell’articolazione politica non puòessere ridotto a questi movimenti. La specificità dei legami poli-tici elude la catena della necessità; lo spazio irriducibile dellapolitica, che in Kautsky è limitato al ruolo di mediazione del-l’intellighenzia, si presenta qui considerevolmente allargato.

Comunque, nell’analisi bernsteiniana della mediazionepolitica come parte costitutiva dell’unità di classe, è presenteun’ambiguità appena percettibile che vizia la sua intera costru-zione teorica. L’ambiguità è questa: se la classe operaia si pre-senta sempre più divisa nell’ambito economico, e se la sua unitàè costruita autonomamente a livello politico, in che senso questaunità è un’unità di classe? Il problema non si pone per l’ortodos-sia, visto che la non-corrispondenza tra l’identità economica equella politica si risolve alla fine grazie allo sviluppo stesso del-

48. E. BERNSTEIN, Die heutige Sozialdemokratie in Theorie und Praxis,an answer to Brunhuber, Birk & Co., München 1906, p. 133 (citato in P. GAY,The Dilemma of Democratic Socialism, cit., p. 207).

Page 83: opuscula /193 - Monoskop

83

l’economia. Nel caso di Bernstein la conclusione logica sembre-rebbe essere quella per cui l’unità politica può essere costituitasolo attraverso un superamento dei limiti di classe delle diversefrazioni dei lavoratori, e che ci debba essere così una lacunastrutturale e permanente tra la soggettività economica e quellapolitica. Però questa è una conclusione alla quale Bernstein nonarriva mai nella sua analisi. Da una parte, insiste sul fatto che lasocialdemocrazia deve essere un partito di tutti gli oppressi e nonsolamente degli operai; dall’altra, immagina questa unità comeun insieme di settori che “accettano il punto di vista degli operaie gli riconoscono un ruolo dirigente”. Come segnala il suo bio-grafo Peter Gay,49 Bernstein non va mai oltre questo punto.Manca di conseguenza un passaggio nel suo ragionamento. Ilcarattere di classe dell’unificazione tra il politico e l’economiconon è derivato da nessuno dei due ambiti, e la questione rimanesospesa nel vuoto.

Questa conclusione può forse sembrare eccessiva, perchépresume che il ragionamento di Bernstein si muova sullo stessolivello di quello di Kautsky o di Rosa Luxemburg, che si stia rife-rendo quindi a dei soggetti necessari di un ineluttabile processostorico. Tuttavia la verità è che, negando l’assunto per il quale lastoria è dominata da un’astratta logica deterministica, Bernsteinsposta precisamente il dibattito su un altro terreno. La centralitàdegli operai, nella sua concezione, sembra piuttosto far riferi-mento a un ragionamento storicamente contingente, secondo ilquale, per esempio, la classe operaia è più preparata rispetto aglialtri settori della società a svolgere un ruolo dirigente visto il suogrado di concentrazione e organizzazione. Ma rimane il proble-ma del perché Bernstein presenti questi vantaggi – che sono ingran parte congiunturali – come conquiste irreversibili. La stes-sa ambiguità può essere trovata nella massima bernsteinianaseconda la quale “il movimento è tutto, il fine è nulla”.Tradizionalmente, questo è stato considerato un tipico slogan

49. P. GAY, The Dilemma of Democratic Socialism, cit., p. 120.

Page 84: opuscula /193 - Monoskop

84

“gradualista”.50 Tuttavia, in alcuni dei suoi significati, che pro-ducono effetti sia teorici che politici all’interno del discorso revi-sionista, il gradualismo non è logicamente implicato. L’unicaimplicazione necessaria di questa affermazione è che la classeoperaia può ottenere conquiste concrete all’interno del sistemacapitalistico, e che la rivoluzione non può quindi essere conside-rata come un momento assoluto nel passaggio dal totale sposses-samento alla liberazione totale. Questo non implica necessaria-mente la concezione gradualista di un progresso lento, monoli-neare e irreversibile, anche se è vero che il ragionamento diBernstein sui progressi democratici lo avvicina a una prospettivagradualista. Dobbiamo allora, ancora una volta, porre il proble-ma sul terreno dove questi momenti strutturali logicamentedistinti si congiungono.

Questo porta la nostra indagine alle forme concrete dellarottura di Bernstein con il determinismo ortodosso e al tipo diconcetti che egli dispiega per riempire lo spazio aperto dal suocollasso. Quando Bernstein si chiede se esista un meccanismogenerale in grado di spiegare esaurientemente il corso della sto-ria, il suo ragionamento assume una forma caratteristica: egli noncritica il tipo di causalità storica suggerita dall’ortodossia, tentainvece di creare uno spazio che renda possibile il libero giocodelle soggettività nella storia. Nell’accettare l’identificazionefatta dall’ortodossia di oggettività e causalità meccanica,Bernstein cerca semplicemente di limitarne gli effetti.51 Non

50. Abbiamo in precedenza distinto tra riformismo e revisionismo.Dobbiamo ora stabilire una seconda distinzione tra riformismo e gradualismo.La differenza principale è che il riformismo è una pratica politica e sindacale,mentre il gradualismo è una teoria della transizione al socialismo. Il revisioni-smo si differenzia da entrambi in quanto è una critica del marxismo classicobasata sull’autonomizzazione del politico. Queste distinzioni sono importantise, come sosteniamo nel testo, ognuno di questi termini non implica necessaria-mente gli altri, e ha un’area di effetti teorici e politici che può condurre in dire-zioni anche molto differenti.

51. Da qui la sua accettazione di una nozione dell’economico tecnologi-ca e ingenua, che alla fine dei conti è identica a quella riscontrata in Plekhanov.Cfr. L. COLLETTI, Ideologia e società, cit., pp. 84 e ss.

Page 85: opuscula /193 - Monoskop

85

nega il carattere scientifico di una parte del marxismo, ma sirifiuta di estenderlo fino al punto di creare un sistema chiuso ingrado di coprire l’intero campo della previsione politica. La cri-tica del razionalismo dogmatico dell’ortodossia prende la formadi un dualismo kantiano. Ci sono tre obiezioni specifiche cheBernstein solleva contro la considerazione del marxismo comesistema scientifico chiuso. La prima: il marxismo ha fallito nelmostrare che il socialismo sarebbe scaturito necessariamente dalcollasso del capitalismo. La seconda: questo non può esseredimostrato perché la storia non è un semplice processo oggetti-vo, anche la volontà ha un suo ruolo. La storia può quindi esse-re spiegata solamente come il risultato di un’interazione tra fat-tori oggettivi e soggettivi. La terza: siccome il socialismo è unprogramma di partito, basato quindi su decisioni etiche, questonon può essere completamente scientifico, e non può esserebasato su dichiarazioni oggettive la cui verità o falsità deve esse-re accettata da tutti. L’autonomia del soggetto etico sta alla basedella rottura di Bernstein con il determinismo.

Ora – e questo è un punto cruciale – l’introduzione del sog-getto etico non può dissipare le ambiguità che abbiamo primariscontrato nel ragionamento di Bernstein. La libera decisionedel soggetto etico può creare al massimo un’area di indetermina-tezza nella storia, ma non può essere il fondamento per una tesigradualista. Qui accade che un nuovo postulato – il carattere pro-gressivo e ascendente della storia umana – interviene a procura-re il terreno sul quale il politico e l’economico si uniscono,dando il senso della direzione a ogni risultato concreto. Il con-cetto di evoluzione, Entwicklung,52 gioca un ruolo decisivo neldiscorso di Bernstein: tutto il suo schema trae infatti da questo lasua coerenza. L’unificazione della sfera politica e di quella eco-nomica avviene non sulla base di articolazioni teoricamente defi-nite, ma attraverso un movimento tendenziale che sta alla base di

52. Sul concetto bernsteiniano di Entwicklung si veda V.L. LIDTKE, Lepremesse teoriche del socialismo in Bernstein, in Annali dell’IstitutoGiangiacomo Feltrinelli, Vol. 15, 1973, pp. 155-8.

Page 86: opuscula /193 - Monoskop

86

entrambe, e che è dettato dalle leggi dell’evoluzione. Questeleggi, in Bernstein, non sono le stesse del sistema ortodosso: essenon includono soltanto processi antagonistici, ma anche proces-si armonici. In entrambi i casi sono così concepite come contestitotalizzanti che fissano a priori il significato di ogni evento. Inquesto modo, benché “i fatti” siano liberi da quelle connessioniessenzialiste che li tenevano insieme nella concezione ortodossa,sono però poi anche riuniti in una teoria generale del progressolibera da ogni meccanismo determinabile. La rottura con l’og-gettivismo meccanico, che considerava le classi come soggettitrascendentali, è realizzata attraverso il presupposto di un nuovosoggetto trascendente – il soggetto etico – che impone un’ascen-dente su un’umanità sempre più liberata dalla necessità econo-mica.53 Da questo punto è impossibile muovere verso una teoriadell’articolazione e dell’egemonia.

Questo spiega perché, in Bernstein, l’autonomizzazionedel politico può essere collegata all’accettazione di una praticariformista e di una strategia gradualista. Visto che ogni progres-so è irreversibile – dato il postulato dell’Entwicklung – il suoconsolidamento non dipende più da un’articolazione instabile diforze e cessa di essere un problema politico. Se, d’altra parte,l’insieme dei progressi democratici dipende da una correlazionecontingente di forze, allora l’astratta considerazione della giu-stezza di ogni rivendicazione non è una ragione sufficiente peraffermarne il carattere progressivo. Per esempio, un riallinea-mento negativo delle forze può essere determinato da una riven-dicazione di ultra-sinistra, o dal suo opposto, un’assenza di ini-ziative politiche radicali in una congiuntura critica. Ma se l’in-

53. Il senso della nostra critica non deve essere frainteso. Non mettiamoin dubbio la necessità di giudizi etici alla base di una politica socialista; l’assur-do rifiuto espresso in questo senso da Kautsky, e il suo tentativo di ridurre l’a-desione al socialismo a una mera consapevolezza della sua necessità storica, ègià stato oggetto di una critica devastante. Il nostro ragionamento è che la pre-senza di giudizi etici non implica il fatto che questi giudizi debbano essere attri-buiti a soggetti trascendentali, costituiti fuori da ogni condizione discorsiva diemergenza.

Page 87: opuscula /193 - Monoskop

87

sieme dei progressi democratici dipende unicamente da unalegge di progresso, allora il carattere progressivo di ogni lotta orivendicazione congiunturale è definito indipendentementedalla sua correlazione con le altre forze che operano in un datomomento. Il fatto che le rivendicazioni del movimento operaiosiano considerate giuste e progressive, giudicate separatamentedalla loro relazione con le altre forze, cancella l’unico fonda-mento per una critica della segregazione corporativa della clas-se operaia. Qui troviamo le premesse per una coincidenza tra ilrevisionismo teorico e il riformismo pratico: l’estensione dell’i-niziativa politica a una serie di fronti democratici che non entra-no mai in contraddizione con il quietismo e il corporativismodella classe operaia.

Lo vediamo chiaramente considerando la teoria revisionistadello Stato. Per l’ortodossia il problema è semplice: lo Stato èuno strumento del dominio di classe, la socialdemocrazia puòsolo partecipare alle sue istituzioni con lo scopo di diffondere lapropria ideologia, difendere e organizzare la classe operaia. Unatale partecipazione è quindi contraddistinta dall’esteriorità.Bernstein vede questo problema dalla prospettiva opposta: feno-meni come il crescente potere economico della classe operaia, iprogressi nella legislazione sociale, l’“umanizzazione” del capi-talismo, conducono tutti alla “nazionalizzazione” della classeoperaia; il lavoratore non è più semplicemente un proletario, madiventa anche un cittadino. Per Bernstein, di conseguenza, le fun-zioni di organizzazione sociale hanno un’influenza maggioresullo Stato rispetto alle funzioni di dominio di classe; la demo-cratizzazione dello Stato trasforma questo in uno Stato “di tuttoil popolo”. Ancora una volta, Bernstein aveva capito meglio del-l’ortodossia la verità fondamentale secondo la quale la classeoperaia è già sul terreno dello Stato, e che è sterile dogmatismocercare di mantenere con questo relazioni di pura esteriorità. Nelsuo discorso, tuttavia, questa assunzione si trasforma subito inuna predizione totalmente illegittima: che lo Stato, come conse-guenza necessaria dell’“evoluzione storica”, sarebbe diventatosempre più democratico.

Arrivati a questo punto, possiamo sottoporre Bernstein allo

Page 88: opuscula /193 - Monoskop

88

stesso esame al quale abbiamo sottoposto Rosa Luxemburg:seguire quindi la logica del suo ragionamento eliminando nelcontempo i presupposti essenzialisti (in questo caso il postulatodel progresso come tendenza unificatrice) che limitano i suoieffetti. Due conclusioni emergono subito da questo esame. Laprima: i progressi democratici all’interno dello Stato cessano diessere cumulativi e iniziano a dipendere da un rapporto di forzeche non può essere determinato a priori. L’oggetto della lotta nonè semplicemente quello di portare a conquiste specifiche, ma aforme di articolazione delle forze che permettano a queste acqui-sizioni di consolidarsi. E queste forme sono sempre reversibili. Inquesto conflitto, la classe operaia deve lottare da dove si trovarealmente: sia dentro che fuori lo Stato. Ma – e questa è la secon-da conclusione – la perspicacia di Bernstein apre a una possibi-lità assai più inquietante. Se il lavoratore non è più soltanto unproletario ma anche un cittadino, un consumatore, partecipe diuna pluralità di posizioni all’interno dell’apparato culturale eistituzionale del paese; se, inoltre, questo insieme di posizioninon è più tenuto insieme da alcuna “legge del progresso” (e nem-meno, certamente, dalle “leggi necessarie” dell’ortodossia), allo-ra le loro relazioni diventano un’articolazione aperta che nonoffre alcuna garanzia a priori sulla scelta per una forma data. C’èquindi anche la possibilità che si presentino posizioni soggettivecontraddittorie e reciprocamente neutralizzanti. In quel caso, piùche mai, lo sviluppo democratico necessiterà di una proliferazio-ne di iniziative politiche in diverse aree sociali, come richiestodal revisionismo, ma con la differenza che il significato di ogniiniziativa dipenderà dalla sua relazione con le altre. Pensare que-sta dispersione di elementi e di punti di antagonismo, e immagi-narne l’articolazione fuori da ogni schema unificante a priori, èqualcosa che va molto al di là del campo del revisionismo. Anchese è il revisionismo a porre per primo il problema nei suoi ter-mini più generali, l’inizio di una risposta adeguata può essererintracciato solamente nel concetto gramsciano di “guerra diposizione”.

Page 89: opuscula /193 - Monoskop

89

La terza risposta alla crisi: il sindacalismo rivoluzionario

La nostra indagine sul revisionismo ci ha condotto al puntonel quale Bernstein, paradossalmente, si trova davanti allo stessodilemma di tutte le correnti ortodosse (inclusa l’arcinemica RosaLuxemburg): la struttura economica non è in grado di assicurarel’unità di classe nel presente, mentre la politica, l’unico terrenodove questa unità presente può essere costruita, è incapace digarantire in modo convincente il carattere di classe dei soggettiunitari. Questa antinomia può essere percepita ancora più chiara-mente nel sindacalismo rivoluzionario, che rappresenta un terzotipo di risposta alla “crisi del marxismo”. È Sorel a descriverequesta antinomia nel modo più chiaro e netto, e questo perchéSorel è più cosciente di Bernstein, o di ogni teorico ortodosso,delle dimensioni reali della crisi e del prezzo che la teoria avreb-be dovuto pagare per superarla in modo soddisfacente. In Soreltroviamo non solo l’assunzione di una zona di “contingenza” e“libertà” che rimpiazza i legami spezzati nella catena dellanecessità, ma anche uno sforzo di pensare la specificità di questa“logica della contingenza”, di quel nuovo terreno sul quale siricostruisce un campo di effetti totalizzanti. In questo senso, èutile riferirsi ai momenti chiave della sua evoluzione.54

Anche nelle prime fasi relativamente ortodosse della carrie-ra marxista di Sorel, sia le fonti del suo interesse politico sia gliassunti teorici alla base della sua analisi mostrano una marcataoriginalità, e sono considerevolmente più sofisticati di quelli diun Kautsky o di un Plekhanov. Sorel è lontano dall’idea di cul-

54. Tra gli ultimi lavori su Sorel quelli che riteniamo più utili sono: M.MAGGI, La formazione dell’egemonia in Francia: l’ideologia sociale nella terzaRepubblica tra Sorel e Durkheim, De DONATO, Bari 1977; M. CHARZAT, GeorgesSorel et la revolution au XXe siecle, Hachette, Paris 1977; J. JULLIARD, FernandPelloutier et les origines du syndicalisme d’action directe, Editions du Seuil,Paris 1971; G. DE PAOLA, Georges Sorel: dalla metafisica al mito, in E.J.HOBSBAWM (et. al.), cit., Vol. 2, cit., pp. 662-92; con qualche seria riserva ancheZ. STERNHELL, Né destra né sinistra: l’ideologia fascista in Francia, trad. it. diM.G. Meriggi, Baldini & Castoldi, Milano 1997.

Page 90: opuscula /193 - Monoskop

90

larsi su di un meccanismo storico soggiacente che unifica unadata forma di società e che governa allo stesso tempo le transi-zioni tra forme diverse. Non a caso il principale interesse di Sorel– e da qui il suo frequente richiamo a Vico – sono quelle qualitàmorali che permettono a una società di rimanere unita e di cre-scere. Non avendo garanzie di positività, le trasformazioni socia-li hanno come uno dei loro possibili esiti quello di essere infil-trate dalla negatività. Non c’è semplicemente il fatto che una dataforma di società viene contrapposta a un’altra, diversa e positiva,destinata a rimpiazzarla, ma viene affrontata anche la possibilitàdella decadenza e della disintegrazione, come nel caso delmondo antico. Quello che Sorel trova attraente nel marxismo nonè infatti una teoria delle leggi necessarie dell’evoluzione storica,ma piuttosto la teoria della formazione di un nuovo agente – ilproletariato – capace di agire come forza agglutinante, in gradodi ricostruire attorno a sé una forma di civiltà più avanzata e disoppiantare la declinante società borghese.

Questa dimensione del pensiero di Sorel è presente fin dal-l’inizio. Nei suoi scritti precedenti la controversia revisionista,tuttavia, si combina con un’accettazione delle tendenze dello svi-luppo capitalistico postulate dall’ortodossia. In questi scritti,Sorel vede il marxismo come una “nuova metafisica reale”; tuttele scienze reali, sostiene, si costituiscono sulla base di un “sup-porto espressivo”, che introduce un elemento artificiale nell’ana-lisi. Questo può dare origine ad abbagli utopistici o mitici, ma nelcaso della società industriale si riscontra una crescente unifica-zione del terreno sociale attorno all’immagine del meccanismo.Il supporto espressivo del marxismo – il carattere sociale dellavoro e la categoria di “merce”, che elimina sempre più le distin-zioni qualitative – non è una base arbitraria, perché rappresentail paradigma costitutivo che fa da cornice alle relazioni sociali. Ilsocialismo, in quanto appropriazione collettiva dei mezzi di pro-duzione, rappresenta il punto culminante della crescente socia-lizzazione e omogeneizzazione del lavoro. L’influenza sempremaggiore di questi paradigmi produttivi dipende dalle leggi dimovimento del capitalismo, che Sorel non mette in discussionein questo momento della sua carriera. Ma malgrado questo, l’a-

Page 91: opuscula /193 - Monoskop

91

gente consapevole dei propri interessi – quello che porterà lasocietà a una forma superiore – non si costituisce grazie a unsemplice movimento oggettivo. Interviene a questo punto unaltro elemento nell’analisi di Sorel: il marxismo non è semplice-mente un’analisi scientifica della società, è anche l’ideologia cheunisce il proletariato e che dà una direzione alle sue lotte. I “sup-porti espressivi” funzionano perciò come elementi che mettonoinsieme e condensano quelle forze storiche che più avanti Sorelchiamerà blocchi. Dovrebbe essere chiaro come, di fronte all’or-todossia marxista, questa analisi sposti già il terreno su un puntocruciale: il campo delle cosiddette “leggi oggettive” ha perso ilsuo carattere di substrato razionale del sociale, diventando inve-ce l’insieme delle forme attraverso le quali una classe si costitui-sce come forza dominante e impone la sua volontà al resto dellasocietà. Comunque, visto che la validità di queste leggi non èmessa in discussione, la distanza dall’ortodossia non è poi cosìsignificativa.

La rottura inizia quando Sorel, partendo dal dibattito sulrevisionismo, accetta in blocco la critica al marxismo di Bernsteine di Croce, ma per trarne conclusioni assai diverse. Quello chesorprende in Sorel è il radicalismo con cui accetta le conseguen-ze della “crisi del marxismo”. Al contrario di Bernstein, non fanemmeno il minimo tentativo di rimpiazzare il razionalismo sto-rico dell’ortodossia con una diversa concezione evoluzionista: lapossibilità che una forma di civiltà possa disintegrarsi rimanesempre una possibilità concreta nella sua analisi. La totalità inte-sa come sostrato razionale fondante si è dissolta, quello che c’èora è un mélange. In queste condizioni, come si può pensare lapossibilità di un processo di ricomposizione? La risposta di Sorelsi concentra sulle classi sociali, che non svolgono più il ruolo diposizioni strutturali all’interno di un sistema oggettivo, ma sonopiuttosto poli di riaggregazione che Sorel chiama “blocchi”. Lapossibilità dell’unità nella società è così riferita alla volontà dialcuni gruppi di imporre la loro concezione dell’organizzazioneeconomica. La filosofia di Sorel infatti – influenzata da Nietzchee in particolare da Bergson – è una filosofia dell’azione e dellavolontà, nella quale il futuro è imprevedibile e dipende dalla

Page 92: opuscula /193 - Monoskop

92

volontà. Inoltre, il livello al quale le forze in lotta trovano la lorounità è quello di un insieme di immagini o “figure linguistiche”che prefigurano la teoria del mito. Il consolidamento delle classicome forze storiche cementate da un’“idea politica” dipende tut-tavia dal loro confronto con le forze opposte. Una volta che la suaidentità smette di essere fondata su un processo di unità a livelloinfrastrutturale (a questo livello c’è infatti solo il mélange), laclasse operaia inizia a dipendere dalla separazione dalla classecapitalista, che può essere completa solo nella lotta contro di essa.La “guerra” diventa così per Sorel la condizione dell’identitàdella classe operaia, mentre la ricerca di un terreno comune conla borghesia porta solo all’indebolimento. Questa coscienza diuna scissione è una coscienza giuridica: Sorel vede la costruzio-ne della soggettività rivoluzionaria come un processo nel quale ilproletariato diventa consapevole di una serie di diritti che lo con-trappongono alla classe avversaria e stabilisce una serie di nuoveistituzioni in grado di consolidarli.55 Sorel, tuttavia, da accesodreyfussardo, non vede una contraddizione inevitabile nella plu-ralità delle posizioni della classe operaia all’interno del sistemapolitico ed economico: è un partigiano della democrazia e dellalotta politica del proletariato, ma considera anche la possibilitàche la classe operaia, anche se non legata economicamente inalcun modo alle classi medie, possa diventare un polo per la lororicomposizione politica.

Nell’evoluzione di Sorel si scorge una direzione chiara:come in tutte le concezioni che lottano contro il quietismo del-l’ortodossia, egli è costretto a dislocare il momento costitutivodell’unità di classe al livello politico; ma poiché la sua rotturacon la categoria di “necessità storica” è più radicale rispetto allealtre concezioni, si sente obbligato a definire il legame fondativodell’unità politica. Questo fatto diventa ancora più chiaro se cispostiamo al terzo stadio del suo pensiero, che corrisponde allagrande disillusione seguita alla sconfitta della coalizione dreyfu-

55. Si veda S. SAND, Lutte de classes et conscience juridique dans la pen-sée de Sorel, in “Esprit”, 3, marzo 1983, pp. 20-35.

Page 93: opuscula /193 - Monoskop

93

sarda. Il socialismo di marca millerandiana si integra nel sistema,la corruzione dilaga, c’è un continuo smottamento dell’identitàproletaria e l’energia abbandona l’unica classe che, agli occhi diSorel, ha la possibilità di avere un futuro eroico in grado di rimo-dellare la declinante civiltà borghese. Sorel diventa così un nemi-co risoluto della democrazia, giudicandola la principale respon-sabile della dispersione e della frammentazione di quelle posi-zioni soggettive contro le quali il marxismo ha dovuto lottareall’inizio del secolo. Diventa quindi necessario, a qualunquecosto, ristabilire la scissione e ricostituire la classe operaia comesoggetto unitario. Come è noto, questo porta Sorel a rifiutare lalotta politica e ad affermare il mito sindacalista dello scioperogenerale.

Sappiamo che lo sciopero generale è proprio ciò che ho detto: il mitonel quale si racchiude tutto intero il socialismo, cioè a dire una orga-nizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i senti-menti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerraintrapresa dal socialismo contro la società moderna. Gli scioperihanno fatto nascere nel proletariato i sentimenti più nobili, più profon-di e più stimolanti all’azione che esso possiede; lo sciopero generale liraggruppa tutti in un quadro di insieme e, con il loro raccostamento,dona a ciascuno di essi la sua massima intensità; facendo appello airicordi assai scottanti dei conflitti particolari, esso colora di luce inten-sa tutti i particolari della composizione che si presenta alla coscienza.Otteniamo in tal modo quella intuizione del socialismo che il linguag-gio non è in grado di rendere in maniera perfettamente chiara, e otte-niamo ciò in un insieme che è percepito all’istante.56

Lo “sciopero generale” nei sindacalisti, come la “rivoluzio-ne” in Marx, è un mito in quanto funziona come un punto di con-densazione ideologica per l’identità proletaria, costituita sullabase di una dispersione delle posizioni soggettive. È l’unico tipodi legame ricompositivo che rimane dopo che la lotta politica èstata abbandonata, e si ritiene che l’economia dei monopoli e

56. G. SOREL, Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, a cura diR. Vivarelli, UTET, Torino 2006, pp. 219-220.

Page 94: opuscula /193 - Monoskop

94

dell’imperialismo – vista da Sorel come implicante un processodi rifeudalizzazione – intensifichi le tendenze verso la disinte-grazione. Più in generale, si riconosce il vecchio tema dell’anti-physis nell’affermazione di Sorel secondo la quale le societàhanno una tendenza “naturale” alla decadenza e che la tendenzaalla grandezza è “artificiale”. La violenza è così l’unica forza chepuò tenere in vita l’antagonismo descritto da Marx. “Se una clas-se capitalistica è energica, essa costantemente afferma la suavolontà di difendersi; il suo atteggiamento francamente e leal-mente reazionario contribuisce a sottolineare la scissione delleclassi che è alla base di tutto il socialismo, almeno allo stessomodo della violenza proletaria”.57 Da questa prospettiva, contapoco se lo sciopero generale possa essere realizzato o meno: ilsuo ruolo è quello di un principio regolativo che permette al pro-letariato di pensare il mélange delle relazioni sociali come orga-nizzato attorno a una chiara linea di demarcazione. La categoriadella totalità, scartata come descrizione oggettiva della realtà,viene reintrodotta come elemento mitico che stabilisce l’unitàdella coscienza dei lavoratori. Come ha sottolineato De Paola,58

la nozione di “strumento cognitivo” – o supporto espressivo – ilcui carattere artificiale era stato riconosciuto all’inizio, si allargafino a comprendere l’immaginazione.

Per Sorel, allora, la possibilità di una divisione dicotomicadella società si dà non come un dato della struttura sociale, macome una costruzione al livello dei “fattori morali” che governa-no il conflitto di gruppo. E qui ci troviamo di fronte al problemain cui ci siamo imbattuti ogni volta che una concezione marxistaha tentato di rompere con l’economicismo e di stabilire l’unità diclasse a un qualche altro livello. Perché questo soggetto politica-mente o miticamente ricostruito deve essere un soggetto di clas-se? Se l’inadeguatezza della rottura della Luxemburg o diLabriola con l’economicismo ha creato le condizioni per l’invi-sibilità del duplice vuoto che appare nel loro discorso, nel caso

57. Ivi, p. 288.58. G. DE PAOLA, Georges Sorel: dalla metafisica al mito, cit., p. 688.

Page 95: opuscula /193 - Monoskop

95

di Sorel proprio la radicalità stessa del suo antieconomicismorende questo vuoto chiaramente visibile. Lo fa a tal punto chealcuni dei suoi seguaci, avendo abbandonato la speranza di unrecupero rivoluzionario della classe operaia, si sono orientativerso la ricerca di qualche altro mito sostitutivo capace di assi-curare la lotta contro la decadenza borghese. È risaputo comel’abbiano trova nel nazionalismo. È questa la strada attraverso laquale una parte dell’eredità intellettuale di Sorel contribuì all’a-scesa del fascismo. Così, nel 1912, il suo discepolo EdouardBerth poteva affermare:

Il doppio movimento nazionalistico e sindacalistico, parallelo e sin-cronico, deve perseguire la negazione assoluta del regime dell’oro e iltrionfo dei valori eroici sull’ignobile materialismo borghese in cuisoffoca l’Europa odierna. In altri termini, il risveglio della Forza e delSangue contro l’Oro, di cui Pareto ha individuato i primi sintomi e icui primi segnali sono stati dati da Sorel, con le Réflexions sur la vio-lence e da Maurras con Si le coup de force est possible, deve conclu-dersi con la rotta definitiva della plutocrazia.59

Certamente questa è solo una delle possibili derive che pos-sono prendere le analisi di Sorel, e sarebbe storicamente falso eanaliticamente infondato concludere che questo debba essere unrisultato necessario.60 Storicamente falso perché l’influenza diSorel si è fatta sentire in numerose direzioni: è stata cruciale, peresempio, nella formazione del pensiero di Gramsci.Analiticamente infondato perché una tale interpretazione teleo-logica presuppone che la transizione dalla classe alla nazionevenga necessariamente determinata dalla struttura stessa del pen-siero di Sorel, mentre il momento più specifico e originale di

59. Citato in Z. STERNHELL, Né destra né sinistra: l’ideologia fascista inFrancia, cit., p. 157.

60. È proprio questo che rende debole l’analisi di Sternhell (Né destra nésinistra) nonostante la sua ricchezza di informazioni. La storia che ci presentasembra organizzata attorno a una teleologia estremamente semplice, secondo laquale ogni rottura con una visione materialista o positivista può essere conside-rata unicamente come anticipatrice del fascismo.

Page 96: opuscula /193 - Monoskop

96

Sorel è proprio il carattere indeterminato, non a-priori dei sog-getti costituiti miticamente. Per di più, questa indeterminatezzanon si configura come una debolezza della teoria, poiché affer-ma che la realtà sociale stessa è indeterminata (mélange) e chequalsiasi unificazione avvia le pratiche ricompositive di un bloc-co. In questo senso, non c’è alcuna ragione teorica per la qualela ricostruzione mitica debba avviarsi nella direzione del fasci-smo, ma allo stesso modo nessuno può escludere che avanzi inun’altra direzione, come quella del bolscevismo, per esempio, lacui apparizione Sorel salutò con entusiasmo. Il punto decisivo –e questo è quello che fa di Sorel il più profondo e originale pen-satore della Seconda internazionale – è che la stessa identitàdegli agenti sociali diventa indeterminata, e che ogni fissazione“mitica” dipende da una lotta. Il concetto di “egemonia”, percome emerse nella socialdemocrazia russa – che come vedremopresuppone anche una logica della contingenza – è da questopunto di vista assai meno radicale. Né Lenin né Trotsky sarannoin grado di mettere in questione la necessità, per gli agenti socia-li, di avere un carattere di classe. Solo con Gramsci le due tradi-zioni convergeranno nel suo concetto di “blocco storico”, dove ilconcetto di “egemonia” derivato dal leninismo incontrerà, in unanuova sintesi, il concetto di “blocco” derivato da Sorel.

Page 97: opuscula /193 - Monoskop

97

IIEGEMONIA: LA DIFFICILE EMERGENZA

DI UNA NUOVA LOGICA POLITICA

Giunti a questo punto, occorre chiarire la relazione tra ilduplice vuoto emerso nel discorso essenzialista della Secondainternazionale e la peculiare dislocazione degli stadi cui rispon-derà politicamente la problematica dell’egemonia. Cominciamocol definire quelle caratteristiche di tale duplice vuoto che ren-dono possibile la sua comparazione con la sutura egemonica.1 In

1. Il concetto di “sutura”, che useremo frequentemente, è preso in pre-stito dalla psicanalisi. La sua formulazione esplicita è attribuita a Jacques-AlainMiller (Suture elements of the logic of the signifier, “Screen”, Winter 1977/78,vol. 18, no. 4, pp. 24-34), sebbene operi implicitamente nell’intera teoria laca-niana. Esso è usato per designare la produzione del soggetto sulla base dellacatena del suo discorso, vale a dire della non-corrispondenza tra il soggetto el’Altro – il simbolico – che impedisce la chiusura di quest’ultimo come presen-za piena (di qui, la costituzione dell’inconscio come barriera operante la giun-zione/divisione tra il soggetto e l’Altro). “Sutura nomina la relazione del sog-getto alla catena del suo discorso; vedremo che vi figura come l’elemento man-cante, nella forma del supplemento. Mancante, non puramente e semplicemen-te assente. Sutura, per estensione: la relazione generale di mancanza con la strut-tura di ciò che ne è un elemento, nella misura in cui implica la posizione di pren-dere-il-posto-di” (Miller, pp. 25-6). Questo momento di mancanza è, tuttavia,solo un aspetto. In un secondo aspetto la sutura implica un riempimento. Comeindica Stephen Heath, “sutura nomina non solo una struttura di mancanza maanche una disponibilità del soggetto, una certa chiusura […]. Non sorprende[…] perciò che l’uso stesso del termine ‘sutura’ da parte di Lacan […] dia adesso il senso di una ‘pseudo-identificazione’, lo definisca come una ‘funzionedell’immaginario e del simbolico’. […] la posta in gioco è chiara: l’‘Io’ è una

Page 98: opuscula /193 - Monoskop

98

primo luogo, esso appare nella forma di un dualismo: il suodiscorso fondante non cerca di determinare i gradi differenzialidi efficacia all’interno di una topografia del sociale, ma di asse-gnare dei limiti alla capacità inglobante e determinante di ognistrutturazione topografica. Ne derivano formule come: “la strut-tura non determina ogni cosa, perché anche la coscienza o lavolontà intervengono nella storia”; oppure, “la teoria generalenon può rendere conto delle situazioni concrete, perché ogni pre-dizione ha un carattere morfologico”. Questo dualismo sicostruisce attraverso un’ipostasi dell’indeterminato qua indeter-minato: le entità che sfuggono alla determinazione strutturalesono intese come il suo inverso negativo. Questo è ciò che rendeil dualismo una relazione tra frontiere. Se però osserviamo conattenzione, questa risposta non rompe del tutto con il determini-smo strutturale, ma riesce solo a limitarne gli effetti. Per esem-pio, è certamente possibile sostenere sia che ci sono vaste areedella vita sociale che sfuggono al determinismo economico siache, nell’area limitata in cui i suoi effetti sono operativi, l’azionedell’economia debba essere intesa secondo un paradigma deter-minista. Nondimeno, un tale argomento pone un problema evi-dente: per affermare che qualcosa è assolutamente determinato,e per stabilire una chiara linea di separazione con l’indetermina-to, non è sufficiente stabilire la specificità della determinazionema deve anche essere affermato il suo carattere necessario. Ildualismo presupposto è per questa ragione un dualismo spurio: i

divisione ma ricongiunge tutto, il supplemento è la mancanza della struttura, manondimeno, simultaneamente, la possibilità di una coerenza, di un riempimen-to” (S. HEALTH, Notes on Suture, Screen, pp. 55-6). È questo doppio movimen-to che cerchiamo di sottolineare nella nostra estensione del concetto di sutura alcampo della politica. Le pratiche egemoniche sono suturanti nella misura in cuiil loro campo operativo è determinato dall’apertura del sociale, dal carattereessenzialmente non fisso di ogni significante. Questa mancanza originaria è pre-cisamente ciò che le pratiche egemoniche tentano di colmare. In una societàtotalmente suturata tale riempimento avrebbe raggiunto le sue conseguenze ulti-me, riuscendo quindi a identificarsi con la trasparenza di un ordine simbolicochiuso. Una tale chiusura del sociale è, come vedremo, impossibile.

Page 99: opuscula /193 - Monoskop

99

suoi due poli non sono allo stesso livello. Il determinato, stabi-lendo la sua specificità come necessaria, stabilisce i limiti dellavariazione dell’indeterminato. L’indeterminato si riduce così a unmero supplemento2 del determinato.

In secondo luogo, come abbiamo già visto, questo evidentedualismo risponde al fatto che la determinazione strutturale nonfornisce il fondamento per una logica politica in cui una lottapossa essere condotta qui e ora contro le tendenze alla frammen-tazione. Appare subito chiaro come l’unico terreno che permettadi pensare la specificità di una tale logica sia stato eliminato dalquadro: se ogni specificità teoricamente determinabile si riferi-sce al terreno della struttura e al sistema di classe che ne risulta,ogni altra logica scompare dal terreno generale della variazionecontingente, oppure si riferisce a entità che sfuggono a ognideterminazione teorica, come la volontà o la decisione etica.

In terzo luogo, infine, nel discorso della Seconda interna-zionale l’unità di classe degli agenti sociali si fonda sulla basesempre più debole del rispecchiamento: la frammentazione eco-nomica è incapace di costituire l’unità di classe e ci rinvia allaricomposizione politica; a sua volta la ricomposizione politica èincapace di trovare il carattere di classe necessario degli agentisociali.

Sviluppo combinato e logica del contingente

Compariamo ora questo insieme di crepe presenti neldiscorso teorico della Seconda internazionale con le dislocazioniche il concetto di egemonia tenterà di suturare. Perry Anderson3

2. Nel senso in cui Derrida ha parlato di una “logica del supplemento”.Certo, la supplementarietà dell’indeterminato scompare se si rompe il legametra la specificità e la necessità del “determinato”. Abbiamo visto come questoaccada con il mito di Sorel. In questo caso, però, scompare anche l’unico terre-no che rende possibile l’emergenza del dualismo.

3. P. ANDERSON, cit., pp. 15 ss.

Page 100: opuscula /193 - Monoskop

100

ha studiato l’emergenza del concetto di egemonia nella socialde-mocrazia russa – che di qui è stato tratto dai teorici della SecondaInternazionale, giungendo poi a Gramsci – e i risultati della suaindagine sono chiari: il concetto di egemonia colma uno spaziolasciato vacante da una crisi di quello che, secondo la concezio-ne stadiale di Plekhanov, avrebbe dovuto essere uno sviluppo sto-rico normale. Per questa ragione l’egemonizzazione di un com-pito o di un insieme di forze politiche appartiene al terreno dellacontingenza storica. Nella socialdemocrazia europea i problemiprincipali erano stati la dispersione delle posizioni della classeoperaia e la dissoluzione della loro unità postulata dalla teoriamarxista. Il grado stesso di maturità della civiltà borghese riflet-teva il suo ordine strutturale all’interno della classe operaia, sov-vertendone l’unità. Di contro, nella teoria dell’egemonia, com’e-ra stata proposta nel contesto russo, i limiti di una civilizzazioneborghese, non sufficientemente sviluppata, costringevano laclasse operaia a uscire da sé e a farsi carico di compiti non suoi.Il problema, allora, non era più quello di assicurare l’unità diclasse, ma quello di massimizzare l’efficacia politica della lottadella classe operaia, in un terreno storico sul quale la contingen-za risultava dalla debolezza strutturale della borghesia, incapacedi assumersi i suoi propri compiti.

Esaminiamo ora come si sono strutturati i passaggi chehanno portato all’emergere del concetto di “egemonia”. Negliscritti di Plekhanov e Axelrod il termine “egemonia” viene intro-dotto per descrivere il processo che, data l’impotenza della bor-ghesia russa a condurre la sua “normale” lotta per la libertà poli-tica, aveva costretto la classe operaia a intervenire per conqui-starla. C’è dunque una scissione tra la natura di classe del com-pito e l’agente storico che se ne fa carico. Questo crea uno spa-zio di indeterminatezza le cui dimensioni variano considerevol-mente: minime in Plekhanov, massime in Trotsky. Ma, in ognicaso, questo spazio doveva divenire il punto cruciale sul quale sisarebbero divisi i vari orientamenti rivoluzionari. La rivoluzionerussa – la rivoluzione “contro il Capitale” come la chiamavaGramsci – doveva giustificare la sua strategia ampliando al mas-simo lo spazio di indeterminatezza caratteristico della lotta per

Page 101: opuscula /193 - Monoskop

101

l’egemonia. Emergeva di conseguenza un’opposizione tra uninterno necessario (corrispondente ai compiti di classe in unosviluppo “normale”) e un esterno contingente (l’insieme deicompiti estranei alieni alla natura di classe degli agenti socialiche dovranno però essere assunti in un dato momento).

Tra le dislocazioni storiche del paradigma ortodosso e quel-le che abbiamo rilevato nelle vicende dell’Europa occidentale cisono differenze significative. In entrambi i casi, si è prodotto unospiazzamento; ma, se in Europa occidentale, quest’ultimo haimplicato uno spostamento di livelli dall’economico al politico,entro la stessa classe, in Russia, la dislocazione è stata maggio-re, perché ha avuto luogo tra classi differenti. In Europa occi-dentale – con l’eccezione dell’Austro-marxismo, in cui una mol-teplicità di situazioni nazionali viene presentata come una dislo-cazione di stadi – ci troviamo di fronte a una dissociazione deimomenti strutturali di un paradigma sincronico. Così, l’ideadella dissociazione non può assumere, come nella socialdemo-crazia russa, la forma di una narrazione. Infine, mentre la dislo-cazione e la crisi del paradigma sono, negli altri casi, un feno-meno negativo, in Russia divengono un fenomeno positivo: ladisarmonia tra i compiti borghesi e la capacità della borghesia diadempierli diventa il viatico per la presa del potere politico daparte del proletariato. Per la stessa ragione, le forme europeedella dislocazione potevano essere concettualizzate semplice-mente riferendosi a categorie negative – transitorietà e contin-genza – che dovevano essere superate; ma, nel caso russo, dalmomento che le dislocazioni si esprimevano come congiunturepositive che permettevano l’avanzata della classe operaia – unmodo per infiltrarsi nella storia –, diventava necessario caratte-rizzare un nuovo tipo di relazione tra la classe operaia e i compi-ti estranei che essa doveva assumere in un dato momento. Questarelazione anomala fu chiamata “egemonia”.

Dobbiamo ora esaminare la specificità della relazione ege-monica nel discorso della socialdemocrazia russa. Qui infatti“egemonia” designa, più che una relazione, uno spazio domina-to dalla tensione tra due relazioni assai differenti: a) quella tra ilcompito egemonizzato e il suo agente di classe “naturale”; b)

Page 102: opuscula /193 - Monoskop

102

quella tra il compito egemonizzato e la classe che lo egemoniz-za. Se la coesistenza di queste due relazioni, sotto forme concet-tuali imprecise, è sufficiente per dare al termine “egemonia” unospazio referenziale, la determinazione precisa della loro articola-zione logica è una condizione sine qua non per la conversionedell’“egemonia” in una categoria teorica. In tal caso, però, bastaesaminare le due relazioni con attenzione per constatare comenon siano articolate logicamente in alcun punto.

Prima di tutto, nella lotta contro l’assolutismo nessuna delleanalisi della socialdemocrazia russa suggerisce che i compitiborghesi cessino d’essere borghesi se vengono assunti dal prole-tariato. L’identità di classe si costituisce sulla base dei rapporti diproduzione: per l’ortodossia è all’interno di questa struttura pri-maria che emerge l’antagonismo tra la classe operaia e la bor-ghesia. Tale struttura primaria si organizza come una narrazione– potremmo chiamarla prima narrazione – dato che il suo movi-mento è contraddittorio e tende all’auto-eliminazione. Nellostrutturarsi di tale narrazione, le leggi dello sviluppo capitalisti-co costituiscono la trama, mentre i personaggi, con ruoli perfet-tamente assegnati, sono le classi proletaria e capitalista. Ora, lachiarezza di questa storia è resa opaca dall’emergere di un’ano-malia: la classe borghese non può adempiere al proprio ruolo, equesto deve essere assunto dall’altro personaggio. Potremmochiamare questa sostituzione di ruolo seconda narrazione: neitermini di Trotsky, rivoluzione permanente. Qual è la relazionestrutturale tra queste due narrazioni? È sufficiente ripercorrere ildibattito strategico per convincerci che la loro articolazione haluogo su un terreno teorico segnato dal dominio della prima nar-razione. Sono sufficienti tre considerazioni per provare questopunto. 1) L’ordine di apparizione dei personaggi non è alteratodalla seconda narrazione: se la borghesia è incapace di adempie-re ai “propri” compiti questi passano necessariamente al proleta-riato: eppure la necessità di tale trasferimento è evidente solo sesi assume come garantita la totalità dello schema evolutivo costi-tuito al livello della prima narrazione. 2) La natura di classe deicompiti non è alterata dal fatto che essi sono assunti dall’una odall’altra classe: i compiti democratici restano borghesi anche

Page 103: opuscula /193 - Monoskop

103

quando il loro agente storico è la classe operaia. 3) L’identitàstessa degli agenti sociali è determinata dalle loro posizioni strut-turali nella prima narrazione. Si instaura dunque una relazionediseguale tra le due narrazioni: le relazioni egemoniche suppli-scono le relazioni di classe. Per usare una distinzione diSaussure, potremmo dire che le relazioni egemoniche sono sem-pre fatti di parole, mentre le relazioni di classe sono fatti di lan-gue.

Il senso e l’identità del compito egemonico e degli agentiche lo effettuano sono contenuti interamente entro la relazione(a) che abbiamo definita sopra. Di conseguenza, la relazione trale due componenti della relazione (b) può essere solo di esterio-rità. Ora, una relazione di esteriorità può essere considerata sottodue aspetti: come una relazione di esteriorità e come una rela-zione di esteriorità. Il primo aspetto non presenta difficoltà: unarelazione è di esteriorità se l’identità delle sue componenti sicostituisce interamente al di fuori della relazione. Quanto almomento relazionale, perché la relazione possa essere di strettaesteriorità, è necessario che non sia attribuibile ad essa alcunaspecificità concettuale (una tale specificità diventerebbe altri-menti un momento definibile strutturalmente. E poiché ciòrichiederebbe una teoria speciale delle sue forme di articolazio-ne con altri momenti strutturali costituenti la classe in quantotale, l’identità della classe ne verrebbe inevitabilmente modifica-ta). In altre parole, la relazione di esteriorità può essere pensatasolo come pura contingenza. Questo spiega perché il dualismospurio rintracciato nel discorso della Seconda internazionale è,per le stesse ragioni, riprodotto nella teoria dell’egemonia.Relazione (a) e relazione (b) non possono essere concettualmen-te articolate semplicemente perché la seconda non ha alcun tipodi specificità concettuale positiva ed è ridotta a un terreno chevaria in modo contingente a seconda delle relazioni tra gli agen-ti costituiti al di fuori di essa. Ma, si potrebbe obiettare, nellasocialdemocrazia russa, da Plekhanov e Axelrod a Lenin eTrotsky, ci fu una teoria dell’egemonia positiva sempre più com-plessa! È vero, ma questa non si configura come un’obiezionealla nostra argomentazione, perché una tale positività e comples-

Page 104: opuscula /193 - Monoskop

104

sità si riferiscono alla tipologia di situazioni che rendono possi-bili le relazioni egemoniche tra classi, e alla varietà di relazionitra gruppi sociali che agiscono in una congiuntura data. In que-sto modo la specificità come tale del legame egemonico nonviene mai discussa o, piuttosto, c’è un sottile gioco di prestigioche la rende invisibile.

Per vedere come abbia luogo un tale gioco di prestigio, nondobbiamo concentrarci su quelle letture che vedono forme “nor-mali” di sviluppo dominare il corso della storia e i momenti ege-monici occupare un posto chiaramente marginale (è il caso diPlekhanov, che vedeva l’intervento della classe operaia come unmezzo per forzare la borghesia a farsi carico dei propri compiti).Più pertinenti sono, invece, quelle letture in cui il trasferimentoegemonico dei compiti costituisce la sostanza stessa della rivolu-zione, visto che è comparativamente più difficile rendere invisi-bile la specificità del legame egemonico. In questo senso i testidi Trotsky sono di una chiarezza esemplare, perché enfatizzanole particolarità dello sviluppo russo nel suo essere opposto alcorso del capitalismo dell’Europa occidentale. Com’è ben noto,in una serie di scritti pubblicati prima e dopo la Rivoluzionerussa del 1905,4 Trotsky avanzò la possibilità di un governo dellaclasse operaia per intraprendere una transizione diretta al socia-lismo, in seguito al collasso dello zarismo, contro la prospettivamenscevica di una repubblica democratico-borghese e, insieme,contro la nozione bolscevica di un governo degli operai e deicontadini che avrebbe limitato le riforme a un modello democra-tico-borghese. Questa possibilità era inscritta nelle stesse pecu-liarità dello sviluppo storico russo: debolezza della borghesia edello sviluppo urbano, crescita sproporzionata dello Stato comeapparato militare-burocratico autonomo rispetto alle classi,introduzione di forme avanzate di capitalismo risultanti dal “pri-vilegio dellarretratezza”, freschezza del proletariato russo dovu-

4. Riguardo alla formulazione iniziale della tesi trotskista della rivolu-zione permanente, cfr. A. BROSSAT, Aux origines de la révolution permanente:la pensée politique du jeune Trotsky, Maspero, Paris 1974; e M. LÖWY, ThePolitics of Combined and Uneven Development, Verso, London 1981, cap. 2.

Page 105: opuscula /193 - Monoskop

105

ta all’assenza di tradizioni vincolanti a una società civile com-plessa, e così via. Visto che la borghesia era giunta troppo tardiad assumere i compiti storici della lotta contro l’assolutismo, ilproletariato diventava l’agente chiave della loro realizzazione.Tale dislocazione nel paradigma stadiologico, e il superamentodel trasferimento egemonico risultante, erano il vero asse dellateoria trotskysta della rivoluzione.

Sembra che alla relazione egemonica non possa essere datauna centralità maggiore, visto che la possibilità stessa della rivo-luzione si articola intorno a essa. Occorre però osservare piùattentamente le forme assunte da tale centralità nel discorso diTrotsky. Su due punti la sua analisi si confronta con la specificitàdi relazioni sociali che sembrano resistere al rigido riduzionismodi classe, ovvero al carattere necessario della relazione (a), e suentrambi Trotsky arretra di fronte a un avanzamento teorico chedeterminerebbe questa stessa specificità. Il primo punto riguardala correlazione tra la debolezza strutturale della borghesia e ilruolo eccezionale giocato dallo Stato nella formazione storicadella società russa. Alla sfida teorica lanciata dallo storicoPokrovsky – che da un punto di vista crassamente economicistainsiste sul fatto che garantire una tale importanza allo Statosignifica separarlo dalla sua base di classe – Trotsky non replicacon un’analisi teorica della relativa autonomia dello Stato nelledifferenti formazioni sociali capitalistiche, ma si appella invecealla esuberanza della vita contro il grigiore della teoria:

Il pensiero del compagno Pokrovsky è intrappolato in un circolo vizio-so di rigide categorie sociali che egli sostituisce alle forze storicheviventi […]. Dove non vi sono “caratteri specifici” non c’è storia, masolo una sorta di geometria pseudo-materialista. Invece di studiare lamateria vivente e mutante dello sviluppo economico, basta notarepochi sintomi esteriori e adattarli a pochi cliché preconfezionati.5

Il “carattere specifico” costituito dall’autonomizzazionedello Stato dalle classi sociali è qui collocato anche su un terre-

5. L. TROTSKY, 1905, Penguin, London 1971, pp. 333, 339.

Page 106: opuscula /193 - Monoskop

106

no che limita rigidamente i suoi effetti fin dall’inizio: abbiamoora a che fare con circostanze, che appartengono a un ordineeminentemente fattuale e sono capaci di essere incorporate inuna storia – di qui il tono narrativo predominante nell’analisi diTrotsky – ma che non possono essere afferrate concettualmente.

Le conseguenze non sarebbero necessariamente negative setutte le determinazioni sociali fossero soggette al medesimo trat-tamento, perché allora Trotsky dovrebbe narrare – allo stessolivello delle specificità russe – i processi attraverso i quali l’eco-nomia opera per determinare, in ultima istanza, ogni altra rela-zione sociale. Questo, tuttavia, non accade; nonostante vi sia unanarrazione delle “specificità”, le caratteristiche consideratecomuni a ogni formazione sociale capitalistica non sono sogget-te a un trattamento narrativo. Che l’economia determini in ulti-ma istanza il processo storico è qualcosa che, per Trotsky, vienestabilito a un livello tanto extra-storico quanto quello diPokrovsky, e in maniera altrettanto dogmatica. Un ordine di“essenze” si scontra inevitabilmente con un ordine di “circostan-ze”, ed entrambi sono riprodotti all’interno dei medesimi agentisociali. Quello che in essi è soggetto a variazione storica si ridu-ce a un insieme di caratteristiche che li fanno deviare da un para-digma normale: la debolezza della borghesia in Russia, la fre-schezza del suo proletariato, etc. Queste “caratteristiche specifi-che” non minano tuttavia la validità del paradigma, che continuaa produrre i suoi effetti nella misura in cui gli agenti sociali defi-niscono la loro identità di base in relazione a esso, e nella misu-ra in cui le “caratteristiche specifiche” si presentano come sem-plici vantaggi o svantaggi empirici per il raggiungimento degliobiettivi di classe prestabiliti al livello delle “essenze”.

Ciò si rivela chiaramente nel secondo punto fondamentale,là dove l’analisi di Trotsky tocca i limiti della concezione ridu-zionista delle classi: nell’analisi dell’egemonia. Come abbiamogià visto – e questo può valere anche per l’analisi di Trotsky – c’èuna scissione tra l’agente di classe “naturale” di un compito sto-rico e l’agente concreto che lo attua. Ma abbiamo anche vistoche, per l’agente che se ne fa carico, la natura di classe di uncompito non è alterata da tale scissione. L’agente non si identifi-

Page 107: opuscula /193 - Monoskop

107

ca, quindi, con il compito assunto; la sua relazione con il compi-to resta al livello di un calcolo circostanziale, pur implicando“circostanze” di dimensioni epocali. Lo scindersi del compito èun fenomeno empirico che non influisce sulla sua natura; la con-nessione dell’agente con il compito è altrettanto empirica, sicchési sviluppa, nell’identità dell’agente, una scissione permanentetra un “dentro” e un “fuori”. Nemmeno per un momento trovia-mo in Trotsky l’idea che l’identità democratica e anti-assolutistadelle masse costituisca una posizione soggettiva specifica chediverse classi possono articolare e che, nel fare questo, modifi-chi la loro stessa natura. I compiti democratici inadempiuti sonosemplicemente un primo passo nell’avanzata della classe operaiaverso i suoi obiettivi strettamente di classe. In questo modo sicreano non solo le condizioni perché la specificità del legameegemonico sia sistematicamente scongiurata (dato che il suocarattere circostanziale o fattuale sfugge a ogni costruzione con-cettuale), ma anche perché la sua sparizione sia resa invisibile.L’introduzione della relazione egemonica in una narrazione diaggiustamenti e ricomposizioni, in una successione non sussu-mibile sotto il principio della ripetizione, sembra in effetti con-ferire a tale presenza un significato concettualmente evanescen-te. Ecco perché la forma storico-narrativa in cui sono presentatele specificità russe gioca un ruolo ambiguo: se, da un lato, essale limita al campo del circostanziale, dall’altro la stessa possibi-lità di pensarle, sebbene nella forma debole di una narrazione,conferisce loro un principio di organizzazione, una certa presen-za discorsiva. Ma è una presenza assolutamente effimera, poichél’avventura dell’egemonia si conclude assai presto: per Trotsky,come per Lenin, non c’è specificità che possa garantire lasopravvivenza di uno Stato Sovietico senza l’irrompere di unarivoluzione socialista in Europa, senza l’intervento delle classioperaie vittoriose dei paesi industrialmente avanzati in soccorsodei rivoluzionari russi. Qui l’“anormalità” della dislocazionedegli stadi in Russia si ricongiunge con lo sviluppo “normale”dell’Occidente; quella che abbiamo chiamato “seconda narrati-va” viene reintegrata nella “prima”; l’“egemonia” trova rapida-mente i suoi limiti.

Page 108: opuscula /193 - Monoskop

108

Le “alleanze di classe”: tra democrazia e autoritarismo

Questa concezione del legame egemonico come esternoall’identità di classe degli agenti non è certo un’esclusiva deltrotskysmo, essa caratterizza infatti l’intera tradizione leninista.Per il leninismo, l’egemonia implica una direzione politicaall’interno di un’alleanza di classe. Il carattere politico del lega-me egemonico è fondamentale, perché implica che il terreno sulquale si stabilisce il legame è diverso da quello su cui si costitui-scono gli agenti sociali. Visto che il campo dei rapporti di pro-duzione è il terreno specifico di costituzione della classe, la pre-senza delle classi nel campo politico può essere intesa solo comeuna rappresentazione di interessi. Tramite i partiti che le rappre-sentano esse si uniscono sotto la direzione di una classe, alleatecontro un nemico comune. Tuttavia quest’unità circostanzialenon influenza l’identità delle classi che compongono l’alleanza,visto che si costituisce attorno a “interessi” che sono, in ultimaanalisi, rigidamente incompatibili (“scioperare insieme ma mar-ciare separati”). L’identità degli agenti sociali, concepita raziona-listicamente sotto forma di “interessi”, e la trasparenza dei mezzidi rappresentazione rispetto a cosa si rappresenta, sono le duecondizioni che permettono di stabilire l’esteriorità del legameegemonico. Questa esteriorità è alla radice di quelle situazioniparadossali in cui si trova di solito il militante comunista. Spessoall’avanguardia di una lotta per le libertà democratiche, egli nonpuò però identificarsi con esse, perché sarebbe il primo ad abo-lirle una volta raggiunto lo stadio “democratico-borghese”.

A questo punto, è importante sottolineare gli effetti ambiguie contraddittori che derivano dalla centralità dell’egemonia neldiscorso leninista. Da un lato, il concetto è indubbiamente asso-ciato alle tendenze più autoritarie e negative della tradizione leni-nista, in quanto postula una chiara separazione all’interno dellemasse tra i settori dirigenti e quelli diretti (questa separazione èevidentemente assente nella strategia rivoluzionaria dell’ortodos-sia kautskyana, in cui una completa coincidenza tra direzionepolitica e base sociale non lascia alcuno spazio a ricomposizioniegemoniche). Ma, dall’altro lato, la relazione egemonica implica

Page 109: opuscula /193 - Monoskop

109

una concezione della politica potenzialmente più democratica diogni altra rintracciabile nella tradizione della Seconda interna-zionale. Compiti e rivendicazioni che nell’economicismo classi-sta sarebbero stati ricondotti a stadi differenti coesistono oranella stessa congiuntura storica. Ne consegue l’accettazione dellavalidità politica vigente di una pluralità di antagonismi e punti dirottura, ovvero che la legittimità rivoluzionaria non è più con-centrata esclusivamente nella classe operaia. Emerge quindi unadislocazione strutturale tra “masse” e “classi”, in quanto la lineache separa le prime dai settori dominanti non corrisponde allosfruttamento di classe. Gli sviluppi combinati e ineguali diventa-no il terreno che, per la prima volta, permette al marxismo di ren-dere più complessa la sua concezione della natura delle lottesociali.

Come dar conto, allora, del seguente paradosso: che nelmomento stesso in cui si estende la dimensione democraticadelle lotte delle masse si afferma una concezione sempre piùavanguardistica e anti-democratica nella pratica politica sociali-sta? Semplicemente perché il privilegio ontologico garantito allaclasse operaia dal marxismo viene trasposto dalla base socialealla direzione politica del movimento di massa. Nella concezio-ne leninista, la classe operaia e la sua avanguardia non trasfor-mano la loro identità di classe fondendola con le molteplicirivendicazioni democratiche ricomposte dalle pratiche egemoni-che; al contrario, esse considerano tali rivendicazioni come stadi,passaggi necessari, ma transitori, nel perseguimento dei propriobiettivi di classe. In queste condizioni la relazione tra “avan-guardia” e “masse” non può avere che un carattere per lo piùesteriore e manipolativo. Di conseguenza, nella misura in cui lerivendicazioni democratiche si diversificano e il terreno dellalotta di massa diviene più complesso, un’avanguardia che conti-nua a identificarsi con gli “interessi oggettivi della classe ope-raia” deve ampliare sempre di più lo iato tra la propria identità equella dei settori che tenta di dirigere. L’espansione stessa delpotenziale democratico del movimento di massa dà luogo, insenso rigidamente classista, a una pratica politica sempre piùautoritaria. Mentre la democratizzazione della lotta di classe

Page 110: opuscula /193 - Monoskop

110

dipende da una proliferazione di punti di rottura che eccede iconfini di classe, l’autoritarismo politico emerge quando, perfondare la necessità dell’egemonia di classe, si stabilisce unadistinzione tra chi guida e chi è guidato nel movimento di massa.Se tale distinzione si fosse basata su una maggiore capacità pra-tica di auto-organizzazione nella lotta per degli obiettivi condivi-si dall’intero movimento, gli esiti non sarebbero stati necessaria-mente autoritari. Ma, come abbiamo visto, essa si pone in termi-ni che sono, in effetti, molto differenti: un settore conosce ilmovimento sottostante della storia, e quindi conosce il caratteretemporaneo delle rivendicazioni che uniscono le masse nella lorototalità. La centralità attribuita alla classe operaia non è pratica,ma ontologica, ed è al tempo stesso il luogo di un privilegio epi-stemologico: in quanto classe “universale”, il proletariato – omeglio il suo partito – è il depositario della scienza. A questopunto, la scissione tra identità di classe e identità delle massediventa permanente. La possibilità di questa svolta autoritaria erain qualche modo presente sin dagli esordi dell’ortodossia marxi-sta: cioè dal momento in cui un attore limitato – la classe operaia– veniva elevato al rango di “classe universale”. Se nessuno deiteorici della Seconda internazionale proseguì su questa direzioneautoritaria fu perché, a loro parere, la centralità politica dellaclasse operaia doveva coincidere con la proletarizzazione di altristrati sociali e, di conseguenza, non restava spazio per una scis-sione tra classi e masse. Tuttavia, perché la svolta autoritariadivenisse inevitabile, occorreva che la conquista del potere fosseconcepita come un atto di masse più ampie della classe operaia,mentre la centralità politica di quest’ultima era conservata comeun principio in senso classico.

Riannodiamo ora i fili del nostro discorso. È divenuto chia-ro il motivo per cui la tensione tra le due relazioni comprese dalconcetto di egemonia – la relazione tra il compito egemonizzatoe la classe che lo egemonizza, e la relazione tra il compito ege-monizzato e la classe che ne è l’agente “naturale” – non potevarisolversi in un’articolazione concettuale effettiva. La condizio-ne per la conservazione dell’unità e dell’identità di classe sul ter-reno dell’economicismo stadiale – l’unico terreno capace di

Page 111: opuscula /193 - Monoskop

111

costituirla come “classe universale” – era che i compiti egemo-nici non trasformassero necessariamente l’identità della classeegemonica, ma instaurassero con essa una relazione meramenteesteriore e fattuale. L’unico modo per affermare il carattere este-riore di questa relazione era quindi rafforzare il legame tra ilcompito egemonizzato e il suo agente di classe “naturale”. Il ter-reno delle relazioni egemoniche diventava quindi quello deidiscorsi essenzialmente pragmatici. Tutte le innovazioni termino-logiche introdotte nel marxismo dal leninismo e dal Cominternappartengono al vocabolario militare (alleanza tattica, linea stra-tegica, tanti passi avanti e tanti indietro); nessuna si riferisce allostrutturarsi stesso delle relazioni sociali, di cui Gramsci avrebbedato conto con i suoi concetti di blocco storico, Stato integrale, ecosì via.

Ora, questa tensione tra le due relazioni comprese dal con-cetto di egemonia non si distingue dall’ambiguità che abbiamoindividuato tra una pratica autoritaria e una pratica democraticadell’egemonia. La relazione tra una classe egemonica e un com-pito o una rivendicazione democratica assume un carattere este-riore, manipolativo, solo nella misura in cui questo compito silega a una classe differente e a un determinato stadio necessarioall’interno del paradigma evoluzionista. Al contrario, il potenzia-le democratico può svilupparsi solo se tale legame si rompe, sesvaniscono le condizioni che avevano permesso l’emergenza,nelle masse, di una separazione rigida tra chi guida e chi è gui-dato. Occorre a questo punto presentare le condizioni che per-metterebbero di superare l’ambiguità originaria in una praticademocratica dell’egemonia o in una autoritaria.

La pratica democratica. Come abbiamo indicato, il terrenodella ricomposizione egemonica reca in sé un potenziale diespansione democratica e di approfondimento della pratica poli-tica socialista. Senza egemonia, la pratica socialista può concen-trarsi solo sulle rivendicazioni e sugli interessi della classe ope-raia. Proprio perché la dislocazione degli stadi costringe la clas-se operaia ad agire su un terreno di massa, essa deve abbando-nare il suo ghetto di classe e trasformarsi nell’articolatore di unamolteplicità di antagonismi e rivendicazioni che siestendono

Page 112: opuscula /193 - Monoskop

112

oltre questa. Ne consegue, evidentemente, che l’approfondimen-to di una pratica democratica di massa – che eviti la manipola-zione avanguardista e una configurazione esteriore della relazio-ne tra egemonia di classe e compiti democratici – può realizzar-si solo riconoscendo che questi compiti non hanno un caratteredi classe necessario, e se si rinuncia definitivamente alla politicadegli stadi. È necessario rompere con la visione secondo la qualei compiti democratici sarebbero connessi a uno stadio borghese:solo allora verrà eliminato l’ostacolo che impedisce un’articola-zione permanente tra socialismo e democrazia. Da qui derivanoquattro conseguenze fondamentali. In primo luogo, l’identitàstessa delle classi viene trasformata dal compito egemonicoassunto: cade la rigida linea di demarcazione tra interno ed ester-no. In secondo luogo, poiché le rivendicazioni democratichedelle masse perdono il loro carattere necessario di classe, ilcampo dell’egemonia cessa di implicare una massimizzazionedegli effetti basata su un gioco a somma zero tra le classi; anchela nozione di “alleanza di classe” è chiaramente insufficiente, dalmomento che l’egemonia presuppone la costruzione dell’identitàstessa degli agenti sociali e non semplicemente una coincidenzarazionalista di “interessi” tra agenti precostituiti. In terzo luogo,il campo della politica non può più essere considerato come una“rappresentazione di interessi”, dato che la cosiddetta “rappre-sentazione” modifica la natura del rappresentato (è infatti lanozione stessa di rappresentazione come trasparenza a risultareinsostenibile. In gioco è il modello stesso base/sovrastruttura).Infine, poiché l’identità degli agenti sociali non si costituisce piùsolo tramite il loro inserimento nei rapporti di produzione, madiviene un’articolazione precaria tra una serie di posizioni sog-gettive, a essere messa in gioco è la stessa identificazione traagenti sociali e classi.

La pratica autoritaria. Qui le condizioni sono opposte. Lanatura di classe di ogni rivendicazione o di ogni compito deveessere fissata a priori. Si danno rivendicazioni democratiche,rivendicazioni piccolo-borghesi ecc., e il loro relativo progressi-smo si stabilisce attraverso un calcolo politico, che analizza ognicongiuntura nei termini del tradizionale modello stadiologico e

Page 113: opuscula /193 - Monoskop

113

dei mutamenti introdotti dalla loro combinazione ineguale. C’èovviamente una completa separazione tra i compiti egemonicidella classe operaia e la sua identità di classe. La concezione mili-tare della politica domina l’intera gamma dei calcoli strategici.Ma poiché la classe operaia reale è, senz’altro, lontana dall’iden-tificarsi con i suoi “interessi storici”, la dissociazione tra la mate-rialità della classe e l’istanza politica, che rappresenta la sua “veraidentità”, diviene permanente. Dal Che fare di Lenin alla bolsce-vizzazione dei partiti comunisti sotto il Comintern, questa linea didemarcazione diviene sempre più rigida e si riflette nella crescen-te svolta autoritaria della politica comunista. È importante chiari-re ciò che rende questa svolta inevitabile. Non vogliamo certonegare il bisogno di una mediazione politica nella determinazio-ne socialista della classe operaia; ancor meno si tratta di opporread essa un “operaismo” basato sul mito di una determinazionespontaneamente socialista della classe. È tuttavia decisivo il modoin cui si comprende la natura di questo legame politico; e il leni-nismo non cerca affatto di costruire, attraverso la lotta, un’identitàdi massa non predeterminata da alcuna legge necessaria della sto-ria. Al contrario, esso continua a ritenere che si dia un “per sé”della classe accessibile solo all’avanguardia illuminata, la cui atti-tudine nei confronti della classe operaia è, perciò, puramentepedagogica. Le radici della politica autoritaria affondano in taleintreccio di scienza e politica. Non c’è più, di conseguenza, alcunproblema nel considerare il partito come rappresentante dellaclasse: non della classe in carne e ossa, certo, ma dell’entelechiacostituita dai suoi “interessi storici”. Mentre la pratica democrati-ca dell’egemonia mette sempre più in questione la trasparenza delprocesso di rappresentazione, la pratica autoritaria predispone ilterreno perché la relazione di rappresentazione si imponga comeil meccanismo politico basilare. Una volta concepita ogni relazio-ne politica come una relazione di rappresentazione, un progressi-vo movimento di sostituzione muove dalla classe al partito (rap-presentazione degli interessi oggettivi del proletariato) e dal par-tito allo Stato sovietico (rappresentazione degli interessi mondia-li del movimento comunista). Così, una concezione marziale dellalotta di classe diviene un’epica escatologica.

Page 114: opuscula /193 - Monoskop

114

Come abbiamo visto, le radici di questo transfert dell’unitàdi classe alla sfera politica risalgono all’ortodossia della Secondainternazionale. Nel leninismo, come nel kautskysmo, il caratterecostitutivo del momento politico non comporta l’attribuzione diun ruolo principale alle sovrastrutture, perché il privilegio garan-tito al partito non è “topografico” ma “epistemologico”: non èfondato sull’efficacia del livello politico, nel costruire le relazio-ni sociali, ma sul monopolio scientifico goduto da una prospetti-va di classe determinata. Questo monopolio garantisce, a livelloteorico, il superamento della scissione tra le tendenze visibili delcapitalismo e la sua evoluzione sottostante. La differenza trakautskysmo e leninismo consiste nel fatto che, per il primo, lascissione è puramente temporanea e interna alla classe, e il pro-cesso del suo superamento è inscritto nelle tendenze endogenedell’accumulazione capitalista, mentre, per il secondo la scissio-ne è il terreno di una dislocazione strutturale tra “classe” e“masse” che definisce permanentemente la condizione dellalotta politica nell’età imperialista.

Quest’ultimo punto è decisivo: i compiti egemonici, essen-do legati alle condizioni stesse dello sviluppo del sistema capita-listico mondiale, diventano per la strategia comunista sempre piùcentrali. Per Lenin l’economia mondiale non è un mero fatto eco-nomico, ma una realtà politica, precisamente una catena impe-rialista. I punti di rottura non appaiono nelle connessioni piùavanzate dal punto di vista della contraddizione tra forze produt-tive e rapporti di produzione, ma invece là dove si sono accumu-late più contraddizioni, dove il maggior numero di tendenze e diantagonismi – appartenenti, secondo la visione ortodossa, a fasidiverse – convergono in un’unità di rottura.6 Ciò implica, tutta-

6. “Nella natura e nella storia non accadono miracoli, ma ogni svoltastorica repentina, e quindi ogni rivoluzione, offre una tale ricchezza di contenu-to, sviluppa combinazioni così inattese e originali delle forme di lotta e dei rap-porti tra le forze in lotta che molti fatti devono sembrare miracolosi ad una men-talità filistea […]. Se la rivoluzione ha trionfato così rapidamente e in modo –apparentemente, al primo sguardo superficiale – così radicale, è soltanto perché

Page 115: opuscula /193 - Monoskop

115

via, che il processo rivoluzionario possa essere inteso solo comeun’articolazione politica di elementi dissimili: non c’è rivoluzio-ne senza una complessità sociale esterna al semplice antagoni-smo tra classi; in altre parole, non c’è rivoluzione senza egemo-nia. Tale momento di articolazione politica diviene sempre piùfondamentale quando, nello stadio del capitalismo monopolista,si va incontro a una crescente dissoluzione delle vecchie solida-rietà e a una generale politicizzazione delle relazioni sociali.Lenin percepisce chiaramente la transizione a una nuova politicadi massa borghese – da lui etichettata come “Lloyd-georgismo”7

– che trasforma profondamente l’arena storica della lotta di clas-se. Questa possibilità di articolazioni inaspettate, che alterano leidentità sociali e politiche accettate e finanche pensabili, dissol-ve progressivamente l’ovvietà delle categorie logiche della clas-sica politica degli stadi. Trotsky ne trarrà la conclusione che lo

una situazione storica singolarmente originale ha fuso insieme, e con un note-vole grado di “coesione”, correnti del tutto diverse, interessi di classe eteroge-nei, aspirazioni politiche e sociali del tutto opposte» (V. LENIN, Lettere da lon-tano, lettera prima, 7 marzo 1917, in Id., Opere complete, Vol. XXIII agosto1916 - marzo 1917, Roma, Editori riuniti, 1965, pp. 299, 304).

7. “Il meccanismo della democrazia politica lavora nella medesima dire-zione. Nel nostro secolo non si può fare a meno delle elezioni, non si può fare ameno delle masse; e nell’epoca della stampa e del parlamentarismo è impossi-bile trascinare le masse al proprio seguito senza un sistema largamente ramifi-cato, metodicamente applicato, solidamente attrezzato, di lusinghe, menzogne,truffe, di giochetti con paroline popolari e alla moda, di promesse – fatte a destrae a sinistra – di ogni sorta di riforme e di ogni sorta di benefici per gli operai,purché essi rinuncino alla lotta rivoluzionaria per abbattere la borghesia.Definirei lloydgeorgiano questo sistema, dal nome di uno dei suoi più avanzatie abili rappresentanti nel paese classico del ‘partito operaio borghese’, dal nomedel ministro inglese Lloyd George. Uomo d’affari di prim’ordine, nella sua qua-lità di borghese, vecchio filibustiere della politica, oratore popolare capace ditenere qualsiasi discorso, perfino rivoluzionario, ad un pubblico di operai ecapace di far approvare considerevoli elemosine agli operai obbedienti sottoforma di riforme sociali (assicurazioni, ecc.), Lloyd George serve magnifica-mente la borghesia, e la serve appunto fra gli operai, esercita la sua influenzaappunto fra il proletariato, là dove è più necessario e più difficile sottometteremoralmente le masse” (V. LENIN, L’imperialismo e la scissione del Socialismo,in Id., Opere complete, Vol. XXIII cit., p. 115).

Page 116: opuscula /193 - Monoskop

116

sviluppo ineguale e combinato è la condizione storica del nostrotempo. Ciò può significare solo un’espansione incessante deicompiti egemonici, opposti ai compiti puramente di classe, il cuiterreno si restringe enormemente. Ma se non si dà processo sto-rico che non implichi una combinazione “non-ortodossa” di ele-menti, cos’è allora uno sviluppo normale?

Lo stesso discorso comunista viene sempre più dominatodal carattere egemonico assunto da ogni iniziativa politica sulnuovo terreno storico dell’età dell’imperialismo. Di conseguen-za, esso tende a oscillare, in maniera contraddittoria, tra ciò cheabbiamo chiamato pratica democratica e pratica autoritaria del-l’egemonia. Negli anni ’20, l’economicismo stadiale era ovun-que al comando, e poiché la prospettiva rivoluzionaria arretrava,le linee di classe si facevano ancora più rigide. Visto che la rivo-luzione europea era concepita puramente nei termini della cen-tralità della classe operaia, e visto che i partiti comunisti rappre-sentavano gli “interessi storici” della classe operaia, l’unica fun-zione di questi ultimi era di mantenere la coscienza rivoluziona-ria del proletariato in opposizione alle tendenze integrazionistedella socialdemocrazia. Nei periodi di “relativa stabilizzazione”era quindi necessario rafforzare la barriera di classe anche conuna maggior intransigenza. Da qui lo slogan, lanciato nel 1924,della bolscevizzazione dei partiti comunisti, che Zinoviev spieganel modo seguente:

Bolscevizzazione significa ferma volontà di lottare per l’egemonia delproletariato, ovvero odio appassionato nei confronti della borghesia,dei leader controrivoluzionari socialdemocratici, del centrismo e deicentristi, dei semi-centristi e dei pacifisti, di tutti gli aborti dell’ideo-logia borghese […]. La bolscevizzazione è il marxismo in azione; èdedizione all’idea della dittatura del proletariato, all’idea del lenini-smo.8

8. Pyatyi vsemirnyi Kongress Komunisticheskogo Internattsionala. 17iuniya-8 iuliya 1924 g. Stenograficheskiiotchet, Moscow-Leningrad 1925, I, pp.482-3. Citato in MA. HÁJEK, La bolscevizzazione dei partiti comunisti, in E.HOBSBAWM et al., ed., Storia, Torino 1980, vo. 3. p. 468.

Page 117: opuscula /193 - Monoskop

117

Poiché al peggioramento della crisi economica sarebbe segui-ta inevitabilmente una ripresa del processo rivoluzionario, la perio-dizzazione politica si riduceva a un mero riflesso dell’economia:nei periodi di stabilizzazione l’unico compito dei partiti comunistiera quello di accumulare forze intorno a un’identità affatto classi-sta e “di rottura” che, in attesa della crisi, avrebbe aperto la stradaa una nuova iniziativa rivoluzionaria (la politica del “fronte unico”era reinterpretata come fronte unico dal basso e come un’opportu-nità per smascherare i leader socialdemocratici). In queste condi-zioni, era inevitabile che guadagnasse consenso un approcciomanipolativo rispetto alle altre forze sociali e politiche.

La rottura con tale concezione riduzionista e manipolativa –o gli inizi di una rottura, dato che nella tradizione comunista nonè mai stata superata – si lega all’esperienza del fascismo inEuropa e al ciclo delle rivoluzioni anticoloniali. Nel primo caso,la crisi dello Stato liberal-democratico e l’emergere delle ideolo-gie radical-popolari di destra mettono in gioco la concezione deidiritti democratici e delle libertà come “borghesi” per natura; altempo stesso la lotta antifascista crea una soggettività di massapopolare e democratica che potenzialmente può fondersi conun’identità socialista. Nei termini della nostra analisi precedente,il legame che unisce il compito egemonizzato al suo agente diclasse “naturale” comincia a dissolversi, e diventa possibile sal-dare il compito con l’identità della classe egemonica. In questanuova prospettiva l’egemonia è intesa come la ricostruzionedemocratica della nazione intorno a un nuovo nucleo di classe.Questa tendenza viene stata in seguito rafforzata dalle svariateesperienze di resistenza nazionale contro l’occupazione nazista.Ma nella politica comunista la trasformazione ha inizio con ilrapporto Dimitrov al Settimo Congresso del Comintern, in cuiviene formalmente abbandonata la linea della “classe controclasse” del Terzo Periodo e viene introdotta, per la prima volta, lapolitica dei fronti popolari.9 La nuova strategia, mentre conserva

9. Cfr. E. LACLAU, Politics and Ideology in Marxist Theory, Verso,London 1977, pp. 138 ss.

Page 118: opuscula /193 - Monoskop

118

ancora implicitamente la nozione di egemonia come alleanzameramente esteriore tra classi, concepisce la democrazia comeun fondamento comune non esposto all’assorbimento esclusivoda parte di alcun settore sociale. In tali condizioni diventa sem-pre più difficile mantenere una rigida separazione tra compitiegemonici e identità di classe. Un certo numero di formule –dalla “nuova democrazia” di Mao alla “democrazia progressiva”e ai “compiti nazionali della classe operaia” di Togliatti – cerca-no così di situarsi su di un terreno che difficilmente può esseredefinito teoricamente interno ai parametri marxisti, in quanto il“popolare” e il “democratico” sono certamente realtà tangibili alivello della lotta di massa, ma non possono essere assegnati auna rigida appartenenza di classe. Le rivoluzioni che hanno avutoluogo nel mondo periferico, condotte sotto una leadership comu-nista, ci presentano un fenomeno simile: dalla Cina al Vietnam oa Cuba, l’identità popolare di massa era altra e più ampia dell’i-dentità di classe. La scissione strutturale tra “masse” e “classe”che abbiamo visto insinuarsi sin dall’inizio nella tradizione leni-nista, produce qui la totalità dei suoi effetti.

A questo punto il discorso comunista doveva affrontare dueproblemi cruciali. Come doveva configurarsi questa pluralità diantagonismi che emergevano su un terreno di massa differente daquello delle classi? E come poteva la forza egemonica conserva-re un carattere rigidamente proletario una volta incorporate nellasua stessa identità le rivendicazioni democratiche delle masse?La risposta principale alla prima questione fu la messa in campodi un insieme di strategie discorsive che permettessero alla rela-zione, stabilita tra le classi, di procedere oltre il loro caratterespecifico di classe, restando formalmente su un terreno classista.Si consideri ad esempio l’uso dell’enumerazione nei discorsicomunisti. Enumerare non è mai un’operazione innocente, impli-ca importanti spostamenti di senso. L’enumerazione comunistaha luogo in uno spazio dicotomico che stabilisce l’antagonismotra settori dominanti e popolari, e l’identità di entrambi è costrui-ta sulla base dell’enumerazione dei loro settori costitutivi.All’interno dei settori popolari sarebbero compresi, ad esempio,la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia, le frazioni

Page 119: opuscula /193 - Monoskop

119

progressiste della borghesia nazionale ecc. Questa enumerazionenon afferma tuttavia semplicemente la presenza separata e lette-rale di alcune classi o frazioni di classe presso il polo popolare,essa asserisce anche la loro equivalenza nel confronto comunecon il polo dominante. Una relazione di equivalenza non è unarelazione di identità tra oggetti. L’equivalenza non è mai tautolo-gica, la sostituibilità che stabilisce tra alcuni oggetti è valida soloper determinate posizioni in un contesto strutturale dato. In que-sto senso l’equivalenza disloca l’identità che la rende possibile, elo fa dagli oggetti stessi ai contesti della loro apparizione o pre-senza. Questo significa, nondimeno, che nella relazione di equi-valenza l’identità dell’oggetto è scissa: da un lato, esso conservail proprio senso “letterale”; dall’altro, simbolizza la posizionecontestuale per la quale è un elemento sostituibile. È quantoaccade precisamente nell’enumerazione comunista: da un puntodi vista rigidamente classista non vi è la minima identità tra i set-tori del polo popolare, dato che ognuno ha interessi differenziatie perfino antagonisti; eppure la relazione di equivalenza che sistabilisce tra di loro, nel contesto della comune opposizione alpolo dominante, costruisce una posizione discorsiva “popolare”irriducibile alle posizioni di classe. Nel discorso marxista dellaSeconda internazionale non si danno enumerazioni equivalenzia-li. Per Kautsky ogni settore di classe occupa una specifica posi-zione differenziale all’interno della logica dello sviluppo capita-listico; una delle caratteristiche costitutive del discorso marxistaè stata, precisamente, la dissoluzione del “popolo” come catego-ria amorfa e imprecisata, e la riduzione di ogni antagonismo a unconfronto di classe che si esauriva nella sua stessa letteralità,senza alcuna dimensione equivalenziale. Come abbiamo notato aproposito del discorso sullo “sviluppo ineguale e combinato”, ladislocazione degli stadi e le ricomposizioni egemoniche eranopensate semplicemente come un movimento più complesso tra leclassi, il cui carattere fattuale lasciava spazio a una narrazionedelle eccezionalità, ma non a una concettualizzazione delle spe-cificità. Con Rosa Luxemburg, ci siamo approssimati a una scis-sione simbolico-equivalenziale che sovverte il senso letterale diogni lotta concreta; ma, come abbiamo visto, la conseguente

Page 120: opuscula /193 - Monoskop

120

attribuzione di un carattere necessario di classe agli agenti socia-li impone un limite rigido alla logica espansiva delle equivalen-ze. È solo nelle pratiche enumerative del periodo dei fronti popo-lari che il “popolo” – questo agente centrale nelle lotte politichee sociali del diciannovesimo secolo – riemerge di nuovo, dappri-ma timidamente, nel campo della discorsività marxista.

Da quanto detto risulta chiaro come, nel discorso comuni-sta, la condizione di emergenza del “popolo” come agente poli-tico sia stata la relazione di equivalenza che scinde l’identitàdelle classi e costituisce un tipo nuovo di polarizzazione. Ora,questo processo ha luogo, interamente, all’interno del campodelle pratiche egemoniche. L’enumerazione comunista non è laconferma di una situazione de facto, assume invece un carattereperformativo. L’unità di un insieme di settori non è un dato: è unprogetto da costruire politicamente. L’egemonizzazione di untale insieme non implica, quindi, un semplice accordo congiun-turale o momentaneo; essa deve costruire una relazione struttu-ralmente nuova, differente dalle relazioni di classe. Questo dimo-stra come il concetto di “alleanza di classe” sia tanto inadeguatoa caratterizzare una relazione egemonica quanto un mero elencodi mattoni lo sarebbe per descrivere un edificio. Nondimeno,data la sua logica interna, la relazione di equivalenza non puòdispiegare la sua presenza semplicemente attraverso la sostitui-bilità accidentale dei suoi termini; essa deve dar luogo a un equi-valente generale in cui la relazione, come tale, si cristallizzi sim-bolicamente. Nel caso politico in esame è a questo punto cheemergono simboli nazionali-popolari o democratico-popolari infunzione del costituirsi di posizioni soggettive differenti da quel-le di classe; la relazione egemonica perde allora definitivamenteil suo carattere episodico e fattuale, divenendo invece una partestabile di ogni formazione politico-discorsiva. In questo senso leanalisi della contraddizione fatte da Mao – a dispetto del lorovalore filosofico quasi nullo – hanno il grande merito di presen-tare il terreno delle lotte sociali come una proliferazione di con-traddizioni, non tutte riconducibili al principio di classe.

L’altra serie di problemi affrontati dal discorso comunistariguarda le modalità di conservazione dell’identità di classe del

Page 121: opuscula /193 - Monoskop

121

settore egemonico. Formulato nei suoi termini più generali, il pro-blema è il seguente: se, nella nuova concezione, la relazione ege-monica trasforma l’identità del settore egemonico, e se, nell’etàdell’imperialismo, la condizione delle lotte sociali implica il loroaver luogo in un campo sempre più complesso, dominato da pra-tiche di ricomposizione, non viene messa in gioco, di conseguen-za, l’identità di classe dei soggetti egemonici? Fino a che puntopossiamo continuare a riferirci a un nucleo di classe come al prin-cipio articolante le varie posizioni soggettive? A questo riguardosono possibili due risposte, o meglio, due modi di pervenire a unarisposta. In ultima analisi, esse dipendono dalle due concezionidell’egemonia – democratica e autoritaria – descritte prima. Laprima risposta, propria soprattutto della tradizione comunista,trova la soluzione in un’estensione ad nauseam del modello dellarappresentazione. Ogni istanza è la rappresentazione di un’altra,fino al raggiungimento del nucleo centrale di classe che si suppo-ne dia senso all’intera serie. Questa risposta evidentemente negaogni opacità e ogni densità delle relazioni politiche, intese comeuno stadio grezzo in cui personaggi costituiti oltre tali relazioni –le classi – si danno battaglia. Inoltre, la classe così rappresentatanon può essere che la classe “per sé”, la prospettiva finalistaincarnata dalla cosmo-visione “scientifica” del partito; vale adire, l’agente ontologicamente privilegiato. In tal modo, tutti iproblemi concreti concernenti la pratica della rappresentazionesono semplicemente eliminati. La seconda risposta accetta ladiversità strutturale delle relazioni in cui sono immersi gli agentisociali, e sostituisce il principio di rappresentazione con quello diarticolazione. L’unità tra gli agenti non è allora l’espressione diun’essenza comune sottostante, ma il risultato della costruzione edella lotta politica. Se la classe operaia, come agente egemonico,riesce ad articolare intorno a sé una serie di rivendicazioni e dilotte democratiche, questo è dovuto non a qualche privilegio strut-turale a priori, ma a un’iniziativa politica da parte della classe. Ilsoggetto egemonico è quindi un soggetto di classe solo nel sensoche, sulla base delle posizioni di classe, viene articolata pratica-mente una certa formazione egemonica; ma in questo caso abbia-mo a che fare con lavoratori concreti e non con l’entelechia costi-

Page 122: opuscula /193 - Monoskop

122

tuita dai loro “interessi storici”. Nel mondo della Terza interna-zionale ci fu solo un pensatore per il quale le nozioni di politica edi egemonia come articolazione trovarono – con tutte le loroambiguità e i loro limiti – un’espressione teorica matura. Ci rife-riamo, ovviamente, ad Antonio Gramsci.

Lo spartiacque gramsciano

La specificità del pensiero di Gramsci è, di solito, presenta-ta in due modi differenti e apparentemente contraddittori.Secondo una prima interpretazione, Gramsci è stato un eminen-te teorico italiano, le cui innovazioni concettuali derivano dallecondizioni particolari dell’arretratezza italiana: il fallimento delprogetto risorgimentale nel costruire uno Stato nazionale unifi-cato, la forte divisione regionale tra Nord industriale eMezzogiorno agrario, la mancata integrazione delle masse catto-liche nella vita politica del paese a causa della questione vatica-na, lo sviluppo insufficiente e contraddittorio del capitalismoecc. In breve, Gramsci è un teorico originale e uno stratega poli-tico dello “sviluppo ineguale”, ma i suoi concetti sono scarsa-mente rilevanti per le condizioni del capitalismo avanzato. Unaseconda e diversa lettura presenta Gramsci come un teorico dellarivoluzione in Occidente,10 la cui concezione strategica è basatasulla complessità delle civiltà capitaliste avanzate e sulla densitàdelle loro relazioni sociali e politiche. Uno dei suoi interpretiarriva fino a ritenerlo il teorico della ristrutturazione capitalistasuccessiva alla crisi mondiale del 1929, e della complessitàassunta dalla lotta di massa nel contesto dell’intreccio crescentetra politica ed economia.11 In realtà, l’innovazione teorica di

10. Cfr. in special modo C. BUCI-GLUCKSMANN, Gramsci e lo Stato: peruna teoria materialistica della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976.

11. Cfr. B. DE GIOVANNI, Lenin and Gramsci: State, Politics and Party, inCh. MOUFFE, ed., Gramsci and Marxist Theory, London 1979, pp. 259-288 (tr.it. Lenin, Gramsci e la base teorica del pluralismo, in “Critica marxista”, 3-4,1976, pp. 29-53). Per una critica della concezione di De Giovanni, si vedal’Introduzione di Ch. Mouffe a questo volume.

Page 123: opuscula /193 - Monoskop

123

Gramsci si colloca a un livello più generale, sicché entrambequeste letture sono possibili e parzialmente valide. Più di ognialtro teorico del suo tempo, Gramsci amplia il terreno dellaricomposizione politica e dell’egemonia, fornendo una teorizza-zione del legame egemonico che va chiaramente oltre la catego-ria leninista di “alleanza di classe”. Poiché tanto nei paesi indu-striali avanzati quanto nella periferia capitalista le condizionidella lotta politica si allontanano sempre più da quelle immagi-nate dalla politica ortodossa degli stadi, le categorie gramscianesi applicano a entrambi i casi. La loro pertinenza deve quindiessere situata al livello della teoria generale del marxismo, inve-ce che essere riferita a contesti geografici specifici.

Il punto di partenza consiste tuttavia in un approccio rigo-rosamente leninista. In Alcuni temi della questione meridionale(1926), il primo testo in cui viene usato il concetto di egemonia,Gramsci scrive:

Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misurain cui riesce a creare un sistema di alleanze di classi che gli permettadi mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranzadella popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rap-porti di classe esistenti in Italia, nella misura in cui riesce a ottenere ilconsenso delle larghe masse contadine.12

La precondizione di questo ruolo dirigente è che la classeoperaia non resti confinata nella difesa limitata dei suoi interes-si corporativi, ma si faccia carico di quelli degli altri settori.Tuttavia la logica è ancora solo quella degli interessi settorialiprecostituiti, perfettamente compatibile con la nozione di un’al-leanza di classe. Come in Lenin, la direzione è semplicementepolitica e non “morale e intellettuale”.

È in questo movimento dal piano “politico” a quello “intel-lettuale e morale” che ha luogo la transizione decisiva verso un

12. Cfr. A. GRAMSCI, Alcuni temi della questione meridionale, in Id., Laquestione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori riuniti, Roma1970, p. 135.

Page 124: opuscula /193 - Monoskop

124

concetto di egemonia che vada oltre le “alleanze di classe”; que-sto perché se la direzione politica può essere fondata su una coin-cidenza congiunturale di interessi, in cui i settori partecipanticonservano la loro identità separata, la direzione morale e intel-lettuale richiede che un insieme di “idee” e di “valori” sia condi-viso da un certo numero di settori, o per usare la nostra termino-logia che alcune posizioni soggettive attraversino un certo nume-ro di settori di classe. La direzione morale e intellettuale costi-tuisce, secondo Gramsci, una sintesi superiore, una “volontà col-lettiva” che, attraverso l’ideologia, diviene il cemento organicoche unifica un “blocco storico”. Si tratta di concetti nuovi chehanno un effetto di spostamento rispetto alla prospettiva lenini-sta: la specificità relazionale del legame egemonico non è piùdissimulata, ma diviene al contrario interamente visibile e teo-rizzata. L’analisi definisce concettualmente una nuova serie direlazioni tra i gruppi che sfuggono alla loro collocazione struttu-rale all’interno dello schema rivoluzionario e relazionale dell’e-conomicismo. Al tempo stesso, l’ideologia è indicata come il ter-reno specifico su cui tali relazioni si costituiscono.

Tutto dipende quindi dal modo di concepire l’ideologia.13

Gramsci opera, a tale riguardo, due nuovi e fondamentali dislo-camenti rispetto alla problematica classica. Il primo è la suaconcezione della materialità dell’ideologia. L’ideologia non siidentifica con un “sistema di idee” o con la “falsa coscienza”degli agenti sociali; è piuttosto un intero organico e relazionale,incorporato in istituzioni e apparati che saldano insieme un“blocco storico” attorno a una serie di principi articolatori fon-damentali. Ciò preclude la possibilità di una lettura “sovrastrut-turalista” dell’ideologico. Infatti, attraverso i concetti di blocco

13. Riguardo alla relazione tra egemonia, ideologia e Stato in Gramsci,cfr. CH. MOUFFE, Hegemony and Ideology in Gramsci, in Gramsci and MarxistTheory, Routledge, London 1978, pp. 168-204; e CH. MOUFFE, Hegemony andthe Integral State in Gramsci: Toward a New Concept of Politics, in G. Bridgesand R. Brunt, eds., Silver Linings: Some Strategies for the Eighties, Lawrenceand Wishart, London 1981.

Page 125: opuscula /193 - Monoskop

125

storico e di ideologia come cemento organico, una nuova cate-goria totalizzante ci porta oltre la vecchia distinzionebase/sovrastruttura. Tuttavia questa mossa non è ancora suffi-ciente, perché si potrebbe ancora intendere la direzione moralee intellettuale come il tentativo di inculcare ideologicamentequalcosa a un intero spettro di settori subordinati da parte di unaclasse egemonica. In questo caso non ci sarebbero posizionisoggettive trasversali alle classi, perché quelle che apparirebbe-ro come tali sarebbero considerate parte della classe dominante,e la loro presenza in altri settori potrebbe essere spiegata sola-mente come un fenomeno di falsa coscienza. Giunto a questopunto cruciale, Gramsci introduce il suo terzo e più importantedislocamento: la rottura con la problematica riduzionista dell’i-deologia. Per Gramsci i soggetti politici non sono – in sensostretto – le classi, ma “volontà collettive” complesse; analoga-mente, gli elementi ideologici articolati da una classe egemoni-ca non hanno un’appartenenza di classe necessaria. Riguardo alprimo punto, la posizione di Gramsci è chiara: la volontà collet-tiva è un risultato dell’articolazione politico-ideologica di forzestoriche disperse e frammentate.

Da questo si deduce l’importanza che ha il “momento culturale” anchenell’attività pratica (collettiva): ogni atto storico non può non esserecompiuto dall’“uomo collettivo”, cioè presuppone il raggiungimentodi una unità “culturale-sociale” per cui una molteplicità di voleridisgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stessofine, sulla base di una (uguale) e comune concezione del mondo.14

Niente è più distante di tale “uomo collettivo”, “salda[to]insieme per uno stesso fine”, dalla nozione leninista dell’allean-za di classe. Riguardo al secondo punto, è ugualmente evidentecome, per Gramsci, l’ideologia organica non rappresenti unavisione del mondo puramente classista e chiusa; essa si forma,invece, attraverso l’articolazione di elementi che, considerati in

14. A. GRAMSCI, Quaderni dal Carcere, a cura di V. Gerratana, Torino1975, pp. 1330-1331.

Page 126: opuscula /193 - Monoskop

126

se stessi, non hanno alcuna necessaria appartenenza di classe.Esaminiamo, in questa connessione, i seguenti passaggi critici:

Ciò che importa è la critica a cui tale complesso ideologico viene sot-toposto dai primi rappresentanti della nuova fase storica: attraversoquesta critica si ha un processo di distinzione e di cambiamento nelpeso relativo che gli elementi delle vecchie ideologie possedevano: ciòche era secondario e subordinato o anche incidentale, viene assuntocome principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico edottrinale. La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi elementicontradittori, perché di questi elementi quelli subordinati si sviluppa-no socialmente.15

Come invece dovrebbe formarsi questa coscienza storica propostaautonomamente? Come ognuno dovrebbe scegliere e combinare glielementi per la costituzione di una tale coscienza autonoma? Ogni ele-mento “imposto” sarà da ripudiarsi a priori? Sarà da ripudiare comeimposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova formache sia propria del gruppo dato.16

Possiamo così vedere il punto centrale che separa la posi-zione di Gramsci dalle altre posizioni anti-economiciste formu-late all’interno del movimento comunista dell’epoca. Ad esem-pio, tanto Lukács quanto Korsch riproporzionano il terreno tra-dizionalmente attribuito alle sovrastrutture; ma lo fanno secondoi parametri di una prospettiva riduzionista della classe, che iden-tifica il soggetto rivoluzionario con la classe operaia: l’egemo-nia, nel senso dell’articolazione, risulta dunque del tutto impen-sabile. È proprio l’introduzione da parte di Gramsci di quest’ul-timo concetto a sovvertire le originarie condizioni di emergenzadel dualismo della Seconda internazionale, e la sua riproduzionesu larga scala nel discorso della Terza. Da un lato, il campo dellacontingenza storica penetra le relazioni sociali più a fondo che inogni altro discorso precedente: i segmenti sociali perdono le con-nessioni essenziali che li traducono in momenti del paradigma

15. Ivi, p. 1058.16. Ivi, p. 1875.

Page 127: opuscula /193 - Monoskop

127

stadiale; la loro stessa significazione dipende da articolazioniegemoniche il cui successo non è garantito da alcuna legge dellastoria. Nei termini della nostra analisi precedente, potremmo direche i diversi “elementi” o “compiti” non hanno più alcuna iden-tità al di fuori della loro relazione con la forza che li egemoniz-za. Dall’altro lato, queste forme di articolazione precaria comin-ciano a ricevere nomi, a essere teoricamente pensate e incorpo-rate nell’identità stessa degli agenti sociali. Questo spiega l’im-portanza attribuita da Gramsci al “nazionale-popolare” e alla for-mulazione di un concetto come “Stato integrale”, là dove il set-tore dominante modifica la sua stessa natura e identità attraversola pratica dell’egemonia. Per Gramsci, una classe non prende ilpotere dello Stato, essa diviene Stato.

Sembrano così presentarsi tutte le condizioni per quella cheabbiamo definito la pratica democratica dell’egemonia. L’interacostruzione riposa tuttavia su una concezione in ultima analisiincoerente, incapace di superare pienamente il dualismo delmarxismo classico. Per Gramsci, anche se i diversi elementisociali hanno un’identità meramente relazionale – realizzataattraverso pratiche articolatorie – ci deve sempre essere, in ogniformazione egemonica, un unico principio unificante, e questopuò essere solamente una classe fondamentale. Due elementi –l’unicità del principio unificante e il suo necessario carattere diclasse – non sono, quindi, risultati contingenti di una lotta ege-monica, ma la struttura necessaria entro cui ha luogo ogni lotta.L’egemonia di classe non è il risultato interamente pratico dellalotta, ma ha una fondazione ontologica ultima. La base econo-mica non può assicurare alla classe operaia la vittoria finale, poi-ché quest’ultima dipende dalla sua capacità di direzione egemo-nica. Nondimeno, un fallimento nell’egemonia della classe ope-raia può essere seguito solo da una ricostituzione dell’egemoniaborghese, cosicché alla fine la lotta politica rimane ancora ungioco a somma zero tra classi. Ecco il nucleo essenzialista checontinua a essere presente nel pensiero di Gramsci, ponendo unlimite alla logica decostruttrice dell’egemonia. Sostenere comun-que che l’egemonia debba corrispondere sempre a una fonda-mentale classe economica non significa riaffermare semplice-

Page 128: opuscula /193 - Monoskop

128

mente la determinazione in ultima istanza dell’economia; signi-fica anche affermare che, nella misura in cui l’economia costi-tuisce un limite insormontabile al potenziale della società per laricomposizione egemonica, la logica costitutiva dello spazio eco-nomico non è a sua volta egemonica. Qui il pregiudizio naturali-sta, che vede l’economia come uno spazio omogeneo, unificatoda leggi necessarie, appare ancora una volta in tutta la sua forza.

Questa ambiguità fondamentale può essere rilevata chiara-mente nel concetto gramsciano di “guerra di posizione”.Abbiamo già sottolineato la funzione delle metafore militari neldiscorso marxista classico, e non sarebbe esagerato dire che, daKautsky a Lenin, la concezione marxista della politica riposa suun immaginario che è in buona parte debitore di Clausewitz.17

Ne è derivato quello che potrebbe definirsi un effetto di segrega-zione: questo perché, se si intendono le relazioni con altre forzesociali come relazioni militari, si conserverà sempre la propriaidentità separata. Dalla “guerra di logoramento” di Kautsky almilitarismo estremo dell’impulso alla bolscevizzazione e del“classe contro classe”, lo stabilirsi di una rigida linea di separa-zione era considerata la condizione stessa della politica, essendola “politica” concepita semplicemente come uno dei terreni dellalotta di classe. Per Gramsci, invece, la “guerra di posizione”implica la disgregazione progressiva di una civilizzazione e lacostruzione di un’altra intorno a un nuovo nucleo di classe. Perquesto l’identità delle parti contrapposte, lungi dall’essere fissa-ta fin dall’inizio, cambia costantemente nel processo. È chiarocome non si tratti della “guerra di posizione” in senso stretta-mente militare, nella quale le forze nemiche non passano conti-nuamente da un campo all’altro. La metafora militare è infattiqui metaforizzata nella direzione opposta: se nel leninismo c’era

17. Cfr. i saggi contenuti nel volume Clausewitz en el pensamento marxi-sta, Pasado y Presente, Mexico 1979, in particolare il lavoro di C. ANCONA, Lainfluencia di De la Guerra de Clausewitz en el pensamento marxista da Marx aLenin, pp. 7-38. Questi saggi si riferiscono, tuttavia, più alla relazione tra guer-ra e politica che alla metaforizzazione politica di nozioni militari.

Page 129: opuscula /193 - Monoskop

129

una militarizzazione della politica, in Gramsci c’è una demilita-rizzazione della guerra.18 Ma questa transizione a una concezio-ne non-militare della politica trova un limite, precisamente nelpunto in cui si sostiene che il nucleo di classe della nuova ege-monia – e certamente anche della vecchia – resta costante nelcorso dell’intero processo. In tal senso, c’è un elemento di con-tinuità nel confronto, e la metafora dei due eserciti in lotta con-serva parte della sua produttività.

Il pensiero di Gramsci appare dunque sospeso in un’ambi-guità fondamentale che concerne lo statuto della classe operaia, eche lo conduce alla fine a una posizione contraddittoria. Da unlato, la centralità politica della classe operaia assume un caratterestorico, contingente: richiede che la classe esca fuori da sé, per tra-sformare la sua stessa identità articolandovi una pluralità di lotte erivendicazioni democratiche. Dall’altro lato, sembra che questoruolo articolatorio sia assegnato alla classe operaia dalla base eco-nomica, e che dunque la centralità abbia un carattere necessario.È impossibile non avere la sensazione che la transizione da unaconcezione morfologica ed essenzialista, alla Labriola, ad una sto-ricista,19 non sia stata coerentemente compiuta.

In ogni caso, se si compara il pensiero di Gramsci alle varietendenze classiche del marxismo della Seconda internazionale,la novità radicale del suo concetto di egemonia risulta assoluta-

18. In un senso letterale, che include gli stessi scontri armati. Da Mao inpoi, la “guerra popolare” è concepita come un processo di costituzione di una“volontà collettiva” di massa, in cui gli aspetti militari sono subordinati a quel-li politici. La “guerra di posizione” trascende dunque l’alternativa lotta arma-ta/lotta pacifica.

19. Althusser ha erroneamente assimilato lo “storicismo assoluto” diGramsci alle altre forme di “sinistrismo” degli anni ’20, come quelle espressedalle opere di Lukács e Korsch. Abbiamo sostenuto in altra sede (E. LACLAU,Togliatti and the Politics, in “Politics and Power”, n. 2, London 1980, pp. 251-258) che questa assimilazione si fonda su un fraintendimento, in quanto ciò cheGramsci chiama “storicismo assoluto” è precisamente il rifiuto radicale di ogniessenzialismo e di ogni teleologia a priori, ed è perciò incompatibile con lanozione di “falsa coscienza”. Sulla specificità dell’intervento di Gramsci alriguardo, cfr. C. BUCI-GLUCKSMANN, op. cit.

Page 130: opuscula /193 - Monoskop

130

mente evidente. Dopo la guerra, Kautsky20 formula una conce-zione democratica della transizione al socialismo che utilizza l’e-sperienza bolscevica come un contro-modello, responsabile –secondo lui – di pratiche dittatoriali, conseguenza inevitabile deltentativo di realizzare la transizione al socialismo in condizionidi arretratezza come quelle russe. Tuttavia, l’alternativa che eglipropone è di attendere che le mitiche leggi dello sviluppo capi-talistico semplifichino gli antagonismi sociali: si darebbero cosìle condizioni per la sparizione della dislocazione tra “masse” e“classi”, e con essa di ogni possibile divisione tra dirigenti ediretti. La teoria gramsciana dell’egemonia, al contrario, accettala complessità sociale come condizione stessa della lotta politicae – attraverso il suo triplice spostamento della teoria delle“alleanze di classe” – pone la base per una pratica democraticadella politica, compatibile con una pluralità di soggetti storici.21

20. Uno studio adeguato delle posizioni adottate da Kautsky dopo laguerra, in particolare rispetto alla rivoluzione d’Ottobre, può essere rintracciatoin A. BERGOUNIOUX - B. MANIN, La socialdemocrazia o il compromesso,Introduzione di N. Bobbio, trad. it. di G. Sforza, A. Armando in collaborazionecon la Fondazione Turati, Roma 1981, pp. 75-105.

21. Ecco perché la critica intrapresa da M. Salvadori (Gramsci e il Pci:due concezioni dell’egemonia, in Gramsci e il problema storico della democra-zia, con un saggio introduttivo di A. d’Orsi, Viella, Roma 2007, pp. 375-396) aiteorici del Partito Comunista Italiano è così poco convincente. Secondo questacritica, l’Eurocomunismo non potrebbe legittimamente rivendicare la tradizionegramsciana come fonte della sua strategia democratica, in quanto il pensiero diGramsci continuerebbe ad attribuire un’importanza essenziale al momento dellarottura e della presa del potere. Gramsci costituirebbe quindi il momento piùelevato di un leninismo adattato alle condizioni dell’Europa occidentale. Senzadubbio per Gramsci la “guerra di posizione” è semplicemente un preludio alla“guerra di movimento”, ma questo non giustifica l’assunzione di un “leninismostrutturale” in Gramsci. Una tale giustificazione sarebbe possibile solo se l’al-ternativa riforme/rivoluzione, via pacifica/violenta, fosse l’unica distinzionerilevante; ma come abbiamo visto la totalità del pensiero gramsciano si muovenella direzione dell’abbandono dell’importanza di questa alternativa e verso l’e-liminazione del suo carattere assoluto. In più aspetti importanti, né la concezio-ne della soggettività politica di Gramsci, né la sua forma di concettualizzare illegame egemonico, sono compatibili con la teoria leninista dell’“alleanza diclasse”.

Page 131: opuscula /193 - Monoskop

131

Per quanto concerne Bernstein, Gramsci condivide l’affer-mazione del primato della politica e l’accettazione di una plura-lità di lotte e rivendicazioni democratiche irriducibili all’appar-tenenza di classe. Ma a differenza di Bernstein, per il quale que-ste lotte e rivendicazioni separate sono unite solo a un livelloepocale, tramite l’intervento di una legge generale del progresso,Gramsci non lascia spazio per un principio di Entiwicklung. Lelotte derivano il loro senso dalla loro articolazione egemonica, eil loro carattere progressivo – da un punto di vista socialista –non è assicurato in anticipo. La storia non è, dunque, considera-ta come un continuum ascendente di riforme democratiche, macome una serie discontinua di formazioni egemoniche o di bloc-chi storici. Nei termini della distinzione prima delineata,Gramsci può condividere il “revisionismo” di Bernstein, ma noncerto il suo “gradualismo”.

Per quanto concerne Sorel, la questione è più complicata.Con i suoi concetti di “blocco” e “mito” egli rompe senza dub-bio in modo più radicale di Gramsci con la visione essenzialistadi una morfologia soggiacente alla storia. Se si considera sola-mente questo aspetto, il concetto gramsciano di blocco storicorappresenta un passo indietro. Ma, al tempo stesso, la prospetti-va di Gramsci segna un chiaro passo avanti, perché la sua teoriadell’egemonia come articolazione comporta l’idea di pluralitàdemocratica, mentre il mito soreliano è semplicemente destinatoa ricreare l’unità della classe. Le successive versioni di questomito hanno tentato di assicurare una radicale linea divisoriaall’interno della società, e mai di costruire, attraverso un proces-so di riaggregazione egemonica, un nuovo Stato integrale. L’ideadella “guerra di posizione” sarebbe stata completamente estraneaalla prospettiva di Sorel.

La socialdemocrazia: dalla stagnazione al “planismo”

Il vuoto politico e teorico che il passaggio a una politicaegemonica cerca di colmare può essere rintracciato anche nellapratica dei partiti socialdemocratici dopo la Prima guerra mon-

Page 132: opuscula /193 - Monoskop

132

diale. Nel loro caso, la dislocazione tra i compiti rigidamente diclasse e i nuovi compiti politici del movimento assumeva unaforma caratteristica: quella di una contraddizione tra la serielimitata di rivendicazioni e di proposte provenienti dal movimen-to operaio e la diversità e complessità dei problemi politici incon-trati da una socialdemocrazia trovatasi al potere in conseguenzadella crisi postbellica. Questa forma nuova e peculiare di svilup-po “ineguale e combinato” non poteva instaurarsi se non provo-cando effetti politici paralizzanti nelle forze sociali che avevanopuntato tutto sullo sviluppo progressivo delle forze produttive, inattesa che la maturazione delle “condizioni oggettive” rendessepossibile la presa del potere. La mentalità rigidamente classistadei partiti socialdemocratici avrebbe prodotto in questo campotutte le sue conseguenze negative. Questo fu evidente nella limi-tata capacità dei partiti socialdemocratici di egemonizzare ilvasto spettro di rivendicazioni e antagonismi democratici risul-tanti dalla crisi postbellica.

Dalla svolta del secolo fino alla fine della Prima guerra mondiale ilmovimento socialista europeo, con la sua aura di partito rivoluziona-rio, era dunque un mero strumento parlamentare del sindacalismo. Lasua attività reale si limitava ai problemi sindacali, la sua azionecostruttiva a questioni di salario e di orario, assistenza sociale, a pro-blemi delle tariffe e, al massimo, alla riforma del suffragio. La lottacontro il militarismo e quella per impedire la guerra, per quantoimportanti, erano “accidentali” rispetto al lavoro principale del parti-to.22

Questa mentalità dominò l’intera attività socialdemocraticatra la fine della guerra e la Grande depressione. In Germania, adesempio, dal novembre 1918 in poi, la maggior parte dei decretiassunti dal Consiglio socialista dei commissari del popolo si rife-

22. A. STURMTHAL, The tragedy of European Labour, 1918-1939, V.Gollancz, London 1944, p. 23. Questo lavoro pioneristico è un tentativo moltoincisivo di stabilire una relazione tra i limiti della politica socialdemocratica e lamentalità corporativa dei sindacati.

Page 133: opuscula /193 - Monoskop

133

riva quasi esclusivamente alle rivendicazioni sindacali e alleriforme del sistema elettorale; nessun tentativo di alcun genere furivolto alla soluzione dei principali problemi politici ed econo-mici. Questa limitata mentalità classista si rifletteva anche nellatotale assenza di una politica di democratizzazione radicale nellesocietà in cui i socialdemocratici erano arrivati al potere. Lamentalità classista – riformista o rivoluzionaria poco conta –sbarrava la strada alla costruzione di una volontà collettiva capa-ce di articolare una varietà di rivendicazioni e antagonismidemocratici all’interno di un nuovo blocco egemonico popolare.Né l’esercito né la burocrazia furono sottoposti ad alcuna rifor-ma. Come in politica estera, i governi socialdemocratici – esoprattutto i ministri socialisti che partecipavano ai gabinettidominati da altre forze politiche – si limitavano a seguire le ten-denze dominanti senza formulare alcuna alternativa politica. Incampo strettamente economico, la politica dominante dellesocialdemocrazie postbelliche consisteva nelle nazionalizzazioni(definite “socializzazioni”). In La realizzazione del socialismo,23

Otto Bauer propose una serie graduale di nazionalizzazioni e, aun tempo, la gestione democratica delle imprese. Progetti dinazionalizzazione vennero proposti in vari altri paesi e in alcunidi essi, come la Germania, la Gran Bretagna e la Svezia furonoistituite commissioni per studiare piani di socializzazione.Eppure questa attività non ebbe alcun effetto.

Sebbene i socialdemocratici formassero governi o vi entrassero, in piùdi un paese, il risultato globale dei primi tentativi di socializzazione funullo: con l’eccezione dell’industria militare francese nel 1936, nessu-na azienda fu nazionalizzata in Europa occidentale da parte di ungoverno socialdemocratico durante l’intero periodo fra le guerre.24

23. O. BAUER, La realizzazione del socialismo, Il Solco, Città di Castello1920.

24. A. PRZEWORSKI, Social Democracy as a Historical Phenomenon, in“New Left Review”, 122, July-August 1980, p. 48.

Page 134: opuscula /193 - Monoskop

134

Dopo il fiasco della socializzazione la socialdemocrazianon ebbe il minimo progetto economico alternativo fino allaGrande depressione.

Ci sono varie ragioni all’origine di questo scacco, ma sonotutte riconducibili a due fattori principali. Il primo è la man-canza di un progetto egemonico: avendo rinunciato a ogni ten-tativo di articolare un ampio fronte di lotte democratiche, aspi-rando invece a rappresentare unicamente gli interessi degli ope-rai, la socialdemocrazia si rivelò incapace di modificare la logi-ca sociale e politica degli apparati di Stato. A questo puntoemergeva chiaramente un’alternativa: o partecipare ai gabinet-ti borghesi, per ottenere il massimo numero di misure socialifavorevoli ai settori della classe operaia; oppure entrare a farparte dell’opposizione e duplicare, quindi, la propria impoten-za. Quasi sempre il carattere di gruppo di pressione degli inte-ressi sindacali, tipici della socialdemocrazia, imponeva la pri-ma alternativa.

C’era tuttavia una seconda ragione alla base della paralisidella socialdemocrazia nei confronti di ogni mutamento struttu-rale: la persistenza, all’interno della Seconda internazionale,dell’economicismo: la visione per la quale l’economia costitui-va uno spazio omogeneo dominato da leggi necessarie nonsuscettibili di regolazione cosciente. Commenta in modo intelli-gente A. Sturmthal:

Abbastanza curiosamente, la tradizione marxista radicale, ancora vivain Herman Müller e in altri leader della destra, accresceva il loro osti-nato sostegno al laissez-faire. La convinzione che “il capitalismo nonpuò essere riformato” era parte del credo marxista, stabilito agli esor-di del Partito socialista per distinguerlo da tutti i movimenti di rifor-ma della classe media. Si supponeva che il capitalismo seguisse le sueleggi proprie; solo una rivoluzione socialista […] avrebbe permesso ilbando delle conseguenze sociali negative del vecchio sistema.L’implicazione ovvia di questa teoria era la fede in metodi rivoluzio-nari piuttosto che democratici, ma anche quando il movimento socia-lista accettava la democrazia non abbandonava completamente l’i-deologia fondamentale della sua teoria originaria. Il governo capitali-sta doveva essere amministrato secondo tale prospettiva, in seno allastruttura tradizionale dell’economia capitalistica […]. Per questo

Page 135: opuscula /193 - Monoskop

135

motivo Hermann Müller riceveva il sostegno dei radicali, che per altriversi ne diffidavano.25

Fu la Grande depressione a imporre un mutamento in questaprospettiva, fornendo al tempo stesso una nuova base alla ridefini-zione della politica socialdemocratica. Il “planismo” degli anni ’30del Novecento fu la prima espressione del nuovo tipo di attitudine.Creando una nuova alternativa economica di welfare state, l’attua-zione del keynesismo permise di garantire agli interessi degli ope-rai uno statuto universale, nella misura in cui la politica degli altisalari divenne uno stimolo per la crescita economica contribuendoall’espansione della domanda aggregata.26

Il planismo, tuttavia, fu al suo apice – per come venne for-mulato nei lavori del suo maggiore esponente, Henri De Man27 –più di una semplice proposta economica: fu un tentativo di ridefi-nire gli obiettivi del movimento socialista in una versione radical-mente nuova, anti-economicista. In De Man sono presenti tutti glielementi emersi nella crisi della versione economicista e riduzio-nista del marxismo: la critica alla concezione razionalista dellasoggettività basata sugli “interessi” economici (egli fu uno deiprimi socialisti a studiare seriamente la psicanalisi); la critica delriduzionismo di classe; la necessità di un blocco di massa piùampio della classe operaia; la necessità di proporre il socialismocome alternativa nazionale, come una ricostituzione organica dellanazione su basi nuove; l’esigenza di un mito – in senso soreliano– che avrebbe cementato le diverse componenti di una volontàsocialista collettiva. Il “piano” non era dunque un semplice stru-mento economicista, era l’asse stesso della ricostituzione di unblocco storico, che rendeva possibile la lotta contro il declino dellasocietà borghese e l’avanzata del fascismo (la posizione pro-fasci-

25. A. STURMTHAL, The tragedy of European Labour, cit., pp. 39-40.26. A. PRZEWORSKI, Social Democracy as a Historical Phenomenon, cit.,

p. 52.27. Cfr. in particolare H. DE MAN, Il superamento del marxismo, 2 voll.,

a cura di A. Schiavi, Laterza, Bari 1929 e L’Idée socialiste (1933).

Page 136: opuscula /193 - Monoskop

136

sta, adottata personalmente da De Man dopo il 1938, e l’evoluzio-ne simile dei socialisti di Marcel Déat in Francia, non dovrebbeindurci a dimenticare il significato del planismo come sforzo realeper la restituzione dell’iniziativa politica al socialismo nel mutatoclima sociale successivo alla guerra e alla Depressione. Molti deisuoi temi divennero patrimonio comune della socialdemocraziadopo il 1945, in particolare i suoi aspetti economico-tecnocratici;mentre le sue idee politiche più radicali e innovative furono gene-ralmente messe da parte).

A questo riguardo è istruttivo richiamare un’ambiguità spes-so segnalata,28 che va al cuore dei limiti della politica socialdemo-cratica dopo la Seconda guerra mondiale. Il progetto dei sosteni-tori di sinistra del planismo era quello di instaurare un’economiamista, in cui il settore capitalista sarebbe gradualmente scompar-so; si trattava dunque, effettivamente, di una via verso la transizio-ne al socialismo. Ma secondo una variante più tecnocratica, il pro-blema era semplicemente quello di creare un’area d’intervento sta-tale che correggesse – in particolare tramite il controllo del credi-to – gli squilibri inerenti allo sviluppo capitalistico. I termini diquesta alternativa mostrano molto chiaramente come le opzioni,tanto di sinistra quanto di destra, si riferivano alla politica econo-mica, mentre i progetti per una radicale democratizzazione e per lacostruzione di una nuova volontà erano assenti o occupavano unaposizione marginale. Prima del 1945, era il classismo inveteratodei movimenti socialdemocratici a impedire ogni tentativo di arti-colazione egemonica. Dopo il 1945 – e con la creazione del wel-fare state – tale classismo si allentò considerevolmente, non certonella direzione di un approfondimento del processo democratico,ma semplicemente verso l’espansione dello Stato keynesiano, nelquale gli interessi dei differenti settori non erano più definitisecondo linee di classe fissate in modo rigoroso. In tal senso, lasocialdemocrazia divenne un’alternativa politico-economicaall’interno di una forma di Stato data, non un’alternativa radicale

28. Si veda, per esempio, A. BERGOUNIOUX - B. MANIN, La socialdemo-crazia o il compromesso, cit., pp. 119-122.

Page 137: opuscula /193 - Monoskop

137

ad essa (ci riferiamo qui, evidentemente, non all’alternativa “rivo-luzionaria”, che implicava il rovesciamento violento dello Statoesistente, ma a un approfondimento e a un’articolazione di unavarietà di antagonismi, all’interno dello Stato come della societàcivile, che poteva permettere una “guerra di posizione” contro leforme egemoniche dominanti). A causa dell’assenza di un’alterna-tiva egemonica, la socialdemocrazia si riduceva, da un lato, a unacombinazione di relazioni pragmatiche privilegiate con i sindaca-ti, dall’altro a politiche tecnocratiche più o meno di sinistra, cherendevano comunque ogni cosa dipendente da soluzioni attuate alivello statale. Tale è la radice dell’assurda nozione secondo cui ilgrado di “sinistra” di un programma si giudica in base al numerodi aziende che esso propone di nazionalizzare.

L’ultimo avamposto dell’essenzialismo: l’economia

La nostra analisi precedente può essere considerata da dueprospettive differenti che sono, in senso stretto, complementari.Nella prima, il quadro presentato è quello di un processo di scis-sioni e frammentazioni attraverso le quali ha avuto luogo la disgre-gazione del paradigma ortodosso. Ma lo spazio che era occupatoda questo paradigma non resta vuoto: nella seconda prospettiva, lostesso processo può essere inteso come l’emergenza e l’espansio-ne di una nuova logica dell’egemonia, articolatoria e ricompositi-va. Tuttavia, come abbiamo visto, questa espansione incontra unlimite. Che la classe operaia sia considerata come dirigente politi-camente in un’alleanza di classe (Lenin), o come il cuore articola-tore di un blocco storico (Gramsci), la sua identità fondamentale ècostituita in un campo differente da quello in cui operano le prati-che egemoniche. Ecco perché c’è una soglia che nessuna delleconcezioni egemonico-strategiche riesce a varcare. La validità delparadigma economicista è preservata in una certa istanza – ultimae decisiva, in quanto substrato razionale della storia – in accordocon una necessità rispetto alla quale le articolazioni egemonichenon possono essere concepite che come mera contingenza. Questostrato razionale ultimo, che conferisce un senso tendenziale a tutto

Page 138: opuscula /193 - Monoskop

138

il processo storico, ha una collocazione specifica nella topografiadel sociale: il livello economico.

Il livello economico deve però soddisfare tre condizionimolto precise per giocare questo ruolo costitutivo dei soggetti dellepratiche egemoniche. In primo luogo, le sue leggi di movimentodevono essere rigidamente endogene ed escludere ogni indetermi-natezza risultante da interventi politici o di altro tipo, altrimenti lafunzione costitutiva non potrebbe riferirsi esclusivamente all’eco-nomia. In secondo luogo, l’unità e l’omogeneità degli agenti socia-li costituiti al livello economico devono essere l’esito delle stesseleggi di movimento di tale livello (è esclusa ogni frammentazionee dispersione di posizioni che richieda un’istanza di ricomposizio-ne esterna all’economia). In terzo luogo, la posizione di questiagenti nei rapporti di produzione deve dotarli di “interessi storici”,sicché la loro presenza su altri livelli sociali – per mezzo di mec-canismi di “rappresentazione” o “articolazione” – deve spiegarsi indefinitiva sulla base degli interessi economici. Questi ultimi, dun-que, non si limitano a una determinata sfera sociale, ma sono l’an-coraggio per una prospettiva globale sulla società.

Le stesse tendenze marxiste che lottavano con maggior forzaper superare l’economicismo e il riduzionismo conservavano in unmodo o nell’altro la concezione essenzialista dello strutturarsidello spazio economico appena descritto. Così il dibattito tra ten-denze economiciste e anti-economiciste in seno al marxismo siridusse necessariamente al problema secondario del peso da darealle sovrastrutture nella determinazione dei processi storici. Anchela più “sovrastrutturalista” delle concezioni continuava a sostenereuna visione naturalistica dell’economia, anche quando cercava dilimitare l’area dei suoi effetti.

In quello che resta di questo capitolo indagheremo quest’ul-timo bastione dell’essenzialismo ortodosso. Rinviando ad alcunidibattiti contemporanei, tenteremo di dimostrare che lo stesso spa-zio dell’economia si struttura come uno spazio politico, e che, sudi esso, come su ogni altro “livello” della società, le pratiche cheabbiamo chiamato egemoniche sono pienamente operative. Maprima di intraprendere questo compito è necessario distingueredue problemi molto differenti, che vengono frequentemente con-

Page 139: opuscula /193 - Monoskop

139

fusi nella critica dell’economicismo: il primo si riferisce alla natu-ra e alla costituzione dello spazio economico; il secondo, senzaalcuna relazione con il primo, concerne il peso relativo dello spa-zio economico nella determinazione dei processi a esso esterni. Ilprimo è il problema decisivo e costituisce il fondamento per unarottura radicale con i paradigmi essenzialisti. Il secondo, per ragio-ni che cercheremo di chiarire in questo libro, non può essere deter-minato al livello di una teoria generale del sociale (affermare chequanto avviene a tutti i livelli della società, in una congiunturadata, è assolutamente determinato da ciò che accade al livello del-l’economia non è – a rigor di termini – logicamente incompatibilecon una risposta anti-economicista alla nostra prima questione).

Le nostre tre condizioni per la costituzione ultima dei sogget-ti egemonici da parte del livello economico corrispondono a tretesi fondamentali della teoria marxista classica: la condizioneriguardante il carattere endogeno delle leggi di movimento dell’e-conomia corrisponde alla tesi della neutralità delle forze produtti-ve; la condizione dell’unità degli agenti sociali a livello economi-co corrisponde alla tesi dell’omogeneizzazione e dell’impoveri-mento crescenti della classe operaia; la condizione per la quale irapporti di produzione dovrebbero essere il locus degli “interessistorici” che trascendono la sfera economica corrisponde alla tesisecondo cui la classe operaia avrebbe un interesse fondamentaleper il socialismo. Tenteremo ora di dimostrare perché queste tretesi siano false.

Per il marxismo, lo sviluppo delle forze produttive gioca ilruolo chiave nell’evoluzione storica verso il socialismo, dato che“lo sviluppo passato delle forze produttive rende il socialismo pos-sibile, e il loro futuro sviluppo lo rende necessario”.29 Esse sonoalla radice della formazione di un proletariato sempre più nume-roso e sfruttato, la cui missione storica è quella di appropriarsi egestire collettivamente le forze produttive altamente socializzate esviluppate. Nel presente, i rapporti di produzione capitalistici

29. Cfr. G.A. COHEN, Karl Marx’s Theory of History, Clarendon, Oxford1978, p. 206.

Page 140: opuscula /193 - Monoskop

140

costituiscono un ostacolo insormontabile al progresso di questeultime. La contraddizione tra borghesia e proletariato è quindi l’e-spressione sociale e politica di una contraddizione economica pri-maria, che combina una legge generale dello sviluppo delle forzeproduttive con le leggi dello sviluppo specifico del modo di pro-duzione capitalistico. In questa prospettiva, se la storia ha un sensoe un sostrato razionali, ciò è dovuto alla legge generale dello svi-luppo delle forze produttive. Di conseguenza, l’economia puòessere intesa come un meccanismo della società che agisce sufenomeni oggettivi indipendentemente dall’azione umana.

Ora, perché tale legge generale dello sviluppo delle forze pro-duttive possa acquisire piena validità, è necessario che tutti gli ele-menti operanti nel processo produttivo siano sottomessi alle suedeterminazioni. Per assicurarsi di ciò, il marxismo deve ricorrere auna finzione: la concezione della forza lavoro come merce. SamBowles e Herbert Gintis hanno mostrato come tale finzione abbiareso il marxismo cieco di fronte a un’intera serie di caratteristichedella forza lavoro come elemento del processo della produzionecapitalistica. La forza lavoro si differenzia dagli altri elementinecessari della produzione perché al capitalista non basta sempli-cemente acquistarla, deve anche imporre ad essa di produrre lavo-ro. Questo aspetto essenziale, tuttavia, sfugge alla concezione dellaforza lavoro come merce il cui valore d’uso è il lavoro. Poiché sefosse una semplice merce come le altre, il suo valore d’uso potreb-be essere evidentemente reso produttivo dal momento stesso delsuo acquisto.

La designazione del lavoro come valore d’uso della forza lavoro per ilcapitale maschera la distinzione assolutamente fondamentale tra leforze produttive incorporate in persone capaci di pratiche sociali etutte le restanti forze rimanenti, la cui proprietà, da parte del capitale,è sufficiente per assicurare il “consumo” dei loro servizi produttivi.30

30. S. BOWLES - H. GINTIS, Structure and Practice in the Labour Theoryof Value, in “Review of Radical Political Economics”, vol. 12, no. 4, p. 8. Questaidea è già stata criticata da Castoriadis in un articolo del 1961, Le mouvementrévolutionnaire sous le capitalisme moderne, in ID., Capitalisme moderne etrévolution, Union générale d’editions, Paris 1979, vol. 1.

Page 141: opuscula /193 - Monoskop

141

Un’ampia parte dell’organizzazione capitalista del lavoropuò essere intesa soltanto come il risultato della necessità, per ilcapitalista, di estrarre lavoro dalla forza lavoro acquistata.L’evoluzione delle forze produttive diventa incomprensibile senon si comprende la necessità, per il capitalista, di esercitare ilsuo dominio sul cuore stesso del processo lavorativo. Il che,certo, mette del tutto in questione l’idea dello sviluppo delleforze produttive come fenomeno naturale, spontaneamente pro-gressivo. Possiamo quindi osservare come entrambi gli elementidel punto di vista economicista – la forza lavoro come merce e losviluppo delle forze produttive come processo neutro – si raffor-zino reciprocamente. Non sorprende molto il fatto che lo studiodel processo lavorativo sia stato a lungo disprezzato nella tradi-zione marxista.

È stata la pubblicazione di Lavoro e capitale monopolisticodi Braverman31 a innescare il dibattito. In questo lavoro, si difen-de la tesi secondo cui il principio direttivo della tecnologia, inregime capitalistico, sia la separazione tra concezione ed esecu-zione, la quale produrrebbe sempre più lavoro degradato e“dequalificato”. Il taylorismo sarebbe il momento decisivo nellalotta dei capitalisti per dominare gli operai e controllare il pro-cesso lavorativo. Il postulato di Braverman è che la legge del-l’accumulazione capitalistica comporti la necessità, per il capita-le, di strappare il controllo del processo lavorativo al produttorediretto; egli non fornisce però alcuna spiegazione reale del per-ché questo si esprima attraverso uno sforzo incessante di distrug-gere, le specializzazioni degli operai, riducendoli a meri esecu-tori. Braverman presenta questa logica di dominio come unaforza onnipotente – che opera apparentemente senza intralci –come se le forze economiche a disposizione del capitale non per-mettessero alla classe operaia di resistere e di influenzare il corsodello sviluppo capitalistico. Qui la vecchia nozione di forza lavo-

31. H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico: la degradazionedel lavoro nel 20° secolo, prefazione di P.M. Sweezy, trad. it. di L. Ristori, M.Vitta, Einaudi, Torino 1980.

Page 142: opuscula /193 - Monoskop

142

ro come merce interamente soggetta alla logica del capitale con-tinua a produrre i suoi effetti.

Al contrario dell’argomentazione di Braverman, la criticaalla nozione di forza lavoro come merce, il cui valore d’uso è illavoro, ci permette di comprendere la necessità per il capitale dicontrollare il processo lavorativo. Il fatto è che, una volta acqui-stata la forza lavoro, bisogna estrarne il massimo lavoro possi-bile. Ne consegue che non può esistere processo lavorativosenza una serie di rapporti di dominio. Inoltre, ben prima del-l’avvento del capitalismo monopolista, l’organizzazione capita-listica del lavoro doveva essere, a un tempo, una tecnica di pro-duzione e una tecnica di dominio. Questo aspetto è stato sotto-lineato in una serie di lavori, come ad esempio quelli di StephenMarglin e Katherine Stone,32 i quali sostengono che la fram-mentazione e la specializzazione del lavoro non intrattengonoalcuna relazione con un supposto bisogno di efficienza, ma sonoinvece l’effetto della necessità, per il capitale, di esercitare il suodominio sul processo lavorativo. In quanto capace di pratichesociali, l’operaio può resistere ai meccanismi di controllo impo-sti e costringere il capitalista a usare tecniche diverse. Non èdunque una pura logica del capitale a determinare l’evoluzionedel processo lavorativo; quest’ultimo non è semplicemente illuogo in cui il capitale esercita il suo dominio, ma è il terreno diuna lotta.

Alcuni studi recenti condotti in Europa occidentale e negliStati Uniti hanno analizzato l’evoluzione del processo lavorativodal punto di vista del rapporto di forze tra operai e capitalisti, eda quello della resistenza operaia. Queste ricerche rivelano lapresenza di una “politica della produzione”, e contestano l’ideache lo sviluppo del capitalismo sia unicamente l’effetto delleleggi della competizione e delle esigenze dell’accumulazione.

32. S. MARGLIN, What do Bosses do?, in “Review of Radical PoliticalEconomics”, 2, 1974; K. STONE, The Origins of Job Structure in the SteelIndustry, in “Review”, 2, 1974.

Page 143: opuscula /193 - Monoskop

143

Richard Edwards, in Contested Terrain,33 distingue tre formeprincipali di controllo: il semplice controllo basato sulla vigilan-za, il controllo tecnico corrispondente alla subordinazione del-l’operaio al ritmo della macchina nella catena di montaggio, ilcontrollo burocratico – che si manifesta con l’istituzionalizza-zione del potere gerarchico – per cui il controllo in generale nondipende più dalla struttura fisica del processo lavorativo, comenel caso precedente, ma dalla sua struttura sociale. Edwardssostiene che la resistenza degli operai spiega la necessità, per ilcapitale, di sperimentare forme nuove. Analogamente, Jean-PaulGaudemar isola nel caso della Francia quattro cicli di dominiotecnologico:

un ciclo “panottico”; un ciclo disciplinare estensivo (dentro e fuori lafabbrica); un ciclo fondato su un duplice processo che implica l’inte-riorizzazione della disciplina entro un processo lavorativo rimodellatoin base alla meccanizzazione, un ciclo che propongo di chiamare ciclodella disciplina meccanicista; infine, un ciclo di disciplina contrat-tuale, in cui l’interiorizzazione della disciplina procede da modi for-mali e reali di delega parziale del potere.34

Dal canto suo, la corrente operaista italiana degli anni ’60ha mostrato come lo sviluppo del capitale, lungi dall’imporreciecamente la sua logica alla classe operaia, sia subordinato allalotta di quest’ultima. Mario Tronti,35 ad esempio, rileva come lelotte della classe operaia abbiano costretto il capitale a modifi-care la sua composizione interna e le sue forme di dominio; que-sto perché, imponendo un limite alla giornata lavorativa, il capi-tale viene obbligato a passare dal plusvalore assoluto a quellorelativo. Questo conduce Panzieri a sostenere la tesi secondo cuila produzione è un “meccanismo politico”, ed è necessario ana-

33. R. EDWARDS, Contested Terrain: the Transformation of the Workplacein the Twentieth Century, Basic Book, New York 1979.

34. J.P. DE GAUDEMAR, L’ordre et la production. Naissance et formes dela discipline d’usine, Dunod, Paris 1982, p. 24.

35. M. TRONTI, Lenin in Inghilterra, in Id. Operai e capitale, Einaudi,Torino 1977, p. 90.

Page 144: opuscula /193 - Monoskop

144

lizzare la “tecnologia e l’organizzazione del lavoro in quanto sta-biliscono un rapporto di forze tra le classi”.36 Comune a tutti que-sti lavori è l’idea che le forme storiche specifiche del controllocapitalista debbano essere studiate come parte delle relazionisociali in generale, dato che le forme mutevoli dell’organizza-zione del processo lavorativo non possono essere comprese sem-plicemente in termini di differenza tra plusvalore assoluto e plu-svalore relativo. Un’analisi storica comparativa rivela inoltreimportanti differenze tra i diversi paesi. La forza dei sindacati inGran Bretagna, ad esempio, ha reso possibile una maggiore resi-stenza al cambiamento che altrove.

Le lotte operaie, così intese, non possono ovviamente esse-re spiegate muovendo da una logica endogena al capitalismo,poiché il loro stesso dinamismo non può essere sussunto sotto laforma “merce” della forza lavoro. Ma se questa scissione tra unalogica del capitale e una logica della resistenza degli operaiinfluenza l’organizzazione del processo lavorativo capitalistico,essa deve investire anche il carattere e il ritmo dell’espansionedelle forze produttive. Ecco perché la tesi secondo cui le forzeproduttive sono neutre, e il loro sviluppo può essere concepitocome naturale e unilineare, si rivela del tutto infondata. Il cherimuove anche l’unica base che permetterebbe di intendere l’e-conomia come un universo autonomo e auto-regolato. Non vienequindi soddisfatta la prima delle condizioni, quella del privilegioesclusivo garantito alla sfera economica nella costituzione degliagenti sociali.

Una conclusione che dovrebbe già indurci a pensare cheanche la seconda condizione resta inevasa, perché difficilmentel’economia potrebbe costituire soggetti unificati mediante unasingola logica che non è in suo possesso. Nondimeno, è impor-tante esplorare il variegato decentramento delle diverse posizio-ni del soggetto “classe operaia”. In primo luogo, lo stesso con-

36. R. PANZIERI, citato in B. CORIAT, L’opeéraïsme italien, in“Dialectiques”, 30, 1980, p. 96.

Page 145: opuscula /193 - Monoskop

145

cetto di classe operaia comprende in Marx due relazioni distinte,con le proprie rispettive leggi di movimento: la relazione salaria-le stabilita attraverso la vendita della forza lavoro, che trasformal’operaio in proletario; e quella risultante dalla posizione dell’o-peraio nel processo lavorativo, che lo rende un lavoratore manua-le. Questa dicotomia è alla base della pregnante distinzione trarapporti di produzione e rapporti nella produzione delineata daMichael Burawoy.37 Se, per Marx, la distinzione non è evidente,non è solo perché i due tipi di relazioni tendono a coinciderenella sua esperienza storica immediata, ma anche perché, consi-derando la forza lavoro come una semplice merce, egli era incli-ne a sottrarre ogni autonomia e ogni rilevanza ai rapporti stabili-ti nel processo lavorativo. Resta però chiaro che entrambi i rap-porti hanno avuto una diversa evoluzione, rendendo problemati-ca l’etichetta comune “classe operaia” che li univa: se nel capi-talismo avanzato la forma salario si è generalizzata, la classedegli operai dell’industria si è ridotta in numero e importanza.Questa asimmetria è alla radice delle ambiguità dominanti neldibattito recente sui limiti della classe operaia.

Una volta dimostrata l’insostenibilità della teoria dell’im-poverimento come meccanismo specifico nella costituzione del-l’unità della classe operaia, furono fatti due nuovi tentativi pertrovare una base economica per questa unità: il primo centratosul fenomeno della “dequalificazione” (Braverman), l’altro sullaricerca di un nucleo più ristretto di operai, che avrebbe costituitola “vera” classe operaia (Poulantzas). Muovendo dalla sua anali-si del taylorismo, Braverman sostiene che la degradazione dellavoro, causata dalla separazione tra concezione ed esecuzione,conduce strati sempre più ampi di lavoratori – impiegati o menonei settori della produzione di merci – all’interno della categoriadi classe operaia proletarizzata.38 Per Braverman, la polarizza-zione prevista da Marx sarebbe un processo in via di compimen-

37. M. BURAWOY, Terrains of Contest: Factory and State underCapitalism and Socialism, in “Socialist review”, 58, 1981.

38. H. BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, passim.

Page 146: opuscula /193 - Monoskop

146

to, e la degradazione in corso delle condizioni lavorative costrin-gerà la classe operaia a organizzarsi e a lottare politicamentecontro il sistema. Sono tuttavia pochi gli studi dedicati alla clas-se operaia nordamericana che condividono la tesi dell’omoge-neizzazione di Braverman. Ad esempio, i lavori di Edwards,Gordon e Reich39 dimostrano come le forme di controllo nel pro-cesso lavorativo, combinate con il razzismo e il sessismo, abbia-no creato una segmentazione del mercato del lavoro, cristallizza-tasi nel frazionamento della classe operaia.40 In Europa occiden-tale41, ricerche simili invalidano anche la tesi di una progressivasemplificazione della struttura sociale e confermano che la ten-denza generale in corso procede verso una polarizzazione tra duesettori dell’economia: un settore generale ben pagato e protetto eun settore periferico di lavoratori non qualificati o semi-qualifi-cati per i quali non esiste alcuna sicurezza. Se aggiungiamo unterzo settore, quello dei disoccupati strutturali, il cui numero è incostante aumento, si rivela evidente l’insostenibilità della teoriadell’omogeneizzazione. Inoltre, la dequalificazione non assume

39. D. GORDON - R. EDWARDS - M. REICH, Segmented Work, DividedWorkers, Cambridge University Press, Cambridge and New York 1982.

40. Questi autori distinguono tre mercati del lavoro corrispondenti alletre sezioni della classe operaia. Il primo include la maggior parte di occupazio-ni di carattere professionale. È il dominio della classe media che gode di impie-go stabile con possibilità di promozione e salari relativamente alti. Queste carat-teristiche possono essere trovate anche nel primo mercato subordinato, con ladifferenza che i lavoratori di questo settore – la classe operaia “tradizionale”insieme ai lavoratori semi-qualificati del terzo settore – possiedono solo com-petenze specifiche acquisite nell’impresa, e che il loro lavoro è ripetitivo e lega-to al ritmo delle macchine. In terzo luogo incontriamo il “mercato secondario”,con i suoi operai non specializzati che non hanno possibilità di promozione,sono senza sicurezza di impiego e con bassi salari. Questi lavoratori non sonosindacalizzati, il turnover è veloce e la proporzione di neri e donne è molto alta.

41. Cfr. ad esempio M. PACI, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia.Ricerche sulla composizione del proletariato, Il Mulino, Bologna 1973. Per unaprospettiva più generale sulle società industriali cfr. S. BERGER - M. PRIORE,Dualism and Discontinuity in Industrial Societies, Cambridge University Press,Cambridge 1980.

Page 147: opuscula /193 - Monoskop

147

il carattere generale attribuitole da Braverman: sebbene sia cre-scente in alcuni settori, c’è anche un processo parallelo di crea-zione di nuove qualifiche.

Ancora, la creazione di un mercato del lavoro duale deveessere ricondotta alle differenti strategie capitalistiche per com-battere la resistenza di fabbrica e non può essere valutata comeun semplice effetto dello sviluppo capitalistico. In tal senso,Andrew Friedman ha mostrato come, nel caso britannico, i capi-talisti impieghino diverse strategie in base alla capacità di resi-stenza dei differenti gruppi operai alla loro autorità.42 In un datopaese e in una stessa impresa si può distinguere tra operai cen-trali e periferici, appartenenti a differenti mercati del lavoro, i cuisalari e le cui condizioni di lavoro riflettono la loro inegualecapacità di resistenza. Donne e immigrati sono generalmentesituati in un mercato non protetto. Tuttavia Friedman consideraquesta segmentazione non come il risultato di una cospirazionetesa a dividere la classe operaia, ma come una conseguenza deirapporti di forza in cui a giocare un ruolo importante sono glistessi sindacati. Le divisioni all’interno della classe operaia sonodunque più radicate di quanto si possa pensare; e sono, almenoin parte, il risultato delle stesse pratiche degli operai. Sono divi-sioni politiche e non semplicemente economiche.

È impossibile parlare oggi di omogeneità della classe ope-raia e descriverla a fortiori come un meccanismo inscritto nellalogica dell’accumulazione capitalistica. Per conservare l’ideadell’identità operaia basata su interessi comuni, derivata da uninserimento di classe nei rapporti di produzione, la seconda ten-denza menzionata prima ha, dunque, tentato di individuare lavera classe operaia tramite una definizione più ristretta. La realtàdella frammentazione è pienamente accettata e l’identità unitariaè attribuita a uno dei frammenti. A questo riguardo è istruttivoesaminare il dibattito che ha visto contrapporsi Eik Olin Wright

42. A.L. FRIEDMAN, Industry & Labour. Class Struggle at Work andMonopoly Capitalism, MacMillan, London 1977.

Page 148: opuscula /193 - Monoskop

148

e Nicos Poulantzas.43 Per quest’ultimo, il criterio di identifica-zione dei limiti della classe operaia è il lavoro produttivo,44 men-tre i lavoratori salariati improduttivi costituiscono una “nuovapiccola borghesia”. L’eterogeneità dei settori inclusi in questacategoria non costituisce un particolare problema per Poulantzas.Poiché in questa prospettiva le classi non possono essere defini-te solo a livello economico, e poiché la vecchia piccola borghe-sia e quella nuova occupano la stessa posizione ideologica rispet-to al proletariato e alla borghesia, egli ritiene del tutto giustifica-to includerle nella medesima categoria di classe. Questo approc-cio è stato criticato da Eric Olin Wright, che non solo rigetta ladefinizione di lavoro produttivo proposta da Poulantzas, maanche l’idea stessa che un tale criterio possa servire a definire ilimiti della classe operaia. Il suo argomento è che la distinzionetra lavoro produttivo e improduttivo non implichi affatto che ilavoratori improduttivi abbiano diversi interessi di classe e chenon siano interessate al socialismo.

Perché all’interno della divisione sociale del lavoro si situino due posi-zioni di classe differente sulla base di criteri economici, occorre cheesse abbiano, a livello economico, interessi di classe fondamental-mente differenti.45

La soluzione offerta da Wright consiste nel distinguere traposizioni di classe “ambigue” e “non-ambigue”. Queste ultimecaratterizzano il proletariato, la borghesia e la piccola borghe-

43. N. POULANTZAS, Classi sociali e capitalismo oggi, ETAS libri,Milano 1975. E.O. WRIGHT, Class, Crisis and the State, New Left Books,London 1978.

44. Il concetto di “lavoro produttivo” è più ristretto in Poulantzas che inMarx, in quanto egli lo definisce come “lavoro che produce plusvalore riprodu-cendone direttamente gli elementi materiali che servono da substrato al rappor-to di sfruttamento: dunque quello che interviene direttamente nella produzionemateriale producendo valori d’uso che accrescono le ricchezze materiali” (ivi,p. 187).

45. E.O. WRIGHT, Class, Crisis and the State, cit., p. 48.

Page 149: opuscula /193 - Monoskop

149

sia.46 Oltre a queste tre posizioni non-ambigue, Wright individuaquelle che chiama “posizioni contraddittorie di classe”, che stan-no a metà strada tra le posizioni non-ambigue. Là dove i criterieconomici sono contraddittori la lotta ideologica e politica gio-cherà un ruolo determinante nella definizione degli interessi diclasse.

La ragione di questa ricerca della “vera” classe operaia,simile a quella di Diogene, è senza dubbio politica: l’obiettivo èdi determinare quella categoria di operai legati direttamente a unaprospettiva socialista tramite i loro interessi economici, e dunquedestinati a condurre la lotta anticapitalista. Tuttavia il problemadegli approcci guidati da una definizione ristretta della classeoperaia è il loro fondarsi ancora sul concetto di “interesse ogget-tivo”, un concetto che manca della minima base teorica e nonimplica nient’altro che un’arbitraria attribuzione di interessi a unacerta categoria di agenti sociali da parte dell’analista. Nella visio-ne classica, l’unità di classe si costruiva intorno agli interessi, manon era un dato della struttura sociale; era un processo di unifica-zione, risultante dall’impoverimento e dalla proletarizzazione cheandava di pari passo con lo sviluppo delle forze produttive.L’omogeneizzazione attraverso la dequalificazione – la tesi diBraverman – appartiene al medesimo livello esplicativo. Gli inte-ressi oggettivi sono storici, dipendenti cioè da un movimentorazionale e necessario della storia, accessibile alla conoscenzascientifica. Risulta dunque impossibile abbandonare la concezio-ne escatologica della storia e conservare una nozione di “interes-se oggettivo”, che ha senso solo all’interno della prima. Entrambi,Poulantzas e Wright, sembrano presupporre che la frammentazio-ne della classe si produca tra diversi agenti sociali. Nessuno dei

46. I criteri di appartenenza al proletariato sono: 1) assenza di controllosui mezzi fisici di produzione; 2) assenza di controllo sugli investimenti e sulprocesso di accumulazione; 3) assenza di controllo sulla forza lavoro di altrepersone. La borghesia è, al contrario, definita dal suo esercizio del controllo suquesti tre ambiti, mentre la piccola borghesia controlla gli investimenti, il pro-cesso di accumulazione e i mezzi fisici di produzione: non esercita controllosulla forza lavoro di altri.

Page 150: opuscula /193 - Monoskop

150

due presta attenzione a una realtà più sostanziale, riconosciutainvece dal marxismo classico, vale a dire al fatto che esista unaframmentazione di posizioni all’interno degli stessi agenti socia-li, e che dunque questi manchino di un’identità razionale ultima.La tensione tra lotta politica e lotta economica – e le analisi teo-riche dell’“imborghesimento” della classe operaia, o l’afferma-zione di Bernstein secondo la quale attraverso il progresso demo-cratico l’operaio cesserebbe di essere un proletario divenendo uncittadino ecc. – implicava che la classe operaia fosse dominata dauna pluralità di posizioni soggettive debolmente integrate e spes-so contraddittorie. Qui l’alternativa è chiara: o si dispone di unateoria della storia, per la quale tale pluralità contraddittoria saràeliminata e una classe di operai, assolutamente unita, diverrà tra-sparente a se stessa nel momento del chiliasmo rivoluzionario, nelqual caso i suoi “interessi oggettivi” possono essere determinatisin dall’inizio; oppure si abbandona una tale teoria e, con essa,ogni fondamento che privilegi alcune posizioni soggettive rispet-to ad altre nella determinazione degli interessi “oggettivi” dell’a-gente nella sua totalità, nel qual caso la nozione stessa di “inte-ressi oggettivi” diviene priva di senso. Nella nostra prospettiva,per avanzare nella determinazione degli antagonismi sociali,occorre analizzare la pluralità delle diverse posizioni, spesso con-traddittorie, e scartare l’idea di un agente perfettamente unificatoe omogeneo come la “classe operaia” del discorso classico. Laricerca della “vera” classe operaia e dei suoi limiti è un falso pro-blema, e come tale manca di ogni pertinenza teorica e politica.

Questo non implica evidentemente che la classe operaia e ilsocialismo siano incompatibili, ma comporta l’affermazione,assai differente, che gli interessi fondamentali del socialismo nonpossono essere dedotti logicamente dalle posizioni determinatenel processo economico. La visione opposta – che un tale legamesia fornito dall’interesse dell’operaio a impedire l’assorbimentocapitalista del surplus economico – sarebbe valida solo se si assu-messe, inoltre, (a) che l’operaio è un homo oeconomicus cheprova a massimizzare il surplus economico proprio come il capi-talista; oppure (b) che egli sia un essere spontaneamente coopera-tivo, che aspira alla distribuzione sociale del prodotto del suo

Page 151: opuscula /193 - Monoskop

151

lavoro. Ma anche in questo caso nessuna di queste ipotesi, a mala-pena plausibili, supplirebbe al requisito decisivo, non dandosialcuna connessione logica tra le posizioni nei rapporti di produ-zione e la mentalità dei produttori. La resistenza degli operai adalcune forme di dominio dipenderà dalla posizione da essi occu-pata all’interno dell’insieme dei rapporti sociali, e non solo inquelli di produzione. A questo punto, è ovvio come nemmeno lenostre ultime due condizioni per la costituzione degli agenti del-l’egemonia a partire esclusivamente dalla sfera economica sianosoddisfatte: ovvero che essi si costituiscano pienamente comesoggetti all’interno di questo spazio e siano, perciò, dotati di“interessi storici” derivati dalla loro posizione di classe.

Affrontare le conseguenze

Tiriamo ora le conclusioni. Il campo dell’economia non èuno spazio auto-regolato soggetto a leggi endogene, né esiste unprincipio costitutivo degli agenti sociali che possa stabilirsi in unnucleo di classe ultimo, né le posizioni di classe costituiscono illuogo necessario degli interessi storici. Da qui si possono rapida-mente trarre alcune conseguenze. Da Kautsky in poi, il marxismosapeva che la determinazione socialista della classe operaia nonemergeva spontaneamente, ma dipendeva dalla mediazione poli-tica degli intellettuali. Questa mediazione non era concepita peròcome articolazione, ovvero come una costruzione politica a par-tire da elementi dissimili. Aveva invece un fondamento epistemo-logico: gli intellettuali socialisti leggevano nella classe operaia ilsuo destino oggettivo. Con Gramsci, la politica è finalmente con-cepita come articolazione e, attraverso il suo concetto di bloccostorico, viene introdotta nella teoria del sociale una complessitàprofonda e radicale. Eppure anche per Gramsci il nucleo ultimodell’identità del soggetto egemonico si costituisce in un puntoesterno allo spazio da esso articolato: la logica dell’egemonia nondispiega tutti i suoi effetti decostruttivi sul terreno teorico delmarxismo classico. Siamo tuttavia stati testimoni della caduta diquest’ultimo avamposto del riduzionismo di classe, nella misura

Page 152: opuscula /193 - Monoskop

152

in cui l’unità e l’omogeneità stesse dei soggetti di classe si sonoscisse in una serie di posizioni precariamente integrate, che unavolta abbandonata la tesi del carattere neutrale delle forze produt-tive non possono più rinviare ad alcun punto necessario di unifi-cazione futura. La logica dell’egemonia, in quanto logica dell’ar-ticolazione e della contingenza, è arrivata a determinare l’identitàstessa dei soggetti egemonici. Ne derivano una serie di conse-guenze, che rappresentano altrettanti punti di avvio per le nostreanalisi successive.

1. La non-fissità è diventata la condizione di ogni identitàsociale. Come abbiamo visto, la fissità di ogni elemento sociale,nelle prime teorie dell’egemonia, era dovuta al legame indissolu-bile tra il compito egemonico e la classe supposta esserne l’agen-te naturale, mentre il legame tra il compito e la classe egemoniz-zante era semplicemente fattuale o contingente. Ma, poiché ilcompito non ha più alcun legame necessario con la classe, la suaidentità si definisce solo attraverso la sua articolazione all’internodi una formazione egemonica. È cioè divenuta puramente rela-zionale. E poiché questo sistema di relazioni ha esso stesso ces-sato di essere fisso e stabile – rendendo così possibili le praticheegemoniche – il senso di ogni identità sociale appare costante-mente differito. Il momento della sutura “finale” non giunge mai.In questo modo, a crollare non è solo la categoria di necessità, maanche la possibilità di spiegare la relazione egemonica in terminidi pura contingenza, poiché lo spazio che rendeva intelligibilel’opposizione necessario/contingente si è dissolto. L’idea che illegame egemonico possa essere compreso teoricamente grazie aun mero esercizio narrativo si è rivelata un miraggio. Il legamedeve essere invece definito nei termini di nuove categorie teori-che, il cui statuto costituisce un problema in quanto esse tentanodi afferrare un tipo di relazione che non si ritrova mai identica ase stessa.

2. Ecco quindi le dimensioni in cui la non-fissità del socialeproduce i suoi effetti. La prima appartiene al terreno della sog-gettività politica. Abbiamo visto che in Rosa Luxemburg ladimensione simbolica, che connette i differenti antagonismi e ipunti di rottura politici, è la matrice di nuove forze sociali, quelle

Page 153: opuscula /193 - Monoskop

153

che Gramsci definirà “volontà collettive”. Questa logica dellacostituzione simbolica del sociale incontrava precisi limiti nellapersistenza, a livello morfologico, della concezione economicisti-ca della storia. Ma una volta dissolta quest’ultima, l’eccedenzadei legami di classe da parte delle varie forme di protesta socialepoteva operare liberamente (liberamente, ovvero indipendente-mente da ogni carattere delle lotte o delle rivendicazioni stabilitoa priori in conformità con l’appartenenza a una classe, non certonel senso che, in una data congiuntura, era possibile ogni tipo diarticolazione). Se è così, dalla nostra analisi possono essere rica-vate tre importanti conseguenze. La prima rinvia al legame tra ilsocialismo e gli agenti sociali concreti. Abbiamo dimostrato chenon si dà relazione logica e necessaria tra gli obiettivi socialisti ele posizioni degli agenti sociali nei rapporti di produzione, e chela loro articolazione è esterna e non deriva da alcun movimentonaturale degli uni per unirsi alle altre. In altre parole, la loro arti-colazione deve essere considerata come una relazione egemonica.Dal punto di vista socialista, la direzione della lotta operaia non è,quindi, uniformemente progressiva: essa dipende, proprio comeogni altra lotta sociale, dalle sue forme di articolazione all’inter-no di un contesto egemonico dato. Per la stessa ragione una seriedi altri punti di rottura e antagonismi democratici possono artico-larsi in una “volontà collettiva” socialista, su un piano di ugua-glianza, con le rivendicazioni operaie. L’era dei “soggetti privile-giati” – in senso ontologico, non pratico – della lotta anticapitali-sta è stata definitivamente superata. La seconda conseguenza siriferisce alla natura dei “nuovi movimenti sociali”, molto discus-sa nell’ultimo decennio. Le due tendenze di pensiero dominanti alriguardo sono incompatibili con la nostra posizione teorica. Laprima pensa la natura e l’efficacia di questi movimenti all’internodella problematica del soggetto privilegiato della trasformazionesocialista: essi sono dunque considerati come marginali o perife-rici rispetto alla classe operaia (il soggetto fondamentale nellavisione ortodossa) oppure come un sostituto rivoluzionario peruna classe operaia integrata nel sistema (Marcuse). Ma quantoabbiamo sostenuto finora indica che non si danno punti privile-giati per innescare una pratica politica socialista; questa dipende

Page 154: opuscula /193 - Monoskop

154

da una “volontà collettiva” che viene costruita laboriosamente dauna serie di punti diversi. Non possiamo perciò concordare nem-meno con la seconda tendenza dominante nel dibattito sui nuovimovimenti sociali, che afferma a priori la loro natura progressiva.Il senso politico di un movimento comunitario locale, di una lottaecologica, di un movimento di una minoranza sessuale, non è datofin dall’inizio: dipende in modo cruciale dalla sua articolazioneegemonica con altre lotte e rivendicazioni. La terza conseguenzaconcerne il modo di concepire la relazione tra differenti posizio-ni soggettive, che la nostra analisi ha tendenzialmente de-totaliz-zato. Tuttavia, se l’operazione decentrante si chiudesse a questopunto, non avremmo fatto altro che affermare una nuova forma difissità: quella delle varie posizioni soggettive decentrate. Se nem-meno queste ultime sono fisse, è chiaro che un logica della de-totalizzazione non può semplicemente affermare la separazionetra lotte e rivendicazioni differenti, e che l’articolazione non puòessere concepita solo come il collegamento di elementi diversi epienamente costituiti. È a tale proposito che la radicalizzazionedel concetto di “surdeterminazione” ci fornirà la chiave per lalogica specifica delle articolazioni sociali.

3. La logica della nostra analisi sembra implicare però che lanozione stessa di “egemonia” debba essere messa in questione. Learee discorsive di emergenza e validità di questa categoria eranooriginariamente limitate al terreno teorico di una scissione. Unaclasse costituita al livello delle essenze era messa a confronto concontingenze storiche che la costringevano a farsi carico di compi-ti estranei alla propria natura. Ma abbiamo visto, da un lato, chequesta scissione non poteva sopravvivere al collasso della distin-zione tra questi due piani; d’altro lato, che essendovi un progres-so in senso democratico il compito egemonizzato alterava l’iden-tità del soggetto egemonico. Ciò significa forse che l’“egemonia”era semplicemente un concetto transitorio, un momento nella dis-soluzione del discorso essenzialista, e quindi incapace di soprav-vivergli? Nei prossimi due capitoli tenteremo di mostrare comequesta non sia una risposta adeguata e come le tensioni inerenti alconcetto di egemonia siano inerenti a ogni pratica politica e, insenso stretto, a ogni pratica sociale.

Page 155: opuscula /193 - Monoskop

155

IIIOLTRE LA POSITIVITÀ DEL SOCIALE:

ANTAGONISMO ED EGEMONIA

A questo punto dobbiamo costruire teoricamente il concet-to di egemonia. La nostra analisi ha fornito finora qualcosa dipiù e qualcosa di meno rispetto a una precisa posizione discor-siva da cui partire. Qualcosa di più, nella misura in cui lo spaziodell’egemonia non è soltanto quello di un “impensato” localiz-zato: è piuttosto uno spazio dove emerge un’intera concezionedel sociale basata su un’intelligibilità che riduce i suoi momen-ti distinti all’interiorità di un paradigma chiuso. Qualcosa dimeno, in quanto le varie superfici di emergenza della relazioneegemonica non si uniscono armoniosamente per formare unvuoto teorico che un nuovo concetto deve riempire. Al contrario,alcune di queste sembrano essere superfici di dissoluzione delconcetto, dal momento che il carattere relazionale di ogni iden-tità sociale implica una rottura della differenziazione dei piani,della diversità tra articolatore e articolato su cui si fonda il lega-me egemonico. Costruire il concetto di egemonia non implicaquindi un semplice sforzo speculativo all’interno di un contestocoerente, ma un più complesso movimento strategico che richie-de una negoziazione tra superfici discorsive reciprocamentecontraddittorie.

Da quanto detto finora deriva che il concetto di egemoniapresuppone un campo teorico dominato dalla categoria dell’ar-ticolazione, e che quindi gli elementi articolati possono essereidentificati separatamente (vedremo più avanti come sia possi-bile definire gli “elementi” indipendentemente dalle totalitàarticolate). In ogni caso, se l’articolazione è una pratica e non il

Page 156: opuscula /193 - Monoskop

156

nome di un complesso relazionale dato, deve implicare unaqualche forma di presenza separata degli elementi che quellastessa pratica articola o ricompone. Nel tipo di teoria che voglia-mo analizzare, gli elementi su cui operano le pratiche di artico-lazione venivano originariamente definiti come frammenti diuna totalità strutturale o organica perduta. Nel diciottesimosecolo, la generazione romantica tedesca prese l’esperienzadella frammentazione e della divisione come punto di partenzadella propria riflessione teorica. Sin dal secolo precedente il col-lasso della visione del cosmo come ordine coerente, nel qualel’uomo occupava un posto preciso e determinato – e la sostitu-zione di questa idea con una concezione autodefinita del sog-getto, come un’entità che mantiene rapporti di esteriorità con ilresto dell’universo (il disincanto del mondo di Weber) – avevacondotto la generazione romantica dello Sturm und Drang a unafrenetica ricerca dell’unità perduta, di una nuova sintesi cheavesse permesso di superare questa divisione. La nozione diuomo come espressione di una totalità integrale cerca di rompe-re con tutti i dualismi (corpo/anima; ragione/sentimento; pen-siero/realtà) stabiliti dal razionalismo fin dal diciassettesimosecolo.1 È risaputo che i romantici concepirono questa esperien-za di dissociazione come strettamente connessa alla differenzia-zione funzionale e alla divisione in classi della società, alla cre-scente complessità di uno Stato burocratico che stabiliva rap-porti di esteriorità con le altre sfere della vita sociale.

Dato che gli elementi da riarticolare erano definiti comeframmenti di un’unità perduta, era chiaro che ogni ricomposi-zione avrebbe avuto un carattere artificiale rispetto all’unitànaturale e organica tipica della cultura greca. CitandoHölderlin:

I due ideali che stanno alla base dell’esistenza umana: il primo dellamassima semplicità, in cui i nostri bisogni e le nostre forze stanno in

1. C. TAYLOR, Hegel, Cambridge University Press, Cambridge 1975, p.23 e, in generale, cap. 1.

Page 157: opuscula /193 - Monoskop

157

armonia tra di loro solo mediante l’organizzazione della natura; ilsecondo della massima cultura (“Bildung”) in cui gli stessi bisogni ele stesse forze, ma in maniera più ampia e complessa, raggiungono lamedesima armonia mediante l’organizzazione che noi stessi siamo ingrado di darci.2

Ora, tutto dipende da come concepiamo questa “organizza-zione che noi stessi siamo in grado di darci” e che consegna aglielementi una nuova forma di unità: può essere contingente equindi esterna ai frammenti stessi, oppure sia i frammenti sial’organizzazione sono momenti necessari di una totalità che litrascende. È chiaro che soltanto la prima forma di “organizza-zione” può essere intesa come un’articolazione, mentre laseconda è più propriamente una mediazione. Tuttavia è altret-tanto evidente come nei discorsi filosofici la distanza tra l’una el’altra sia stata presentata più come un’area nebulosa di ambi-guità che come un chiaro spartiacque.

Dal nostro punto di vista questa è l’ambiguità che presentail pensiero di Hegel nel suo approccio alla dialettica dell’unità edella frammentazione. La sua opera è, allo stesso tempo, ilmomento più alto del romanticismo tedesco e la prima riflessio-ne moderna – cioè post-illuminista – sulla società. Non si trattadi una critica della società da una prospettiva utopica, né di unadescrizione o di una teorizzazione dei meccanismi che rendonopossibile un ordine che sia accettato come certo e dato.Piuttosto, la riflessione di Hegel parte dall’opacità del socialerispetto alle forme elusive di una razionalità e di un’intelligibi-lità rintracciabili solamente attraverso un’astuzia della ragioneche riporta la separazione a unità. Hegel sembra trovarsi così acavallo di due epoche. Da una parte, rappresenta l’apice delrazionalismo, il momento in cui si tenta di racchiudere entro alcampo della ragione, senza dualismi, la totalità dell’universo

2. F. HÖLDERLIN, Frammento di Iperione, citato in Id., Iperione o l’ere-mita in Grecia, a cura di G. Scimonello, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1989,pp. xxxv-xxxvi.

Page 158: opuscula /193 - Monoskop

delle differenze: dunque la storia e la società hanno una struttu-ra razionale e intelligibile. Dall’altra parte, però, questa sintesicontiene già tutti i germi della sua stessa dissoluzione, dalmomento che la razionalità della storia può essere affermatasolo pagando il prezzo dell’introduzione della contraddizionenel campo della ragione. Sarebbe quindi sufficiente mostrareche si tratta di un’operazione impossibile che richiede unacostante violazione del metodo che essa stessa presuppone –come ha già dimostrato Trendelenburg nel diciannovesimo seco-lo3 – affinché il discorso hegeliano diventi qualcosa di moltodiverso: una serie di transizioni contingenti e non logiche. Lamodernità di Hegel sta proprio in questo: per lui l’identità non èmai positiva e chiusa in se stessa, ma si costituisce come transi-zione, relazione, differenza. Se tuttavia le relazioni logiche diHegel diventano transizioni contingenti, le connessioni tra diloro non possono essere fissate come momenti di una totalitàsoggiacente o suturata. Questo significa che sono delle articola-zioni. Nella tradizione marxista quest’area di ambiguità si riflet-te negli usi contradditori del concetto di “dialettica”. Da unaparte, questo concetto è stato introdotto acriticamente ogniqual-volta si è tentato di sfuggire alla logica della fissazione, cioè dipensare l’articolazione (si consideri ad esempio la pittorescanozione di dialettica di Mao Tse-tung: la sua assoluta incapacitàdi comprendere il carattere logico delle transizioni dialettichelegittima, tramite un camuffamento dialettico, l’introduzione diuna logica dell’articolazione a livello politico-discorsivo).Dall’altra parte, la “dialettica” ha un effetto di chiusura nei casiin cui viene dato più peso al carattere necessario di una transi-zione a priori piuttosto che al momento discontinuo di un’arti-colazione aperta. Non dovremmo rimproverare troppo i marxistiper queste ambiguità e imprecisioni visto che, come ha già dettoTrendelenburg, erano presenti… nello stesso Hegel.

158

3. A. TRENDELENBURG, Logische Untersuchungen, G. Olms, Hildesheim1964 (prima edizione 1840).

Page 159: opuscula /193 - Monoskop

159

Ora, la prima cosa da eliminare è quest’area di ambiguitàcostituita dagli usi discorsivi della “dialettica”. Per collocarcistabilmente nel campo dell’articolazione, dobbiamo cominciarecol rinunciare a una concezione della “società” come totalitàfondante dei suoi processi parziali. Dobbiamo invece considera-re l’apertura del sociale come il terreno costitutivo o l’“essenzanegativa” dell’esistente, e i diversi “ordini sociali” come tentati-vi precari e in ultima istanza fallimentari di addomesticare ilcampo delle differenze. Di conseguenza, la molteplicità delsociale non può essere compresa attraverso un sistema di media-zioni, né l’“ordine sociale” può essere inteso come un principiosoggiacente. Non esiste uno spazio suturato caratteristico della“società”, visto che il sociale stesso non ha essenza. A questopunto ci sono tre osservazioni importanti da fare. La prima: que-ste due concezioni implicano differenti logiche del sociale, nelcaso delle “mediazioni” abbiamo a che fare con un sistema ditransizioni logiche in cui le relazioni tra gli oggetti sono pensa-te come derivate da una relazione tra concetti, nell’altro casoabbiamo a che fare con relazioni contingenti di cui bisognaancora determinare la natura. La seconda: nel criticare la conce-zione della società come un complesso tenuto insieme da legginecessarie, non possiamo semplicemente limitarci a mettere inevidenza il carattere non necessario delle relazioni tra gli ele-menti, poiché conserveremmo in questo caso il carattere neces-sario dell’identità degli elementi stessi. Una concezione cherifiuti ogni approccio essenzialista alle relazioni sociali deveanche affermare il carattere precario di ogni identità e l’impos-sibilità di fissare il senso degli “elementi” in qualsiasi letteralitàdefinitiva. La terza: è solo in rapporto a un discorso che nepostuli l’unità che un insieme di elementi appare come fram-mentato o disperso. Fuori da una qualsiasi struttura discorsivanon è ovviamente possibile parlare di frammentazione e nem-meno definire gli elementi. Tuttavia una struttura discorsiva nonè solamente un’entità “cognitiva” o “contemplativa”, ma ancheuna pratica articolatoria che costituisce e organizza le relazionisociali. Possiamo quindi parlare di una complessità e di unaframmentazione crescenti delle società industriali avanzate, non

Page 160: opuscula /193 - Monoskop

160

perché, sub specie aeternitatis, esse siano più complesse dellesocietà precedenti, ma nel senso che sono costituite attorno aun’asimmetria fondamentale, quella che esiste tra una prolifera-zione crescente delle differenze – un surplus di significato del“sociale” – e le difficoltà incontrate da qualsiasi discorso chetenti di fissare queste differenze come momenti di una stabilestruttura articolatoria.

Dobbiamo quindi iniziare analizzando la categoria di arti-colazione, che ci fornirà il punto di partenza per l’elaborazionedel concetto di egemonia. La costruzione teorica di questa cate-goria richiede due passaggi: stabilire la possibilità di definire glielementi che entrano nella relazione articolatoria, e determinarela specificità del momento relazionale che comprende questaarticolazione. Sebbene questo compito possa essere affrontatoin modi diversi, preferiamo cominciare con un détour. Dovremoinfatti analizzare inizialmente nel dettaglio quei discorsi teoriciin cui sono presenti alcuni dei concetti che elaboreremo, ma ilcui sviluppo è ancora inibito dalle categorie fondamentali di undiscorso essenzialista. Esamineremo a questo proposito l’evolu-zione della scuola althusseriana: proveremo, radicalizzandoalcuni dei suoi temi in modo da metterne in tensione i concettifondamentali, a costituire un terreno che ci permetterà di elabo-rare un concetto adeguato di “articolazione”.

Formazione sociale e surdeterminazione

Althusser ha iniziato la sua riflessione teorica cercando didifferenziare radicalmente la sua concezione della società comeun “intero strutturato complesso” dalla nozione hegeliana ditotalità. La totalità hegeliana può essere molto complessa, ma lasua complessità è sempre stata quella di una pluralità di momen-ti in un unico processo di autodispiegamento. “La totalità hege-liana è lo sviluppo alienato d’una unità semplice, d’un principiosemplice, esso stesso momento dello sviluppo dell’Idea: non èdunque, rigorosamente parlando, che il fenomeno, la manifesta-zione di sé di questo principio semplice, che persiste in tutte le

Page 161: opuscula /193 - Monoskop

161

sue manifestazioni, quindi anche nell’alienazione che ne prepa-ra la ricostituzione”.4 Questa concezione, che riduce il reale alconcetto identificando le differenze con le mediazioni necessa-rie nell’autodispiegamento di un’essenza, è di un ordine deltutto diverso rispetto alla complessità althusseriana, che è quel-la inerente al processo di surdeterminazione. Dato l’uso indi-scriminato e impreciso fatto in seguito di questo concetto chia-ve althusseriano, è necessario precisare il suo significato origi-nale e gli effetti teorici che è stato chiamato a produrre neldiscorso marxista. Il concetto viene mutuato dalla psicanalisi ela sua estensione ha un carattere più che semplicemente metafo-rico. A questo proposito Althusser è molto chiaro: “Non ho fog-giato io questo concetto. Come già avevo accennato l’ho assun-to da due discipline esistenti: specificatamente la linguistica e lapsicanalisi, ove possiede una ‘connotazione’ dialettica oggettivae, particolarmente nella psicanalisi, formalmente abbastanzaaffine al contenuto che esso designa qui, perché questa muta-zione non sia arbitraria”.5 Per Freud, la surdeterminazione non èun processo ordinario di “unione” o di “fusione”, per cui sareb-be tutt’al più una metafora stabilita per analogia con il mondofisico, compatibile con ogni forma di multicausalità. È invece,al contrario un tipo di fusione molto precisa, che richiede unadimensione simbolica e una pluralità di significati. Il concetto disurdeterminazione si costituisce sul terreno del simbolico e nonha alcun significato al di fuori di questo campo. Il significatopotenziale più profondo dell’affermazione di Althusser secondocui tutto quello che esiste nel sociale è surdeterminato, è quindil’affermazione che il sociale si costituisce come ordine simboli-co. Il carattere simbolico, ovvero surdeterminato, delle relazio-ni sociali implica perciò che queste manchino di una letteralitàultima che le ridurrebbe a momenti necessari di una legge

4. L. ALTHUSSER, Per Marx, trad. it. di F. Madonia, Editori Riuniti,Roma 1974, p. 180.

5. Ivi, p. 183 (in nota).

Page 162: opuscula /193 - Monoskop

162

immanente. Non esistono due piani, uno dell’essenza e l’altrodell’apparenza, poiché non c’è la possibilità di fissare un sensoletterale ultimo per il quale il simbolico sarebbe un piano disignificazione secondario e derivato. La società e gli agentisociali non hanno alcuna essenza, le loro regolarità consistonomeramente nelle forme relative e precarie di fissazione cheaccompagnano l’instaurazione di un certo ordine. Questa anali-si sembrava aprire la possibilità per l’elaborazione di un nuovoconcetto di articolazione che partisse dal carattere surdetermi-nato delle relazioni sociali. Ma questo non accadde. Il concettodi surdeterminazione iniziò a scomparire dal discorso althusse-riano, e una crescente chiusura fece strada a una nuova variantedi essenzialismo. Questo processo, iniziato già con il saggioSulla dialettica materialista, culmina in Leggere il capitale.

Se il concetto di surdeterminazione non fu capace di pro-durre la totalità dei suoi effetti decostruttivi all’interno deldiscorso marxista, questo fu perché sin dall’inizio fu fatto untentativo di renderlo compatibile con un altro momento centralenel discorso althusseriano, che a rigor di logica è con essoincompatibile: vale a dire la determinazione in ultima istanzadell’economia. Consideriamo le implicazioni di questo concet-to. Se questa determinazione ultima fosse una verità valida perogni società, la relazione tra questa determinazione e le condi-zioni che la rendono possibile non si svilupperebbe attraversoun’articolazione storica contingente, ma sarebbe una necessità apriori. È importante notare come il problema che stiamo discu-tendo non è quello di sapere se l’economia debba avere le sueproprie condizioni di esistenza. Questa è infatti una tautologia,dato che sé qualcosa esiste è perché le condizioni date rendonola sua esistenza possibile. Il problema è che se l’“economia” èdeterminante in ultima istanza per ogni tipo di società, essa deveessere definita indipendentemente da ogni specifico tipo disocietà, e anche le condizioni di esistenza dell’economiadovrebbero essere definite indipendentemente da ogni concretarelazione sociale. In quel caso, però, l’unica realtà di quelle con-dizioni di esistenza sarebbe quella di assicurare l’esistenza edeterminare il ruolo dell’economia. In altre parole, quelle con-

Page 163: opuscula /193 - Monoskop

163

dizioni sarebbero un momento interno dell’economia in quantotale, e la differenza non sarebbe costitutiva.6

C’è comunque qualcosa di più. Althusser inizia affermandola necessità di non ipostatizzare l’astratto, dato che non c’è realtàche non sia surdeterminata. In questo senso cita con approvazio-ne sia l’analisi della contraddizione di Mao sia il rifiuto di Marx,nell’Introduzione del 1857, delle astrazioni come “produzione”,che hanno significato solamente in relazione a un concreto siste-ma di relazioni sociali. Althusser cade anche nello stesso erroreche critica: c’è un oggetto universale astratto, l’economia, cheproduce effetti concreti (la determinazione in ultima istanza quie ora), e c’è un altro oggetto ugualmente astratto (le condizionidi esistenza) le cui forme cambiano storicamente, ma che sonounificate dal ruolo prestabilito ed essenziale di assicurare lariproduzione dell’economia. Alla fine, siccome l’economia e lasua centralità sono elementi invariabili di ogni possibile compo-sizione sociale, diventa possibile fornire una definizione dellasocietà. A questo punto l’analisi ha fatto un giro completo. Sel’economia è un oggetto che può determinare ogni tipo di societàin ultima istanza, questo significa che, almeno in riferimento aquesta istanza, ci troviamo di fronte a una determinazione sem-plice, non a una surdeterminazione. Se la società ha un’ultimaistanza che determina le sue leggi di movimento, allora le rela-zioni tra le istanze surdeterminate e l’ultima istanza devono esse-re concepite nei termini di una determinazione semplice, mono-direzionale di quest’ultima. Da questo possiamo dedurre che ilcampo della surdeterminazione è estremamente limitato: è ilcampo della variazione contingente in opposizione alla determi-nazione essenziale. Se la società ha davvero una determinazioneultima ed essenziale, allora la differenza non è pensabile comecostitutiva e il sociale risulta unificato nello spazio suturato di un

6. Come si può vedere, la nostra critica coincide in alcuni punti conquella della scuola di Hindess e Hirst in Inghilterra. Siamo comunque in disac-cordo con il loro approccio su alcune questioni fondamentali, che affronteremopiù avanti nel testo.

Page 164: opuscula /193 - Monoskop

164

paradigma razionalista. Siamo così davanti esattamente allo stes-so dualismo che avevamo trovato riprodotto sin dalla fine deldiciannovesimo secolo nel campo della discorsività marxista.

Comincerà da questo punto la disarticolazione del raziona-lismo althusseriano. Bisogna anche sottolineare come il duali-smo inconsistente rilevato all’inizio verrà trasmesso a quellestesse forme teoriche che presiederanno alla disgregazione delloschema originale. Si presentavano infatti due possibilità. Laprima era quella di sviluppare tutte le implicazioni del concettodi surdeterminazione, mostrando l’impossibilità di un concettocome quello di “determinazione in ultima istanza dell’econo-mia” e affermando il carattere precario e relazionale di ogni iden-tità. La seconda possibilità era quella di dimostrare l’inconsi-stenza logica dei legami necessari postulati tra gli elementi dellatotalità sociale, mostrando quindi, per un’altra strada, l’impossi-bilità dell’oggetto “società” come totalità razionalmente unifica-ta. Si seguì proprio questa seconda strada. La critica iniziale delrazionalismo ebbe quindi luogo su un terreno che accettava gliassunti analitici del razionalismo mentre negava, al tempo stesso,la possibilità di una concezione razionalista del sociale. Il risul-tato di questa escalation decostruttiva fu che il concetto di arti-colazione divenne in senso stretto impensabile. È la critica a que-sta concezione che ci permetterà di stabilire un piano diverso sulquale costruire il nostro concetto di articolazione.

Il tentativo di rompere le connessioni logiche tra i diversimomenti del paradigma razionalista althusseriano inizia conun’autocritica di Balibar7 e viene portato alle sue estreme con-seguenze da alcune correnti del marxismo inglese.8 Il tipo di

7. E. BALIBAR, Sulla dialettica storica. Note critiche su Leggere ilCapitale, in E. BALIBAR, Cinque studi di materialismo storico, trad. it. di C.Mancina, De Donato, Bari 1976, pp. 207-250.

8. B. HINDESS - P.Q. HIRST, Pre-capitalist modes of production,Routledge & Kegan, London 1975. B. HINDESS – P.Q. HIRST, Mode ofProduction and Social Formation, Macmillan, London 1977. A. CUTLER - B.HINDESS - P.Q. HIRST, A. HUSSEIN, Marx’s Capital and Capitalism Today, 2 Voll.,Routledge & Kegan, London 1977.

Page 165: opuscula /193 - Monoskop

165

autocritica di Balibar comportava l’introduzione di iati in diver-si punti dell’argomentazione di Leggere il Capitale, iati neiquali le transizioni logiche mostravano di aver avuto un caratte-re spurio. Balibar riempì comunque questi iati diversificando leentità che dovevano influenzare la transizione dall’astratto alconcreto. La comprensione della transizione da un modo di pro-duzione a un altro necessitava così di un ampliamento del terre-no della lotta di classe, la cui variabilità impediva una sua ridu-zione alla semplice logica di un solo modo di produzione. Èstato sostenuto che la riproduzione richiedeva processi sovra-strutturali che non potevano essere ridotti a quella logica, e chela variabilità dei diversi aspetti di una congiuntura doveva esse-re interpretata nei termini di una combinazione nella quale sidissolveva l’unità astratta degli elementi in gioco. È chiaro tut-tavia come queste analisi non fanno altro che riprodurre su unascala allargata le difficoltà della formulazione iniziale. Cosasono infatti queste classi le cui lotte devono rendere conto delprocesso di transizione? Se si tratta di agenti sociali costituitiattorno a interessi determinati dai rapporti di produzione, larazionalità delle loro azioni e le forme del loro programma poli-tico possono essere determinate dalla logica del modo di produ-zione. Se invece, al contrario, questo non esaurisce la loro iden-tità, allora dove si costituisce quest’ultima? Allo stesso modo,sapere che le sovrastrutture intervengono nel processo di ripro-duzione non ci porta molto lontano, visto che sappiamo già findall’inizio che esse sono appunto sovrastrutture, che hannoquindi un posto già assegnato nella topografia del sociale. Unpasso ulteriore dentro questa linea decostruttiva può essere tro-vato nel lavoro di Barry Hindess e Paul Hirst, dove i concetti di“determinazione in ultima istanza” e “causalità strutturale” sonooggetto di una critica feroce. Avendo stabilito il carattere nonnecessario della corrispondenza tra le forze produttive e i rap-porti di produzione, Hirst e Hindess concludono sostenendo cheil concetto di modo di produzione deve essere abbandonatocome oggetto legittimo del discorso marxista. Lasciata da parteogni prospettiva totalizzante, il tipo di articolazione esistente inuna concreta formazione sociale viene posto in questi termini:

Page 166: opuscula /193 - Monoskop

166

La formazione sociale non è una totalità governata da un principioorganizzativo, determinata in ultima istanza, preda di una causalitàstrutturale o di qualcos’altro. Deve invece essere pensata come com-posta da una serie definita di rapporti di produzione insieme alleforme politiche, economiche e culturali nelle quali le loro condizionidi esistenza sono garantite. Ma non c’è alcuna necessità nel fatto chequeste condizioni di esistenza vengano assicurate, e nemmeno delfatto che ci debba essere una struttura definita della formazionesociale nella quale queste relazioni e queste forme devono obbligato-riamente combinarsi. Così per le classi […], se sono intese come clas-si economiche, come categorie di agenti economici che occupanospecifiche posizioni di possesso dei (o di separazione dai) mezzi diproduzione, non possono al tempo stesso essere pensate o rappresen-tate come forze politiche e come forme ideologiche.9

Siamo qui di fronte a una concezione della formazionesociale che definisce alcuni oggetti del discorso marxista classi-co – rapporti di produzione, forze produttive, ecc. – e riconcet-tualizza l’articolazione tra questi oggetti nei terminidell’“assicurazione delle condizioni di esistenza”. Noi cerchere-mo quindi di dimostrare che: a) il criterio della definizione deglioggetti è il legittimo, b) la concettualizzazione della loro rela-zione nei termini della mutua “assicurazione delle condizioni diesistenza” non fornisce alcun concetto di articolazione.

Per quanto riguarda il primo punto, Cutler e gli altri autoriprendono le mosse dall’ineccepibile affermazione che – a menodi non cadere in un dogmatico tentativo razionalista di determi-nare a livello concettuale un meccanismo generale di riprodu-zione della formazione sociale – è impossibile derivare dallecondizioni di esistenza di una specifica relazione concettual-mente determinata la necessità che quelle condizioni siano sod-disfatte o che vengano adottate forme specifiche. A questa affer-mazione ne segue però un’altra completamente illegittima: chei rapporti di produzione di una data formazione sociale possanoessere definiti separatamente dalle forme concrete che ne assi-curano le condizioni di esistenza. Esaminiamo il problema con

9. A. CUTLER et al., cit., Vol. 1, p. 222.

Page 167: opuscula /193 - Monoskop

167

attenzione. Le condizioni di esistenza dei rapporti capitalisticidi produzione – come ad esempio le condizioni legali che assi-curano la proprietà privata – sono condizioni logiche di esisten-za, visto che sarebbe contraddittorio sostenere la possibilità diesistenza di quei rapporti di produzione se non fossero assicura-te queste condizioni. È una conclusione logica anche quella chedice che niente nel concetto di “rapporti di produzione capitali-stici” implica che siano loro stessi a dover assicurare le propriecondizioni di esistenza. Dallo stesso discorso che costituisce iprimi come un oggetto, segue poi che le seconde sarebberoesternamente assicurate. Ma proprio per questo motivo è inap-propriato dire che non si sa come, in ogni caso specifico, questirapporti di produzione debbano essere assicurati, dato che ladistinzione rapporti di produzione/condizioni di esistenza è unadistinzione logica entro a un discorso sul concetto astratto dirapporti di produzione che non si differenzia nei diversi casiconcreti. Così, se si afferma che in Gran Bretagna le condizionidi esistenza dei rapporti di produzione capitalistici sono assicu-rate da queste o da quelle istituzioni, viene inserita una traspo-sizione discorsiva doppiamente illegittima. Da una parte siafferma che alcuni discorsi concreti e alcune pratiche istituzio-nali assicurano le condizioni di esistenza di un’entità astratta – irapporti di produzione capitalistici – che appartiene a un diver-so ordine discorsivo. Dall’altra, se il termine astratto “rapportidi produzione capitalistici” è usato per indicare i rapporti di pro-duzione in Gran Bretagna, è evidente che un oggetto definito inun certo discorso viene usato come un nome per indicare, comereferenti, gli oggetti costituiti da altri discorsi e da altre pratiche:quelli che comprendono l’insieme dei rapporti di produzionebritannici. In questo caso, quindi, visto che questi ultimi nonsono semplicemente “rapporti di produzione capitalistici ingenerale”, ma il luogo di una molteplicità di pratiche e di discor-si, non c’è più alcun terreno sul quale l’esteriorità dei rapportidi produzione alle loro condizioni di esistenza possa essere sta-bilita a priori. Inoltre, siccome la possibilità di definire le distin-zioni tra gli oggetti si basa su un criterio logico, la pertinenzastessa di questo criterio viene messa in discussione. Se, come

Page 168: opuscula /193 - Monoskop

168

sostengono Cutler e gli altri, una relazione tra concetti nonimplica una relazione tra gli oggetti definiti da quei concetti,allora nemmeno una separazione tra oggetti può essere derivatada una separazione tra concetti. Cutler e gli altri mantengono l’i-dentità specifica e la separazione degli oggetti, ma solo defi-nendo un oggetto in un certo discorso e l’altro in un discorsodifferente.

Passiamo ora al secondo problema. Il legame chiamato“assicurare le condizioni di esistenza” può essere pensato comeun’articolazione di elementi? Qualsiasi concezione uno possaavere di una relazione di articolazione, questa deve includere unsistema di posizioni differenziali. E dato che questo sistemacostituisce una configurazione, sorge per forza di cose il proble-ma del carattere relazionale o non relazionale dell’identità deglielementi coinvolti. È possibile ritenere che l’“assicurare le con-dizioni di esistenza” costituisca un terreno analitico adeguatoper porre i problemi sollevati da questo momento relazionale?Evidentemente no. Assicurare una condizione di esistenza signi-fica assicurare il requisito logico dell’esistenza di un oggetto,ma ciò non definisce però una relazione di esistenza tra dueoggetti (per esempio, alcune forme giuridiche possono stimola-re le condizioni di esistenza di alcuni rapporti di produzione,anche se questi ultimi non esistono di fatto). Se, d’altra parte,consideriamo le relazioni – e non semplicemente le compatibi-lità logiche – che esistono tra un oggetto e la circostanza, o lecircostanze, che assicurano le sue condizioni di esistenza, è evi-dente come queste relazioni non possono essere concettualizza-te a partire dal fatto che tali circostanze assicurano le condizio-ni di esistenza dell’oggetto, semplicemente perché questa garan-zia non costituisce una relazione. Bisogna quindi spostarsi su unterreno diverso se si vuole pensare la specificità della relazionedi articolazione.

Hirst e Wooley scrivono:

[Althusser] concepisce le relazioni sociali come totalità, come untutto regolato da un unico principio determinante. Questo tutto deveessere coerente con sé stesso e deve subordinare tutti gli agenti e le

Page 169: opuscula /193 - Monoskop

relazioni del proprio campo ai suoi effetti. Noi, al contrario, conside-riamo le relazioni sociali come degli aggregati di istituzioni, delleforme di organizzazione, delle pratiche e degli agenti che non rispon-dono ad alcun principio causale unico o ad alcuna logica di consi-stenza, che possono differenziarsi o si differenziano nella forma e chenon sono essenziali le une alle altre.10

Questa citazione rivela tutti i problemi posti da una deco-struzione puramente logicista. La nozione di totalità viene quirespinta in riferimento al carattere non essenziale dei legami chetengono uniti gli elementi della presunta totalità. Su questo daparte nostra non c’è alcun disaccordo. Ma una volta che ele-menti come “le istituzioni”, “le forme di organizzazione” o “gliagenti” sono stati definiti sorge subito un problema. Se questiaggregati – al contrario della totalità – sono considerati oggettilegittimi di teorizzazione sociale, dobbiamo quindi concludereche le relazioni tra i componenti interni a ognuno di essi sonoessenziali e necessarie? Se la risposta è affermativa, allorasiamo chiaramente passati da un essenzialismo della totalità aun essenzialismo degli elementi. Abbiamo semplicemente rim-piazzato Spinoza con Leibniz, tranne il fatto che il ruolo di Dionon è più quello di stabilire l’armonia tra gli elementi ma sem-plicemente quello di garantirne l’indipendenza. Se, invece, lerelazioni tra quegli elementi interni non sono né essenziali nénecessarie, allora, oltre a definire la natura delle relazioni carat-terizzate da una forma puramente negativa, siamo costretti aspiegare perché queste relazioni non necessarie tra gli elementiinterni agli oggetti “legittimi” non possono esistere tra gli stes-si oggetti legittimi. Se questo fosse possibile, una certa nozionedi totalità potrebbe essere reintrodotta, con la differenza che nonimplicherebbe più un principio soggiacente che unificherebbe la“società”, ma un insieme di effetti totalizzanti in un complessorelazionale aperto. Ma se ci moviamo unicamente entro le alter-

169

10. P. HIRST - P. WOOLLEY, Social relations and human attributes,Routledge Kegan & Paul, London – New York 1982, p. 134.

Page 170: opuscula /193 - Monoskop

170

native “relazioni essenziali o identità non relazionali”, tutta l’a-nalisi sociale implicherà una ricerca del miraggio infinitamentesfuggente degli atomi logici irriducibili a ogni ulteriore divisio-ne.

Il problema è che tutto questo dibattito sulla separazionetra elementi e oggetti ha eluso una questione prioritaria e fonda-mentale: quella del terreno dove si produce questa separazione.In questo modo, un’alternativa affatto classica si è insinuata sur-rettiziamente nell’analisi: o gli oggetti sono separati come ele-menti concettualmente discreti, sicché siamo di fronte a unaseparazione logica; oppure sono separati come oggetti empiri-camente dati, ed è quindi impossibile eludere la categoriadell’“esperienza”. Così, non riuscendo a definire il terreno sulquale ha luogo l’unità o la separazione tra gli oggetti, cadiamodi nuovo nell’alternativa tra razionalismo o empirismo cheHindess e Hirst cercano in tutti i modi di evitare. Questo esitoinsoddisfacente era in realtà prevedibile fin dall’inizio, dalmomento in cui la critica al razionalismo althusseriano avevapreso la forma di una critica delle connessioni logiche postulatetra i diversi elementi della “totalità”. Una decostruzione logicapuò infatti essere realizzata solo se gli “elementi” scollegatisono fissi e concettualmente definiti, cioè se gli viene attribuitaun’identità piena e inequivocabile. In questo modo l’unica stra-da che rimane aperta è la polverizzazione logica del sociale,insieme a un descrittivismo teoricamente agnostico delle “situa-zioni concrete”.

La formulazione originaria di Althusser annunciava peròun’impresa teorica molto diversa: quella di una rottura con l’es-senzialismo ortodosso non attraverso la disgregazione logicadelle sue categorie – che aveva come risultato quello di fissarel’identità degli elementi disgregati – ma tramite la critica di ognitipo di fissità e l’affermazione del carattere incompleto, apertoe politicamente negoziabile di ogni identità. Era questa la logi-ca della surdeterminazione. Secondo questa logica il senso diogni identità è surdeterminato, in quanto tutte le letteralitàappaiono costitutivamente sovvertite ed eccedenti; lungi dall’es-sere una totalizzazione essenzialista, o una separazione non

Page 171: opuscula /193 - Monoskop

171

meno essenzialista tra gli oggetti, la presenza di alcuni oggettinegli altri impedisce alle loro identità di essere fissate. Glioggetti non appaiono articolati come gli ingranaggi di un orolo-gio, perché la presenza di alcuni negli altri impedisce la sutura-zione dell’identità di ciascuno di essi. La nostra disamina dellastoria del marxismo ha in questo senso mostrato uno spettacolomolto diverso da quello rappresentato dal positivismo ingenuodel socialismo “scientifico”: lungi da un gioco razionalista dovegli agenti sociali, costituiti perfettamente attorno agli interessi,esprimono una lotta definita da parametri trasparenti, abbiamovisto le difficoltà della classe operaia a costituirsi come sogget-to storico, la dispersione e la frammentazione delle sue posizio-ni, l’emergere di forme di riaggregazione sociale e politica –“blocco storico”, “volontà collettiva”, “masse”, “settori popola-ri” – che definiscono nuovi oggetti e nuove logiche della loroconformazione. Siamo così sul terreno della surdeterminazionedi alcune entità da parte di altre, e alla relegazione di ogni formadi fissità paradigmatica nell’orizzonte ultimo della teoria. Èquesta specifica logica dell’articolazione che ora dobbiamo cer-care di stabilire.

Articolazione e discorso

Nel contesto di questa analisi chiamiamo articolazionetutte quelle pratiche che stabiliscono una relazione tra gli ele-menti tale che le loro identità si modifichino come conseguenzadella pratica articolatoria. Chiameremo discorso la totalità strut-turata che risulta dalla pratica articolatoria. Chiameremomomenti le posizioni differenziali quando appaiono articolateall’interno di un discorso. Chiameremo invece elemento ognidifferenza che non è articolata discorsivamente. Per non esserefraintese, queste distinzioni richiedono tre tipi principali di spe-cificazione: rispetto alla coerenza peculiare della formazionediscorsiva; rispetto alle dimensioni e all’estensione del discorsi-vo; rispetto all’apertura o alla chiusura che presenta la forma-zione discorsiva.

Page 172: opuscula /193 - Monoskop

172

1. Una formazione discorsiva non è unificata né nella coe-renza logica dei suoi elementi, né in un a priori di un soggetto tra-scendentale, né in un soggetto donatore di senso à la Husserl, nénell’unità di un’esperienza. Il tipo di coerenza che attribuiamo auna formazione discorsiva è – con le differenze che segnaleremopiù avanti – vicina a quella che caratterizza il concetto di “for-mazione discorsiva” proposto da Foucault: ovvero la regolaritànella dispersione. Ne L’archeologia del sapere Foucault respingequattro ipotesi relative al principio unificante di una formazionediscorsiva – il riferimento allo stesso oggetto, uno stile comunenella produzione degli enunciati, la costanza dei concetti, il rife-rimento a un tema comune. Foucault fa invece della dispersionestessa il principio di unità, nella misura in cui essa è governata daregole di formazione, dalle complesse condizioni di esistenzadegli enunciati dispersi.11 A questo punto è necessaria un’osser-vazione. Una dispersione governata da regole può essere vista dadue prospettive opposte e simmetriche. Da una parte comedispersione: il che richiede la determinazione del punto di riferi-mento rispetto al quale gli elementi possono essere pensati comedispersi (nel caso di Foucault si può parlare evidentemente didispersione solo in riferimento al tipo di unità assente costituitaattorno all’oggetto comune, allo stile, ai concetti e al tema). Ma,d’altra parte, la formazione discorsiva può essere vista anchedalla prospettiva della regolarità nella dispersione, ed esserepensata in questo senso come un insieme di posizioni differen-ziali. Questo insieme non è l’espressione di alcun principio sog-giacente esterno ad esso – non può essere compreso, ad esempio,né da una lettura ermeneutica né da una combinatoria struttura-lista – ma costituisce una configurazione che, in alcuni contestidi esteriorità, può essere significata come una totalità. Posto cheil nostro interesse principale riguarda le pratiche articolatorie, èquesto secondo aspetto che ci interessa particolarmente.

Ora, in una totalità discorsiva articolata, dove ogni elemen-

11. M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, trad. it. di G. Bogliolo, BUR,Milano 2006, pp. 43-50.

Page 173: opuscula /193 - Monoskop

173

to occupa una posizione differenziale – nella nostra terminolo-gia dove ogni elemento è stato ridotto a un momento di quellatotalità – tutta l’identità è relazionale e tutte le relazioni hannoun carattere necessario. Benveniste afferma ad esempio, in rife-rimento al principio di valore di Saussure:

Quindi, dire che i valori sono “relativi” significa che sono relativi gliuni agli altri. Non sta precisamente in questo la prova della loronecessità? […] Chi dice sistema dice ordinamento e convenienzadelle parti in una struttura che ne trascende e spiega gli elementi.Tutto vi è cosi necessario che le modificazioni dell’insieme e del par-ticolare vi si condizionano reciprocamente. La relatività dei valori èla prova migliore che essi dipendono strettamente l’uno dall’altronella sincronia di un sistema sempre minacciato e sempre restaurato.È che tutti i valori sono di opposizione e si definiscono solo in basealla loro differenza. […] Se la lingua è ben altro che un conglomera-to fortuito di nozioni erratiche e di suoni emessi a caso, è proprio inquanto nella sua, come in ogni struttura, è immanente una necessità.12

La necessità non deriva quindi da un principio intelligibilesoggiacente, ma dalla regolarità di un sistema di posizioni strut-turali. In questo senso, nessuna relazione può essere contingenteo esterna, perché l’identità dei suoi elementi sarebbe così defini-ta fuori dalla relazione stessa. Ma ciò non significa altro cheaffermare come, in una formazione discorsiva-strutturale costi-tuita in questo modo, la pratica dell’articolazione sarebbe impos-sibile: quest’ultima implicherebbe un lavoro sugli elementi, men-tre qui ci confronteremmo solo con i momenti di una totalitàchiusa e pienamente costituita, dove ogni momento è sussuntosin dall’inizio sotto il principio della ripetizione. Come vedremo,se la contingenza e l’articolazione sono possibili, lo si deve alfatto che nessuna formazione discorsiva è una totalità suturata ela trasformazione degli elementi in momenti mai completa.

2. La nostra analisi rifiuta la distinzione tra pratiche discor-sive e pratiche non discorsive. Sostiene invece: a) che ogni

12. È. BENVENISTE, Problemi di linguistica generale, trad. it. di M.Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 67.

Page 174: opuscula /193 - Monoskop

174

oggetto è costituito come un oggetto di discorso, in quanto nes-suno oggetto si dà fuori da una condizione discorsiva di emer-genza; b) che ogni distinzione tra quelli che sono comunementechiamati gli aspetti linguistici e comportamentali di una praticasociale, o è una distinzione sbagliata, oppure deve trovare il suoposto come differenziazione dentro la produzione sociale delsenso, che è strutturata sotto la forma delle totalità discorsive.Foucault, per esempio, che ha mantenuto una distinzione –secondo noi inconsistente – tra le pratiche discorsive e quellenon discorsive,13 cerca di determinare la totalità relazionale chefonda la regolarità delle dispersioni di una formazione discorsi-va. Ma riesce a farlo solo nei termini di una pratica discorsiva:

[La medicina clinica deve essere considerata] come l’introduzione neldiscorso medico di un rapporto tra un certo numero di elementidistinti, gli uni concernenti lo statuto dei medici, altri il luogo istitu-zionale e tecnico da cui parlano, altri ancora la loro posizione comesoggetti che percepiscono, osservano, descrivono, insegnano, ecc. Sipuò dire che l’introduzione di questo rapporto tra elementi differenti(alcuni dei quali nuovi, altri preesistenti) venga effettuata dal discor-so clinico: è lui in quanto pratica che instaura tra tutti loro un sistemadi relazioni che non è “realmente” dato né costituito in anticipo; e sec’è un’unità, se le modalità di enunciazione che utilizza, o a cui dàluogo, non vengono semplicemente giustapposte da una serie di con-

13. In un penetrante studio sui limiti del metodo archeologico foucaultia-no Beverley Brown e Mark Cousins scrivono: “[Foucault] non divide i fenome-ni in due classi dell’essere, discorsivi e non discorsivi. Per lui il problema è sem-pre quello dell’identità di specifiche formazioni discorsive. Quello che non rien-tra in una specifica formazione discorsiva semplicemente avviene fuori di essa.Non raggiunge in questo modo il rango di una forma generale dell’essere, quel-la non discorsiva” (B. BROWN - M. COUSINS, The linguistic fault: the case ofFoucault’s archaeology, in “Economy and Society”, August 1980, vol. 9, n. 3).Questo è sicuramente vero rispetto a una possibile “distribuzione di fenomeni indue classi dell’essere”, ovvero rispetto a un discorso che vorrebbe stabilire divi-sioni regionali all’interno di una totalità. Ma questo non elimina il problema dicome si debba intendere il discorsivo. L’accettazione di entità non discorsive nonha una rilevanza semplicemente topografica, ma modifica anche il concetto didiscorso.

Page 175: opuscula /193 - Monoskop

175

tingenze storiche, è perché esso mette costantemente in opera questofascio di relazioni.14

Due sono i punti che vanno qui sottolineati. Primo: se ana-lizzassimo i cosiddetti complessi non discorsivi – le istituzioni,le tecniche, l’organizzazione della produzione e così via – trove-remmo solamente forme più o meno complesse di posizioni dif-ferenziali tra gli oggetti, che non nascono da una necessità ester-na al sistema che le struttura, e che quindi possono essere con-cepite solamente come articolazioni discorsive. Secondo: pro-prio la logica dell’argomentazione foucaultiana rispetto allanatura articolatoria del discorso clinico implica che l’identitàdegli elementi articolati debba essere almeno parzialmente modi-ficata da quell’articolazione, questo significa che la categoria didispersione ci permette di pensare solo parzialmente la specifi-cità delle regolarità. Lo statuto delle entità disperse si costituiscein una qualche zona intermedia tra gli elementi e i momenti.15

14. M. FOUCAULT, L’archeologia del sapere, tr it. di G. Bogliolo, BUR,Milano 2006, p. 72. Hubert L. Dreyfus e Paul Rabinow, nel loro libro su Foucault,La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, tr. it. di D.Benati, M. Bertani, F. Gori, I. Levrini, Casa Usher, Firenze 2010, pp. 116 ss. (ed.orig. Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, 1982)comprendono l’importanza potenziale di questo passaggio, ma lo rifiutano piuttostofrettolosamente a favore di una concezione delle istituzioni come “non discorsive”.

15. Quello che qui è strettamente implicito, è proprio il concetto di “forma-zione”. Il problema può essere formulato, nella sua forma più generale, comesegue: se quello che caratterizza una formazione è la regolarità nella dispersione,allora come è possibile determinare i limiti di questa formazione? Supponiamo diavere un’entità discorsiva o una differenza che sia esteriore alla formazione, ma chesia assolutamente regolare in questa sua esteriorità. Se l’unico criterio in gioco è ladispersione, come è possibile stabilire l’“esteriorità” di questa differenza? La primadomanda a cui rispondere, in questo caso, dovrà essere quella di sapere se la deter-minazione di questi limiti dipenda o meno da un concetto di “formazione” che sisovrappone al fatto archeologico. Se accettiamo questa prima possibilità, stiamosemplicemente introducendo un’entità dello stesso tipo di quelle che sono statemetodologicamente escluse all’inizio: “opera”, “tradizione”, ecc. Se invece accet-tiamo la seconda possibilità, diventa chiaro che all’interno dello stesso materialearcheologico debbano esistere alcune logiche che producono degli effetti di totalitàcapaci di costruire i limiti, e quindi di costituire la formazione. Come diremo piùavanti nel testo, questo è il ruolo della logica dell’equivalenza.

Page 176: opuscula /193 - Monoskop

176

Non possiamo entrare qui in tutta la complessità di una teo-ria del discorso così come noi la intendiamo, ma dobbiamoalmeno indicare i seguenti punti fondamentali per ovviare aifraintendimenti più comuni.

a) Il fatto che ogni oggetto sia costituito come un oggettodel discorso non ha niente a che fare con il fatto di sapere se visia un mondo esterno al pensiero, o con l’opposizione reali-smo/idealismo. Un terremoto o la caduta di una tegola sonoeventi che certamente esistono, nel senso che succedono qui eora, indipendentemente dalla mia volontà. Ma se la loro specifi-cità come oggetti è costruita nei termini dei “fenomeni naturali”o delle “manifestazioni dell’ira divina”, questo dipende dallastrutturazione del campo discorsivo. Quello che viene negatonon è che questi oggetti esistano fuori dal pensiero, ma l’affer-mazione affatto diversa che possono costituirsi come oggettifuori da ogni condizione discorsiva di emergenza.

b) Alla radice del precedente pregiudizio sta l’assunto delcarattere mentale del discorso. Contro questo pregiudizio, noiaffermiamo il carattere materiale di ogni struttura discorsiva.Sostenere il contrario significa accettare proprio la dicotomiaclassica tra un campo oggettivo costituito fuori da ogni inter-vento discorsivo e un discorso che consiste nell’espressionepura del pensiero. È esattamente questa la dicotomia che alcunecorrenti del pensiero contemporaneo hanno cercato di mettere inquestione.16 La teoria degli atti linguistici, per esempio, ha sot-

16. Partendo dalla fenomenologia, Merleau-Ponty elabora il progetto diuna fenomenologia esistenzialista come tentativo di superare il dualismo tra “insé” e “per sé”, e per preparare un terreno che permetta di superare le opposizio-ni considerate insormontabili da una filosofia come quella di Sartre. Il fenome-no è concepito così come il punto dove viene stabilito il legame tra “la cosa” e“la mente”, e la percezione come un momento fondatore primario rispetto alcogito. I limiti della concezione del senso inerenti a ogni fenomenologia, inquanto si basa sull’irriducibilità del “vissuto”, non devono farci dimenticare chein alcune delle sue formulazioni – e in particolare nel lavoro di Merleau-Ponty– troviamo alcuni dei tentativi più radicali di rompere con l’essenzialismo ine-rente a ogni forma di dualismo.

Page 177: opuscula /193 - Monoskop

177

tolineato il loro carattere performativo. I giochi linguistici, inWittgenstein, includono in una totalità indissolubile tanto il lin-guaggio quanto le azioni a questo interconnesse:

A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastree travi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamentenell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono diun linguaggio consistente delle parole: “mattone”, “pilastro”,“lastra”, “trave”. A grida queste parole; B gli porge il pezzo che haimparato a portargli quando sente questo grido.17

La conclusione è inevitabile: “inoltre chiamerò ‘giuoco lin-guistico’ anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalleattività di cui è intessuto”.18 È evidente che le stesse proprietàmateriali degli oggetti sono parte di quello che Wittgensteinchiama gioco linguistico, il quale è un esempio di ciò che noiabbiamo chiamato discorso. Quello che costituisce una posizio-ne differenziale, e quindi un’identità relazionale con certi ele-menti linguistici, non è l’idea di una costruzione in muratura odi una lastra, ma la costruzione in muratura e la lastra come tali(il legame con l’idea della costruzione in muratura, per quantone sappiamo, non è mai stato sufficiente per costruire alcunpalazzo). Gli elementi linguistici e non linguistici non sonosemplicemente giustapposti, ma costituiscono un sistema diffe-renziale e strutturato di posizioni, ovvero un discorso. Le posi-zioni differenziali includono quindi una dispersione di elementimateriali molto diversi.19

17. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero,Einaudi, Torino 2009, p. 10.

18. Ivi, p. 13.19. Alle obiezioni di un certo tipo di marxismo, che sostiene che questa

visione della primazia del discorsivo metterebbe in discussione il “materiali-smo”, consiglieremmo semplicemente di ridare uno sguardo ai testi di Marx. Inparticolare al Capitale: non solo il famoso passo dell’ape e dell’architetto all’i-nizio del capitolo sul processo lavorativo, ma anche l’intera analisi della formavalore, dove la stessa logica del processo di produzione della merce – il fonda-mento dell’accumulazione capitalistica – viene presentata come una logicasociale rigorosa che si impone solo stabilendo una relazione di equivalenza tra

Page 178: opuscula /193 - Monoskop

178

Si potrebbe obiettare che, in questo caso, l’unità discorsivasia l’unità teleologica di un progetto, ma non è così. Il mondooggettivo è strutturato in sequenze razionali che non hannonecessariamente un senso finalistico e che, nella maggior partedei casi, in realtà non richiedono affatto alcun tipo di senso: per-ché si possa parlare di una formazione discorsiva è sufficienteche alcune regolarità stabiliscano posizioni differenziali. Daquanto detto derivano due importanti conseguenze. La prima èche il carattere materiale del discorso non può essere unificatonell’esperienza o nella coscienza di un soggetto fondante; alcontrario, diverse posizioni soggettive appaiono disperse all’in-terno di una formazione discorsiva. La seconda è che la praticadell’articolazione, come fissazione/dislocazione di un sistemadi differenze, non è composta da fenomeni puramente linguisti-ci, ma deve invece penetrare l’intera densità materiale delle isti-tuzioni, dei rituali e delle pratiche molteplici attraverso le qualiuna formazione discorsiva è strutturata. Il riconoscimento diquesta complessità, e del suo carattere discorsivo, ha permessodi iniziare a battere un sentiero alternativo sul terreno della teo-ria marxista. La sua forma caratteristica è la progressiva affer-mazione, da Gramsci ad Althusser, del carattere materiale delleideologie, nella misura in cui queste non sono semplici sistemidi idee, ma sono incarnate nelle istituzioni, nei rituali ecc.Quello che tuttavia diventa un ostacolo per il pieno dispiega-mento teorico di questa intuizione è che, in ogni caso, si riferi-sce al campo delle ideologie, ovvero a formazioni la cui identitàè pensata sotto il concetto di “sovrastruttura”. Si tratta di un’u-nità a priori, di fronte alla dispersione della sua materialità, tale

oggetti materiali distinti. Sin dalla prima pagina si legge, come commento all’af-fermazione di Barbon: “Hanno una virtù intrinseca (virtue è nel Barbon la desi-gnazione specifica per valore d’uso) le cose che in tutti i luoghi hanno la stessavirtù, come ha p. es. la calamita di attrarre il ferro’ (ivi, p. 6). La proprietà dellacalamita di attrarre il ferro divenne utile solo quando fu scoperta per suo mezzola polarità magnetica” (K. MARX, Il capitale, Libro I, a cura di D. Cantimori,Editori Riuniti, Roma 1967, p. 67).

Page 179: opuscula /193 - Monoskop

179

da richiedere il ricorso o al ruolo unificante di una classe(Gramsci) oppure alle esigenze funzionali della logica dellariproduzione (Althusser). Ma una volta abbandonato questo pre-supposto essenzialista, la categoria di articolazione acquisisceun diverso statuto teorico: l’articolazione diventa una praticadiscorsiva che non ha un piano di costituzione precedente, oesterno, rispetto alla dispersione degli elementi articolati.

c) Dobbiamo infine considerare il significato e l’efficaciadella centralità che abbiamo assegnato alla categoria di discorso.Grazie a questa centralità abbiamo ottenuto un allargamento con-siderevole del campo dell’oggettività, e si sono create quelle con-dizioni che ci permettono di pensare le numerose relazioni chel’analisi dei capitoli precedenti ci ha consegnato. Supponiamo divoler analizzare le relazioni sociali sulla base del tipo di oggetti-vità costruita dal discorso delle scienze naturali. Questo poneimmediatamente limiti rigorosi sia rispetto agli oggetti che è pos-sibile costruire all’interno del discorso, sia rispetto alle relazioniche tra loro possono essere stabilite. Alcune relazioni e alcunioggetti saranno preliminarmente esclusi. La metafora, per esem-pio, è impossibile come relazione oggettiva tra due entità. Maquesto esclude la possibilità di definire concettualmente unavasta gamma di relazioni tra oggetti nel campo politico e socia-le. Quella che abbiamo chiamato “enumerazione comunista”, peresempio, si basa su una relazione di equivalenza tra diversi set-tori di classe all’interno di uno spazio sociale diviso in due campiantagonisti. Ma questa equivalenza presuppone l’uso del princi-pio di analogia tra contenuti letteralmente diversi, e che cos’èquesta se non una trasposizione metaforica? È importante notarecome l’equivalenza costituita attraverso l’enumerazione comuni-sta non è l’espressione discorsiva di un movimento reale costi-tuito fuori dal discorso; al contrario, questo discorso enumerati-vo è una forza reale che contribuisce a modellare e costituire lerelazioni sociali. Qualcosa di simile succede con una nozionecome quella di “contraddizione”, sulla quale ritorneremo piùavanti. Se consideriamo le relazioni sociali dal punto di vista diun paradigma naturalista, la contraddizione è esclusa. Ma se siconsiderano le relazioni sociali come costruite discorsivamente,

Page 180: opuscula /193 - Monoskop

180

la contraddizione diventa possibile. Questo perché, se la nozioneclassica di “oggetto reale” esclude la contraddizione, tra dueoggetti del discorso può esistere invece una relazione di contrad-dizione. La conseguenza principale di una rottura della dicoto-mia discorsivo/extra-discorsivo è l’abbandono dell’opposizionepensiero/realtà, quindi un più ampio allargamento del campo diquelle categorie che possono rendere conto delle relazioni socia-li. Sinonimia, metonimia, metafora non sono forme del pensieroche aggiungono un secondo senso a una letteralità primaria,costitutiva delle relazioni sociali; sono invece parte dello stessoterreno primario sul quale il sociale si costituisce. Il rifiuto delladicotomia pensiero/realtà deve procedere di pari passo con unripensamento e a un’interpenetrazione delle categorie che finorasono state considerate mutualmente esclusive.

3. Ora, la transizione alla totalità relazionale che abbiamochiamato “discorso” risolverebbe difficilmente i nostri problemiiniziali se la logica relazionale e differenziale della totalitàdiscorsiva prevalesse senza alcuna limitazione. In quel caso citroveremmo di fronte a delle pure relazioni di necessità e, comeabbiamo già sottolineato, ogni articolazione sarebbe impossibi-le dato che ogni “elemento” sarebbe per definizione un“momento”. Questa conclusione si impone tuttavia solo se assu-miamo che la logica relazionale del discorso venga portata allesue estreme conseguenze, senza limitazione da parte di qualsia-si esterno.20 Se invece, al contrario, accettiamo che una totalitàdiscorsiva non possa esistere nella forma di una positività datae delimitata, allora la logica relazionale sarà incompleta esegnata dalla contingenza. Il passaggio dagli “elementi” ai“momenti” non è mai pienamente compiuto. Emerge così una

20. Con il termine “esterno” non intendiamo introdurre la categoria del-l’extra-discorsivo. L’esterno è costituito da altri discorsi. È la sua natura discor-siva a creare le condizioni della vulnerabilità di ogni discorso, perché niente loprotegge, in ultima istanza, contro la deformazione e la destabilizzazione del suosistema di differenze da parte di altre articolazioni discorsive che agiscono al difuori di esso.

Page 181: opuscula /193 - Monoskop

181

terra di nessuno che rende possibile la pratica articolatoria. Inquesto caso non c’è identità sociale completamente al sicuro daun esterno discorsivo che la deformi e che le impedisca di diven-tare pienamente suturata. Sia le identità che le relazioni perdo-no così il loro carattere necessario. Come insieme strutturale esistematico le relazioni non sono in grado di incorporare le iden-tità, ma visto che le identità sono puramente relazionali, questonon è che un altro modo per dire che non esiste identità chepossa essere pienamente costituita.

Stando così le cose, tutto il discorso della fissazione divie-ne metaforico: la letteralità è, in realtà, la prima delle metafore.

Siamo arrivati qui a un punto decisivo nella nostra analisi.Il carattere incompleto di ogni totalità ci porta necessariamentead abbandonare, come terreno di analisi, la premessa della“società” come totalità suturata e autodefinita. La “società” nonè un oggetto di discorso valido. Non esiste alcun principio sog-giacente che fissi – e quindi costituisca – l’intero campo delledifferenze. L’irresolubile tensione tra interiorità ed esteriorità è lacondizione di ogni pratica sociale: la necessità esiste solo comelimitazione parziale del campo della contingenza. Ed è su questoterreno, dove né una completa interiorità né una completa este-riorità sono possibili, che si costituisce il sociale. Per la stessaragione per cui non si può ridurre il sociale all’interiorità di unsistema fisso di differenze, così anche la pura esteriorità è impos-sibile. Per essere completamente esteriori l’una all’altra, le entitàdovrebbero essere completamente interne rispetto a se stesse,cioè avere un’identità pienamente costituita che non è minata daalcun esterno. Ma questo è proprio ciò che abbiamo appenaescluso. Questo campo delle identità che non arrivano mai a fis-sarsi pienamente è il campo della surdeterminazione.

In questo modo, né l’assoluta fissità né l’assoluta non-fis-sità sono possibili. Esamineremo ora questi due momenti suc-cessivi, partendo dal secondo. Abbiamo fatto riferimento al“discorso” come a un sistema di entità differenziali, vale a dire dimomenti. Ma abbiamo appena visto come tale sistema esista solocome limitazione parziale di un “surplus di significato” che losovverte. Essendo inerente a ogni situazione discorsiva, questo

Page 182: opuscula /193 - Monoskop

182

“surplus” è il terreno necessario della costituzione di ogni prati-ca sociale: lo chiameremo il campo della discorsività. Questaespressione indica la forma della sua relazione con ogni discor-so concreto: segnala al tempo stesso il carattere necessariamentediscorsivo di ogni oggetto e l’impossibilità di ogni discorso datodi operare una sutura finale. Su questo punto la nostra analisi siricollega a una serie di correnti di pensiero contemporanee che –da Heidegger a Wittgenstein – hanno insistito sull’impossibilitàdi fissare significati ultimi. Derrida, per esempio, prende lemosse da una cesura radicale nella storia del concetto di struttu-ra, che si presenta nel momento in cui il centro – il significatotrascendentale nelle sue molteplici forme: eidos, arché, telos,energeia, ousia, alétheia, ecc. – viene abbandonato, e con esso lapossibilità di fissare un significato che stia alla base del fluiredelle differenze. A questo punto Derrida generalizza il concettodi discorso in un modo coincidente con il nostro.

Da questo punto in poi si è dovuto pensare la legge che dominava inqualche modo il desiderio del centro nella costituzione della struttura,e il procedimento della significazione che prescriveva i suoi sposta-menti e le sue sostituzioni a quella legge della presenza centrale; ma diuna presenza centrale che non è mai stata se stessa, che è sempre statagià trasferita fuori di sé nel suo sostituto. Il sostituto non si sostituiscea qualcosa che, in qualche modo, gli sia pre-esistito. Da quel punto si èdovuto cominciare a pensare che non c’era centro, che il centro nonpoteva essere pensato nella forma di un essente-presente, che il centronon aveva un posto naturale, che non era un posto fisso bensì una fun-zione, una specie di non-luogo, nel quale si producevano senza finesostituzioni di segni. Questo è il momento in cui il linguaggio invade ilcampo problematico universale; è il momento in cui, nell’assenza dicentro o di origine, tutto diventa discorso – a condizione di intendersisu tale parola – vale a dire sistema nel quale il significato centrale, ori-ginario o trascendentale, non è mai presente in assoluto, al di fuori diun sistema di differenze. L’assenza di significato trascendentale esten-de all’infinito il campo e il gioco della significazione.21

21. J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi,Torino 1982, p. 361.

Page 183: opuscula /193 - Monoskop

183

Passiamo ora alla nostra seconda dimensione.L’impossibilità di una fissità ultima del significato implica checi debbano essere fissazioni parziali, altrimenti lo stesso fluiredelle differenze sarebbe impossibile. Anche per differire, persovvertire il significato, ci deve comunque essere un significa-to. Se il sociale non riesce a fissarsi nelle forme intelligibili eistituite di una società, tuttavia esso esiste solo come tentativo dicostruire quell’oggetto impossibile. Ogni discorso si costituiscecome un tentativo di dominare il campo della discorsività, diarrestare il fluire delle differenze, di costruire un centro.Chiameremo punti nodali i punti discorsivi privilegiati di questafissazione parziale (Lacan ha insistito su queste fissazioni par-ziali con il suo concetto di “punti di capitone”, vale a dire disignificanti privilegiati che fissano il senso di una catena signi-ficante. Questa limitazione della produttività della catena signi-ficante stabilisce le posizioni che rendono possibile la predica-zione; un discorso incapace di creare alcuna fissità di significa-to è il discorso dello psicotico).

L’analisi di Saussure considerava il linguaggio un sistemadi differenze senza termini positivi; il concetto centrale era quel-lo del valore, secondo il quale il significato di un termine erapuramente relazionale e determinato solamente dalla sua oppo-sizione a tutti gli altri. Ma questo ci mostra che siamo di frontealle condizioni di possibilità di un sistema chiuso: è soltanto inun tale sistema che è possibile fissare in una tale maniera ilsignificato di ogni elemento. Quando il modello linguistico fuintrodotto nel campo generale delle scienze umane, questo effet-to di sistematicità si impose, così che lo strutturalismo divenneuna nuova forma di essenzialismo: una ricerca delle strutturesoggiacenti che costituiscono le leggi inerenti a ogni possibilevariazione. La critica dello strutturalismo ruppe con questavisione di uno spazio pienamente costituito; ma siccome rigettòanche ogni ritorno a una concezione delle unità la cui demarca-zione era data, come una nomenclatura, dal suo riferimento a unoggetto, la concezione risultante fu quella di uno spazio relazio-nale incapace di costituirsi come tale, di un campo dominato daldesiderio di una struttura che alla fine era sempre assente. Il

Page 184: opuscula /193 - Monoskop

184

segno è il nome di una rottura, di una sutura impossibile tra ilsignificato e il significante.22

Abbiamo ora tutti gli elementi analitici necessari per defi-nire il concetto di articolazione. Dato che tutte le identità sonorelazionali – anche se il sistema di relazioni non raggiunge ilpunto di essere fissato come un sistema stabile di differenze – edato anche che tutto il discorso è sovvertito da un campo delladiscorsività che lo eccede, la transizione dagli “elementi” ai“momenti” non può mai essere completa. Lo statuto degli “ele-menti” è quello dei significanti fluttuanti, incapaci di esseretotalmente articolati in una catena discorsiva. E questo caratterefluttuante penetra alla fine ogni identità discorsiva (ovverosociale). Ma se si accetta il carattere non-completo di tutte lefissazioni discorsive e, al tempo stesso, si sostiene il carattererelazionale di ogni identità, il carattere ambiguo del significan-te, la sua non-fissazione a qualsivoglia significato, può esisteresolo in quanto c’è una proliferazione dei significati. Non è lascarsità dei significati ma, al contrario, la loro polisemia chedisarticola una struttura discorsiva. Questo è quello che costi-tuisce la dimensione surdeterminata, simbolica di ogni identitàsociale. La società non riesce mai a essere identica a se stessaperché ogni punto nodale è costituito all’interno di un’interte-stualità che lo eccede. La pratica dell’articolazione consiste

22. Una serie di lavori recenti hanno esteso tale concezione riguardantel’impossibilità della suturazione, e quindi dell’intelligibilità interna e finale diogni sistema relazionale, allo stesso sistema presentato tradizionalmente comemodello di una pura logica strutturale, vale a dire al linguaggio. Ad esempio,leggendo Saussure, F. Gadet e M. Pêcheux hanno sottolineato che: “Riguardoalle teorie che isolano la poetica, come un luogo di effetti speciali, dal linguag-gio come intero, il lavoro di Saussure […] considera invece la poetica come unoslittamento inerente a ogni linguaggio: ciò che Saussure ha stabilito non è unaproprietà del verso saturnio, e nemmeno della poesia, ma una proprietà del lin-guaggio stesso” (F. GADET - M. PÊCHEUX, La langue introuvable, FrançoisMaspero, Paris 1981, p. 57. Cfr. F. GADET, La double faille, Actes du Colloquede Sociolinguistique de Rouen, 1978; C. NORMAND, L’arbitraire du signecomme phénomène de déplacement, in “Dialectiques”, 1972, 1-2; J.C. MILNER,L’amour de la langue, Éditions du Seuil, Paris 1978).

Page 185: opuscula /193 - Monoskop

185

perciò nella costruzione di punti nodali, che fissano il sensoparzialmente; e il carattere parziale di questa fissazione derivadall’apertura del sociale, come risultato, a sua volta, dellacostante eccedenza dell’infinità del campo della discorsivitàrispetto a ogni discorso.

Ogni pratica sociale è, quindi, in una delle sue dimensioni,articolatoria. Siccome non è il momento interno di una totalitàautodefinita, non può essere semplicemente l’espressione diqualcosa di già acquisito, non può essere interamente sussuntasotto il principio della ripetizione; piuttosto, consiste semprenella costruzione di nuove differenze. Il sociale è articolazioneperché la “società” è impossibile. Come abbiamo già detto, peril sociale la necessità esiste solo come tentativo parziale di limi-tare la contingenza. Questo implica che le relazioni tra “neces-sità” e “contingenza” non possaono essere pensate come rela-zioni tra due aree delimitate ed esterne l’una all’altra – come peresempio nella previsione morfologica di Labriola – perché ilcontingente esiste solo all’interno del necessario. Questa pre-senza del contingente nel necessario è quello che abbiamo fino-ra chiamato sovversione, e che si manifesta come simbolizza-zione, metaforizzazione, paradosso, che deformano e mettonoin discussione il carattere letterale di ogni necessità. La neces-sità non esiste dunque nella forma di un principio soggiacente,come fosse un terreno, ma come un tentativo di letteralizzazio-ne che fissa le differenze di un sistema relazionale. La necessitàdel sociale è la necessità propria alle identità puramente rela-zionali – come la nozione di valore della linguistica23 – non la“necessità” naturale o la necessità di un giudizio analitico. La“necessità”, in questo senso, corrisponde semplicemente a un“sistema di posizioni differenziali in uno spazio suturato”.

Questo modo di porre il problema dell’articolazione sem-brerebbe contenere tutti gli elementi necessari per risolvere leevidenti antinomie che la logica dell’egemonia ci presenta: da

23. Cfr. quanto abbiamo detto prima a proposito della critica diBenveniste a Saussure.

Page 186: opuscula /193 - Monoskop

186

una parte, il carattere aperto e incompleto di ogni identità socia-le permette la sua articolazione a diverse formazioni storico-discorsive, ovvero ai “blocchi” nel senso datogli da Sorel e daGramsci; dall’altra, la stessa identità della forza articolatoria sicostituisce nel campo generale della discorsività, il che eliminaogni riferimento a un soggetto trascendentale od originario. Ma,prima di formulare il nostro concetto di egemonia, dobbiamoaffrontare altre due questioni. La prima riguarda lo statuto spe-cifico della categoria di “soggetto” nella nostra analisi; la secon-da il concetto di antagonismo, la cui importanza deriva dal fattoche, in una delle sue dimensioni chiave, la specificità di una pra-tica articolatoria egemonica è data dal suo confronto con altrepratiche articolatorie di tipo antagonistico.

La categoria di “soggetto”

La trattazione su questa categoria ci impone di distingueredue problemi molto diversi, che sono stati spesso confusi neidibattiti recenti: il problema del carattere discorsivo o pre-discorsivo della categoria di soggetto e il problema della rela-zione tra le diverse posizioni soggettive.

Il primo problema è stato oggetto di un’attenzione piùcostante, e ha portato a una crescente interrogazione del ruolo“costitutivo” che tanto il razionalismo quanto l’empirismo attri-buiscono agli “individui umani”. Questa critica si è rivoltaessenzialmente verso tre bersagli concettuali: l’idea del sogget-to come agente razionale e trasparente a se stesso, la suppostaunità e omogeneità dell’insieme delle sue posizioni, la conce-zione del soggetto come origine e fondamento delle relazionisociali (il problema della costitutività in senso stretto). Non c’èbisogno di analizzare nel dettaglio le dimensioni principali diquesta critica, visto che i suoi momenti classici – Nietzsche,Freud, Heidegger – sono ben conosciuti. Più di recente, Foucaultha mostrato come le tensioni dell’“analitica della finitudine”,caratteristiche di quella che ha chiamato l’“Età dell’Uomo”, sirisolvano in una serie di opposizioni – empirico/trascendentale,

Page 187: opuscula /193 - Monoskop

187

cogito/impensato, ripiego/ritorno alle origini – che sono insor-montabili fino a quando si conserva una categoria di “Uomo”come soggetto unificato.24 Altre analisi hanno mostrato le diffi-coltà di una rottura con la categoria di “soggetto originario”, checontinua a insinuarsi nelle stesse concezioni che tentano di rom-pere con essa.25

Rispetto a questa alternativa e ai suoi diversi elementicostitutivi la nostra posizione è chiara. Ogni volta che useremola categoria di “soggetto” in questo testo, lo faremo nel senso di“posizioni soggettive” all’interno di una struttura discorsiva. Isoggetti non potranno quindi essere l’origine delle relazionisociali – nemmeno nel senso limitato di essere dotati dellefacoltà che rendono possibile un’esperienza – visto che tuttal’“esperienza” dipende da precise condizioni discorsive di pos-sibilità.26 Questa è tuttavia solo una risposta al nostro primo pro-blema, che in nessun modo prefigura la soluzione che verrà dataal secondo. Dal carattere discorsivo di tutte le posizioni sogget-tive non deriva alcunché rispetto al tipo di relazioni che potreb-bero esistere tra loro. Se ogni posizione soggettiva è una posi-zione discorsiva, essa condivide il carattere aperto di ognidiscorso; di conseguenza, le diverse posizioni non possono esse-re completamente fissate in un sistema chiuso di differenze.Comprendiamo così perché questi problemi, tra loro moltodiversi, vengano confusi. Nella misura in cui l’affermazione delcarattere discorsivo di ogni posizione soggettiva è legata al rifiu-to della nozione di soggetto come totalità originaria e fondante,il momento analitico che deve prevalere è quello della disper-sione, della detotalizzazione o del decentramento di alcune posi-zioni rispetto ad altre. Ogni momento di articolazione o relazio-

24. Cfr. M. FOUCAULT, Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu,Rizzoli, Milano 1998.

25. Cfr. al riguardo B. BREWSTER, Fetishism in Capital and ReadingCapital, in “Economy and Society”, 1976, pp. 344-351; P. HIRST, Althusser andthe Theory of Ideology, “Economy and Society”, 1976, pp. 385-412

26. Ibidem.

Page 188: opuscula /193 - Monoskop

ne tra loro rovina gli effetti cognitivi della metafora della disper-sione, facendo strada al sospetto di una ritotalizzazione che rein-trodurrebbe surrettiziamente la categoria di soggetto comeessenza unificata e unificante. Da qui, manca solo un passo atrasformare quella dispersione di posizioni soggettive in sepa-razione effettiva tra loro. In ogni caso, la trasformazione delladispersione in separazione presenta ovviamente tutti i problemianalitici che abbiamo precedentemente segnalato, specialmentequelli inerenti alla sostituzione dell’essenzialismo della totalitàcon un essenzialismo degli elementi. Se ogni posizione sogget-tiva è una posizione discorsiva, l’analisi non può trascurare leforme di surdeterminazione di alcune posizioni da parte di altre,del carattere contingente di tutte le necessità che, come abbiamovisto, è inerente a qualsiasi differenza discorsiva.

Consideriamo due casi che hanno sollevato di recentediscussioni importanti: quello relativo allo statuto di categorieapparentemente astratte (quella di “Uomo” prima di tutte); equello relativo al “soggetto” del femminismo. Il primo è al cen-tro del recente dibattito sull’umanesimo. Se lo statutodell’“Uomo”27 fosse quello di un’essenza, la sua collocazionerispetto alle altre caratteristiche dell’“essere umano” sarebbeinscritta in una scala logica che va dall’astratto al concreto.Questo aprirebbe la strada a tutti gli artifici classici di un’anali-si delle situazioni concrete fatta nei termini dell’“alienazione” edel “disconoscimento”. Ma se, al contrario, l’“Uomo” è consi-derato come una posizione soggettiva costruita discorsivamente,il suo presunto carattere astratto non pregiudica in alcun modola forma della sua articolazione con altre posizioni soggettive (lagamma è qui infinita e sfida l’immaginazione di ogni “umani-sta”. È ben noto, per esempio, come nei paesi coloniali l’equi-valenza tra i “diritti dell’Uomo” e i “valori europei” sia stata unaforma frequente ed efficace di costruzione discorsiva dell’ac-

188

27. L’ambiguità derivante dall’uso del termine “Uomo” in riferimentoall’“essere umano” e, al tempo stesso, al “membro maschile della specie”, è sin-tomatica delle ambiguità discorsive che stiamo tentando di mostrare.

Page 189: opuscula /193 - Monoskop

189

cettabilità della dominazione imperialista). La confusione crea-ta da E.P. Thompson nel suo attacco ad Althusser28 riposa pro-prio su questo punto. Riferendosi all’“umanesimo”, Thompsoncrede che la negazione dello statuto di essenza ai valori umani-stici finisca per privarli di tutta la loro validità storica. In realtà,ciò che è importante è provare a mostrare come la categoria di“uomo” sia stata prodotta in epoca moderna, in che modo il sog-getto “umano” – ovvero il supporto dell’identità uaman senzadistinzioni – compaia in certi discorsi religiosi, sia incorporatoin pratiche giuridiche e sia diversamente costruito in altre sfere.Una comprensione di questa dispersione può aiutarci a coglierela fragilità degli stessi valori “umanistici”, la possibilità dellaloro distorsione nell’articolazione equivalenziale con altri valo-ri, la loro restrizione ad alcune categorie di popolazione: la clas-se dei proprietari, per esempio, o la popolazione maschile.Lontani dal ritenere che l’“Uomo” abbia lo statuto di un’essen-za – come fosse un dono dal cielo – una tale analisi può mostrar-ci le condizioni storiche della sua nascita e le ragioni della suaattuale vulnerabilità, permettendoci così di lottare con più effi-

28. E.P. THOMPSON, The Poverty of Theory, Monthly Review Press,London 1978. Non si dovrebbe tuttavia saltare alla conclusione che Thompsonabbia semplicemente frainteso Althusser. Il problema è molto più complesso,perché se Thompson ha proposto una falsa alternativa, opponendo un “umane-simo” basato sul postulato di un’essenza umana e un antiumanesimo fondatosulla negazione di quest’ultima, è altrettanto vero che l’approccio di Althusserall’umanesimo lascia poco spazio ad altro che non sia la sua riduzione al pianoideologico. La tesi secondo cui la storia avrebbe una struttura intelligibile, datadalla successione dei modi di produzione e, dunque, accessibile alla pratica“scientifica”, può essere accompagnata solo da una nozione di “umanesimo”come qualcosa di costituito sul piano ideologico: un piano che, sebbene non siaconcepito come falsa coscienza, è ontologicamente differente da – e subordina-to a – un meccanismo della riproduzione sociale stabilito dalla logica del mododi produzione. La via di uscita dal vicolo cieco cui conducono questi due essen-zialismi – costituiti intorno all’“Uomo” e al “modo di produzione” – è la disso-luzione della differenziazione dei piani sulla quale si fonda la distinzione appa-renza/realtà. Così i discorsi umanistici hanno uno statuto che non è privilegiatoa priori, né subordinato ad altri discorsi.

Page 190: opuscula /193 - Monoskop

190

cacia e senza illusioni per la difesa dei valori umanistici. Ma èaltrettanto evidente che l’analisi non può fermarsi semplice-mente al momento della dispersione, dato che l’identità“umana” non implica solo un insieme di posizioni disperse, maanche le forme di surdeterminazione che esistono tra loro.L’“Uomo” è un punto nodale fondamentale dal quale è statopossibile procedere, dal diciottesimo secolo in avanti,all’“umanizzazione” di numerose pratiche sociali. Insisteresulla dispersione delle posizioni dalle quali l’“Uomo” è statoprodotto rappresenta solo il primo momento; in un secondomomento diventa necessario mostrare le relazioni di surdeter-minazione e totalizzazione che si sono stabilite tra queste. Lanon-fissazione o l’apertura del sistema delle differenze discor-sive è quello che rende possibile questi effetti di analogia e diinterpenetrazione.

Qualcosa di analogo può essere detto rispetto al “soggetto”del femminismo. La critica dell’essenzialismo femminista èstata portata avanti in particolare dal giornale inglese m/f: unaserie di studi importanti hanno respinto la nozione precostituitadi “oppressione femminile” – sia che la sua origine fosse nellafamiglia, nel modo di produzione o altrove – e hanno cercato distudiare «il particolare momento storico, le istituzioni e le pra-tiche attraverso le quali viene prodotta la categoria di donna».29

Una volta negata l’esistenza di un singolo meccanismo dioppressione femminile, si apre un immenso campo di azione perla politica femminista. Si può capire così l’importanza dellelotte puntuali contro ogni forma oppressiva di costruzione delladifferenza sessuale, siano esse al livello del diritto, della fami-glia, delle politiche sociali o delle molteplici forme culturaliattraverso le quali la categoria del “femminile” viene costante-mente riprodotta. Ci troviamo così nel campo di una dispersio-ne di posizioni soggettive. Il problema di questo approccio risie-de però nell’enfasi unilaterale che viene data al momento della

29. Cfr. m/f, 1978, 1, nota editoriale.

Page 191: opuscula /193 - Monoskop

191

dispersione, così unilaterale che ci ritroviamo con un insiemeeterogeneo di differenze sessuali costruite attraverso delle prati-che che non hanno alcuna relazione le une con le altre. Ora, seè assolutamente corretto mettere in questione l’idea di una divi-sione sessuale originaria rappresentata a posteriori nelle prati-che sociali, è anche necessario riconoscere che la surdetermina-zione tra le diverse differenze sessuali produce un effetto siste-matico di divisione sessuale.30 Ogni costruzione di differenzesessuali, quale che sia la loro molteplicità ed eterogeneità,costruisce invariabilmente il femminile come polo subordinatoal maschile. È per questo motivo che è possibile parlare di unsistema di sex/gender.31 L’insieme delle pratiche sociali, delleistituzioni e dei discorsi che producono la donna come catego-ria, non sono completamente isolate ma si rinforzano a vicendae agiscono l’una sull’altra. Questo non significa che ci sia unacausa unica della subordinazione femminile. È nostra opinioneche una volta che il sesso femminile arriva a connotare un gene-re femminile con caratteristiche specifiche, questa “significa-zione immaginaria” produce effetti concreti nelle diverse prati-che sociali. Esiste così una stretta relazione tra la “subordina-zione”, come categoria generale che informa l’insieme di signi-ficazioni che costituiscono “la femminilità”, e l’autonomia e losviluppo diseguale delle diverse pratiche che costruiscono leforme concrete di subordinazione. Queste ultime non sono l’e-spressione di un’essenza femminile immutabile; nella loro

30. Cfr. Ch. MOUFFE, The Sex/Gender System and the DiscoursiveConstruction of Woman’s Subordination, in S. HÄNNINEN e L. PALDAN (a curadi), Rethinking Ideology: A Marxist Debate, Argument-Verlag, Berlin 1983. Perun’introduzione storica alla politica femminista in questa prospettiva cfr. S.ALEXANDER, Women, Class and Sexual Difference, in History Workshop 17,Spring 1984. Più in generale, sulle questioni della politica sessuale, cfr. J.WEEKS, Sex, Politics and Society, Longmans, London 1981.

31. Questo concetto è stato sviluppato da G. RUBIN, The Traffic inWomen: Notes on the “Political Economy”, in R.R. REITER (a cura di), Towardan Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York/London 1975, pp.157-210.

Page 192: opuscula /193 - Monoskop

192

costruzione, tuttavia, il simbolismo legato alla condizione fem-minile in una data società gioca un ruolo primario. Le varieforme di subordinazione concreta reagiscono a loro volta, con-tribuendo al mantenimento e alla riproduzione di questo simbo-lismo.32 È quindi possibile criticare l’idea di un antagonismooriginario tra uomo e donna, costitutivo della divisione sessua-le, senza negare che nelle diverse forme di costruzione della“femminilità” vi sia un elemento comune che ha forti effetti disurdeterminazione nei termini della divisione sessuale.

Passiamo ora a considerare le diverse forme che ha assun-to la determinazione dei soggetti sociali e politici nella tradizio-ne marxista. Il punto di partenza e il leitmotiv costante sonochiari: i soggetti sono le classi sociali, la cui unità si costituisceintorno a interessi determinati dalla loro posizione nei rapportidi produzione. Più che insistere su questo tema già noto, tutta-via, è importante studiare i modi specifici in cui il marxismo hapoliticamente e teoricamente risposto alla diversificazione e alladispersione delle posizioni soggettive rispetto alle forme para-digmatiche della loro unità. Un primo tipo di risposta – la piùelementare – è stata quella di un passaggio illegittimo attraver-so il referente. Questo ha comportato, per esempio, l’afferma-zione secondo la quale la lotta politica e la lotta economica deilavoratori sono unificate dall’agente sociale concreto – la classeoperaia – che le conduce entrambe. Questo tipo di risposta –comune non solo nel marxismo ma anche nelle scienze socialiin generale – si fonda su un errore: l’espressione “classe ope-raia” è usata in due modi diversi, per definire una specifica posi-zione soggettiva nei rapporti di produzione, e per nominare gli

32. Tale aspetto non è del tutto ignorato dagli editori di m/f. P. Adams e J.Minson si esprimono nel modo seguente: “vi sono alcune forme di responsabi-lità ‘multiuso’ che comprendono una moltitudine di relazioni sociali: vale a dire,le persone sono ritenute ‘responsabili’ in generale per una molteplicità di valu-tazioni (essendo considerate ‘irresponsabili’ al polo negativo). Ma per quantoappaia diffusa questa responsabilità multiuso è, nondimeno, soggetta ancora allasoddisfazione di condizioni sociali determinate, e deve essere costruita come uninsieme di statuti eterogenei” (The “Subject” of Feminism, in m/f, 2, p. 53).

Page 193: opuscula /193 - Monoskop

193

agenti che occupano questa posizione soggettiva. L’ambiguitàche ne risulta autorizza la conclusione logicamente illegittimache le altre posizioni occupate da questi agenti siano anch’esse“posizioni della classe operaia” (sono certamente “della classeoperaia” nel secondo senso, ma non necessariamente nelprimo). L’assunzione implicita dell’unità e della trasparenzadella coscienza di ogni agente sociale serve a rinforzare questaambiguità, e quindi la confusione.

Questo sotterfugio, tuttavia, può funzionare solo quando siprova ad affermare l’unità di posizioni empiricamente date; nonquando si prova a spiegare – come è stato il caso più frequentenella tradizione marxista – l’eterogeneità essenziale di alcuneposizioni rispetto alle altre (ovvero le fratture caratteristichedella “falsa coscienza”). In questo caso, come abbiamo visto,l’unità della classe è pensata come un’unità futura; il modo incui si manifesta questa unità è attraverso la categoria della rap-presentazione, la separazione tra i lavoratori reali e i loro inte-ressi oggettivi esige che questi ultimi debbano essere rappresen-tati dal partito di avanguardia. Ora, ogni relazione di rappresen-tazione si fonda su di una finzione: quella della presenza a uncerto livello di qualcosa che, in senso stretto, non c’è. Ma pro-prio perché è allo stesso tempo, una finzione e un principio diorganizzazione delle relazioni sociali reali, la rappresentazioneè il terreno di un gioco il cui risultato non è predeterminato sindall’inizio. All’estremità dello spettro di possibilità avremmouna dissoluzione del carattere fittizio della rappresentazione,così che i mezzi e il campo della rappresentazione sarebberototalmente trasparenti rispetto a quello che viene rappresentato;all’altra estremità dello spettro avremmo un’opacità totale tra ilrappresentante e il rappresentato: la finzione diventerebbe unafinzione in un senso strettamente letterale. È importante notareche nessuno di questi estremi rappresenta una situazione impos-sibile, visto che entrambi hanno condizioni di possibilità bendefinite: un rappresentante può essere soggetto a tali condizionidi controllo che il carattere fittizio della rappresentazione diven-ta una finzione; e al contrario, una totale assenza di controllopuò rendere la rappresentazione letteralmente fittizia. La conce-

Page 194: opuscula /193 - Monoskop

194

zione marxista del partito di avanguardia mostra questa peculia-rità: il partito non rappresenta un agente concreto ma i suoi inte-ressi storici, e non esiste alcuna finzione dato che il rappresen-tante e il rappresentato sono costituiti dallo stesso discorso esullo stesso piano. Questa relazione tautologica esiste tuttavianella sua forma estrema solo nelle piccole sette che si autopro-clamano l’avanguardia del proletariato, senza ovviamente che ilproletariato sappia di avere una tale avanguardia. In ogni lottapolitica di una certa importanza, c’è al contrario uno sforzomolto chiaro a guadagnare la fedeltà dei concreti soggetti socia-li ai loro supposti “interessi storici”. Se viene abbandonata latautologia di un discorso unico che costituisce sia il rappresen-tato che il rappresentante, è necessario concludere che il rappre-sentato e il rappresentante si costituiscono su livelli diversi. Unaprima tentazione sarebbe allora quella di rendere assoluta que-sta separazione di piani, e di derivare l’impossibilità della rela-zione di rappresentazione dal suo carattere fittizio. Così, è statodetto che:

Negare l’economicismo significa rigettare la concezione classica del-l’unità economico-politico-ideologica delle classi. Significa sostene-re che le lotte politiche e ideologiche non possono essere pensatecome lotte di classi economiche. Non c’è una via di mezzo […]. Gli“interessi” di classe non sono dati alla politica e all’ideologia dall’e-conomia. Essi nascono dentro la pratica politica, e sono determinaticome un effetto di precise modalità di pratica politica. La pratica poli-tica non riconosce gli interessi di classe e poi li rappresenta, essa inve-ce costituisce gli interessi che rappresenta.33

Questa affermazione potrebbe tuttavia essere difesa solo sela pratica politica fosse un campo perfettamente delimitato, le cuifrontiere con l’economia potessero essere disegnate more geo-metrico, ovvero se escludessimo per principio ogni surdetermi-nazione del politico da parte dell’economico o viceversa. Ma noisappiamo che questa separazione può essere stabilita solo a prio-

33. Cfr. A. CUTLER et al., cit., vol. 1, pp. 236-237.

Page 195: opuscula /193 - Monoskop

195

ri in una concezione essenzialista che fa derivare una separazio-ne reale tra elementi da una separazione concettuale, trasfor-mando la specificazione concettuale di un’identità in una posi-zione discorsiva piena e assolutamente differenziata. Ma seaccettiamo il carattere surdeterminato di ogni identità la situa-zione cambia. C’è una via diversa che – anche se non sappiamose sia o meno “di mezzo” – è in ogni caso una terza via. La “con-ciliazione degli agenti e dei loro interessi storici” è, semplice-mente, una pratica articolatoria che costruisce un discorso nelquale le rivendicazioni concrete di un gruppo – i lavoratori del-l’industria – sono pensate come tappe verso una liberazione tota-le che implica il superamento del capitalismo. Non c’è sicura-mente una necessità essenziale che queste rivendicazioni venga-no articolate in questo modo. Ma non c’è ugualmente per lorouna necessità essenziale di essere articolate in qualsiasi altramaniera, dato che, come abbiamo visto, la relazione di articola-zione non è una relazione di necessità. Quello che fa il discorsodegli “interessi storici” è di egemonizzare alcune rivendicazioni.Su questo punto, Cutler e gli altri autori hanno assolutamenteragione: la pratica politica costruisce gli interessi che rappresen-ta. Ma se guardiamo un po’ più da vicino noteremo come, lungidall’essere accentuata, la separazione tra l’economico e il politi-co viene in questo modo eliminata. Una lettura in termini socia-listi delle lotte economiche immediate articola infatti discorsiva-mente il politico e l’economico, ed elimina così l’esteriorità cheesiste tra i due. L’alternativa è chiara: o la separazione tra il poli-tico e l’economico ha luogo su un piano extra-discorsivo chel’assicura a priori, oppure questa separazione è il risultato di pra-tiche discorsive, e non è possibile immunizzarla a priori da ognidiscorso che costruisce la loro unità. Se la dispersione delle posi-zioni è una condizione di ogni pratica articolatoria, non c’è alcu-na ragione per la quale questa dispersione debba prendere neces-sariamente la forma di una separazione tra l’identità politica equella economica degli agenti sociali. L’identità economica e l’i-dentità politica sarebbero suturate, le condizioni di ogni relazio-ne di rappresentazione evidentemente sparirebbero: ritornerem-mo così alla situazione tautologica nella quale il rappresentante e

Page 196: opuscula /193 - Monoskop

196

il rappresentato sono momenti di un’unica identità relazionale.Assumiamo invece che né l’identità politica né l’identità econo-mica degli agenti si cristallizzino come momenti differenti di undiscorso unificato, e che la loro relazione sia l’unità precaria diuna tensione. Sappiamo già cosa significa ciò: la sovversione diognuno dei termini da parte di una polisemia che impedisce laloro articolazione stabile. In questo caso l’economico è e non èpresente nel politico e viceversa; la relazione non è una relazio-ne di differenziazioni letterali, ma di analogie instabili tra i duetermini. Ora, questa forma di presenza per trasposizioni metafo-riche è quella che la fictio iuris della rappresentazione cerca dipensare. La rappresentazione non si costituisce quindi come untipo definito di relazione, ma come il campo di un’oscillazioneinstabile il cui punto di fuga è, come abbiamo visto, o la lettera-lizzazione della finzione attraverso la rottura di ogni legame trail rappresentante e il rappresentato, oppure la scomparsa dell’i-dentità separata di entrambi attraverso il loro assorbimento comemomenti di un’unica identità.

Tutto questo ci mostra come la specificità della categoria disoggetto non può essere stabilita né tramite l’assolutizzazione diuna molteplicità di “posizioni soggettive”, ne attraverso un’uni-ficazione ugualmente assoluta di queste attorno a un “soggettotrascendentale”. La categoria di soggetto è segnata dallo stessocarattere di ambiguità, incompletezza e polisemicità che la sur-determinazione attribuisce a ogni identità discorsiva. Per questomotivo il momento di chiusura di una totalità discorsiva, che nonsi dà al livello “oggettivo” di questa totalità, non può essere sta-bilito al livello di un “soggetto donatore di senso”, dal momentoche la soggettività dell’agente è innervata dalla stessa precarietàe assenza di chiusura evidente in qualsiasi altro punto della tota-lità discorsiva della quale fa parte. “Oggettivismo” e “soggettivi-smo”, “olismo” e “individualismo” sono espressioni simmetri-che del desiderio di una pienezza che viene ogni volta differita.Proprio a causa di questa mancanza di una chiusura finale, ladispersione delle posizioni soggettive non può rappresentare unasoluzione: visto che nessuna di esse riesce alla fine a consolidar-si come posizione separata, un gioco di surdeterminazione tra di

Page 197: opuscula /193 - Monoskop

197

loro reintroduce l’orizzonte di una totalità impossibile. È questogioco che rende possibile l’articolazione egemonica.

Antagonismo e oggettività

L’impossibilità della chiusura (ovvero l’impossibilità della“società”) è stata fino a questo punto presentata come la preca-rietà di ogni identità, che si manifesta come un movimento con-tinuo di differenze. Ora, però, dobbiamo chiederci se non cisiano alcune “esperienze”, alcune forme discorsive, nelle qualiciò che si manifesta non è più il differimento continuo del“significato trascendentale”, ma la vanità stessa di questo diffe-rimento, l’impossibilità ultima di ogni differenza stabile e, così,di ogni “oggettività”. La risposta è sì. Questa “esperienza” dellimite di ogni oggettività ha una forma precisa di presenzadiscorsiva, e questa forma è l’antagonismo.

Gli antagonismi sono stati ampiamente studiati nella lette-ratura storica e sociologica. Dal marxismo alle diverse formedella “teoria del conflitto” sono state date un gran numero dispiegazioni sul come e sul perché gli antagonismi emergononella società. Queste diverse teorie mostrano tuttavia una carat-teristica comune: la discussione si è incentrata quasi esclusiva-mente sulla descrizione degli antagonismi e sulle loro cause ori-ginarie. Solo raramente è stato fatto un tentativo di affrontare ilcuore del nostro problema: cos’è una relazione antagonistica?Quale tipo di relazione tra oggetti presuppone? Iniziamo conuna delle poche discussioni che hanno affrontato questo proble-ma, quella iniziata da Lucio Colletti e dalla sua analisi della spe-cificità degli antagonismi sociali, dall’affermazione secondo laquale le categorie di “opposizione reale” e “contraddizione”possono rendere conto di questa specificità.34

34. Cfr. L. COLLETTI, Marxism and the Dialectic, in “New Left Review”,September/October 1975, 93, pp. 3-29; e ID., Il tramonto dell’ideologia,Laterza, Roma-Bari 1986.

Page 198: opuscula /193 - Monoskop

198

Colletti muove dalla distinzione kantiana tra opposizionereale (Realrepugnanz) e contraddizione logica. La prima coinci-de con il principio di contrarietà e risponde alla formula “A –B”: ciascuno dei termini ha la sua positività, indipendente dallasua relazione con l’altro. La seconda è la categoria di contrad-dizione e risponde alla formula “A – non A”: la relazione di ognitermine con l’altro esaurisce la realtà di entrambi. La contraddi-zione si produce sul terreno della proposizione; è possibileentrare in contraddizione solamente a un livello logico-concet-tuale. Il primo tipo di opposizione, al contrario, esiste sul terre-no degli oggetti reali, perché nessun oggetto reale esaurisce lasua identità nell’opposizione a un altro oggetto; ha infatti unarealtà per se stesso, indipendente da questa opposizione.35

Colletti conclude quindi che se Hegel, come filosofo idealistache riduce la realtà al concetto, può introdurre la contraddizio-ne nel reale, questa è incompatibile con una filosofia materiali-sta come il marxismo che prende le mosse dal carattere extra-mentale del reale. Secondo questo punto di vista, i marxisti sonocaduti in una deplorevole confusione considerando gli antagoni-

35. Kant riassume nei seguenti quattro principi le caratteristiche dell’oppo-sizione reale, differenziandola dalla contraddizione: “In primo luogo, le determina-zioni contrastanti tra loro debbono trovarsi nello stesso soggetto: se infatti poniamoche una determinazione sia in una cosa e un’altra, qualunque essa sia, in un’altracosa, non ne consegue una opposizione reale. Secondo: in una opposizione realeuna delle determinazioni opposte non può mai essere il contrario contraddittoriodell’altra, ché in tal caso il contrasto sarebbe di natura logica e, come abbiamomostrato più sopra, impossibile. Terzo: una determinazione non può mai negarequalcosa di diverso da ciò che è posto dall’altra, ché altrimenti non si avrebbe oppo-sizione alcuna. Quarto: se fanno contrasto, non possono entrambe essere negative,ché, in tal caso, nessuna delle due pone qualcosa che sia annullato dall’altra. Perciòin ogni opposizione reale i predicati devono essere ambedue positivi, ma in modotale che nella unione nello stesso soggetto le conseguenze si annullino reciproca-mente. In tal modo, le cose di cui l’una è considerata la negativa dell’altra, sonoambedue, considerate a sé, positive, ma unite in un solo soggetto la conseguenza èzero” (I. KANT, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantitànegative (1763), in ID. Scritti precritici, trad. it. a cura di A. Pupi, con una prefa-zione di R. Assunto, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 260). La positività dei suoi duetermini è così la caratteristica determinante di una opposizione reale.

Page 199: opuscula /193 - Monoskop

199

smi come contraddizioni. Il programma di Colletti è di reinter-pretare gli antagonismi nei termini di opposizioni reali.

Si noti che Colletti parte da un’alternativa esclusiva: o qual-cosa è un’opposizione reale, oppure è una contraddizione. Questoderiva dal fatto che, nel suo universo, c’è spazio solamente perdue tipi di entità, gli oggetti reali e i concetti, e che il punto di par-tenza, l’assunto permanente di tutta la sua analisi, è la separazio-ne tra pensiero e realtà. Ne derivano una serie di conseguenze che,come cercheremo di dimostrare, distruggono le credenziali siadell’“opposizione reale” sia della “contraddizione” come catego-rie in grado di rendere conto degli antagonismi. Prima di tutto, èchiaro come un antagonismo non possa essere un’opposizionereale. Non c’è niente di antagonistico in uno scontro tra due auto-mobili, si tratta di un fatto materiale che obbedisce a leggi fisichepositive. Applicare lo stesso principio al terreno sociale equivar-rebbe a dire che quello che è antagonistico in una lotta di classe èl’atto fisico con il quale un poliziotto colpisce un militante, o legrida di un gruppo in parlamento che impediscono a un membrodi una fazione opposta di parlare. “Opposizione” è qui un concet-to del mondo fisico che è stato esteso metaforicamente al mondosociale, o viceversa; ma ha evidentemente poco senso pretendereche ci sia un nocciolo comune di significato sufficiente a spiega-re il tipo di relazione implicita in entrambi i casi. Questo è anco-ra più chiaro se, per riferirci al sociale, sostituiamo “forze che sioppongono” con “forze nemiche”, nel qual caso la trasposizionemetaforica al mondo fisico, almeno in un universo post-omerico,non ha avuto luogo. Si potrà obiettare che non è il carattere fisicodell’opposizione che conta, ma solo il suo carattere extra-logico.Ma è ancora meno chiaro come una teoria della specificità degliantagonismi sociali possa basarsi sulla mera opposizione alla con-traddizione logica che è comune tanto a uno scontro tra due forzesociali quanto all’urto tra due pietre.36

36. È interessante sottolineare come, nella sua polemica con Max Adler,Hans Kelsen avesse chiaramente percepito la necessità di procedere oltre l’al-ternativa esclusiva tra opposizione reale e contraddizione per caratterizzare gli

Page 200: opuscula /193 - Monoskop

200

Ancora, come Roy Edgley37 e Jon Elster38 hanno fatto nota-re, in questo problema si mescolano due affermazioni diverse: a)che il reale è contraddittorio e b) che le contraddizioni esistononella realtà. Rispetto alla prima, non c’è dubbio che l’afferma-zione è autocontradditoria. La celebre critica di Popper delladialettica,39 da questo punto di vista, è ineccepibile. La secondaaffermazione è però innegabile: è un fatto che nella realtà cisiano situazioni che possono essere descritte solo nei termini dicontraddizioni logiche. Le proposizioni sono anche una partedel reale e, poiché le proposizioni contraddittorie esistono empi-ricamente, è evidente che le contraddizioni esistono nel reale.Le persone argomentano, e nella misura in cui una serie di pra-tiche sociali – codici, credenze, ecc. – possono adottare unastruttura proposizionale, non c’è ragione per cui non debbanodar luogo a proposizioni contraddittorie (a questo punto, tutta-via, Edgley commette l’errore di credere che la possibile esi-stenza reale di proposizioni contraddittorie provi la correttezzadella dialettica. La dialettica è una dottrina della natura essen-zialmente contraddittoria del reale, non dell’esistenza empiricadelle contraddizioni nella realtà).

Sembrerebbe così che la categoria di contraddizione abbiaun posto assicurato nel reale, e che fornisca la base per rendereconto degli antagonismi sociali. Ma basta un momento di rifles-sione per convincerci che non è così. Noi tutti partecipiamo adiversi sistemi di pensiero reciprocamente contraddittori, eppu-

antagonismi appartenenti al mondo sociale. Al riguardo, cfr. il compendio diquesta posizione kelseniana in R. RACINARO, Hans Kelsen e il dibattito su demo-crazia e parlamentarismo negli anni Venti-Trenta, introduzione a H. KELSEN,Socialismo e Stato. Una ricerca sulla teoria politica del marxismo, De Donato,Bari 1978, pp. CXXII-CXXV.

37. R. EDGLEY, Dialectics: the Contradictions of Colletti, in “Critique”,1977, 7, pp. 47-52.

38. J. ELSTER, Logic and Society: Contradictions and Possible Worlds,John Wiley and Sons, Chichester 1978.

39. K.R. POPPER, Congetture e confutazioni, [1963], Bologna, Il Mulino,1972, pp. 531-570.

Page 201: opuscula /193 - Monoskop

201

re da queste contraddizioni non emerge alcun antagonismo. Lacontraddizione non implica quindi necessariamente una relazio-ne antagonistica.40 Ma se abbiamo escluso tanto l’“opposizionereale” quanto la “contraddizione” come categorie che rendonoconto dell’antagonismo, sembrerebbe che la specificità dellaseconda non possa essere compresa. La descrizione classicadegli antagonismi nella letteratura sociologica o storica confer-ma questa impressione: vengono spiegate le condizioni che ren-dono possibili gli antagonismi, ma non gli antagonismi in quan-to tali (il racconto procede attraverso espressioni del tipo “que-sto provocò una reazione” oppure “in questa situazione x o y sitrovarono nella condizione di reagire”. In altre parole, si passabruscamente dalla spiegazione a un appello al nostro sensocomune o alla nostra esperienza per completare il significato deltesto: detto altrimenti, la spiegazione viene interrotta).

Cerchiamo di svelare il senso di questa interruzione. Perprima cosa ci dobbiamo chiedere se l’impossibilità di assimila-re l’antagonismo all’opposizione reale o alla contraddizione nonsia l’impossibilità di assimilarlo a qualche cosa che questi duetipi di relazione condividono. Queste due relazioni hanno infat-ti qualcosa in comune: il fatto di essere relazioni oggettive, traoggetti concettuali nel secondo caso, tra oggetti reali nel primo.Ma in entrambi i casi è qualcosa che gli oggetti sono già a ren-dere la relazione intelligibile. Cioè, in entrambi i casi, ci stiamooccupando di identità piene. Nel caso della contraddizione, èproprio perché A è pienamente A che essere non-A è una con-traddizione, quindi un’impossibilità. Nel caso dell’opposizionereale, è perché A è anche essa pienamente A che la sua relazio-ne con B produce un effetto oggettivamente determinabile. Manel caso dell’antagonismo ci troviamo di fronte a una situazione

40. Su questo punto la nostra opinione differisce da quella espressa dauno degli autori di questo libro in un suo lavoro precedente dove il concetto diantagonismo è assimilato a quello di contraddizione (E. LACLAU, PopulistRupture and Discourse, in “Screen Education”, Spring 1980). Per il ripensa-mento della nostra posizione precedente si sono dimostrati molto utili i com-menti critici avuti in numerose conversazioni con Emilio De Ipola.

Page 202: opuscula /193 - Monoskop

202

diversa: la presenza dell’“Altro” mi impedisce di essere total-mente me stesso. La relazione non emerge dalle totalità piene,ma dall’impossibilità della loro costituzione. La presenzadell’Altro non è un’impossibilità logica: esiste; quindi non sitratta di una contraddizione. Ma non è nemmeno sussumibilecome momento differenziale positivo in una catena causale, per-ché in questo caso la relazione sarebbe data da cosa ogni forzaè, e non si avrebbe la negazione di questo essere (è perché unaforza fisica è una forza fisica che un’altra forza identica e con-traria la annulla; al contrario, è perché un contadino non puòessere un contadino che esiste un antagonismo con il proprieta-rio che lo espelle dalla sua terra). Fino a che c’è antagonismo,non posso essere pienamente presente a me stesso. Ma nemme-no la forza che mi è antagonista ha una tale presenza: il suoessere oggettivo è un simbolo del mio non-essere e, in questomodo, essa è superata da una pluralità di significazioni cheimpediscono la fissazione del suo essere come piena positività.L’opposizione reale è una relazione oggettiva – cioè determina-bile, definibile – tra cose; la contraddizione è una relazionealtrettanto definibile tra concetti; l’antagonismo rappresenta illimite di ogni oggettività, che si rivela come oggettivazione par-ziale e precaria. Se il linguaggio è un sistema di differenze, l’an-tagonismo rappresenta il fallimento della differenza: in questosenso si situa all’interno dei limiti del linguaggio e può esisteresolo come sua interruzione, cioè come metafora. Possiamo cosìcomprendere perché le narrazioni sociologiche e storiche deb-bano interrompersi e invocare un’“esperienza”, che trascende leloro categorie, per riempire le loro lacune: ogni linguaggio eogni società si costituiscono come repressione della consapevo-lezza dell’impossibilità che le attraversa. L’antagonismo sfuggealla possibilità di essere afferrato attraverso il linguaggio, vistoche il linguaggio esiste solamente come tentativo di fissarequello che l’antagonismo sovverte.

L’antagonismo, lungi dall’essere una relazione oggettiva, èuna relazione nella quale i limiti di ogni oggettività vengonomostrati, nel senso che intendeva Wittgenstein quando dicevache ciò che non può essere detto può essere mostrato. Ma se,

Page 203: opuscula /193 - Monoskop

203

come abbiamo dimostrato, il sociale esiste solamente come sfor-zo parziale di costruzione della società – ovvero di un sistemachiuso e oggettivo di differenze – l’antagonismo, come testimo-ne dell’impossibilità di una sutura finale, è l’“esperienza” dellimite del sociale. Gli antagonismi, in senso stretto, non sonointerni ma esterni alla società; o meglio, costituiscono i limitidella società, la sua impossibilità di costituirsi pienamente.Questa affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma solo seintroducessimo surrettiziamente alcuni presupposti che devonoinvece essere accuratamente esclusi dalla nostra prospettiva teo-rica. Due di questi presupposti, in particolare, renderebberoassurda la nostra tesi rispetto alla collocazione teorica dell’anta-gonismo. Il primo è l’identificazione della “società” con uninsieme di agenti sociali fisicamente esistenti che vivono in undato territorio. Se accettiamo questo criterio, è ovvio che gliantagonismi si produrranno tra quegli agenti, e non sarannoquindi a loro esterni. Ma dalla coesistenza “empirica” degliagenti non consegue necessariamente che le loro relazioni si for-mino secondo un modello oggettivo e intelligibile (il prezzo del-l’identificare la “società” con il referente sarebbe quello disvuotarla di ogni contenuto razionalmente specificabile).Comunque, ammettendo che la “società” sia un insieme intelli-gibile e oggettivo, introdurremmo un’altra ipotesi incompatibilecon la nostra analisi, se attribuiamo a questa totalità razionale ilcarattere di un principio che soggiace al sociale inteso cometotalità empirica. Così non ci sarebbe allora più alcun aspettodella seconda che non possa essere riassorbito come momentodella prima. In questo caso gli antagonismi, come ogni altracosa, dovrebbero essere momenti interni positivi della società, ecosì saremmo ritornati all’hegeliana astuzia della ragione. Ma semanteniamo la nostra idea del sociale come spazio non sutura-to, come campo nel quale tutte le positività sono metaforiche epossono essere sovvertite, allora non c’è modo di riferire lanegazione di una posizione oggettiva a una positività soggiacen-te – sia essa causale o di altro tipo – che ne dovrebbe rendereconto. L’antagonismo come negazione di un ordine dato è, sem-plicemente, il limite di quell’ordine, non il momento di una tota-

Page 204: opuscula /193 - Monoskop

204

lità più grande in relazione alla quale i due poli dell’antagoni-smo costituirebbero istanze parziali e differenziali, ovverooggettive (sia chiaro: le condizioni che rendono possibile l’an-tagonismo possono essere descritte come positività, ma l’anta-gonismo come tale non è a queste riducibile).

Dobbiamo considerare questa “esperienza” del limite delsociale da due diversi punti di vista. Da una parte, come l’espe-rienza di un fallimento. Se il soggetto si costruisce tramite il lin-guaggio, come incorporazione parziale e metaforica all’internodi un ordine simbolico, ogni messa in discussione di quest’ordi-ne deve costituire per forza una crisi di identità. Ma, dall’altra,questa esperienza del fallimento non rappresenta un accesso aun diverso ordine ontologico, a qualcosa che sta oltre le diffe-renze, semplicemente perché… non c’è alcun oltre. Il limite delsociale non può essere tracciato come una frontiera che separadue territori – perché la percezione di una frontiera presupponela percezione di un qualcosa oltre ad essa, che sarebbe oggetti-vo e positivo – ovvero come una nuova differenza. Il limite delsociale deve essere dato all’interno del sociale stesso come qual-cosa che lo sovverte, che distrugge le sue ambizioni di essereuna presenza piena. La società non riesce mai pienamente adessere società, perché ogni cosa in essa è permeata dai suoi limi-ti, che le impediscono di costituirsi coma una realtà oggettiva.Dobbiamo ora considerare il modo in cui questa sovversione ècostruita discorsivamente. Come abbiamo visto, questo richie-derà di determinare le forme assunte dalla presenza dell’antago-nistico in quanto tale.

Equivalenza e differenza

Come si verifica questa sovversione? Coma abbiamo visto,la condizione di una presenza piena è l’esistenza di uno spaziochiuso nel quale ogni posizione differenziale è fissata come unmomento specifico e insostituibile. Così la prima condizioneper il sovvertimento di questo spazio, per impedirne la chiusu-ra, è che si dissolva la specificità di ogni posizione. È a questo

Page 205: opuscula /193 - Monoskop

205

punto che i nostri ragionamenti precedenti sulla relazione diequivalenza acquisiscono tutta la loro rilevanza. Facciamo unesempio. In un paese colonizzato, la presenza del potere domi-nante viene resa evidente ogni giorno da una serie di elementi:differenze di vestiario, di lingua, del colore della pelle, di costu-mi. Dal momento che ognuno di questi elementi è equivalenteagli altri nei termini della loro comune differenziazione daicolonizzati, esso perde la sua condizione di momento differen-ziale e acquisisce il carattere fluttuante di un elemento. Così l’e-quivalenza crea un secondo significato che, sebbene parassitariorispetto al primo, la sovverte: le differenze si neutralizzano nellamisura in cui sono usate per esprimere qualcosa di identico chesoggiace a tutte quante. Il problema è di determinare il contenu-to di questo “qualcosa di identico” presente nei vari termini del-l’equivalenza. Se, tramite la catena di equivalenze, vengonoperse tutte le determinazioni oggettive differenziali dei suoi ter-mini, allora l’identità può essere data solamente o da una deter-minazione positiva che soggiace a tutte, o dal riferimento comu-ne a qualcosa di esterno. La prima possibilità è esclusa: unadeterminazione comune positiva si esprime in maniera diretta,senza richiedere una relazione di equivalenza. Ma il riferimentocomune esterno non può essere qualcosa di positivo, perché inquesto caso la relazione tra i due poli potrebbe anche esserecostruita in un modo diretto e positivo, e questo renderebbeimpossibile la cancellazione completa delle differenze implica-te da una relazione di equivalenza totale. È questo il caso, peresempio, dell’analisi che fa Marx delle relazioni di equivalenza.La non-materialità del lavoro come sostanza del valore è espres-sa attraverso l’equivalenza tra merci materialmente diverse.Tuttavia la materialità delle merci e la non materialità del valo-re non sono equivalenti l’una all’altra. È per questo che la distin-zione valore d’uso/valore di scambio può essere pensata nei ter-mini di posizioni differenziali, e quindi positive. Ma se tutte lecaratteristiche differenziali di un oggetto sono divenute equiva-lenti è impossibile esprimere qualsiasi cosa di positivo rispettoa questo oggetto, e questo può solo comportare che attraversol’equivalenza viene espresso qualcosa che non è l’oggetto. Così,

Page 206: opuscula /193 - Monoskop

206

una relazione di equivalenza che assorba tutte le determinazionipositive del colonizzatore in opposizione al colonizzato noncrea un sistema di posizioni differenziali positive tra i due, perla semplice ragione che dissolve ogni positività: il colonizzato-re viene costruito discorsivamente come l’anti-colonizzato. Inaltre parole, l’identità è divenuta puramente negativa. Proprioperché un’identità negativa non può essere rappresentata inmaniera diretta – ovvero positivamente – essa può essere rap-presentata solo in modo indiretto, attraverso un’equivalenza trai suoi momenti differenziali. Da qui l’ambiguità che attraversaogni relazione di equivalenza: due termini, per essere equiva-lenti, devono essere diversi, altrimenti ci sarebbe una sempliceidentità. D’altra parte, l’equivalenza esiste solo attraverso l’attodi sovversione del carattere differenziale di quei termini. Questoè proprio il punto in cui, come abbiamo detto prima, il contin-gente sovverte il necessario impedendogli di costituirsi piena-mente. Questa non-costitutività – o contingenza – del sistema didifferenze si rivela nella non-fissità introdotta dalle equivalen-ze. Il carattere definitivo di questa non-fissità, l’estrema preca-rietà di tutte le differenze, si mostrerà così in una relazione ditotale equivalenza, dove viene dissolta la positività differenzialedi tutti i suoi termini. È precisamente questa la formula dell’an-tagonismo, che si instaura così come il limite del sociale.Dobbiamo notare come, in questa formula, non si stia parlandodi un polo definito come positività che si confronta con un polonegativo: dal momento che tutte le determinazioni differenzialidi un polo si sono dissolte nel loro riferimento negativo-equiva-lenziale all’altro polo, ognuna di loro mostra esclusivamentequello che non è.

Ripetiamolo ancora una volta: essere qualcosa vuol diresempre non essere qualcos’altro (essere A implica il non essereB). Quello che vogliamo sostenere non è questa banalità, vistoche si situa su un terreno logico totalmente dominato dal princi-pio di contraddizione: non essere qualcosa è semplicemente laconseguenza logica di essere qualcosa di diverso; la positivitàdell’essere domina la totalità del discorso. Intendiamo sostene-re qualcosa di diverso: che alcune forme discorsive, attraverso

Page 207: opuscula /193 - Monoskop

207

l’equivalenza, annullano ogni positività dell’oggetto e dannoun’esistenza reale alla negatività come tale. Questa impossibi-lità del reale – la negatività –raggiunge una forma di presenza.Siccome il sociale è innervato dalla negatività – ovvero dall’an-tagonismo – esso non raggiunge lo statuto della trasparenza,della piena presenza, e l’oggettività delle sue identità è costan-temente sovvertita. Ne consegue che la relazione impossibile tral’oggettività e la negatività è divenuta costitutiva del sociale.Rimane anche l’impossibilità della relazione: è per questo moti-vo che la coesistenza dei suoi termini deve essere pensata noncome una relazione oggettiva di frontiere, ma come la sovver-sione reciproca dei loro contenuti.

Quest’ultimo punto è importante: se la negatività e l’og-gettività esistono solo nella loro sovversione reciproca, questosignifica che né le condizioni di equivalenza totale, né quelle ditotale oggettività differenziale sono mai pienamente raggiunte.La condizione di equivalenza totale è che lo spazio discorsivosia diviso rigorosamente in due campi. L’antagonismo nonammette un tertium quid. Ed è semplice capirne il motivo.Perché se possiamo differenziare la catena di equivalenze inrelazione a qualcos’altro rispetto a ciò cui si oppone, i suoi ter-mini non possono essere definiti esclusivamente in manieranegativa. Le avremmo assegnato una posizione specifica in unsistema di relazioni, l’avremmo cioè dotata di una nuova ogget-tività. La logica della sovversione delle differenze troverebbequi un limite. Ma proprio come la logica della differenza nonriesce mai a costituire uno spazio pienamente suturato, così nonci riesce nemmeno la logica dell’equivalenza. La dissoluzionedel carattere differenziale delle posizioni degli agenti sociali tra-mite la condensazione equivalenziale non è mai completa. Se lasocietà non è totalmente possibile, essa non è nemmeno total-mente impossibile. Questo ci permette di formulare la seguenteconclusione: se la società non è mai trasparente a se stessa, per-ché è incapace di costituirsi come un campo oggettivo, nemme-no l’antagonismo lo è, visto che non riesce a dissolvere total-mente l’oggettività del sociale.

A questo punto dobbiamo procedere considerando la strut-

Page 208: opuscula /193 - Monoskop

208

tura degli spazi politici dal punto di vista delle logiche oppostedell’equivalenza e della differenza. Prendiamo alcuni esempiopposti di situazioni nelle quali l’una o l’altra prevalgono. Unesempio estremo della logica dell’equivalenza può essere rin-tracciato nei movimenti millenaristi. Qui il mondo si divide,grazie a un sistema di equivalenze paratattiche, in due campi: lacultura contadina che rappresenta l’identità del movimento e lacultura cittadina che incarna il male. La seconda è il rovescionegativo della prima. Viene raggiunta una separazione massima:nessun elemento nel sistema di equivalenze entra in relazione,se non quelli di opposizione all’altro sistema. Non c’è una madue società. E, quando ha luogo la rivolta millenarista, l’assaltoalla città è feroce, totale e indiscriminato: non esistono discorsiin grado di stabilire differenze all’interno di una catena equiva-lenziale nella quale tutti gli elementi, e ciascuno in particolare,rappresentino il male (l’unica alternativa è l’emigrazione mas-siccia verso un’altra regione per costruire la Città di Dio, com-pletamente isolata dalla corruzione del mondo). Prendiamo oraun esempio opposto: la politica di Disraeli nel diciannovesimosecolo. Disraeli, come romanziere, era partito dalla sua ideadelle due nazioni, ovvero dall’idea di una divisione rigida dellasocietà nei due estremi della povertà e della ricchezza. A questadivisione dobbiamo aggiungere quella altrettanto netta dellospazio politico europeo tra gli “anciens régimes” e il “popolo”(la prima metà del diciannovesimo secolo, con il combinatodisposto della rivoluzione industriale e della rivoluzione demo-cratica, è stata l’età delle catene di equivalenza frontali). Eraquesta la situazione che Disraeli voleva cambiare, e il suo primoobiettivo fu quello di superare la divisione paratattica dello spa-zio sociale, ovvero l’impossibilità di costruire la società. La suaera una formula chiara: “one nation”. Per questo, fu necessariorompere il sistema di equivalenze che aveva inventato la sogget-tività rivoluzionaria popolare, allargando il repubblicanesimo aun insieme mutevole di rivendicazioni sociali e politiche. Ilmetodo di questa rottura era l’assorbimento differenziale dellerivendicazioni, che le isolava dalle loro catene di equivalenzanella catena popolare e le trasformava in differenze oggettive

Page 209: opuscula /193 - Monoskop

209

all’interno del sistema. Le trasformava cioè in “positività”, spo-stando così le frontiere dell’antagonismo alla periferia del socia-le. Questa costituzione di uno spazio puro di differenze sarebbestata una linea tendenziale, che più tardi fu ampliata e confer-mata con lo sviluppo del welfare state. È questo il momento del-l’illusione positivista secondo la quale l’insieme del sociale puòessere assorbito nella struttura intelligibile e ordinata di unasocietà.

Vediamo così che la logica dell’equivalenza è una logicadella semplificazione dello spazio politico, mentre la logicadella differenza è una logica della sua espansione e della suacrescente complessità. Prendendo un esempio comparativo dallalinguistica, potremmo dire che la logica della differenza tende aespandere il polo sintagmatico del linguaggio, il numero di posi-zioni che possono entrare in una relazione di combinazione, eperciò di continuità, le une con le altre; mentre la logica dell’e-quivalenza espande il polo paradigmatico – cioè gli elementiche possono essere sostituiti gli uni con gli altri – riducendo cosìil numero di posizioni che possono essere combinate.

Finora, quando abbiamo parlato di antagonismo, l’abbiamodeclinato al singolare in modo da semplificare il nostro ragio-namento. Ma è chiaro che l’antagonismo non emerge necessa-riamente in un unico punto: ogni posizione in un sistema di dif-ferenze, in quanto viene negata, può diventare il luogo di unantagonismo. Ci sono quindi una varietà di possibili antagoni-smi nel sociale, molti dei quali in opposizione l’uno con l’altro.Il problema importante è che le catene di equivalenza varianoradicalmente in base all’antagonismo coinvolto; e possonoinfluenzare e attraversare, in modo contraddittorio, l’identitàstessa del soggetto. Questo ci porta alla seguente conclusione:più sono instabili le relazioni sociali, meno un sistema definitodi differenze è riuscito, e più i punti di antagonismo si moltipli-cano. Questa proliferazione dei punti di antagonismo rende piùdifficile la costruzione di qualsiasi centralità e, di conseguenza,l’instaurazione di catene di equivalenza unificate (è questa, piùo meno, la situazione descritta da Gramsci con il termine di“crisi organica”).

Page 210: opuscula /193 - Monoskop

210

Sembra che allora che il nostro problema possa essere ridot-to, nell’analisi degli spazi politici che sono alla base degli anta-gonismi, alla determinazione dei punti di rottura e dei loro pos-sibili modi di articolazione. Ma qui entriamo in un territorio peri-coloso, nel quale piccole variazioni nel nostro ragionamento pos-sono portare a conclusioni radicalmente sbagliate. Partiremoquindi da una descrizione impressionistica per poi cercare dideterminare le condizioni di validità di questa immagine descrit-tiva. Sembra che che un’importante caratteristica differenzialepossa essere stabilita tra le società industriali avanzate e la peri-feria del mondo capitalistico: nelle prime, la proliferazione deipunti di antagonismo consente la moltiplicazione delle lottedemocratiche, ma queste lotte, data la loro diversità, non tendo-no a costituire un “popolo”, ovvero a entrare in equivalenza leune con le altre e a dividere lo spazio politico in due campi anta-gonisti. Al contrario, nei paesi del Terzo Mondo, lo sfruttamentoimperialista e la predominanza di forme brutali e centralizzate didominio tendono dall’inizio a dotare la lotta popolare di un cen-tro, di un nemico unico e ben definito. Qui la divisione dello spa-zio politico in due campi è presente fin dall’inizio, ma la diver-sità delle lotte democratiche è più ridotta. Useremo il termineposizioni soggettive popolari per riferirci alle posizioni che sicostituiscono sulla base della divisione dello spazio politico indue campi antagonisti, e posizioni soggettive democratiche perriferirci al luogo di un antagonismo chiaramente delimitato chenon divide la società in questo modo.

Ora, questa distinzione descrittiva ci pone di fronte a unaseria difficoltà. Questo perché se una lotta democratica nondivide lo spazio politico in due campi, in due serie paratattichedi equivalenze, allora l’antagonismo democratico occupa unposto specifico in un sistema di relazioni con altri elementi;viene istituito un sistema di relazioni positive tra loro, e c’è unadiminuzione della carica di negatività connessa all’antagoni-smo. Da qui non c’è che un passo dall’affermare che le lottedemocratiche – femminismo, anti razzismo, movimento gay,ecc. – sono lotte secondarie, e che la lotta per la “presa del pote-re” nel senso classico è l’unica veramente radicale, visto che

Page 211: opuscula /193 - Monoskop

211

presuppone proprio questa divisione dello spazio politico in duecampi. Il problema sorge però dal fatto che, nella nostra analisi,non abbiamo dato una definizione precisa della nozione di “spa-zio politico”, così che è stato fatto surrettiziamente coinciderecon la formazione sociale empiricamente data. Questa è di certoun’identificazione illegittima. Ogni lotta democratica nasceall’interno di un insieme di posizioni, all’interno di uno spaziopolitico relativamente suturato formato da una molteplicità dipratiche che non esauriscono la realtà referenziale ed empiricadi riferimento degli agenti che ne fanno parte. La chiusura rela-tiva di questo spazio è necessaria alla costruzione discorsiva del-l’antagonismo, dato che la delimitazione di una certa interioritàè necessaria per costruire una totalità che permetta la divisionedi questo spazio in due campi. In questo senso, l’autonomia deimovimenti sociali è qualcosa di più di un requisito di alcunelotte per potersi sviluppare senza interferenze: è un requisitodell’emersione dell’antagonismo in quanto tale. Lo spazio poli-tico della lotta femminista si costituisce all’interno dell’insiemedi pratiche e di discorsi che creano le diverse forme della subor-dinazione femminile, lo spazio della lotta antirazzista all’inter-no dell’insieme surdeterminato delle pratiche che costituisconola discriminazione razziale. Ma gli antagonismi all’interno diognuno di questi spazi relativamente autonomi dividono questistessi spazi in due campi. Questo spiega il fatto che, quando lelotte sociali non sono dirette contro oggetti costituiti all’internodel loro stesso spazio, ma contro semplici referenti empirici –per esempio gli uomini o i bianchi come referenti biologici –esse si trovano in difficoltà. Questo perché tali lotte ignorano laspecificità degli spazi politici nei quali emergono gli altri anta-gonismi democratici. Si prenda ad esempio un discorso che pre-senti l’uomo, come realtà biologica, come il nemico. Cosa acca-drà a un discorso di questo tipo quando diventerà necessario svi-luppare antagonismi come la lotta per la libertà di espressione ola lotta contro la monopolizzazione del potere economico cheriguardano entrambi, sia gli uomini sia le donne? Quanto al ter-reno dove quegli spazi diventano autonomi gli uni dagli altri, inparte è costituito dalle formazioni discorsive che hanno istitu-

Page 212: opuscula /193 - Monoskop

212

zionalizzato le diverse forme di subordinazione e, in parte, è ilrisultato delle lotte stesse.

Una volta costruito il terreno teorico che permette di spie-gare il carattere radicale e antagonista delle lotte democratiche,cosa rimane della specificità del campo “popolare”? La non-cor-rispondenza tra lo “spazio politico” e la “società” come referen-te empirico non annulla l’unico criterio differenziale tra “il popo-lare” e “il democratico”? La risposta è che lo spazio politico delpopolare emerge in quelle situazioni dove, grazie a una catena diequivalenze democratiche, una logica politica tende a chiudere lafrattura tra lo spazio politico e la società come referente empiri-co. Così pensate, le lotte popolari hanno luogo solamente nelcaso di relazioni di estrema esteriorità tra i gruppi dominanti e ilresto della comunità. Nel caso del millenarismo, cui ci siamorichiamati poco sopra, la questione è evidente: tra la comunitàcontadina e la comunità urbana dominante non ci sono pratica-mente elementi in comune; e in questo senso tutti gli aspetti dellacultura urbana possono essere simboli dell’anti-comunità. Serivolgiamo lo sguardo al ciclo di espansione e costituzione deglispazi popolari in Europa Occidentale, notiamo come tutti questicasi abbiano coinciso con il fenomeno di esternalità o di ester-nalizzazione del potere. Gli inizi del patriottismo populista inFrancia coincisero con la Guerra dei cento anni, ovvero nelmezzo di una divisione dello spazio politico come risultato diqualcosa tanto esterno quanto la presenza di una potenza stranie-ra. La costruzione simbolica di uno spazio nazionale tramite l’a-zione di una figura plebea come Giovanna D’Arco è, in EuropaOccidentale, uno dei primi momenti di emergenza del “popolo”come agente storico. Nel caso dell’ancien régime e dellaRivoluzione francese la frontiera del popolare è divenuta unafrontiera interna, e la sua condizione è divenuta la separazione eil parassitismo della nobiltà e della monarchia rispetto al restodella nazione. Ma, nei paesi a capitalismo avanzato, fin dallametà del diciannovesimo secolo, attraverso il processo che abbia-mo mostrato, la moltiplicazione e lo “sviluppo ineguale” delleposizioni democratiche hanno reso difficile la loro semplice eautomatica unità intorno a un polo popolare. In parte a causa del

Page 213: opuscula /193 - Monoskop

213

loro stesso successo, le lotte democratiche tendono sempre menoa unirsi come “lotte popolari”. Le condizioni della lotta politica,nel capitalismo maturo, sono sempre più distanti dal modelloottocentesco di una “politica di frontiere” nettamente delimitate,tendono invece ad adottare uno schema nuovo che tenteremo dianalizzare nel prossimo capitolo. La produzione di “effetti difrontiera” – condizione dell’espansione della negatività che per-tiene agli antagonismi – cessa così di fondarsi su una separazio-ne evidente e già data, in una struttura referenziale acquisita unavolta per tutte. La produzione di questa struttura, la costituzionedelle stesse identità che si confronteranno antagonisticamentel’un l’altra, diventa adesso il primo dei problemi politici. Questoamplia immensamente il campo delle pratiche articolatorie, e tra-sforma ogni frontiera in qualcosa di essenzialmente ambiguo einstabile, soggetto a continui spostamenti. Raggiunto questopunto, disponiamo di tutti gli elementi teorici necessari a deter-minare la specificità del concetto di egemonia.

Egemonia

Dobbiamo vedere ora come le nostre diverse categorie teo-riche si combinano per produrre il concetto di “egemonia”. Ilcampo generale di emergenza dell’egemonia è quello delle pra-tiche articolatorie, ovvero un campo in cui gli “elementi” non sisono cristallizzati in “momenti”. In un sistema chiuso di identitàrelazionali, nel quale il significato di ogni momento è assoluta-mente fissato, non c’è posto per alcuna pratica egemonica. Unsistema di differenze pienamente riuscito, che escludesse ognisignificante fluttuante, non renderebbe possibile alcuna articola-zione; il principio di ripetizione dominerebbe ogni pratica all’in-terno del sistema e non ci sarebbe niente da egemonizzare. È per-ché l’egemonia presuppone il carattere incompleto e aperto delsociale che può aver luogo solamente in un campo dominatodalle pratiche articolatorie.

Questo pone però immediatamente un problema: qual è ilsoggetto articolatore? Abbiamo già considerato la risposta data

Page 214: opuscula /193 - Monoskop

214

dal marxismo della Terza internazionale a questo problema: daLenin a Gramsci viene sostenuto – con tutte le sfumature e le dif-ferenze che abbiamo analizzato – che il nucleo fondamentale diuna forza egemonica è composto da una classe fondamentale. Ladifferenza tra una forza egemonica e una egemonizzata vieneposta come differenza ontologica tra i rispettivi piani di costitu-zione. Le relazioni egemoniche sono relazioni sintattiche fonda-te sulle categorie morfologiche che le precedono. Ma è chiarocome questa non possa essere la nostra risposta, perché è proprioquesta differenza di piani che tutta la nostra analisi ha cercato didissolvere. Ci troviamo ancora una volta di fronte all’alternativainteriorità/esteriorità, alle due soluzioni ugualmente essenzialisteche ci troveremmo ad affrontare se le accettassimo come scelteesclusive. Il soggetto egemonico, come soggetto di ogni praticaarticolatoria, deve essere parzialmente esteriore a ciò che artico-la, altrimenti non ci sarebbe alcuna articolazione. D’altra parteperò tale esteriorità non può essere intesa come quella esistentetra due diversi livelli ontologici. Sembra che, quindi che la solu-zione debba essere quella di reintrodurre la nostra distinzione tradiscorso e terreno generale della discorsività: in questo caso, siala forza egemonica sia l’insieme degli elementi egemonizzati sicostituirebbero sullo stesso piano – il terreno generale delladiscorsività – mentre l’esteriorità sarebbe quella corrispondentea diverse formazioni discorsive. È certamente così, ma bisognaancora precisare che questa esteriorità non può corrispondere adue formazioni discorsive pienamente costituite. Questo perchéciò che caratterizza una formazione discorsiva è la regolaritànella dispersione, e se questa esteriorità fosse una caratteristicaregolare nella relazione tra le due formazioni diventerebbe unanuova differenza, e le due formazioni non sarebbero, in sensostretto, esterne l’una all’altra (e con questo sparirebbe ancora unavolta la possibilità di ogni articolazione). Quindi, se l’esterioritàsupposta dalla pratica articolatoria si situa sul terreno generaledella discorsività, non può però corrispondere a due sistemi didifferenze pienamente costituiti. Deve quindi essere l’esterioritàche esiste tra le posizioni soggettive, che si trovano all’interno dialcune formazioni discorsive, e gli “elementi” che non hanno una

Page 215: opuscula /193 - Monoskop

215

precisa articolazione discorsiva. È questa ambiguità che rendepossibile l’articolazione come pratica che istituisce punti nodaliche fissano parzialmente il significato del sociale in un sistemaorganizzato di differenze.

Ora dobbiamo prendere in considerazione la specificitàdella pratica egemonica all’interno del campo generale delle pra-tiche articolatorie. Iniziamo da due situazioni che non caratteriz-zeremmo come articolazioni egemoniche. A uno degli estremipossiamo riferirci, per esempio, a una riorganizzazione di uninsieme di funzioni burocratico-amministrative, secondo un cri-terio di efficienza e razionalità. Sono presenti in questo casodegli elementi che sono centrali in ogni pratica articolatoria: lacostituzione di un sistema organizzato di differenze – quindi dimomenti – che partono da elementi disgregati e dispersi. Ma qui,tuttavia, non possiamo parlare di egemonia. Il motivo è che perparlare di egemonia il momento articolatorio non è sufficiente. Ènecessario anche che l’articolazione abbia luogo attraverso unoscontro con le pratiche articolatorie antagoniste: in altre parole,che l’egemonia emerga in un campo attraversato dagli antagoni-smi e che presupponga quindi fenomeni di equivalenza ed effet-ti di frontiera. Ma, al contrario, non ogni antagonismo presuppo-ne pratiche egemoniche. Nel caso del millenarismo abbiamo, peresempio, un antagonismo nella sua forma più pura, eppure nonc’è egemonia perché non c’è articolazione di elementi fluttuanti:la distanza tra le due comunità è data immediatamente, acquisitafin dall’inizio, e non presuppone alcuna costruzione articolato-ria. Le catene di equivalenza non costruiscono lo spazio comuni-tario, agiscono piuttosto su spazi comunitari preesistenti. Così, ledue condizioni di un’articolazione egemonica sono la presenzadi forze antagonistiche e l’instabilità delle frontiere che le sepa-rano. Solo la presenza di un grande insieme di elementi fluttuan-ti e la possibilità della loro articolazione in campi avversi – il cheimplica una costante ridefinizione di questi ultimi – costituisce ilterreno che ci permette di definire una pratica come egemonica.Senza equivalenza e senza frontiere non è possibile parlare pro-priamente di egemonia.

A questo punto è chiaro come possiamo recuperare i con-

Page 216: opuscula /193 - Monoskop

216

cetti base dell’analisi gramsciana, anche se sarà necessario radi-calizzarli in una direzione che ci porterà oltre Gramsci.Chiameremo, seguendo Gramsci, una congiuntura di crisi orga-nica quella in cui c’è un indebolimento generalizzato del sistemarelazionale che definisce le identità di uno spazio politico osociale dato, e nella quale, di conseguenza, c’è una proliferazio-ne di elementi fluttuanti. Questa crisi organica non emerge da unsingolo punto, ma è il risultato di una surdeterminazione di cir-costanze, e si manifesta non solo in una proliferazione di anta-gonismi, ma anche in una crisi generale delle identità sociali.Uno spazio politico e sociale relativamente unificato tramite l’i-stituzione di punti nodali e la costruzione di identità tendenzial-mente relazionali è quello che Gramsci chiama un blocco. Il tipodi legame che unisce i diversi elementi del blocco storico – nonl’unità nella forma di ogni a priori storico, ma la regolarità nelladispersione – coincide con il nostro concetto di formazionediscorsiva. Nella misura in cui considereremo il blocco storicodal punto di vista del terreno antagonistico sul quale si costitui-sce, lo chiameremo formazione egemonica.

Infine, proprio perché la formazione egemonica implica unfenomeno di frontiere, il concetto di guerra di posizione mostrail suo pieno valore. Con questo concetto Gramsci determina dueimportanti effetti teorici. Il primo è la conferma impossibilità diogni chiusura del sociale: se la frontiera è interna al sociale èinfatti impossibile sussumere la formazione sociale come refe-rente empirico sotto le forme intelligibili di una società. Ogni“società” costituisce le proprie forme di razionalità e intelligibi-lità dividendosi, ovvero espellendo fuori di essa ogni surplus disignificato che la sovverte. Ma, d’altra parte, nella misura in cuiquesta frontiera varia con le fluttuazioni della “guerra di posi-zione”, cambia anche l’identità degli attori che si confrontano, edè perciò impossibile trovare in loro quell’ancoraggio finale chenon ci viene offerto da alcuna totalità suturata. Prima abbiamodetto che il concetto di guerra di posizione porta a una demilita-rizzazione della guerra; in realtà fa qualcosa di più: introduceun’ambiguità radicale all’interno del sociale che impedisce lasua fissazione in un significato trascendentale. Questo è anche il

Page 217: opuscula /193 - Monoskop

217

punto nel quale il concetto di guerra di posizione mostra i suoilimiti. La guerra di posizione presuppone la divisione dello spa-zio sociale in due campi e presenta l’articolazione egemonicacome una logica di mobilità della frontiera che li separa. È peròevidente come questa ipotesi sia illegittima: l’esistenza di duecampi può in alcuni casi essere un effetto dell’articolazione ege-monica, ma non la sua condizione a priori, poiché, se lo fosse, ilterreno sul quale l’articolazione egemonica opererebbe nonsarebbe esso stesso il prodotto di quell’articolazione. La gram-sciana guerra di posizione presuppone il tipo di divisione dellospazio politico che abbiamo caratterizzato come specifico delleidentità popolari. Il passo avanti rispetto alla concezione otto-centesca del “popolo” consiste nel fatto che, per Gramsci, taleidentità popolare non è più qualcosa di semplicemente dato, maqualcosa che deve essere costruita: da qui la logica articolatoriadell’egemonia. Rimane comunque, della vecchia concezione, l’i-dea che tale costruzione funzioni sempre sulla base di un’espan-sione delle frontiere all’interno di uno spazio politico diviso inmodo dicotomico. È in questo momento che il punto di vistagramsciano diventa inaccettabile. Come abbiamo già detto, laproliferazione di questi spazi politici, la complessità e la diffi-coltà della loro articolazione, sono caratteristiche centrali delleformazioni sociali capitalistiche avanzate. Conserveremo cosìdel punto di vista gramsciano la logica dell’articolazione e lacentralità politica degli effetti di frontiera, ma rifiuteremo l’as-sunto di un singolo spazio politico come struttura necessaria perl’emergere di questi fenomeni. Parleremo quindi di lotte demo-cratiche quando implicano una pluralità di spazi politici, e dilotte popolari quando alcuni discorsi costruiscono tendenzial-mente la divisione di un singolo spazio politico in due campicontrapposti. Ma è chiaro che il concetto fondamentale è quellodi “lotta democratica”, e che le lotte popolari sono semplice-mente delle congiunture specifiche che risultano dalla moltipli-cazione degli effetti di equivalenza tra le lotte democratiche.

È chiaro, da quanto detto sopra, che ci siamo allontanati dadue aspetti centrali del pensiero di Gramsci: a) la sua insistenzasul fatto che i soggetti egemonici si costituiscono necessaria-

Page 218: opuscula /193 - Monoskop

218

mente sul piano delle classi fondamentali; b) il suo postulato che,con l’eccezione dell’interregno rappresentato dalla crisi organi-ca, ogni formazione sociale si struttura attorno a un singolo cen-tro egemonico. Come abbiamo già detto, questi sono gli ultimidue elementi essenzialisti che restano nel pensiero gramsciano.Avendoli abbandonati, dobbiamo ora confrontarci con due seriedi problemi che a Gramsci non si presentavano.

Il primo problema riguarda la separazione dei piani, ilmomento esterno che l’egemonia presuppone come ogni altrarelazione articolatoria. Come abbiamo visto, questo non è unproblema per Gramsci, visto che il nocciolo di classe di una“volontà collettiva” non è, nella sua analisi, il risultato di artico-lazioni egemoniche. Ma come stanno le cose una volta che il pri-vilegio ontologico di questo nocciolo duro viene abolito? Se, nelcaso di un’egemonia realizzata, le pratiche articolatorie sono riu-scite a costruire un sistema strutturale di differenze, di identitàrelazionali, non sparisce così anche il carattere esterno dellaforza egemonica? Non diviene una nuova differenza all’internodel blocco storico? La risposta deve essere per forza affermativa.Una situazione nella quale un sistema di differenze è stato cosìben saldato implica la fine della forma egemonica della politica.In questo caso ci sarebbero relazioni di subordinazione o di pote-re, ma non, a rigor di termini, relazioni egemoniche. Con lascomparsa della separazione dei piani, del momento di esterio-rità, sparirebbe anche il campo delle pratiche articolatorie. Ladimensione egemonica della politica si espande solo se aumentail carattere aperto, non suturato del sociale. In una comunità con-tadina medioevale, lo spazio aperto alle articolazioni differenzia-li è minimo, e non ci sono di conseguenza forme egemoniche diarticolazione: c’è una transizione brusca dalle pratiche ripetitiveall’interno di un sistema chiuso di differenze alle equivalenzefrontali e assolute quando la comunità si trova in pericolo. È perquesto che la forma egemonica della politica diviene dominantesolo all’inizio dell’epoca moderna, quando la riproduzione dellediverse aree sociali ha luogo in condizioni sempre mutevoli, cherichiedono costantemente la costruzione di nuovi sistemi di dif-ferenze. Da qui l’area delle pratiche articolatorie viene immen-

Page 219: opuscula /193 - Monoskop

219

samente ampliata. Così recedono le condizioni e la possibilità diuna fissazione pura delle differenze; ogni identità sociale divie-ne il punto di incontro di una molteplicità di pratiche articolato-rie, molte delle quali antagonistiche. In queste circostanze non èpossibile arrivare a una completa interiorizzazione che colmi deltutto il vuoto tra l’articolato e l’articolatore. Ma è importante sot-tolineare come non è nemmeno possibile per l’identità dellaforza articolatoria rimanere separata e immutata. Entrambe sonosoggette a un processo costante di sovversione e ridefinizione. Atal punto che nemmeno un sistema di equivalenze è immune dalpericolo di trasformarsi in una nuova differenza: è noto comel’opposizione frontale di molti gruppi a un sistema può cessaredi essere esterna e diventare semplicemente una posizione con-traddittoria ma interna a quel sistema, vale a dire un’altra diffe-renza. Una formazione egemonica comprende anche quello chegli si oppone, nella misura in cui la forza di opposizione accettail sistema di articolazioni fondamentali di quella formazionecome qualcosa che nega; ma il luogo della negazione viene defi-nito dai parametri interni della formazione stessa. Così, la deter-minazione teorica delle condizioni di estinzione della forma ege-monica della politica spiega anche le ragioni della costanteespansione di queste forme nell’epoca moderna.

Il secondo problema si riferisce all’unicità del centro ege-monico. Una volta rigettato il piano ontologico che iscriverebbel’egemonia come centro del sociale e quindi come sua essenza,non è evidentemente possibile mantenere l’idea dell’unicità delpunto nodale egemonico. L’egemonia è, semplicemente, un tipodi relazione politica, una forma, se si preferisce, della politica;non una posizione determinabile all’interno di una topografia delsociale. In una formazione sociale data ci possono essere unavarietà di punti nodali egemonici. Chiaramente alcuni di loropossono essere fortemente surdeterminati: possono costituirepunti di condensazione di una serie di relazioni sociali e, di con-seguenza, diventare punti focali di una molteplicità di effetti tota-lizzanti. Ma dal momento che il sociale è un’infinitudine nonriducibile ad alcun principio unitario soggiacente, la sempliceidea di un centro del sociale non ha alcun senso. Una volta che

Page 220: opuscula /193 - Monoskop

220

lo statuto del concetto di egemonia e la pluralità caratteristica delsociale vengono ridefiniti in questi termini, dobbiamo interro-garci sulle forme di relazione che esistono tra di loro. Questa irri-ducibile pluralità del sociale è stata spesso intesa come un’auto-nomizzazione delle sfere e delle forme di lotta. Ciò richiede diuna breve analisi di alcuni problemi legati al concetto di “auto-nomia”. Negli anni recenti si è svolto un notevole dibattito, peresempio, rispetto al concetto di “autonomia relativa delloStato”,41 ma per la maggior parte del tempo è stato posto in ter-mini tali da condurlo in un vicolo cieco. In generale, i tentativi dispiegare l’“autonomia relativa dello Stato” furono fatti in unacornice che accettava l’assunto di una società suturata – peresempio, tramite la determinazione in ultima istanza da partedell’economia – così da rendere insolubile il problema dell’auto-nomia relativa, sia quella dello Stato sia di ogni altra entità.Questo perché o la cornice strutturale costituita dalle determina-zioni di base della società spiega non solo i limiti dell’autonomiama anche la natura dell’entità autonoma – nel qual caso questaidentità è un’altra determinazione strutturale del sistema e il con-cetto di “autonomia” è ridondante – oppure l’entità autonomanon è determinata dal sistema, nel qual caso è necessario spiega-re dove si costituisce, e la premessa di una società suturata deveessere comunque scartata. È proprio il desiderio di combinarequesta premessa con un concetto di autonomia con essa incoe-rente che ha rovinato gran parte del dibattito marxista contem-poraneo sullo Stato, in particolare il lavoro di Poulantzas. Se,invece, rinunciamo all’ipotesi di una chiusura definitiva delsociale, diventa necessario partire da una pluralità di spazi poli-tici e sociali che non si riferiscano ad alcuna unità fondamentaleultima. La pluralità non è il fenomeno che deve essere spiegato,ma il punto di partenza dell’analisi. Ma se, come abbiamo visto,l’identità di ognuno di questi spazi è sempre precaria, non è pos-

41. Sui vari modi di affrontare il problema dell’autonomia relativa delloStato nelle differenti teorie marxiste contemporanee, cfr. B. JESSOP, TheCapitalist State, New York University Press, New York and London 1982.

Page 221: opuscula /193 - Monoskop

221

sibile assimilare semplicemente autonomia e dispersione. Né latotale autonomia né la totale subordinazione sono di conseguen-za soluzioni plausibili. Questo indica chiaramente che il proble-ma non può essere risolto sul terreno di un sistema stabile di dif-ferenze; tanto l’autonomia quanto la subordinazione – e i lorodiversi gradi di relatività – sono concetti che acquisiscono il lorosignificato solamente nel campo delle pratiche articolatorie e,dal momento che queste operano su terreni politici attraversati daantagonismi, delle pratiche egemoniche. Le pratiche articolatoriehanno luogo non solo all’interno degli spazi sociali e politicidati, ma tra di loro. L’autonomia dello Stato nel suo insieme –assumendo per un momento che se ne possa parlare come diun’unità – dipende dalla costruzione di uno spazio politico chepuò essere solamente il risultato di articolazioni egemoniche.Qualcosa di analogo può essere detto per il grado di unità e diautonomia che esiste tra le diverse branche e i differenti appara-ti dello Stato. Detto altrimenti, l’autonomizzazione di alcunesfere non è l’effetto strutturale e necessario di niente, è invece ilrisultato di specifiche pratiche articolatorie che costruisconoquesta autonomia. L’autonomia, lontana dall’essere incompati-bile con l’egemonia, è una forma di costruzione egemonica.

Qualcosa di simile può essere detto per l’altro importanteuso fatto del concetto di autonomia negli anni recenti: l’autono-mia legata al pluralismo richiesto dall’espansione dei nuovimovimenti sociali. Qui siamo nella stessa situazione. Se l’iden-tità dei soggetti o delle forze sociali che diventano autonomefosse costituita una volta per tutte, il problema si porrebbe solonei termini dell’autonomia. Ma se queste identità dipendono daalcune precise condizioni di esistenza sociali e politiche, l’auto-nomia stessa può essere difesa e ampliata solamente nei terminidi una più vasta lotta egemonica. I soggetti politici femministi oecologisti, per esempio, sono, in un certo senso, come ogni altraidentità sociale, significanti fluttuanti, ed è un’illusione perico-losa pensare che siano garantiti una volta per sempre, che il ter-reno il quale ha costituito le loro condizioni discorsive di emer-genza non possa essere sovvertito. Il problema dell’egemonia,che arriverebbe a minacciare l’autonomia di alcuni movimenti, è

Page 222: opuscula /193 - Monoskop

222

quindi un problema mal posto. A rigor di termini, questa incom-patibilità esisterebbe solamente se i movimenti sociali fosseromonadi, sconnesse l’una dall’altra; ma se l’identità di ogni movi-mento non può mai essere acquisita una volta per tutte, allora nonpotrà essere indifferente a quello che ha luogo fuori di essa. Che,in alcune circostanze, la soggettività politica di classe dei lavora-tori bianchi in Inghilterra sia surdeterminata da attitudini razzi-ste o anti-razziste è evidentemente importante per la lotta deilavoratori migranti. Questo si ripercuoterà su alcune pratiche delmovimento sindacale, il che avrà a sua volta conseguenze in unaserie di aspetti della politica statale, che si ripercuoterà infinesull’identità politica dei lavoratori migranti stessi. Qui c’è chia-ramente una lotta egemonica, nella misura in cui l’articolazionetra la militanza sindacale dei lavoratori bianchi e il razzismo ol’anti-razzismo non è definita in partenza; ma le forme di questalotta intrapresa dai movimenti anti-razzisti passeranno in parteper l’autonomizzazione di alcune attività e forme organizzative,in parte per sistemi di alleanze con altre forze, in parte per lacostruzione di sistemi di equivalenze tra i contenuti dei diversimovimenti. In effetti, niente può consolidare le lotte anti-razzistepiù della costruzione di forme stabili di surdeterminazione tracontenuti come l’anti-razzismo, l’anti-sessismo e l’anticapitali-smo che, lasciati a se stessi, non convergono necessariamente.Ancora una volta, l’autonomia non si oppone all’egemonia, ma èun momento interno di un’operazione egemonica più ampia (èchiaro come questa operazione non passi necessariamente attra-verso la forma “partito”, né attraverso una singola forma istitu-zionale, né tramite un altro tipo di organizzazione a priori).

Se l’egemonia è un tipo di relazione politica e non un con-cetto topografico, è chiaro come non possa essere concepitacome un’irradiazione di effetti da un punto privilegiato. In que-sto senso possiamo dire che l’egemonia è fondamentalmentemetonimica: i suoi effetti emergono sempre da un surplus disignificato che deriva da un’operazione di spostamento (peresempio, un sindacato o un’organizzazione religiosa possonosvolgere funzioni organizzative in una comunità che vanno al dilà delle tradizionali pratiche a loro assegnate, e che sono com-

Page 223: opuscula /193 - Monoskop

223

battute e difese da forze opposte). Questo momento di disloca-zione è essenziale in ogni pratica egemonica: l’abbiamo visto findalla nascita stessa del concetto nella socialdemocrazia russa,sotto la forma dell’esteriorità dell’identità di classe ai compitiegemonici. La nostra conclusione è che nessuna identità socialeè mai totalmente acquisita; un fatto che dà al momento articola-torio-egemonico la misura della sua centralità. La condizione diquesta centralità è perciò il crollo di una linea di demarcazionenetta tra l’interno e l’esterno, tra il contingente e il necessario.Questo ci porta a un’inevitabile conclusione: nessuna logica ege-monica può rendere conto della totalità del sociale e costituirneil centro, perché in questo caso si produrrebbe una nuova suturae lo stesso concetto di egemonia si autoeliminerebbe. L’aperturadel sociale è quindi la precondizione di ogni pratica egemonica.Ora, questo ci porta necessariamente a una seconda conclusione:la formazione egemonica, per come l’abbiamo rappresentata,non può riferirsi alla logica specifica di una singola forza socia-le. Ogni blocco storico – o formazione egemonica – si costruiscetramite la regolarità nella dispersione, e questa dispersione inclu-de una proliferazione di elementi molto diversi: sistemi di diffe-renze che definiscono parzialmente identità relazionali; catene diequivalenza che le sovvertono ma che possono essere recuperateper trasformazione nella misura in cui il luogo stesso dell’oppo-sizione diventa regolare e, in questo modo, costituisce una nuovadifferenza; forme di surdeterminazione che concentrano o ilpotere o le diverse forme di resistenza al potere; e così via. Ilpunto importante è che ogni forma di potere si costruisce inmodo pragmatico e internamente al sociale, attraverso le logicheopposte dell’equivalenza e della differenza. Il potere non è maifondazionale. Il problema del potere non può quindi essere postonei termini della ricerca della classe o del settore dominante checostituisce il centro di una formazione egemonica, visto che, perdefinizione, tale centro sarà sempre elusivo. Ma è altrettanto sba-gliato proporre come alternativa tanto il pluralismo quanto la dif-fusione totale del potere all’interno del sociale, perché rende-remmo cieca l’analisi di fronte alla presenza di punti nodali e alleconcentrazioni parziali di potere che esistono in ogni concreta

Page 224: opuscula /193 - Monoskop

224

formazione sociale. È a questo punto che possono essere reintro-dotti molti dei concetti dell’analisi classica – “centro”, “potere”,“autonomia” – se il loro statuto viene ridefinito: sono tutte logi-che sociali contingenti che, come tali, acquisiscono il loro signi-ficato in precisi contesti congiunturali e relazionali, dove saran-no sempre limitati da altre logiche, spesso contraddittorie; manessuna di esse avrà una validità assoluta, nel senso di definireuno spazio o un momento strutturale che non possa a sua voltaessere sovvertito. È quindi impossibile arrivare a una teoria delsociale sulla base di un’assolutizzazione di uno qualunque diquesti concetti. Se la società non è suturata da alcuna singolalogica unitaria e positiva, la comprensione che ne abbiamo nonpuò fornirci questa logica. Un approccio “scientifico” che cerchidi determinare l’“essenza” del sociale sarebbe, in realtà, il mas-simo dell’utopismo.

Un punto importante prima di concludere. Nell’argomen-tazione precedente abbiamo parlato di “formazione sociale”come di un referente empirico, e di “formazione egemonica”come di una totalità articolata di differenze. Lo stesso termine –“formazione” – è stato usato in due modi completamente diver-si, e dobbiamo cercare di eliminare l’ambiguità che ne risulta. Ilproblema, nella sua forma più generale, può essere formulatocome segue: se un insieme di agenti empiricamente dati (nel casodi una formazione sociale) o un insieme di momenti discorsivi(nel caso di una formazione egemonica) sono inclusi nella tota-lità implicata dalla nozione di formazione, è perché attraversoquesta totalità è possibile distinguerli rispetto a qualcosa di ester-no a quest’ultima. È quindi sulla base dei suoi stessi limiti cheuna formazione si costituisce come totalità. Se poniamo il pro-blema della costruzione di questi limiti nel caso di una forma-zione egemonica, dobbiamo distinguere due livelli: quello con-nesso alle condizioni astratte di possibilità di ogni “formazione”,e quello connesso alla differenza specifica che introduce la logi-ca dell’egemonia. Iniziamo dallo spazio interno di una forma-zione inteso come sistema relativamente stabile di differenze. Èchiaro come la logica della differenza non sia sufficiente acostruire limiti, perché, se fosse esclusivamente dominante ciò

Page 225: opuscula /193 - Monoskop

225

che sarebbe oltre essa non potrebbero essere che altre differenze,e la loro regolarità le trasformerebbe in una parte della forma-zione stessa. Se rimaniamo nel campo delle differenze, rimania-mo nel campo di un’infinitezza che rende impossibile pensareogni frontiera e che, di conseguenza, dissolve il concetto di “for-mazione”. Cioè, i limiti esistono solamente nel momento in cuiun insieme sistematico di differenze può essere isolato cometotalità rispetto a qualcosa al di là di esse, ed è solo tramite que-sto isolamento che la totalità si costituisce come formazione. Seè chiaro, da quello che abbiamo detto, che questo al di là non puòessere positivo – una nuova differenza – allora l’unica possibilitàè che sia negativo. Ma noi sappiamo già che la logica dell’equi-valenza è quella che introduce la negatività nel campo del socia-le. Questo implica che una formazione riesce a significarsi(ovvero a costituirsi come tale) solo trasformando i limiti in fron-tiere, costruendo una catena di equivalenze che costruisca tantoquello che è al di là dei limiti quanto quello che non lo è. È soloattraverso la negatività, la divisione e l’antagonismo che una for-mazione può costituirsi come un orizzonte totalizzante.

La logica dell’equivalenza è quindi semplicemente la con-dizione di esistenza più astratta e generale di ogni formazione.Per poter parlare di formazione egemonica dobbiamo introdurreun’altra condizione fornita dalla nostra analisi, vale a dire la con-tinua ridefinizione degli spazi sociali e politici e i processicostanti di spostamento dei limiti che costruiscono le divisionisociali e che sono propri delle società contemporanee. È solo aqueste condizioni che le totalità formate dalla logica dell’equiva-lenza acquisiscono un carattere egemonico. Ma questo sembraimplicare che, nella misura in cui questa precarietà tende a ren-dere instabile le frontiere interne del sociale, la stessa categoriadi formazione venga messa in pericolo. E questo è proprio quel-lo che succede: se scompare ogni frontiera, questo non significasoltanto che la formazione è più difficile da riconoscere; dalmomento che la totalità non è un dato ma una costruzione, quan-do si verifica una rottura delle sue catene costitutive di equiva-lenza, la totalità fa più che nascondersi: si dissolve.

Page 226: opuscula /193 - Monoskop

226

Da qui segue che il termine “formazione sociale”, quandoviene usato per designare un referente, non ha alcun senso. Gliagenti sociali non costituiscono, come referenti, alcuna forma-zione. Se il termine “formazione sociale” cerca, per esempio, inuna maniera apparentemente neutrale, di designare gli agentisociali che vivono in un dato territorio, si pone immediatamenteil problema dei limiti di questo territorio. E qui è necessario defi-nire le frontiere politiche, ovvero le configurazioni costituite a unlivello diverso da quello della semplice entità referenziale degliagenti. Ci sono due opzioni: o i limiti politici sono consideraticome semplici dati esterni, nel qual caso espressioni come “for-mazione sociale francese” o “formazione sociale inglese” diffi-cilmente indicano più di “Francia” o “Inghilterra”, e il termine“formazione” è chiaramente esagerato; oppure gli agenti sonointegrati nelle diverse formazioni che li costituiscono, e in que-sto caso non c’è ragione perché queste debbano coincidere conle frontiere nazionali. Alcune pratiche articolatorie le farannocoincidere con i limiti della formazione sociale come tale. Ma inentrambi i casi si tratta di un processo aperto che dipenderà dallemolteplici articolazioni egemoniche che formano un dato spazioe che, allo stesso tempo, operano al suo interno.

In questo capitolo abbiamo tentato di mostrare, in diversipunti del nostro ragionamento, l’apertura e l’indeterminatezzadel sociale, che assegna un carattere primario e fondativo allanegatività e all’antagonismo e che assicura l’esistenza di pratichearticolatorie ed egemoniche. Ora dobbiamo riprendere ancorauna volta la linea del discorso politico dei primi due capitoli,mostrando come l’indeterminatezza del sociale e la logica arti-colatoria che ne deriva permettono di porre in termini nuovi laquestione della relazione tra l’egemonia e la democrazia.

Page 227: opuscula /193 - Monoskop

227

IVEGEMONIA E DEMOCRAZIA RADICALE

Nel novembre del 1937, in esilio a New York, ArthurRosenberg portava a termine le sue riflessioni sulla storia euro-pea contemporanea a partire dalla Rivoluzione francese.1

Queste riflessioni, che concludevano la sua vita di intellettualemilitante, si concentravano su un tema fondamentale: la relazio-ne tra socialismo e democrazia, o meglio, il fallimento dei ten-tativi di costituire tra i due orientamenti forme organiche diunità. Tale duplice scacco – della democrazia e del socialismo –gli appariva come un processo di estraniamento progressivo,dominato da una rottura radicale. Inizialmente la “democrazia”,concepita come un campo di azione popolare, è la grande prota-gonista nei conflitti storici che dominano la vita europea tra il1789 e il 1848. Si tratta del “popolo” (nel senso di plebs piutto-sto che di populus), le masse appena organizzate e differenziateche dominano l’agitazione cartista in Inghilterra e le mobilita-zioni mazziniane e garibaldine in Italia. Avviene poi la rotturaprincipale, costituita dalla lunga reazione degli anni ’50; quan-do tale periodo giunge alla fine e si rinnova la protesta popola-re i protagonisti sono ormai cambiati. Nell’ultimo terzo di seco-lo, ad affermarsi sempre più saldamente, prima in Germania eInghilterra, poi nel resto d’Europa, sono i sindacati e i nascentipartiti socialdemocratici.

1. A. ROSENBERG, Democrazia e socialismo. Storia politica degli ultimicentocinquanta anni (1789-1937), De Donato, Bari 1971.

Page 228: opuscula /193 - Monoskop

228

Questa rottura è stata spesso interpretata come la transizio-ne dei settori dominati a un momento di più elevata razionalitàpolitica: durante la prima metà del secolo il carattere amorfodella “democrazia”, la sua mancanza di radici nella base econo-mica della società, la rendeva essenzialmente vulnerabile einstabile, impedendole di costituirsi in un fronte stabile e per-manente nella lotta contro l’ordine stabilito. Solo con la disinte-grazione di questo “popolo” amorfo e con la sua sostituzionecon la solida base sociale della classe operaia i movimenti popo-lari sarebbero pervenuti alla maturità e, dunque, alla capacità diintraprendere sul lungo termine una lotta contro le classi domi-nanti. Nondimeno, questa transizione mitica a uno stadio piùelevato di maturità sociale come esito dell’industrializzazione,verso un grado più alto di efficacia politica in cui alla furia anar-chica del “popolo” si sarebbero sostituite la razionalità e la soli-dità della politica della classe, poteva apparire a Rosenberg solocome un brutto scherzo, visto che stava scrivendo il suo libromentre la Spagna bruciava, Hitler preparava l’Anschluss eMussolini invadeva l’Etiopia. Per Rosenberg, questo rinserrarsilungo le linee di classe costituiva, al contrario, il grande pecca-to storico del movimento operaio europeo. L’incapacità deglioperai a costituire il “popolo” come agente storico rappresenta-va, a suo parere, il fallimento essenziale della socialdemocrazia,e al tempo stesso il filo di Arianna che gli permetteva di sbro-gliare l’insieme dei tortuosi processi politici cominciati nel1860. La costituzione di un polo popolare unificato, lungi dal-l’essere facilitata, diventava tanto più difficile quanto più la cre-scita di complessità e l’istituzionalizzazione della società capi-talista – le “trincee e le casematte della società civile” di cui par-lava Gramsci – conducevano alla corporativizzazione e allaseparazione di quei settori che avrebbero dovuto unirsi “nelpopolo”. Questo processo di crescita della complessità socialeera già evidente tra il 1789 e il 1848:

Il compito della democrazia nel 1789 consisteva nel condurre inmodo unitario la lotta dei contadini dipendenti contro la nobiltà pos-sidente e la lotta dei cittadini poveri contro il capitale. In quel tempo

Page 229: opuscula /193 - Monoskop

229

ciò era molto più facile di quanto lo fosse nel 1848. Infatti nel frat-tempo il proletariato industriale, sebbene lavorasse per lo più ancorain piccole industrie, era tanto cresciuto d’importanza da far culmina-re ogni problema politico serio nel contrasto tra proletariato e capita-lismo […]. Ci voleva da parte del partito democratico una abilità tat-tica del tutto speciale per riuscire a far convergere il movimento deglioperai e dei contadini. Se si sceglieva di scavalcare contadini possi-denti, per arrivare alle masse dei piccoli affittuari e dei braccianti, eranecessaria una tattica assolutamente realistica e assai complessa. Inquesto modo il compito della democrazia sociale cinquant’anni dopoRobespierre era diventato sempre più difficile e nello stesso temposempre minore la capacità intellettuale dei democratici di risolvere iproblemi.2

Senza alcun dubbio la difficoltà nel costituire un polo anti-sistema popolare non aveva fatto altro che aumentare dopo il1848. In realtà, Rosenberg cercava di orientarsi su un nuovo ter-reno, dominato da un radicale mutamento di cui egli eracosciente solo in parte: il declino di una forma di politica in cuila divisione del sociale in due campi antagonisti era un dato ori-ginale e immutabile, preliminare a ogni costruzione egemoni-ca,3 e la transizione a una nuova situazione caratterizzata daun’essenziale instabilità degli spazi politici, in cui l’identitàstessa delle forze in lotta era soggetta a mutamenti costanti edesigeva un incessante processo di ridefinizione. In altre parole,in modo insieme lungimirante ed esitante, Rosenberg ci descri-veva un processo di generalizzazione della forma egemonicadella politica – che si impone come condizione di emergenza diogni identità collettiva, nel momento in cui le pratiche egemo-

2. Ivi, p. 119.3. Considerata in senso stretto, questa affermazione è di certo esagera-

ta. Il riallineamento delle forze durante la Rivoluzione francese richiese ancheoperazioni egemoniche e implicò alcuni mutamenti nelle alleanze: si pensi a epi-sodi come quello della Vandea. È solo da una prospettiva storica, e in compara-zione con la complessità delle articolazioni egemoniche che caratterizzano lefasi successive della storia europea, che si può sostenere la relativa stabilità dellastruttura delle divisioni fondamentali e delle opposizioni nel corso dellaRivoluzione francese.

Page 230: opuscula /193 - Monoskop

230

niche intervengono nel determinare il principio stesso delladivisione sociale – e ci mostrava, al tempo stesso, la vanità del-l’aspirazione in nome della quale la lotta di classe doveva costi-tuirsi, in maniera automatica e a priori, nella fondazione di que-sto principio.

A rigore, l’opposizione popolo/ancien régime fu l’ultimomomento in cui gli stessi limiti antagonistici tra due forme disocietà si presentarono – con le specificazioni che abbiamovisto – sotto forma di linee di demarcazione chiare ed empirica-mente date. Da allora la divisione tra l’interno e l’esterno, inbase alla quale l’antagonismo assumeva la forma di due sistemicontrapposti di equivalenze, diventò sempre più fragile e ambi-gua, e la sua costruzione si presentò come il problema crucialedella politica. Questo voleva dire che non si dava più politicasenza egemonia. Il che ci permette di comprendere la specificitàdell’intervento di Marx: la sua riflessione ha avuto luogo nelmomento in cui la divisione dello spazio politico nei terminidella dicotomia popolo/ancien régime pareva aver esaurito lasua produttività, e in ogni caso non era capace di costruire unavisione del politico che catturasse la complessità e la pluralitàpeculiari del sociale nelle società industriali. Marx tentò alloradi pensare il fatto primario della divisione sociale sulla base diun nuovo principio: il conflitto tra le classi. Tuttavia, il nuovoprincipio risultava minacciato fin dall’inizio da una radicaleinsufficienza, dovuta al fatto che l’opposizione di classe eraincapace di dividere la totalità del corpo sociale in due campiantagonisti, di riprodursi automaticamente, nella sfera politica,come linea di demarcazione. È per questa ragione che l’affer-mazione della lotta di classe come principio fondamentale delladivisione politica ha sempre dovuto essere accompagnata daipotesi supplementari, che relegavano la sua piena applicabilitàal futuro: ipotesi storico-sociologiche, come la semplificazionedella struttura sociale che avrebbe condotto alla coincidenza tralotte politiche reali e lotte tra le classi come agenti costituiti allivello dei rapporti di produzione; oppure ipotesi riguardanti lacoscienza degli agenti, come la transizione dalla classe in sé allaclasse per sé. Quello che è importante, ad ogni modo, è che que-

Page 231: opuscula /193 - Monoskop

231

sto mutamento introdotto dal marxismo nel principio politicodella divisione sociale conserva inalterata una componenteessenziale dell’immaginario giacobino: il postulato di unmomento di rottura fondamentale, di uno spazio unico di costi-tuzione del politico. A essere mutato è solo la dimensione tem-porale, poiché tale divisione in due campi, insieme sociale epolitica, è differita nel futuro, nel momento stesso in cui si for-niscono una serie di ipotesi sociologiche sul processo chedovrebbe condurvi.

In questo capitolo difenderemo la tesi secondo la quale èquesto momento di continuità tra l’immaginario politico giaco-bino e quello marxista che occorre mettere in gioco attraverso ilprogetto di una democrazia radicale. Il rifiuto di punti di rottu-ra privilegiati e della confluenza delle lotte in uno spazio politi-co unificato e l’accettazione, invece, della pluralità e dell’inde-terminatezza del sociale, ci sembrano le due basi fondamentalisulle quali può costruirsi un nuovo immaginario politico, radi-calmente libertario e infinitamente più ambizioso nei suoi obiet-tivi rispetto a quello della sinistra classica. Questo richiede, inprimo luogo, una descrizione del terreno storico sul quale èemerso questo immaginario: un terreno che chiameremo “rivo-luzione democratica”.

La rivoluzione democratica

La problematica teorica che abbiamo presentato escludenon solo la concentrazione del conflitto sociale presso agentiprivilegiati a priori, ma anche il riferimento a ogni principiogenerale o sostrato di una natura antropologica che, unificandole differenti posizioni soggettive, accorderebbe un carattere ine-vitabile alla resistenza contro le diverse forme di subordinazio-ne. Non c’è nulla di inevitabile o di naturale nelle diverse lottecontro il potere ed è necessario spiegare, per ogni caso, le ragio-ni della loro emergenza e le differenti modalità che esse posso-no assumere. La lotta contro la subordinazione non può essere ilrisultato della subordinazione stessa. Benché si possa affermare,

Page 232: opuscula /193 - Monoskop

232

con Foucault, che ovunque c’è potere c’è resistenza, si deveanche riconoscere che le forme di resistenza possono essereestremamente varie. Solo in alcuni casi queste forme assumonoun carattere politico e diventano lotte dirette a porre fine allerelazioni di subordinazione in quanto tali. Se per secoli ci sonostate molteplici forme di resistenza delle donne contro la domi-nazione maschile, solo in condizioni determinate e in formespecifiche è potuto emergere un movimento femminista innome dell’uguaglianza (di fronte alla legge anzitutto, e poi diconseguenza in altri ambiti). È chiaro che quando qui parliamodi carattere “politico” di queste lotte non lo facciamo nel sensolimitato delle rivendicazioni situate al livello dei partiti o delloStato. Ci riferiamo a un tipo di azione il cui obiettivo è la tra-sformazione di una relazione sociale che costruisce un soggettoin una relazione di subordinazione. Alcune pratiche femministecontemporanee tendono a trasformare le relazioni tra maschile efemminile senza passare in alcun modo attraverso i partiti o loStato. Certo, non stiamo tentando di negare che certe praticherichiedono l’intervento del politico in senso stretto. Intendiamopiuttosto rimarcare che la politica, come pratica di creazione,riproduzione e trasformazione delle relazioni sociali, non puòessere relegata a un livello determinato del sociale, essendo ilproblema del politico l’istituzione del sociale, ovvero la defini-zione e l’articolazione delle relazioni sociali in un campo attra-versato da antagonismi.

Il nostro problema centrale è di identificare le condizionidiscorsive di emergenza di un’azione collettiva destinata a lot-tare contro le disuguaglianze e a contestare le relazioni disubordinazione. Potremmo anche dire che il nostro compito è diidentificare le condizioni in cui una relazione di subordinazio-ne diventa una relazione di oppressione e si costituisce, quindi,come luogo di un antagonismo. Entriamo così in un terrenocostituito da numerosi slittamenti terminologici, che hanno fini-to per stabilire una sinonimia tra “subordinazione”, “oppressio-ne” e “dominio”. La base che rende tale sinonimia possibile è,beninteso, il presupposto antropologico di una “natura umana”e di un soggetto unificato: se possiamo determinare a priori

Page 233: opuscula /193 - Monoskop

233

l’essenza di un soggetto, ogni relazione di subordinazione chela neghi diventa automaticamente una relazione di oppressione.Ma se rifiutiamo questa prospettiva essenzialista abbiamo biso-gno di differenziare “subordinazione” e “oppressione”, e spie-gare le condizioni precise in cui la subordinazione diventaoppressiva. Chiameremo relazione di subordinazione quella incui un agente è soggetto alle decisioni di un altro: come adesempio un impiegato sottomesso a un datore di lavoro, oppu-re, in certe forme di organizzazione familiare, la donna sotto-messa all’uomo, e così via. Chiameremo invece relazioni dioppressione le relazioni di subordinazione che si trasformano inluoghi di antagonismo. Infine, denomineremo relazioni didominio l’insieme delle relazioni di subordinazione considerateillegittime nella prospettiva, o secondo il giudizio, di un agentesociale esterno a esse e che, di conseguenza, può coincidere ono con le relazioni di oppressione effettivamente esistenti in unadeterminata formazione sociale. Il problema è dunque quello dispiegare come, a partire dalle relazioni di subordinazione, sicostituiscano quelle di oppressione. Il motivo per cui le relazio-ni di subordinazione, considerate per se stesse, non possonocostituire relazioni antagoniste è chiaro: una relazione di subor-dinazione stabilisce, semplicemente, un insieme di posizionidifferenziali tra agenti sociali, già sappiamo che un sistema didifferenze nel quale ogni identità sociale si costituisce comepositività non solo non può essere antagonistico, ma determinale condizioni ideali per l’eliminazione di ogni antagonismo:saremmo di fronte a uno spazio sociale suturato dal quale sareb-be esclusa ogni equivalenza. L’antagonismo può emergere solonella misura in cui si sovverte il carattere differenziale, positivodella posizione soggettiva. “Servo”, “schiavo”, ecc., non desi-gnano in se stesse posizioni antagonistiche; è solo nei termini diuna formazione discorsiva diversa, come quella dei “diritti ine-renti a ogni essere umano”, che la positività differenziale diqueste categorie può essere sovvertita e la subordinazione assu-mere il carattere dell’oppressione. Questo significa che non c’èrelazione di oppressione senza la presenza di un “esterno”discorsivo dal quale il discorso della subordinazione può essere

Page 234: opuscula /193 - Monoskop

234

interrotto.4 In tal senso, la logica dell’equivalenza sposta glieffetti di alcuni discorsi verso altri. Se, come nel caso delle donnefino al XVII secolo, l’insieme dei discorsi che le costruisconocome soggetti le avessero fissate puramente e semplicemente inuna posizione subordinata, il femminismo, come movimento dilotta contro la subordinazione delle donne, non avrebbe avutopossibilità di emergere. La nostra tesi è che solo nel momento incui il discorso democratico si rende disponibile ad articolare ledifferenti forme di resistenza alla subordinazione si possonocostituire anche le condizioni della lotta contro diversi tipi didisuguaglianza. Nel caso delle donne possiamo citare l’esempiodel ruolo giocato in Inghilterra da Mary Wollstonecraft, il cuilibro I diritti delle donne, pubblicato nel 1792, segnò la nascitadel femminismo attraverso l’uso che in esso veniva fatto deldiscorso democratico, che così fu tradotto dal campo dell’ugua-glianza politica tra i cittadini a quello dell’uguaglianza tra i sessi.

Ma, per essere mobilitato in questo modo, il principiodemocratico di libertà e uguaglianza doveva, anzitutto, imporsicome nuova matrice dell’immaginario sociale; o meglio, nellanostra terminologia, doveva costituire un punto nodale fonda-mentale nella costruzione del politico. Questo mutamento deci-sivo nell’immaginario politico delle società occidentali ha avutoluogo due secoli fa e può essere definito in questi termini: lalogica dell’equivalenza venne trasformata nello strumento fon-damentale della produzione del sociale. È per designare questomutamento che, citando un’espressione da Tocqueville, parlere-mo di “rivoluzione democratica”. Chiameremo così la fine diuna società di tipo gerarchico e non-egalitario, governata da unalogica teologico-politica in cui l’ordine sociale aveva il suo fon-damento nella volontà divina. Il corpo sociale era concepitocome un intero in cui gli individui apparivano fissati in posizio-ni differenziali. Per questo motivo, fino a quando un tale tipo diistituzione olistica del sociale è stata predominante, la politica

4. Sul concetto di “interruzione” cfr. D. SIVERMAN - B. TORODE, Thematerial Word, Routledge and Kegan Paul, London 1980, cap. 1.

Page 235: opuscula /193 - Monoskop

235

non poteva essere altro che la ripetizione delle relazioni gerar-chiche che riproducevano lo stesso tipo di soggetto subordinato.Il momento chiave agli inizi della rivoluzione democratica puòessere rintracciato nella Rivoluzione francese, dal momento che,come ha indicato François Furet, la sua affermazione del potereassoluto del popolo introduceva qualcosa di veramente nuovo allivello dell’immaginario sociale. È qui, secondo Furet, che haluogo la vera discontinuità: nello stabilirsi di una nuova legitti-mità, nell’invenzione della cultura democratica:

La Rivoluzione francese non è una transizione, è un’origine, è il fan-tasma di un’origine. Tale invenzione è l’unicità che ne costituisce l’in-teresse storico ed è il suo “solo” elemento divenuto universale: laprima esperienza di democrazia.5

Se, come ha affermato Hannah Arendt, “fu la rivoluzionefrancese e non quella americana che mise a fuoco il mondo”,6 èperché fu la prima a fondarsi su nessun’altra legittimità che nonfosse quella del popolo. Essa dava inizio a ciò che Claude Lefortha mostrato essere un nuovo tipo di istituzione del sociale.Questa rottura con l’ancien régime, simbolizzata dallaDichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, avrebbe for-nito le condizioni di possibilità discorsive per denunciare lediverse forme di disuguaglianza come illegittime e anti-natura-li, rendendole così equivalenti come forme di oppressione. È quiche risiede il potere profondamente sovversivo del discorsodemocratico, che permette la diffusione di uguaglianza e libertàin domini sempre più estesi e opera, dunque, come un agente difermentazione sulle diverse forme di lotta contro la subordina-zione. Nel XIX secolo molte lotte operaie hanno costruitodiscorsivamente le loro rivendicazioni sulla base delle lotte perla libertà politica. Nel caso del cartismo inglese, ad esempio, gli

5. F. FURET, Penser la Révolution Française, Gallimard, Paris 1978, p.109.

6. H. ARENDT, Sulla rivoluzione, con una nota di Renzo Zorzi, EdizioniComunità, Milano, 1983, p. 56.

Page 236: opuscula /193 - Monoskop

236

studi di Gareth Stedman Jones7 hanno rivelato il ruolo fonda-mentale delle idee del radicalismo inglese, profondamenteinfluenzato dalla Rivoluzione francese, nella costituzione delmovimento e nella determinazione dei suoi obiettivi (da qui ilruolo centrale della rivendicazione del suffragio universale,poco considerata nelle interpretazioni del cartismo come feno-meno di carattere fondamentalmente sociale, come espressionedella coscienza di classe del nuovo proletariato industriale).

Tramite i differenti discorsi socialisti si è attuato uno spo-stamento dalla critica della disuguaglianza politica alla criticadella disuguaglianza economica che ha indotto a mettere in que-stione le altre forme di subordinazione e la rivendicazione dinuovi diritti. Le rivendicazioni socialiste dovrebbero essere per-ciò valutate come un momento interno alla rivoluzione demo-cratica ed essere intelligibili solo sulla base della logica equiva-lenziale da essa stabilita. In questo modo gli effetti di irradia-zione si moltiplicano in direzioni sempre più varie. Nel caso delfemminismo la posta in gioco era, dapprima, l’accesso delledonne ai diritti politici, poi, l’uguaglianza economica, con ilfemminismo contemporaneo, l’uguaglianza nel campo dellasessualità. Come sottolinea Tocqueville:

Non è possibile credere che l’eguaglianza non finisca per penetrareanche nel mondo politico come altrove. Non si può concepire che gliuomini siano assolutamente uguali in tutto, tranne che in un unicopunto. Essi finiranno pertanto con l’essere eguali in tutto.8

In ogni caso, alla base della relazione di oppressione risie-de l’impossibilità di costituire le relazioni di subordinazionecome un sistema chiuso di differenze: un’impossibilità cheimplica l’esteriorità reciproca delle identità subordinata e

7. G. STEDMAN JONES, Rethinking Chartism, in ID., Languages of Class,Cambridge University Press, Cambridge 1982, cap. 4.

8. A. DE TOCQUEVILLE, La democrazia in America, a cura di N.Matteucci, Utet, Torino 2007, pp. 73-74.

Page 237: opuscula /193 - Monoskop

subordinante, piuttosto che il loro assorbimento nel sistema tra-mite le loro posizioni. A tale riguardo è istruttivo considerare letrasformazioni che ha subito il potenziale delle lotte operaie.Nel XIX secolo, ci sono state senza dubbio lotte anticapitalistaradicali, ma non si trattava di lotte del proletariato, se per “pro-letariato” intendiamo il tipo di operai prodotti dallo sviluppo delcapitalismo invece che gli artigiani, le cui qualifiche e i cuimodi di vita erano minacciati dallo stabilirsi del sistema di pro-duzione capitalista. Il carattere fortemente antagonistico dellelotte di questi “radicali reazionari” – secondo l’espressione diCraig Calhoun –, il loro minare l’intero sistema capitalista, sispiegano con il fatto che esse esprimevano la resistenza alladistruzione delle identità artigianali e all’intero insieme delleforme sociali, culturali e politiche che le accompagnavano. Nederivò il rifiuto totale dei nuovi rapporti di produzione che ilcapitalismo era in procinto di installare; la completa esterioritàesistente tra due sistemi di organizzazione sociale generò ladivisione dello spazio sociale in due campi, che come è noto èla condizione di ogni antagonismo. Nella sua critica diRivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra di E.P.Thompson, Calhoun ha mostrato in modo convincente come uninsieme eterogeneo di gruppi sociali venga ricompreso sotto l’e-tichetta “classe operaia” senza riconoscere a sufficienza laprofonda differenza tra operai “vecchi” e “nuovi”, nei loroobiettivi e nelle loro forme di mobilitazione. Per Calhoun,

i primi lottavano a partire da forti basi comunitarie, ma contro le forzepreponderanti del mutamento economico. I secondi muovendo dabasi sociali più deboli, ma all’interno dell’ordine industriale emer-gente. Questa distinzione si oppone decisamente alla nozione dellosviluppo continuo e della crescente radicalizzazione della classe ope-raia.9

237

9. C. CALHOUN, The Question of Class Struggle, University of ChicagoPress, Chicago 1982, p. 140. Per un’argomentazione correlata cfr. L. PARAMIO,Por una interpretación revisionista de la historia del movimiento obrero euro-peo, in “En Teoria”, 8/9, Madrid 1982.

Page 238: opuscula /193 - Monoskop

238

È verso la metà del diciannovesimo secolo che in GranBretagna, e verso la fine del secolo nel resto d’Europa, emergeun movimento laburista che può essere considerato, in sensostretto, come un prodotto del capitalismo; ma questo movimen-to tende sempre meno a mettere in questione i rapporti capitali-stici di produzione in quanto tali – essendosi questi ultimi soli-damente impiantati – e si concentra invece sulla lotta per la tra-sformazione dei rapporti nella produzione. Queste lotte, che latradizione marxista definirebbe “riformiste” e giudicherebbecome un arretramento rispetto alle precedenti lotte sociali, cor-rispondono in realtà più alla modalità adottata dalle mobilita-zioni del proletariato industriale che alle precedenti lotte piùradicali. I rapporti di subordinazione tra operai e capitalisti sonodunque, fino a un certo punto, assorbite come posizioni diffe-renziali legittime in uno spazio discorsivo unificato.

Se rivolgiamo la nostra attenzione a un altro periodo dellemobilitazioni radicali operaie – quello del movimento dei con-sigli in Italia e in Germania alla fine della Prima guerra mon-diale – notiamo come anche queste mobilitazioni abbiano avutoalla loro base un insieme surdeterminato di circostanze: il col-lasso dell’ordine sociale successivo alla guerra, la militarizza-zione delle fabbriche, gli esordi del taylorismo, la trasformazio-ne nella produzione del ruolo degli operai specializzati. Tuttequeste condizioni si legarono o a una crisi organica che riduce-va la capacità egemonica della logica della differenza, o alle tra-sformazioni che mettevano in questione le forme tradizionalidell’identità operaia. Non dovremmo dimenticare, ad esempio,il ruolo centrale giocato in queste lotte dagli operai specializza-ti, un ruolo generalmente riconosciuto ma spiegato in modidiversi.10 Per alcuni si tratta della difesa delle specializzazionicontro il pericolo già incombente della taylorizzazione. Per altriè l’esperienza acquisita da questi operai durante la guerra a per-

10. Su questo tema cfr. C. SIRIANI, Workers Control in the Era of WorldWar I, in Theory and Society, 9:1 (1980), e C. SABEL, Work and Politics,Cambridge Univeristy Press, Cambridge 1982, cap. 4.

Page 239: opuscula /193 - Monoskop

239

mettere loro di pensare le possibilità di auto-organizzare il pro-cesso di produzione, spingendoli a confrontarsi con i loro impie-gati. In entrambi i casi, tuttavia, è la difesa di una certa identitàacquisita dai lavoratori (le loro specializzazioni o le loro fun-zioni organizzative nella produzione) che li porta a ribellarsi.Possiamo così stabilire un parallelo con i “reazionari radicali”menzionati prima, in quanto anch’essi difendevano un tipo diidentità minacciata.

Sarebbe però un errore intendere questa esteriorità del pote-re in un senso puramente “stadiologico”, come se il fatto di appar-tenere a una fase nel processo di trasformazione fosse la condi-zione necessaria del radicalismo in una lotta; se così fosse, un taleradicalismo sarebbe caratteristico solo delle lotte difensive. Se lelotte “anacronistiche”, cui prima si è fatto riferimento, illustranobene l’esteriorità del potere, condizione di ogni antagonismo,alcune trasformazioni sociali possono, al contrario, costituirenuove forme di soggettività radicale mediante la alla costruzionedi rapporti di subordinazione stabiliti discorsivamente comeimposizioni dall’esterno e, dunque, come forme di oppressione. Èil momento in cui entra in gioco lo spostamento equivalenzialeproprio dell’immaginario democratico. L’immagine delle lottedemocratiche come appartenenti al passato è del tutto irrealistica.Essa deriva, in buona parte, dall’euforia neo-capitalista dei duedecenni successivi alla Seconda guerra mondiale, che sembravaoffrire una capacità illimitata di assorbimento trasformista daparte del sistema e mostrava una tendenza lineare verso unasocietà omogenea, in cui ogni potenziale antagonista si sarebbedissolto e ogni identità collettiva si sarebbe fissata in un sistemadi differenze. Al contrario, proveremo a mostrare come la com-plessità degli aspetti spesso contraddittori di questo processo d’e-spansione, come il fatto stesso di soddisfare un ampio spettro dirivendicazioni sociali durante l’apogeo del welfare state, lungidall’assicurare l’integrazione indefinita delle formazioni egemo-niche dominanti, metteva a nudo il carattere arbitrario di un inte-ro insieme di rapporti di subordinazione. Si viene così a creare ilterreno che rende possibile una nuova estensione delle equivalen-ze egalitarie e, quindi, l’espansione della rivoluzione democratica

Page 240: opuscula /193 - Monoskop

240

in nuove direzioni. È su questo terreno che sono sorte le nuoveforme di identità politica che, nei dibattiti recenti, sono state spes-so raccolte sotto il nome di “nuovi movimenti sociali”. Dovremoperciò studiarne le ambiguità di questi movimento e il contestostorico in cui sono emersi.

Rivoluzione democratica e nuovi antagonismi

Il dislocamento equivalenziale tra distinte posizioni sog-gettive – che è la condizione di emergenza di un antagonismo –può presentarsi secondo due varianti fondamentali. In primoluogo, può trattarsi di una questione di relazioni di subordina-zione già esistenti che, grazie a un dislocamento dell’immagi-nario democratico, si riarticolano come relazioni di oppressione.Prendendo ancora il femminismo come esempio, nella costru-zione del soggetto femminile subordinato si rivela una crepa dacui può emergere un antagonismo, perché alle donne in quantodonne è negato un diritto che l’ideologia democratica riconosce,in linea di principio, a tutti i cittadini. È quel che accade anchecon le rivendicazioni dei diritti civili da parte delle minoranzeetniche. Ma l’antagonismo può emergere anche in altre circo-stanze, ad esempio quando sono messi in questione diritti acqui-siti o quando relazioni sociali non costruite sotto forma disubordinazione cominciano a esserlo sotto l’impatto di determi-nate trasformazioni sociali. In tal caso, una posizione soggettivapuò diventare un luogo di antagonismo se viene negata da prati-che e discorsi latori di nuove forme di disuguaglianza. Ad ognimodo, ciò che permette alle forme di resistenza di assumere ilcarattere di lotte collettive è l’esistenza di un discorso esternoche impedisce la stabilizzazione della subordinazione come dif-ferenza.

Il termine inadeguato “nuovi movimenti sociali” raggruppauna serie di lotte tra loro molto diverse: urbane, ecologiche, anti-autoritarie, anti-istituzionali, femministe, antirazziste, etniche,regionali o delle minoranze sessuali. Denominatore comune atutte sarebbe il loro differenziarsi dalle lotte operaie, considera-

Page 241: opuscula /193 - Monoskop

241

te come lotte “di classe”. È inutile insistere sulla natura proble-matica di quest’ultima nozione: essa amalgama una serie di lottemolto diverse al livello dei rapporti di produzione, che sonodistanti dai “nuovi antagonismi” per ragioni che mostrano fintroppo chiaramente la persistenza di un discorso fondato sullostatuto privilegiato di “classe”. Di tali nuovi movimenti socialinon ci interessa, allora, l’idea che li raccoglie arbitrariamente inuna categoria opposta a quella di una classe, ma il ruolo nuovoda essi giocato nell’articolare la rapida diffusione della conflit-tualità sociale a sempre più numerose relazioni che sono carat-teristiche delle contemporanee società industriali avanzate. Èquanto cercheremo di analizzare attraverso il problema teoricoappena enunciato, che ci induce a concepire questi movimenticome un’estensione della rivoluzione democratica a un’interanuova serie di relazioni sociali. La novità è conferita loro dalfatto che mettono in gioco nuove forme di subordinazione.Distingueremo due aspetti di questa relazione di conti-nuità/discontinuità. L’aspetto della continuità implica sostan-zialmente il fatto che la conversione dell’ideologia democratico-liberale nel “senso comune” delle società occidentali getta lefondamenta per la sfida progressiva al principio gerarchico,quello che Tocqueville chiamava l’“uguagliamento delle condi-zioni”. È la permanenza di tale immaginario egalitario a per-metterci di stabilire una continuità tra le lotte del diciannovesi-mo secolo contro le disuguaglianze lasciate in eredità dall’an-cien régime e i movimenti sociali del presente. Ma, da un secon-do punto di vista, dobbiamo parlare di discontinuità, perché unabuona parte dei nuovi soggetti politici si sono costituiti attraver-so la loro relazione antagonista con le recenti forme di subordi-nazione, derivate dall’installarsi e dall’espandersi dei rapporti diproduzione capitalistici e dall’aumento dell’intervento statale.Rivolgeremo ora la nostra attenzione a queste nuove relazioni disubordinazione e agli antagonismi che si costituiscono al lorointerno.

Nel contesto della riorganizzazione che ebbe luogo dopo laSeconda guerra mondiale, si produssero una serie di mutamential livello delle relazioni sociali e si consolidò una nuova forma-

Page 242: opuscula /193 - Monoskop

zione egemonica. Quest’ultima articolava modificazioni allivello del processo lavorativo, della forma dello Stato e deimodi dominanti della diffusione culturale che dovevano provo-care una profonda trasformazione nelle forme esistenti dei rap-porti sociali. Se esaminiamo il problema da un punto di vistaeconomico, il mutamento decisivo consiste in ciò che MichelAglietta ha definito transizione da un regime estensivo a unointensivo di accumulazione. Questo è caratterizzato dalla diffu-sione dei rapporti di produzione capitalistici all’insieme dellerelazioni sociali, a loro volta subordinate alla logica della pro-duzione per il profitto. Per Aglietta il momento fondamentale diquesta transizione è l’introduzione del fordismo, che egli descri-ve come “il principio di un’articolazione tra processo di produ-zione e tipo di consumo”.11 Più precisamente, l’articolazione traun processo lavorativo organizzato intorno a una linea di produ-zione semi-automatica e un tipo di consumo caratterizzato dal-l’acquisizione individuale di merci prodotte su larga scala per ilconsumo privato. La penetrazione dei rapporti di produzionecapitalistici, cominciata all’inizio del secolo e intensificatasi apartire dagli anni ’40 del Novecento, doveva trasformare lasocietà in un vasto mercato nel quale si creavano incessante-mente nuovi “bisogni”, e dove i prodotti del lavoro umano veni-vano sempre più trasformati in merci. Questa “mercificazione”della vita sociale ha distrutto le precedenti relazioni sociali, rim-piazzandole con relazioni tra merci attraverso le quali la logicadell’accumulazione capitalista è penetrata in sfere sempre piùnumerose. Oggi non è solo come venditore di forza lavoro chel’individuo è subordinato al capitale, ma anche tramite la suaincorporazione in una moltitudine di altre relazioni sociali: lacultura, il tempo libero, la malattia, l’educazione, il sesso eanche la morte. Non c’è praticamente alcun dominio della vitaindividuale o collettiva che sfugga ai rapporti capitalisti.

242

11. M. AGLIETTA, A Theory of Capitalist Regulation, Verso, London1979, p. 117.

Page 243: opuscula /193 - Monoskop

243

Ma questa “società di consumatori” non ha condotto allafine dell’ideologia come annunciava Daniel Bell, né alla crea-zione di un uomo a una dimensione come paventava Marcuse.Al contrario, una serie di nuove lotte hanno manifestato resi-stenza contro le nuove forme di subordinazione, e lo hanno fattodal cuore stesso della nuova società. È così che lo spreco dirisorse naturali, l’inquinamento e la distruzione dell’ambiente,le conseguenze del produttivismo hanno generato il movimentoecologista. Altre lotte, che Manuel Castells chiama “urbane”,12

esprimono diverse forme di resistenza all’occupazione capitali-stica dello spazio sociale. L’urbanizzazione generale che haaccompagnato la crescita economica, il trasferimento delle clas-si popolari nella periferia urbana o il loro confinamento nei cen-tri degradati delle città, la generale penuria di beni e servizi col-lettivi hanno causato una serie di nuovi problemi che hannoinvestito l’organizzazione dell’intera vita sociale al di fuori dellavoro. Ne deriva la molteplicità delle relazioni sociali da cuipossono originarsi antagonismi e lotte: habitat, consumo, servi-zi vari possono tutti costituire terreni per la lotta contro le disu-guaglianze e la rivendicazione di nuovi diritti.

Queste nuove rivendicazioni devono essere poste anche nelcontesto del welfare-state keynesiano, la cui costituzione è stataun altro fatto fondamentale del periodo post-bellico. Si trattasenza dubbio di un fenomeno ambiguo e complesso, perché seda un lato questo nuovo tipo di Stato era necessario per assicu-rare una serie di funzioni richieste dal nuovo regime di accumu-lazione capitalistica, dall’altro era anche il risultato di ciò cheBowles e Gintis hanno chiamato “l’accordo postbellico tra capi-tale e lavoro”,13 dunque la conseguenza delle lotte contro i muta-menti nelle relazioni sociali generate dal capitalismo. È stata adesempio la distruzione delle reti della solidarietà tradizionale di

12. M. CASTELLS, La questione urbana, introduzione di D. Calabi,Marsilio, Venezia 1974.

13. S. BOWLES, H. GINTIS, The crisis of Liberal Democratic Capitalism,in “Politics and Society”, vol. 2, 1, 1982.

Page 244: opuscula /193 - Monoskop

244

tipo comunitario o familiare (basate, non dimentichiamolo, sullasubordinazione delle donne) a costringere lo Stato a intervenirecon diversi “servizi sociali” per la malattia, la disoccupazione,la vecchiaia e così via. Altrove, sotto la pressione delle lotte ope-raie, lo Stato è intervenuto per assicurare una nuova politica dellavoro (minimo salariale, durata della giornata lavorativa, assi-curazione per incidenti e disoccupazione, salario sociale). Se sipuò dire, con Benjamin Coriat,14 che questo Stato-piano inter-viene nella riproduzione della forza lavoro per subordinarla aibisogni del capitale, grazie alla pratica del contratto collettivo eagli accordi negoziati che legano gli aumenti salariali a quelliproduttivi, non si può negare che si tratti di acquisizioni chehanno recato benefici importanti e reali agli operai.

Ma questo intervento statale a livelli sempre più ampi dellariproduzione sociale si è accompagnato a una crescente buro-cratizzazione delle sue pratiche che hanno costituito, con lamercificazione, una delle fonti fondamentali di disuguaglianzee conflitti. In tutti i domini nei quali è intervenuto lo Stato, allabase dei numerosi nuovi antagonismi risiede una politicizzazio-ne delle relazioni sociali. Questa duplice trasformazione dellerelazioni sociali, risultante dall’espansione dei rapporti di pro-duzione capitalistici e dalle nuove forme di Stato burocratico, siritrova, con diverse combinazioni, in tutti i paesi industrialiavanzati. In genere, gli effetti si rafforzano reciprocamente, manon è sempre così. Claus Offe ha indicato, ad esempio, comel’offerta da parte dello Stato di servizi legati al salario socialepuò avere effetti che vanno nel senso della “de-mercificazio-ne”.15 Quest’ultimo fenomeno può, al contrario, investire gliinteressi dell’accumulazione capitalistica nella misura in cuiuna serie di attività, che potrebbero essere fonte di profitto,cominciano a essere fornite dal settore pubblico. Per Offe, tale

14. B. CORIAT, La fabbrica e il cronometro: saggio sulla produzione dimassa, Feltrinelli, Milano 1979, p. 92.

15. C. OFFE, Contradictions of the Welfare State, edited by J. Keane, TheMIT Press, London 1984, p. 263.

Page 245: opuscula /193 - Monoskop

245

fenomeno, legato a quello della “de-proletarizzazione”, chenasce dai diversi trasferimenti che permettono agli operai disopravvivere senza essere costretti a vendere la loro forza lavo-ro a qualsiasi prezzo, è un fattore importante nell’attuale crisidelle economie capitalistiche. Ma il nostro interesse cruciale èquello di trarre delle conseguenze da questa burocratizzazionesoggiacente ai nuovi antagonismi. Il fatto importante è l’impo-sizione di molteplici forme di vigilanza e regolazione nelle rela-zioni sociali, prima concepite come parte costitutiva del domi-nio privato. Questo slittamento della linea di confine tra “pub-blico” e “privato” ha effetti ambigui. Da un lato, serve a rivela-re il carattere politico (in senso lato) delle relazioni sociali, ilfatto che queste sono sempre il risultato di tipi di istituzione dacui ricevono forma e senso; dall’altro lato, tale creazione di“spazi pubblici”, a causa del carattere burocratico dell’interven-to statale, non si è realizzata nella forma di una vera democra-tizzazione, ma attraverso l’imposizione di nuove forme disubordinazione. È qui che occorre ricercare il terreno sul qualeemergono numerose lotte contro le forme burocratiche del pote-re statale. Questo non deve però renderci ciechi di fronte a moltialtri aspetti che vanno nella direzione contraria e che danno alwelfare state la sua caratteristica ambiguità: l’emergenza di unnuovo tipo di diritto, designato con la formula “libertà positive”,ha trasformato profondamente anche il senso comune dominan-te, legittimando tutto un insieme di rivendicazioni di uguaglian-za economica e l’insistenza sui nuovi diritti sociali. Movimenticome il “Welfare State Movement” negli Stati Uniti, studiato daPiven e Cloward,16 sono un esempio dell’estensione delle riven-dicazioni rivolte allo Stato una volta accettata la sua responsabi-lità per il benessere dei cittadini. È la stessa nozione di cittadi-nanza che viene trasformata con lo Stato sociale, visto che ai cit-tadini vengono ora attribuiti “diritti sociali”. Di conseguenza, lecategorie di “giustizia”, “libertà”, “equità” e “uguaglianza”

16. Cfr. F. PIVEN, R. CLOWARD, I movimenti dei poveri: i loro successi, iloro fallimenti, Feltrinelli, Milano 1980.

Page 246: opuscula /193 - Monoskop

246

sono state ridefinite e il discorso liberal-democratico è statoprofondamente modificato da tale ampliamento della sfera deidiritti.

Non si può comprendere la presente espansione del campodella conflittualità sociale, e la conseguente emergenza di nuovisoggetti politici, senza situarle entrambe nel contesto della mer-cificazione e burocratizzazione delle relazioni sociali da un lato,e della riformulazione dell’ideologia liberal-democratica –risultante dall’espansione delle lotte per l’uguaglianza – dall’al-tro. Per questo motivo abbiamo proposto che questa prolifera-zione di antagonismi e la messa in questione delle relazioni disubordinazione debbano essere considerate come un momentodi approfondimento della rivoluzione democratica. Questa lettu-ra è stata stimolata anche dal terzo importante aspetto nel muta-mento delle relazioni sociali che ha caratterizzato la formazioneegemonica del periodo postbellico: vale a dire le nuove formeculturali legate all’espansione dei mezzi di comunicazione dimassa. Questi hanno reso possibile una nuova cultura di massache ha rimescolato le identità tradizionali. Ancora una volta glieffetti sono ambigui, poiché insieme agli innegabili effetti dellamassificazione e dell’uniformazione questa cultura fondata suimedia contiene anche potenti elementi per la sovversione delledisuguaglianze: i discorsi dominanti nella società del consumola presentano come un progresso sociale e come un avanzamen-to della democrazia, nella misura in cui permette alla grandemaggioranza della popolazione di accedere a una gamma sem-pre maggiore di beni. Ora, se Baudrillard ha ragione nel dire che“siamo più lontani dall’uguaglianza di fronte all’oggetto”,17 ladominante apparenza di uguaglianza e la democratizzazioneculturale, inevitabile conseguenza dell’azione dei media, rendepossibile la contestazione dei privilegi basati su antiche forme distatus. Interpellati come uguali, nella loro capacità di consuma-tori, gruppi sempre più numerosi sono spinti a rigettare le disu-

17. Cfr. J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, trad. it. di S. Esposito,Bompiani, Milano 2004, p. 196.

Page 247: opuscula /193 - Monoskop

247

guaglianze reali ancora esistenti. Questa “cultura democraticadei consumatori” ha indubbiamente stimolato l’emergenza dinuove lotte, che hanno giocato un ruolo importante nel rifiuto divecchie forme di subordinazione, come nel caso del black move-ment per i diritti civili negli Stati Uniti. Il fenomeno dei giovaniè particolarmente interessante, e non sorprende il fatto che essicostituiscano un nuovo asse per la nascita degli antagonismi.Allo scopo di creare nuove necessità, i giovani sono infatti sem-pre più costruiti come una categoria specifica di consumatori, ilche li induce a cercarsi un’autonomia finanziaria che però lasocietà non è in condizione di garantirgli. Al contrario, la crisieconomica e la disoccupazione rendono, di fatto, la loro situa-zione molto difficile. Se vi aggiungiamo la disintegrazione delnucleo familiare e la sua riduzione crescente a pure funzioni diconsumo, con l’assenza di forme sociali di integrazione di que-sti “nuovi soggetti” che hanno subito l’impatto della contesta-zione generale delle gerarchie esistenti, comprendiamo facil-mente le diverse forme assunte dalla ribellione giovanile nellesocietà industriali.

Che tali “nuovi antagonismi” siano l’espressione di formedi resistenza alla mercificazione, alla burocratizzazione e allacrescente omogeneizzazione della stessa vita sociale, spiegaperché essi si manifestino spesso attraverso una proliferazionedi particolarismi e si cristallizzino in una rivendicazione di auto-nomia. È anche per questa ragione che diventa possibile identi-ficare una tendenza alla valorizzazione delle “differenze”, e lacreazione di nuove identità che tendono a privilegiare criteri“culturali” (abbigliamento, musica, linguaggio, tradizioni regio-nali e così via). Nella misura in cui tra i due grandi temi del-l’immaginario democratico – uguaglianza e libertà – è stato ilprimo tradizionalmente ad avere il predominio, le rivendicazio-ni di autonomia conferiscono un ruolo sempre più centrale allalibertà. Ecco perché molte di queste forme di resistenza si mani-festano non in forma di lotte collettive, ma attraverso una sem-pre maggior affermazione dell’individualismo (beninteso, lasinistra è mal disposta a tener conto di queste lotte, che ancoraoggi tende a screditare come “liberali”. Da qui il pericolo che

Page 248: opuscula /193 - Monoskop

248

tali lotte possano articolarsi in un discorso di destra a difesa deiprivilegi). Ma, ad ogni modo, e qualunque sia l’orientamentopolitico attraverso cui l’antagonismo si cristallizza (ciò dipen-derà dalle catene di equivalenze che lo costruiscono), la formadell’antagonismo come tale è identica in tutti i casi. Vale a dire:consiste sempre nella costruzione di un’identità sociale – di unaposizione soggettiva surdeterminata – sulla base dell’equivalen-za tra un insieme di elementi o valori che escludono o esterio-rizzano quelli contrapposti. Ancora una volta ci troviamo difronte alla divisione dello spazio sociale.

L’ultimo, in ordine temporale, di questi “nuovi movimentisociali”, e senza dubbio uno dei più attivi al momento, è il movi-mento pacifista. Esso ci pare rientrare perfettamente nella struttu-ra teorica proposta. Con l’espansione di ciò che E. P. Thompsonha chiamato “logica dello sterminio”, un numero crescente diindividui avverte la messa in questione del più fondamentale ditutti i diritti: il diritto alla vita. Il dispiegamento in molti paesi diarmi nucleari straniere, il cui uso non è sottoposto al controllonazionale, genera inoltre nuove rivendicazioni, radicate nell’e-stensione al campo della difesa nazionale dei principi del control-lo democratico che i cittadini hanno il diritto di esercitare incampo politico. Il discorso rispetto alla politica di difesa – sferatradizionalmente riservata a ristrette élite militari e politiche –viene perciò sovvertito in quanto al suo centro si installa il prin-cipio del controllo democratico.

L’idea centrale che finora abbiamo difeso è che le nuovelotte – e la radicalizzazione di quelle precedenti, come i movi-menti delle donne o delle minoranze etniche – dovrebbero esse-re intese nella duplice prospettiva della trasformazione dellerelazioni sociali caratteristiche della nuova formazione egemo-nica del periodo postbellico e degli effetti dello spostamento innuove aree della vita sociale dell’immaginario egalitario forma-tosi intorno al discorso liberal-democratico. È questo che ha for-nito la cornice necessaria alla contestazione delle differenti rela-zioni di subordinazione e alla rivendicazione di nuovi diritti. Ilfatto che l’immaginario democratico abbia giocato un ruolo fon-damentale nell’emergere di nuove rivendicazioni a partire dagli

Page 249: opuscula /193 - Monoskop

249

anni ’60 è stato perfettamente compreso dai nuovi conservatoriamericani, che denunciano l’“eccesso di democrazia” e l’onda-ta di “egalitarismo” che secondo loro avrebbe causato unsovraccarico nei sistemi politici occidentali. Nel 1975, SamuelHuntington, nel suo rapporto alla Commissione Trilaterale, hasostenuto che le lotte in nome di una maggiore uguaglianza epartecipazione hanno provocato negli Stati Uniti degli anni ’60un “eccesso democratico” che ha reso la società “ingovernabi-le”. Huntington concludeva che «la forza dell’ideale democrati-co pone un problema di governabilità della democrazia».18 Lerivendicazioni sempre più numerose per un’uguaglianza realeavrebbero condotto la società, secondo i nuovi conservatori, sul-l’orlo del “precipizio egalitario”. Tale sarebbe l’origine delladuplice trasformazione che, a loro parere, avrebbe subito l’ideadi uguaglianza: essa si sarebbe trasformata da uguaglianza deirisultati e da uguglianza tra individui e uguaglianza tra gruppi.Daniel Bell ritiene che questo “nuovo egalitarismo” metta inpericolo il vero ideale di uguaglianza, il cui obiettivo non puòessere l’uguaglianza dei risultati ma una “giusta meritocrazia”.19

La crisi contemporanea è vista allora come il risultato di una“crisi di valori”, la conseguenza dello sviluppo di una “culturaavversa” e delle “contraddizioni culturali del capitalismo”.

Ecco perché abbiamo presentato finora l’emergere degliantagonismi e dei nuovi soggetti politici come legato all’espan-sione e alla generalizzazione della rivoluzione democratica. Inrealtà questa emergenza può essere considerata altresì come unprolungamento delle diverse aree di effetti politici che hannospesso attraversato la nostra analisi. In particolare, la prolifera-zione di questi antagonismi mostra in una nuova luce il proble-ma della frammentazione dei soggetti “unitari” delle lotte socia-li, con il quale alla fine del secolo corso ha dovuto misurarsi il

18. S. HUNTINGTON, The Democratic Distemper, in N. GLAZER, I. KRISTOL

(eds.), The American Commonwealth, Basic Book, New York 1976, p. 37.19. Cfr. D. BELL, On Meritocracy and Equality, in The Public Interest,

Fall 1972.

Page 250: opuscula /193 - Monoskop

250

marxismo sulla scia della sua prima crisi. Vista in prospettiva,tutta la discussione sulle strategie per la ricomposizione dell’u-nità della classe operaia non è altro che il primo atto di un rico-noscimento – riluttante, è vero – della pluralità del sociale, e delcarattere non suturato di ogni identità politica. Se leggiamo sousrature i testi di Rosa Luxemburg, Labriola e dello stessoKautsky, noteremo come l’inammissibile momento della plura-lità è comunque presente, in un modo o nell’altro, nel lorodiscorso, e mina la coerenza delle loro categorie. È chiaro chequesta multiformità non costituisce necessariamente un momen-to negativo di frammentazione, o il riflesso di una divisione arti-ficiale risultante dalla logica del capitalismo come pensavano iteorici della Seconda internazionale, ma il terreno stesso cherende possibile un approfondimento della rivoluzione democra-tica. Come vedremo, questo approfondimento si rivela anchenelle ambiguità e nelle difficoltà che deve affrontare ogni prati-ca di articolazione e ricomposizione. La rinuncia alla categoriadi soggetto come entità unitaria, trasparente e suturata, apre lavia al riconoscimento della specificità degli antagonismi forma-tisi a partire da differenti posizioni soggettive e, dunque, allapossibilità di approfondire una concezione pluralista e demo-cratica. La critica della categoria di soggetto unificato e il rico-noscimento della dispersione discorsiva, all’interno della qualesi costituisce ogni posizione soggettiva, implicano perciò qual-cosa di più dell’enunciazione di una posizione teorica generale:si tratta delle condizioni sine qua non per pensare la moltepli-cità dalla quale emergono gli antagonismi nelle società nellequali la rivoluzione democratica ha varcato una certa soglia.Questo ci consegna un terreno teorico sulla base del quale rin-tracciare le prime condizioni per la comprensione della nozionedi democrazia radicale e plurale, che da qui in avanti sarà cen-trale nella nostra argomentazione. Il pluralismo può essere giu-dicato radicale solo se si accetta che le posizioni soggettive nonpossono essere ricondotte a un principio fondante positivo e uni-tario. Il pluralismo è radicale solo nella misura in cui ogni ter-mine di tale pluralità di identità trova al suo interno il principiodella propria validità, senza doverlo cercare in un fondamento

Page 251: opuscula /193 - Monoskop

251

positivo trascendente o soggiacente, al fine di giustificare laloro gerarchia di significato e la fonte e la garanzia della lorolegittimità. E il pluralismo radicale è democratico solo in quan-to l’auto-costituirsi di ognuno dei suoi termini è il risultato deglispostamenti dell’immaginario egalitario. Ne consegue che ilprogetto per una democrazia radicale e plurale, primariamente,non è nient’altro che la lotta per una sempre maggiore autono-mizzazione delle sfere, muovendo dalla generalizzazione dellalogica equivalenziale-egalitaria.

Questo approccio ci permette di ridimensionare e di rende-re giustizia alle lotte operaie, il cui carattere viene distorto unavolta che vengono contrapposte in blocco a quelle dei “nuovisoggetti politici”. Una volta rifiutata la concezione della classeoperaia come “classe universale”, diventa possibile riconoscerela pluralità degli antagonismi che hanno luogo nel campo di ciòche è arbitrariamente classificato sotto l’etichetta di “lotte ope-raie”, e l’inestimabile importanza della maggior parte di essi perl’approfondimento del processo democratico. Le lotte operaiesono state numerose e hanno assunto una straordinaria varietà diforme in relazione alle trasformazioni del ruolo dello Stato edelle pratiche sindacali delle differenti categorie di operai negliantagonismi, dentro e fuori le fabbriche, e negli equilibri ege-monici esistenti. Un esempio eccellente è offerto dalle cosiddet-te “lotte dei nuovi lavoratori” in Francia e in Italia alla fine deglianni ’60. Queste mostrano bene come le forme delle lotte all’in-terno della fabbrica dipendano da un contesto discorsivo moltopiù vasto rispetto a quello dei semplici rapporti di produzione.L’evidente influenza delle lotte e degli slogan del movimentostudentesco, il ruolo centrale giocato dai giovani operai, la cuicultura era radicalmente differente da quella dei loro colleghianziani, l’importanza degli immigrati in Francia e degli operaimeridionali in Italia: tutto questo rivela che le altre relazionisociali in cui sono coinvolti gli operai determinano il modo incui essi reagiscono all’interno della fabbrica, e che di conse-guenza la pluralità di queste relazioni non può essere magica-mente cancellata per costituire una classe operaia unica. Di con-seguenza, le rivendicazioni operaie non possono ridursi a un

Page 252: opuscula /193 - Monoskop

252

solo antagonismo, ontologicamente differente per natura daquello degli altri soggetti sociali e politici.

È per questo motivo che finora abbiamo parlato di unamolteplicità di antagonismi, i cui effetti convergenti e surdeter-minati si inscrivono nel quadro della cosiddetta “rivoluzionedemocratica”. A questo punto occorre però chiarire che la rivo-luzione democratica è semplicemente il terreno sul quale operauna logica di spostamento sostenuta da un immaginario egalita-rio, ma che essa non predetermina la direzione in cui quest’ulti-mo potrà operare. Se la direzione fosse predeterminata avrem-mo semplicemente costruito una nuova teleologia: saremmo suun terreno simile a quello della Entwicklung di Bernstein. Macosì non vi sarebbe spazio per alcuna pratica egemonica. Ilmotivo per cui non è così, e nessuna teleologia può spiegare lerelazioni sociali, è che la bussola discorsiva della rivoluzionedemocratica apre il campo a logiche politiche così diverse quan-to il populismo di destra e il totalitarismo da una parte e lademocrazia radicale dall’altra. Se, quindi, vogliamo costruirearticolazioni egemoniche che ci permettano di procedere nelsenso di quest’ultima, dobbiamo comprendere nella sua radica-le eterogeneità la gamma di possibilità che si aprono sul terrenodella democrazia stessa.

Senza dubbio la proliferazione dei nuovi antagonismi e dei“nuovi diritti” sta portando a una crisi della formazione egemo-nica del periodo postbellico. Ma la forma del suo superamento èlungi dall’essere predeterminata, perché la definizione dei dirittie delle forme di lotta contro la subordinazione a venire non sonostabilite una volta per tutte. Siamo di fronte a una vera polisemia.Ad esempio, il femminismo o l’ecologia esistono sotto formemolteplici, che dipendono dalla maniera in cui viene discorsiva-mente costruito l’antagonismo. Abbiamo così un femminismoradicale che si rivolge contro i maschi in quanto tali; un femmi-nismo della differenza che pretende di valorizzare la “femmini-lità” e un femminismo marxista per il quale il nemico fonda-mentale è il capitalismo, legato indissolubilmente al patriarcato.Nella costruzione di un antagonismo c’è dunque una pluralità diforme discorsive relative ai diversi tipi di subordinazione delle

Page 253: opuscula /193 - Monoskop

253

donne. Allo stesso modo, l’ecologia può essere anticapitalista,anti-industriale, autoritaria, libertaria, socialista, reazionaria ecosì via. Le forme di articolazione di un antagonismo, per nien-te predeterminate, sono quindi il risultato di una lotta egemoni-ca. Questa affermazione ha importanti conseguenze perchéimplica che le nuove lotte non sono necessariamente progressi-ste: sarebbe quindi sbagliato pensare che si collochino sponta-neamente in un contesto politico di sinistra. Molti, a partire daglianni ’60, si sono consacrati alla ricerca di un nuovo soggettorivoluzionario privilegiato in sostituzione della classe operaia,visto che questa aveva fallito la sua missione storica di emanci-pazione. I movimenti ecologisti, i movimenti studenteschi, ilfemminismo e le masse marginalizzate sono stati i candidati piùpopolari ad assumere questo ruolo. Ma è chiaro come un taleapproccio non sfugga alla problematica tradizionale, ma sempli-cemente la sposti. Non c’è alcuna posizione privilegiata unicadalla quale consegue una continuità uniforme di effetti, destina-ta a concludersi con la trasformazione dell’intera società. Tutte lelotte, degli operai come di altri soggetti politici, hanno di per séun carattere parziale e possono articolarsi con discorsi molto dif-ferenti. È questa articolazione a dare loro il proprio carattere, nonil posto da cui provengono. Non c’è quindi soggetto – né a for-tiori alcuna “necessità” – che sia assolutamente radicale e irre-cuperabile da parte dell’ordine dominante, e che costituisca unpunto di partenza assolutamente garantito per una trasformazio-ne totale (allo stesso modo non c’è niente che assicuri in perma-nenza la stabilità di un ordine costituito). È in relazione a questopunto, a nostro parere, che analisi assai interessanti come quelledi Alain Touraine e André Gorz non vadano fino in fondo nelrompere con la problematica tradizionale.20 Gorz, ad esempio,

20. Cfr. A. TOURAINE, L’après-socialisme, Hachette, Paris 1980; A. GORZ,Addio al proletariato: oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma 1982. Perun’interessante discussione di Touraine cfr. J. COHEN, Class and Civil Society:The Limits of Marxian Critical Theory, The University of Mass. Press, Amherst1982.

Page 254: opuscula /193 - Monoskop

254

attribuendo alla “non-classe dei non-operai” il privilegio negatoal proletariato, non fa nient’altro che invertire la posizionemarxista. È ancora il posto assunto nella sfera dei rapporti di pro-duzione a essere determinante, anche quando il soggetto rivolu-zionario è definito dall’assenza di tale collocazione. Per quantoriguarda Touraine, nemmeno la sua ricerca di un movimentosociale capace di giocare nella “società programmata” il ruologiocato dalla classe operaia nella società industriale mette in que-stione l’idea dell’unicità della forza sociale destinata ad attuareun mutamento radicale in una società determinata.

Che le forme di resistenza alle nuove forme di subordina-zione siano polisemiche e possano essere perfettamente artico-late in un discorso anti-democratico è dimostrato chiaramentedall’avanzata della “nuova destra” negli anni recenti. La suanovità consiste nell’articolare insieme al discorso neoliberaleuna serie di resistenze democratiche alla trasformazione dellerelazioni sociali. La ragione del sostegno popolare ai progetti dismantellamento del welfare state di Reagan e della Tatcher risie-de nel fatto che essi sono riusciti a mobilitare contro quest’ulti-mo un’intera serie di resistenze al carattere burocratico dellanuove forme di organizzazione statale. Che le catene di equiva-lenza costituite da ogni articolazione egemonica possa essere dinatura assai differente è dimostrato chiaramente da questodiscorso neo conservatore: gli antagonismi formatisi intornoalla burocratizzazione si articolano in difesa delle disuguaglian-ze tradizionali di sesso e di razza. La difesa dei diritti acquisiti,fondati sulla supremazia bianca e maschile che nutre la reazio-ne conservatrice, estende così l’area dei suoi effetti egemonici.Un antagonismo si costruisce allora tra due poli: il “popolo”,che include tutti i difensori dei valori tradizionali e della libertàd’impresa e i loro avversari: lo Stato e tutti i sovversivi (femmi-niste, neri, giovani e “permessivisti” d’ogni tipo). In questomodo è stato fatto un tentativo di costruire un nuovo blocco sto-rico in cui si articolano una pluralità di aspetti economici, socia-li e culturali. Stuart Hall ha sottolineato, ad esempio, come ilpopulismo tatcheriano “combini i temi portanti del toryismoorganico – nazione, famiglia, dovere, autorità, norme, tradizio-

Page 255: opuscula /193 - Monoskop

255

nalismo – con quelli aggressivi di un neoliberalismo rivivifica-to – interesse privato, individualismo competitivo, anti-statali-smo”.21 Nel caso degli Stati Uniti, Allen Hunter mostra comel’attacco della Nuova destra al welfare state rappresenta il puntoin cui si ricongiungono la critica culturale e quella economica.Entrambe affermano che lo stato interferisce

con i caratteri economici ed etici del mercato in nome di un egalitari-smo ingannevole. Attaccano anche il liberalismo del welfare in quan-to prevede l’intervento dello Stato nelle vite private delle persone enella struttura morale della società in ambiti come la socializzazionedei bambini e la relazione tra i sessi.22

È precisamente tale carattere polisemico di ogni antagoni-smo a rendere il suo significato dipendente da un’articolazioneegemonica, nella misura in cui, come abbiamo visto, il terrenodelle pratiche egemoniche si costituisce a partire dall’ambiguitàfondamentale del sociale, dall’impossibilità di stabilire inmaniera definitiva il significato di ogni lotta, che sia considera-ta isolata o attraverso il suo fissarsi in un sistema relazionale.Come abbiamo detto, ci sono pratiche egemoniche perché talenon-fissità radicale rende impossibile la valutazione della lottapolitica come un gioco in cui l’identità delle forze contrapposteviene costituita fin dall’inizio. Questo significa che ogni politi-ca che abbia aspirazioni egemoniche non può mai considerarsicome ripetizione, come se avesse luogo in uno spazio delimi-tante una pura interiorità, ma deve sempre muoversi su una plu-ralità di piani. Non essendo dato in partenza, il significato di

21. Cfr. S. HALL - M. JACQUES, The Politics of Thatcherism, Lawrence &Wishart, London 1983, p. 29. Il modo in cui il sessismo è stato mobilitato percreare una base popolare per il tatcherismo è indicato in B. CAMPBELL, WiganPier Revisited: Poverty and Politics in the ‘80s, Virago, London 1984.

22. Cfr. A. HUNTER, The Ideology of the New Right, in Crisis in the PublicSector. A Reader, Monthly Review Press, New York 1981, p. 324. Per un’anali-si meditata della presente congiuntura nella politica americana cfr. D. PLOTKE,The Politics of Transition: The United States in Transition, in “Socialist Review”,55, 1981.

Page 256: opuscula /193 - Monoskop

256

qualsiasi lotta può fissarsi – parzialmente – solo uscendo fuorida sé e articolandosi strutturalmente con altre lotte attraversocatene di equivalenza. Ogni antagonismo, preso di per sé, è unsignificante fluttuante, un antagonismo “selvaggio” che nonpredetermina la forma in cui può articolarsi con altri elementiall’interno di una formazione sociale. Il che ci permette di sta-bilire la differenza radicale tra le lotte sociali attuali e quelle chehanno avuto luogo prima della rivoluzione democratica. Questeultime si producevano in un contesto di rifiuto delle identitàdate e relativamente stabili; di conseguenza, le frontiere del-l’antagonismo erano chiaramente visibili e non se ne richiedevala costruzione: la dimensione egemonica della politica era dun-que assente. Ma, nelle attuali società industriali, la stessa proli-ferazione di punti di rottura molto diversi, il carattere precario diogni identità sociale, conducono allo sfarinamento delle frontie-re. Ne deriva che il carattere costruito delle linee di demarca-zione è reso più evidente dalla loro maggiore instabilità e lo spo-stamento delle frontiere e delle divisioni interne del socialediventa più radicale. È in questo campo e in tale prospettiva cheil progetto dei nuovi conservatori assume tutte le sue dimensio-ni egemoniche.

L’offensiva anti-democratica

La “nuova destra” neoconservatrice o neoliberale mette inquestione il tipo di articolazione che ha portato il liberalismodemocratico a giustificare l’intervento dello Stato nella lottacontro le disuguaglianze e l’istituzione del welfare. La critica diquesta trasformazione non si è sviluppata solo di recente. Giànel 1944, in La via della schiavitù, Hayek lanciava un violentoattacco contro lo Stato interventista e le varie forme di pianifi-cazione economica allora attuate. Egli annunciava che le societàoccidentali sarebbero diventate collettiviste, avviandosi verso iltotalitarismo. Per Hayek la soglia del collettivismo viene varca-ta nel momento in cui la legge, invece di essere un mezzo percontrollare l’amministrazione, è utilizzata da quest’ultima per

Page 257: opuscula /193 - Monoskop

257

attribuirsi nuovi poteri e facilitare l’espansione della burocrazia.Da questo momento in poi è inevitabile che il potere della leggedeclini, mentre aumenta quello della burocrazia. In realtà laposta in gioco di tale critica neoliberale è l’articolazione stessatra liberalismo e democrazia realizzata nel corso del dicianno-vesimo secolo.23 Questa “democratizzazione” del liberalismo,risultato di molteplici lotte, avrebbe avuto alla fine un profondoimpatto sulla forma in cui è stata poi concepita l’idea stessa dilibertà. Dalla tradizionale definizione liberale di Locke –“libertà significa infatti essere liberi dal vincolo e dalla violen-za degli altri” – siamo passati, con John Stuart Mill, all’accetta-zione della libertà “politica” e della partecipazione democraticacome componenti essenziali della libertà. Più di recente, neldiscorso socialdemocratico, la libertà ha assunto il significato di“capacità” di fare determinate scelte e mantenere aperta unaserie di alternative reali. Povertà, mancanza di educazione egrandi disparità nelle condizioni di vita sono oggi considerateoffese contro la libertà.

È questa trasformazione che il neoliberalismo intende met-tere in discussione. È Hayek che senza dubbio si è dedicato piùstrenuamente alla riformulazione dei principi del liberalismo, percombattere gli slittamenti di significato che hanno permesso l’e-stensione e l’approfondimento delle libertà. Egli propone di riaf-fermare la “vera” natura del liberalismo, come dottrina che cercadi ridurre al minimo i poteri dello Stato per massimizzare l’o-biettivo politico centrale: la libertà individuale. Questa vieneancora una volta definita negativamente come “quella condizio-ne dell’uomo in cui in una società la coercizione di alcuni su altriè ridotta il più possibile”.24 La libertà politica viene ostentata-mente esclusa da tale definizione. Per Hayek, “la democrazia èessenzialmente un mezzo, un congegno utile per la salvaguardia

23. Tale articolazione è stata analizzata da C.B. MACPHERSON in The Lifeand Times of Liberal Democracy, Oxford University Press, Oxford 1977.

24. Cfr. F. HAYEK, The Constitution of Liberty, University of ChicagoPress, Chicago 1960, p. 11.

Page 258: opuscula /193 - Monoskop

258

della pace interna e della libertà individuale”.25 Questo tentativodi fare ritorno alla concezione tradizionale della libertà, caratte-rizzata come non-interferenza nel diritto di appropriazione illi-mitata e nei meccanismi dell’economia capitalista di mercato,scredita ogni concezione “positiva” della libertà in quanto poten-zialmente totalitaria. Si afferma che l’ordine politico liberale puòesistere solo nella struttura di una libera economia di mercatocapitalista. In Capitalismo e libertà, Milton Friedman sostienecome questa si configuri come il solo tipo di organizzazionesociale che rispetti il principio della libertà individuale, essendol’unico sistema economico capace di coordinare le attività di ungrande numero di persone senza ricorrere alla coercizione. Ogniintervento statale, eccetto quelli concernenti materie che nonpossono regolarsi attraverso il mercato, è considerato come unattacco alla libertà individuale. Uno dei bersagli preferiti dei neo-liberali è la nozione di giustizia redistributiva, invocata per giu-stificare l’intervento dello Stato. Hayek la giudica una nozionedel tutto incomprensibile in una società liberale, poiché

In un sistema simile, nel quale ogni individuo può usare liberamentele proprie conoscenze per i propri fini, il concetto di “giustizia socia-le” è necessariamente vuoto e privo di significato, perché in esso nonvi è alcuna volontà che possa determinare i redditi relativi delle variepersone, o evitare il fatto che dipendano in parte dal caso.26

Da una prospettiva “libertaria” anche Robert Nozick hadiscusso l’idea che possa darsi qualcosa come una giustiziadistributiva cui dovrebbe provvedere lo Stato.27 Nella sua pro-

25. F. HAYEK, La via della schiavitù, introduzione all’edizione italiana diA. Martino, trad. it. di D. Antiseri e R. De Mucci, Rusconi, Milano 1995, p. 121.

26. Cfr. F. HAYEK, Legge, legislazione e libertà: critica dell’economia pia-nificata, edizione italiana a cura di A. Petroni e S. Monti Bragadin, prefazione diM. Finazzer Flory, trad. it. di P.G. Monateri, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 271.

27. Cfr. R. NOZICK, Anarchia, stato e utopia, presentazione di S.Maffettone, trad. it. di G. Ferranti, Il saggiatore, Milano 2008.

Page 259: opuscula /193 - Monoskop

259

spettiva, l’unica funzione dello Stato compatibile con la libertàè quella di proteggere ciò che ci appartiene legittimamente,mentre esso non ha il diritto di imporre tasse che eccedanoquanto richiesto per lo sviluppo delle attività di polizia. In con-trasto con gli ultra-libertari americani che rifiutano ogni inter-vento dello Stato,28 Nozick giustifica l’esistenza dello Statominimo, ovvero di legge e ordine. Ma uno Stato che andasseoltre sarebbe ingiustificabile, perché violerebbe i diritti indivi-duali. In ogni caso, afferma Nozick, non vi sarebbe niente didisponibile che possa essere distribuito legalmente da partedello Stato, visto che ogni cosa esistente si trova in possesso diindividui o sotto il loro legittimo controllo.

Un altro modo di aggredire gli effetti sovversivi dell’arti-colazione tra liberalismo e democrazia è, alla maniera dei nuoviconservatori, quello di ridefinire la nozione stessa di democra-zia, in modo da ridurne il campo di applicazione e limitare lapartecipazione politica a un’area sempre più ristretta. CosìBrzezinski propone di “separare sempre di più il sistema politi-co dalla società, cominciando a concepirli come entità distin-te”.29 L’obiettivo è quello di sottrarre ulteriormente le decisionipubbliche al controllo politico, affidandole alla responsabilitàesclusiva degli esperti. In tal caso, l’effetto sarebbe una depoli-ticizzazione delle decisioni fondamentali, a livello economicocome a quello politico. Una tale società sarebbe democratica “insenso libertario; democratica non nel senso dell’esercizio dellescelte fondamentali concernenti le politiche, ma nel senso dellaconservazione di alcune aree di autonomia per l’auto-espressio-ne individuale”.30 Sebbene l’ideale democratico non sia messoesplicitamente sotto attacco, si tenta di svuotarlo di ogni sostan-

28. Per una presentazione della loro posizione si consulti M.N.ROTHBARD, Per una nuova libertà: il manifesto libertario, Liberilibri, Macerata1996.

29. Cfr. Z. BRZEZINSKI, citato da P. Steinfels, The Neo-Conservatives,Simon and Schuster, New York 1979, p. 269.

30. Ivi, p. 270.

Page 260: opuscula /193 - Monoskop

260

za e di proporre una nuova definizione di democrazia, utile difatto a legittimare un regime in cui la partecipazione politicapotrebbe virtualmente non esistere.

In Francia, tra i teorici della nuova destra, la critica dellademocrazia è stata ben più audace e frontale. Il suo principaleportavoce, Alain de Benoist, dichiara apertamente che laRivoluzione francese ha segnato una delle tappe fondamentalidella degenerazione della civiltà occidentale: una degenerazionecominciata con il Cristianesimo, il “bolscevismo dell’antichità”.Sostiene anche che sarebbe necessario farla finita con lo stessospirito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789.Recuperando abilmente una serie di temi libertari del movimen-to del 1968, Alain de Benoist ritiene che, attribuendo un ruolofondamentale al suffragio universale, la democrazia ponga tuttigli individui al medesimo livello, non riconoscendo le loro dif-ferenze essenziali. Ne deriverebbe l’uniformazione e la massifi-cazione dell’insieme dei cittadini, ai quali sarebbe imposta unanorma unica, a riprova del carattere necessariamente totalitariodella democrazia. Di fronte alla catena di equivalenze ugua-glianza = identità = totalitarismo, la nuova destra proclama il“diritto alla differenza” e afferma la sequenza differenza = disu-guaglianza = libertà. Scrive de Benoist: “Chiamo ‘di destra’ l’at-titudine a considerare la diversità del mondo e, dunque, le disu-guaglianze, come un bene, e la omogeneizzazione progressivadel mondo, favorita e realizzata dal discorso bimillennario del-l’ideologia totalitaria, come un male”.31

Sarebbe un errore sottovalutare l’importanza di questi ten-tativi di ridefinire le nozioni di “libertà”. “uguaglianza”, “giu-stizia” e “democrazia”. Il dogmatismo tradizionale della sini-stra, che attribuisce importanza secondaria ai problemi centralidella filosofia politica, si basa sul carattere “sovrastrutturale” diquesti ultimi. In fin dei conti, la sinistra si è interessata solo auna gamma limitata di problemi legati alla struttura e ai sogget-

31. Cfr. A. DE BENOIST, Les idées à l’endroit, Éditions Libres-Hallier,Paris 1979, p. 81.

Page 261: opuscula /193 - Monoskop

261

ti che si costituiscono al suo interno, mentre tutto il vasto campodella cultura e della definizione della realtà sulla sua base, tuttolo sforzo di riarticolazione egemonica delle diverse formazionidiscorsive, sono stati abbandonati all’iniziativa della destra. E sein effetti l’intera concezione liberal-democratica dello Stato,associata alla destra, è stata vista semplicemente come la formasovrastrutturale del dominio borghese, è stato difficile – senzacadere in un volgare opportunismo – considerare possibileun’attitudine diversa. Tuttavia, una volta abbandonata la distin-zione base/sovrastruttura e rigettata l’idea che ci siano punti pri-vilegiati da cui è possibile avviare una pratica politica di eman-cipazione, è chiaro che la costituzione di un’alternativa egemo-nica di sinistra può derivare solo da un complesso processo diconvergenza e di costruzione politica, rispetto al quale nessunadelle articolazioni egemoniche costruite in ogni ambito dellarealtà sociale può restare indifferente. La forma in cui libertà,uguaglianza, democrazia e giustizia sono definite al livello dellafilosofia politica può avere importanti conseguenze per nume-rosi altri livelli di discorso e contribuire, in modo decisivo, adelineare il senso comune delle masse. Naturalmente questieffetti di irradiazione non possono essere considerati come lasemplice adozione di un punto di vista filosofico nella sferadelle “idee”, ma devono essere visti piuttosto come un insiemepiù complesso di operazioni egemonico-discorsive, compren-denti una varietà di aspetti istituzionali e, al tempo stesso, ideo-logici, tramite i quali alcuni “temi” si trasformano nei puntinodali di una formazione discorsiva (ovvero di un blocco stori-co). Se le idee neoliberali hanno acquisito un’indiscutibile riso-nanza politica, è perché hanno permesso l’articolazione di resi-stenze alla crescente burocratizzazione delle relazioni socialicui prima alludevamo. Il nuovo conservatorismo è così riuscitoa presentare il suo programma di smantellamento del welfarestate come una difesa della libertà individuale contro lo Statooppressore. Ma perché una filosofia diventi un’“ideologia orga-nica”, devono esistere alcune analogie tra il tipo di soggetto cheessa costruisce e le posizioni soggettive costituite al livello dialtre relazioni sociali. Se il tema della libertà individuale può

Page 262: opuscula /193 - Monoskop

262

essere mobilitato in modo così efficace è anche perché, nono-stante la sua articolazione con l’immaginario democratico, illiberalismo ha conservato come matrice della produzione indi-viduale ciò che Macpherson chiamava “individualismo posses-sivo”. Quest’ultimo considera i diritti dell’individuo preesisten-ti alla società e, spesso, in opposizione a essa. Nella misura incui soggetti sempre più numerosi hanno rivendicato tali diritti,nel quadro della rivoluzione democratica, era inevitabile che lamatrice dell’individualismo finisse per dissolversi, entrando idiritti di alcuni in collisione con quelli degli altri. È, in tale con-testo di crisi del liberalismo democratico, che è necessario situa-re l’offensiva che cerca di dissolvere il potenziale sovversivodelle articolazioni tra liberalismo e democrazia, riaffermando lacentralità del liberalismo come difesa della libertà individualecontro ogni interferenza statale e in opposizione alla componen-te democratica, fondata su uguali diritti e sulla sovranità popo-lare. Ma lo sforzo di ridurre il terreno della lotta democratica edi preservare le disuguaglianze esistenti in varie relazioni socia-li esige la difesa di un principio gerarchico e anti-egalitariomesso in pericolo dal liberalismo stesso. Ecco perché i liberaliricorrono sempre più a una serie di temi della filosofia conser-vatrice, trovandovi gli ingredienti necessari per giustificare ladisuguaglianza. Assistiamo, quindi, all’emergenza di un nuovoprogetto egemonico, quello del discorso liberal-conservatore,che prova ad articolare la difesa neoliberale della libera econo-mia di mercato con il tradizionalismo culturale e sociale,profondamente antiegalitario, del conservatorismo.

La democrazia radicale: un’alternativa per una nuova sinistra

La reazione conservatrice assume quindi un carattere chia-ramente egemonico. Essa cerca una profonda trasformazionedei termini del discorso politico e la creazione di una nuova“definizione della realtà”, che sotto la maschera della “libertàindividuale” legittimerebbe disuguaglianze e restaurerebbe lerelazioni gerarchiche distrutte dalle lotte dei decenni preceden-

Page 263: opuscula /193 - Monoskop

263

ti. In gioco è qui, infatti, la creazione di un nuovo blocco stori-co. Convertito in ideologia organica, il liberal-conservatorismocostruirebbe una nuova articolazione egemonica attraverso unsistema di equivalenze capace di unificare molteplici posizionisoggettive intorno a una definizione individualista dei diritti e auna concezione negativa della libertà. Siamo, ancora una volta,di fronte allo spostamento della frontiera del sociale. Una seriedi posizioni soggettive, accettate come differenze legittime nellaformazione egemonica corrispondente al welfare state, sonoespulse dal campo della positività sociale e costruite come nega-tività: i parassiti della sicurezza sociale (gli “scrocconi” secon-do la Thatcher), l’inefficienza associata ai privilegi sindacali eai sussidi statali, e così via.

È dunque chiaro come un’alternativa di sinistra possa con-sistere solo nella costruzione di un sistema differente di equiva-lenze, che stabilisca la divisione sociale su una nuova base. Difronte al progetto di ricostruzione di una società gerarchica l’al-ternativa di sinistra dovrebbe inscriversi pienamente nel campodella rivoluzione democratica e nell’espansione delle catene diequivalenze tra le diverse lotte contro l’oppressione. Perciò, lamissione della sinistra non può rinunciare all’ideologia liberal-democratica, ma al contrario deve approfondirla ed estenderlanella direzione di una democrazia radicale e plurale.Spiegheremo le dimensioni di questo compito nelle pagineseguenti, ma la sua stessa possibilità emerge dal fatto che ilsignificato del discorso liberale sui diritti individuali non è fis-sato una volta per tutte; e proprio in quanto permette l’articola-zione di tali diritti con elementi del discorso conservatore, lanon-fissità permette anche diverse forme di articolazione e ride-finizione che accentuano il momento democratico. Vale a direche gli elementi costituenti del discorso liberale, come ognialtro elemento sociale, non appaiono mai come cristallizzati epossono diventare il campo della lotta egemonica. La possibilitàdi una strategia egemonica della sinistra non consiste nell’ab-bandono del terreno democratico, ma al contrario nell’estensio-ne del campo delle lotte democratiche all’insieme della societàcivile e dello Stato. Tuttavia, è importante comprendere la misu-

Page 264: opuscula /193 - Monoskop

264

ra radicale dei mutamenti necessari nell’immaginario politicodella sinistra, se questa vuole riuscire nella fondazione di unapratica politica pienamente collocata nel campo della rivoluzio-ne democratica e consapevole della profondità e varietà dellearticolazioni egemoniche richieste dalla congiuntura presente.L’ostacolo fondamentale, in questo compito, è stato al centrodella nostra attenzione sin dall’inizio di questo libro: l’apriori-smo essenzialista, la convinzione che il sociale sia suturato in unpunto determinato, a partire dal quale sarebbe possibile fissareil significato di ogni evento indipendentemente da ogni praticaarticolatoria. Ciò ha comportato la mancata comprensione delcostante spostamento dei punti nodali che strutturano una for-mazione sociale, e ha condotto a un’organizzazione del discor-so nel senso di una logica dei “punti privilegiati a priori” chelimita seriamente la capacità di azione e di analisi politica dellasinistra. La logica dei punti privilegiati ha operato in varie dire-zioni. Dal punto di vista della determinazione degli antagonismifondamentali, l’ostacolo rilevante, come abbiamo visto, è statoil classismo: vale a dire l’idea che la classe operaia rappresentil’agente privilegiato, la sede dell’impulso fondamentale almutamento sociale, senza percepire che l’orientamento stessodella classe operaia dipende da un bilancio politico delle forze edalla radicalizzazione di una pluralità di lotte democratichedecise in buona parte fuori dalla classe stessa. Dal punto di vistadei livelli sociali in cui si concentra la possibilità di attuare tra-sformazioni, gli ostacoli fondamentali sono stati lo statalismo:l’idea che l’espansione del ruolo dello Stato sia la panacea perogni problema; e l’economicismo (in particolare nella sua ver-sione tecnocratica): l’idea che da una strategia economica profi-cua segua necessariamente una continuità di effetti politici chia-ramente individuabili.

Ma se cerchiamo il nucleo ultimo di questa fissità essen-zialista lo troveremo nel punto nodale fondamentale, quello cheha galvanizzato l’immaginazione politica della sinistra: il con-cetto classico di “rivoluzione” nella sua forma giacobina. Certo,non vi sarebbe niente da obiettare al concetto di “rivoluzione” sefosse inteso come surdeterminazione di un insieme di lotte in un

Page 265: opuscula /193 - Monoskop

265

punto di rottura politica, da cui seguono vari effetti estesi a tuttoil tessuto della società. Se fosse così non vi sarebbe il minimodubbio che in molti casi la deposizione violenta del regimerepressivo sia la condizione di ogni progresso democratico. Mail concetto classico di rivoluzione implicava qualcosa di più:implicava il carattere fondativo dell’atto rivoluzionario, l’istitu-zione di un punto di concentrazione del potere da cui la societàpoteva essere riorganizzata “razionalmente”. È questa la pro-spettiva incompatibile con la pluralità e l’apertura richieste dauna democrazia radicale. Radicalizzando una volta ancora alcu-ni concetti gramsciani, possiamo trovare gli strumenti teoriciche ci permettono di ridimensionare lo stesso atto rivoluziona-rio. Il concetto di “guerra di posizione” implica precisamente ilcarattere processuale di ogni trasformazione radicale: l’attorivoluzionario è, semplicemente, un momento interno di questoprocesso. Moltiplicare gli spazi politici e impedire la concentra-zione del potere in un unico punto sono allora le precondizionidi ogni vera trasformazione democratica della società. La con-cezione classica del socialismo supponeva che la scomparsadella proprietà privata dei mezzi di produzione avrebbe prodot-to una serie di effetti che, lungo tutta un’epoca storica, avrebbecondotto all’estinzione di tutte le forme di subordinazione. Oggisappiamo che non è così. Ad esempio, non ci sono legami neces-sari tra anti-sessismo e anticapitalismo, e una loro unità non puòrisultare che da un’articolazione egemonica. Ne segue che èpossibile costruire tale articolazione sulla base di lotte separate,che esercitano i loro effetti equivalenziali e di surdeterminazio-ne solo in certe sfere del sociale. Questo esige l’autonomizza-zione delle sfere della lotta e la moltiplicazione degli spazi poli-tici, che sono incompatibili con la concentrazione del potere edel sapere contenuta nel giacobinismo classico e nelle sue diffe-renti varianti socialiste. Certo, ogni progetto di democrazia radi-cale implica una dimensione socialista, perché è necessarioporre fine ai rapporti di produzione capitalistici che sono allaradice di numerose relazioni di subordinazione; ma il sociali-smo è una delle componenti di un progetto di democrazia radi-cale, non il contrario. Per questa stessa ragione, quando si parla

Page 266: opuscula /193 - Monoskop

266

della socializzazione dei mezzi di produzione come uno deglielementi della strategia per una democrazia radicale e plurale, sideve insistere sul fatto che questo non può significare solo auto-gestione degli operai, poiché a essere in gioco è la stessa parte-cipazione di ogni soggetto alle decisioni su ciò che deve essereprodotto, su come si deve produrre, sui modi in cui il prodottodeve essere ripartito. Solo in tali condizioni può darsi appro-priazione sociale della produzione. Ridurre la questione a unproblema di auto-gestione degli operai significa ignorare che gliinteressi degli operai possono essere costruiti in modo da nontenere conto delle rivendicazioni ecologiste o di altri gruppi che,senza essere produttori, sono investiti dalle decisioni assunte nelcampo della produzione.32

Dal punto di vista di una politica egemonica, allora, il limi-te cruciale della prospettiva tradizionale della sinistra consistenel tentativo di determinare a priori gli agenti del mutamento, ilivelli di effettività nel campo del sociale, i punti privilegiati e imomenti di rottura. Tutti questi ostacoli si condensano in unnucleo comune: il rifiuto di abbandonare il presupposto di unasocietà suturata. Tuttavia, una volta messo da parte questo pre-supposto, emerge tutta una serie di nuovi problemi che ora dob-biamo affrontare. Essi possono riassumersi in tre questioni chediscuteremo in successione: 1) come determinare la superficiedi emergenza e le forme di articolazione degli antagonismi cheun progetto per una democrazia radicale dovrebbe comprende-re? 2) In che misura il pluralismo caratteristico di una democra-zia radicale è compatibile con gli effetti di equivalenza che,come abbiamo visto, sono peculiari di ogni articolazione ege-

32. Nonostante la nostra riflessione si collochi all’interno di una proble-matica teorica molto differente, la nostra enfasi posta sulla necessità di articola-re una pluralità di forme di democrazia, corrispondenti a una molteplicità diposizioni soggettive, distingue il nostro approccio da quello dei teorici della“democrazia partecipativa” con i quali, nondimeno, condividiamo molti interes-si. Sulla “democrazia partecipativa” si veda C.B. MACPHERSON, op. cit. capitolo5 e C. PATEMAN, Participation and Democratic Theory, Cambridge UniversityPress, Cambridge 1970.

Page 267: opuscula /193 - Monoskop

267

monica? 3) In che misura la logica implicita negli spostamentidell’immaginario democratico è sufficiente per definire un pro-getto egemonico?

Quanto al primo punto, è evidente che, essendosi rivelatoinsostenibile l’apriorismo nella topografia del sociale, risultaaltresì impossibile definire a priori le superfici sulle quali sicostituiranno gli antagonismi. Così, sebbene in determinati con-testi possa essere concepita e definita più di una politica di sini-stra, non ce n’è una i cui contenuti possano essere determinati aprescindere da ogni riferimento contestuale. È per questa ragio-ne che ogni tentativo di procedere a questa determinazione apriori si dimostra necessariamente unilaterale e arbitrario, senzaalcuna validità in numerose circostanze. L’infrangersi dell’uni-cità del significato del politico – legato ai fenomeni dello svi-luppo ineguale e combinato – dissolve ogni possibilità di fissa-re il significato nei termini di una divisione tra destra e sinistra.Se si provasse a definire un contenuto ultimo della sinistra sot-tostante a tutti i contesti in cui la si è usata come parola, non sene troverebbe mai uno privo di eccezioni. Ci troviamo esatta-mente nel campo dei giochi linguistici di Wittgenstein: possia-mo al massimo rintracciare “somiglianze di famiglia”.Esaminiamo pochi esempi. In anni recenti si è molto discussosulla necessità di approfondire la linea di separazione tra Statoe società civile. Non è difficile comprendere, tuttavia, che taleproposito non fornisce alla sinistra alcuna teoria della superficiedi emergenza degli antagonismi che possa essere generalizzataoltre un numero limitato di situazioni. Esso sembra implicareche ogni tipo di dominio si incarni nello Stato. Ma è chiarocome la società civile sia anche il luogo di numerose relazionidi oppressione e, dunque, di antagonismi e lotte democratiche.Con maggiore o minore evidenza nei loro risultati, le teoriecome l’analisi althusseriana degli “apparati ideologici di stato”hanno tentato di elaborare una struttura concettuale per pensarequesti fenomeni di dislocamento nel campo del dominio. Nelcaso della lotta femminista, lo Stato è un importante mezzo perprogredire nella legislazione contro il sessismo, spesso contro lasocietà civile. In numerosi paesi sottosviluppati, l’estensione

Page 268: opuscula /193 - Monoskop

268

delle funzioni dello Stato centrale è un mezzo per stabilire unafrontiera nella lotta contro le forme estreme di sfruttamento daparte delle oligarchie latifondiste. Inoltre, lo Stato non è unmedium omogeneo, separato dalla società civile da un fossato,ma un insieme irregolare di ramificazioni e funzioni, integratesolo relativamente dalle pratiche egemoniche che hanno luogoal suo interno. Non si deve dimenticare, soprattutto, che lo Statopuò diventare il luogo di numerosi antagonismi democratici,nella misura in cui, al suo interno, un insieme di funzioni – pro-fessionali o tecniche, per esempio – possono entrare in relazio-ne di antagonismo con i centri di potere dello Stato, che cerca direstringerle e deformarle. Questo non significa dire che, in alcu-ni casi, la divisione tra Stato e società civile non possa costitui-re la linea politica fondamentale di confine: è quel che accadequando lo Stato si trasforma in un’escrescenza burocraticaimposta con la forza sul resto della società, come nell’Europaorientale o nel Nicaragua di Somoza, che era una dittatura soste-nuta da un apparato militare. In ogni caso, è chiaramente impos-sibile identificare a priori lo Stato o la società civile come lasuperficie di emergenza degli antagonismi democratici. Lo stes-so può dirsi quando, dal punto di vista di una politica di sinistra,è in gioco la determinazione del carattere positivo o negativo dicerte forme di organizzazione. Consideriamo ad esempio laforma “partito”. Il partito come istituzione politica può, in alcu-ne circostanze, essere un’istanza di cristallizzazione burocraticache agisce come freno sui movimenti di massa; ma in altre cir-costanze può essere l’organizzatore di masse disperse e politi-camente vergini, e può dunque servire come strumento per l’e-spansione e l’approfondimento delle lotte democratiche. Ilpunto importante è che, data la scomparsa del campo della“società in generale” come struttura valida di analisi politica,svanisce anche la possibilità di stabilire una teoria generaledella politica sulla base delle categorie topografiche, ovvero dicategorie capaci di fissare, in maniera permanente, il significa-to di alcuni contenuti come differenze che possano essere collo-cate entro un complesso relazionale.

La conclusione da trarre da questa analisi è che è impossi-

Page 269: opuscula /193 - Monoskop

269

bile definire a priori le superfici di emergenza degli antagoni-smi, in quanto non c’è superficie che non sia costantemente sov-vertita dagli effetti surdeterminanti di altre superfici, e perchéc’è, di conseguenza, un continuo dislocamento delle logichesociali caratteristiche di alcune sfere verso altre sfere. Si tratta,inoltre, dell’“effetto dimostrativo” visto all’opera nel caso dellarivoluzione democratica. Una lotta democratica può rendereautonomo lo spazio in cui sviluppa e produce effetti di equiva-lenza con altre lotte in uno spazio politico differente. È a questapluralità del sociale che si lega il progetto di una democraziaradicale, e la sua possibilità emana direttamente dal caratteredecentrato degli agenti sociali, dalla pluralità discorsiva che licostituisce come soggetti degli spostamenti che in essa hannoluogo. Le forme originarie del pensiero democratico erano lega-te a una concezione positiva e unificata della natura umana etendevano, perciò, a costituire uno spazio unico entro cui talenatura avrebbe dovuto manifestare gli effetti della sua libertà edella sua uguaglianza radicali: fu così che si costituì uno spaziopubblico legato all’idea di cittadinanza. La distinzione pubbli-co/privato rappresentava la separazione tra uno spazio in cui ledifferenze erano cancellate nell’equivalenza universale dei citta-dini e una pluralità di spazi privati in cui si conservava la loroforza. È qui che la surdeterminazione degli effetti, legata allarivoluzione democratica, comincia a spostare la linea di demar-cazione tra il pubblico e il privato e a politicizzare le relazionisociali; a moltiplicare, cioè, gli spazi in cui la nuova logica del-l’equivalenza dissolve la positività differenziale del sociale: è illungo processo che va dalle lotte operaie del diciannovesimosecolo alle lotte delle donne, delle diverse minoranze razziali,sessuali e dei diversi gruppi marginali alle nuove lotte anti-isti-tuzionali nel secolo presente. Perciò a esplodere è l’idea stessadella realtà di uno spazio unico di costituzione del politico.Siamo testimoni di una politicizzazione molto più radicale diquelle conosciute nel passato, perché essa tende a dissolvere ladistinzione tra il pubblico e il privato, non nel senso di una vio-lazione del privato da parte di uno spazio pubblico unificato, manel senso di una proliferazione di spazi radicalmente nuovi e

Page 270: opuscula /193 - Monoskop

270

differenti. Assistiamo all’emergere di una pluralità di soggetti,le cui forme costitutive e la cui diversità sono pensabili solo serinunciamo alla categoria di “soggetto” come essenza unificatae unificante.

Non entra tuttavia tale pluralità del politico in contraddi-zione con l’unificazione risultante dagli effetti equivalenzialiche, come sappiamo, sono la condizione degli antagonismi? O,in altre parole, non c’è incompatibilità tra la proliferazione deglispazi politici propri di una democrazia radicale e la costruzionedi identità collettive sulla base della logica dell’equivalenza?Ancora una volta siamo di fronte all’apparente dicotomia auto-nomia/egemonia, cui abbiamo fatto riferimento già nel capitoloprecedente e di cui dobbiamo ora esaminare le implicazioni e glieffetti politici. Consideriamo la questione da due prospettive: a)dal punto di vista del terreno sul quale la dicotomia può presen-tarsi come esclusiva; b) dal punto di vista della possibilità edelle condizioni storiche di emergenza di tale terreno di esclu-sione.

Cominciamo quindi analizzando il terreno di incompatibilitàtra effetti di equivalenza e autonomia. In primo luogo, la logicadell’equivalenza. Abbiamo già indicato come, nella misura in cuil’antagonismo emerge non solo nello spazio dicotomizzato che locostituisce, ma anche nel campo di una pluralità del sociale cheeccede sempre tale ambito, è solo uscendo fuori da sé ed egemo-nizzando elementi esterni che si consolida l’identità dei due poli.Il rafforzarsi di specifiche lotte democratiche richiede dunque l’e-stensione ad altre lotte delle catene di equivalenza. L’articolazioneequivalenziale tra anti-razzismo, anti-sessismo e anticapitalismo,per esempio, richiede una costruzione egemonica che, in circo-stanze determinate, può essere la condizione per il consolidarsi diognuna di queste lotte. La logica dell’equivalenza, allora, spintaalle sue estreme conseguenze, implicherebbe la dissoluzione del-l’autonomia degli spazi in cui ognuna di queste lotte si costitui-sce; non perché ognuna di esse si subordini necessariamente allealtre, ma perché diventano tutte, a rigor di termini, simboli equi-valenti di una lotta unica e indivisibile. L’antagonismo avrebbequindi realizzato le condizioni di totale trasparenza, essendo stata

Page 271: opuscula /193 - Monoskop

271

eliminata ogni disuguaglianza ed essendosi dissolta la specificitàdifferenziale degli spazi in cui ognuna delle lotte democratiche siè costituita. In secondo luogo, occorre analizzare la logica del-l’autonomia. Ognuna di queste lotte conserva la sua specificitàdifferenziale rispetto alle altre. Gli spazi politici dove ciascuna diesse si costituisce sono differenti e incapaci di comunicare traloro. Ma si scorge facilmente come tale logica apparentementelibertaria sia sostenibile solo al prezzo di una nuova chiusura. Se,infatti, ogni lotta trasforma il momento della sua specificità in unprincipio di identità assoluto, l’insieme di queste lotte può conce-pirsi solo come un sistema assoluto di differenze, che non puòessere pensato che come una totalità chiusa. Vale a dire, la tra-sparenza del sociale è stata semplicemente trasferita dall’unicità eintelligibilità di un sistema di equivalenze all’unicità e intelligibi-lità di un sistema di differenze. Ma in entrambi i casi abbiamo ache fare con discorsi che cercano, attraverso le loro categorie, didominare il sociale come una totalità. Nell’uno come nell’altrocaso il momento della totalità cessa d’essere un orizzonte e divie-ne una fondazione. È solo in questo spazio razionale e omogeneoche la logica dell’equivalenza e la logica dell’autonomia sonocontraddittorie, perché è solo in esso che le identità sociali si pre-sentano come già acquisite e fissate, ed è quindi solo in esso chedue logiche sociali, contraddittorie in ultima istanza, trovano unterreno in cui tali effetti ultimi possono svilupparsi pienamente.Ma poiché questo momento ultimo, per definizione, non arrivamai, l’incompatibilità tra equivalenza e autonomia scompare.Cambia lo statuto dell’una come quello dell’altra: non è più unproblema di fondamenti dell’ordine sociale, ma di logiche socialiche intervengono nei gradi differenti della costituzione di ogniidentità sociale, limitandone parzialmente gli effetti reciproci. Nepossiamo dedurre una precondizione basilare per una concezioneradicalmente libertaria della politica: il rifiuto di dominare – intel-lettualmente e politicamente – ogni presunta “fondazione ultima”del sociale. Ogni concezione che pretenda di istituirsi su unaconoscenza di questo fondamento deve, prima o poi, affrontare ilparadosso di Rousseau: gli uomini dovrebbero essere obbligati aessere liberi.

Page 272: opuscula /193 - Monoskop

272

Questa trasformazione nello statuto di alcuni concetti, chetraduce quelli che prima erano fondamenti in logiche sociali, cipermette di comprendere la varietà delle dimensioni su cui sibasa una politica democratica. Ci permette, anzitutto, di identifi-care con precisione il significato e i limiti di ciò che possiamochiamare il “principio dell’equivalenza democratica”. Dobbiamospecificarne il significato, perché è chiaro che il mero sposta-mento dell’immaginario egalitario non basta a produrre un muta-mento nell’identità dei gruppi sui quali esso opera. Sulla base delprincipio di uguaglianza, un gruppo costituito corporativamentepuò rivendicare i suoi diritti all’uguaglianza con altri gruppi, mapoiché le rivendicazioni dei vari gruppi sono diverse e in molticasi incompatibili, non si giunge ad alcuna equivalenza reale trale varie rivendicazioni democratiche. In tutti i casi in cui si con-serva la problematica dell’individualismo possessivo comematrice produttiva dell’identità dei differenti gruppi, tale conse-guenza è inevitabile. Infatti, la possibilità di un’“equivalenzademocratica” richiede altro: la costruzione di un nuovo “sensocomune”, che muti l’identità dei diversi gruppi in modo tale chele richieste di ogni gruppo siano articolate in maniera equivalen-te con quelle degli altri: nei termini di Marx occorre “che lo svi-luppo libero di ognuno sia la condizione per lo sviluppo libero ditutti”. Questo vuol dire che l’equivalenza è sempre egemonica:non stabilisce semplicemente un’“alleanza” tra interessi dati, mamodifica l’identità stessa delle forze coinvolte nell’alleanza.Perché la difesa degli interessi degli operai non sia rivendicata adiscapito dei diritti delle donne, degli immigrati o dei consuma-tori, è necessario stabilire un’equivalenza tra queste lotte diffe-renti. È questa la condizione perché le lotte contro il potere sianoeffettivamente democratiche e perché la rivendicazione dei dirit-ti non si esprima sulla base di una problematica individualista,ma nel contesto del rispetto per i diritti all’uguaglianza di altrigruppi subordinati. Ma, se il significato del principio di equiva-lenza democratica è questo, sono chiari anche i suoi limiti.L’equivalenza totale non esiste: ogni equivalenza è penetrata dauna precarietà essenziale, derivata dalla disuguaglianza delsociale. In tale misura, la precarietà di ogni equivalenza esige di

Page 273: opuscula /193 - Monoskop

273

essere completata/limitata dalla logica dell’autonomia. È perquesta ragione che la rivendicazione dell’uguaglianza non è suf-ficiente, ma ha bisogno di essere bilanciata da quella dellalibertà, ed è questo che ci induce a parlare di democrazia radica-le e plurale. Una democrazia radicale e non-plurale costituirebbeuno spazio unico di uguaglianza sulla base dell’operazione illi-mitata della logica dell’equivalenza, e non riconoscerebbe ilmomento irriducibile della pluralità degli spazi. Questo principiodella separazione degli spazi è alla base della rivendicazione dilibertà. È al suo interno che risiede il principio del pluralismo, eal suo interno il progetto di una democrazia plurale può legarsialla logica del liberalismo. Non si tratta di mettere in questione illiberalismo in quanto tale: come principio etico, che difende lalibertà dell’individuo di realizzare le sue capacità umane, è oggivalido più che mai. Ma se questa dimensione della libertà è costi-tutiva di ogni progetto democratico e di emancipazione, essa nondeve condurci, come reazione contro alcuni eccessi “olistici”, aritornare puramente e semplicemente alla difesa dell’individuali-smo “borghese”. È in gioco la produzione di un altro individuo:un individuo che non sia più costruito a partire dalla matrice del-l’individualismo possessivo. L’idea di diritti “naturali” anteriorialla società – e dunque la dicotomia del tutto fallace indivi-duo/società – dovrebbe essere abbandonata e sostituita da un’al-tra maniera di porre il problema dei diritti. Non è mai possibiledefinire i diritti individuali isolatamente, ma solo nel contestodelle relazioni sociali che definiscono determinate posizioni sog-gettive. Di conseguenza, si darà sempre una questione dei dirittiimplicante altre posizioni soggettive partecipi della stessa rela-zione sociale. È in tal senso che occorre intendere la nozione di“diritti democratici”, in quanto si tratta di diritti che possonoessere esercitati solo collettivamente e suppongono l’esistenza didiritti uguali per gli altri. Gli spazi costitutivi delle differenti rela-zioni sociali possono variare in modo considerevole in funzionedel tipo di relazione: rapporti di produzione, di cittadinanza, divicinato, di coppia, e così via. Le forme della democraziadovrebbero essere, pertanto, plurali, ovvero adattarsi agli spazisociali in questione: la democrazia diretta non può essere l’unica

Page 274: opuscula /193 - Monoskop

274

forma di organizzazione, in quanto applicabile solo per spazisociali ridotti.

È perciò necessario estendere il dominio di esercizio deidiritti democratici oltre il limitato campo tradizionale della “cit-tadinanza”. Per quanto riguarda l’estensione dei diritti democra-tici dal dominio “politico” classico a quello dell’economia, sitratta del terreno della lotta specificamente anticapitalista.Contro i campioni del liberalismo economico, i quali affermanoche l’economia è il dominio del “privato”, il luogo dei dirittinaturali, e che i criteri della democrazia non hanno alcunaragion d’essere se applicati al suo dominio, la teoria socialistadifende il diritto dell’agente sociale all’uguaglianza e alla parte-cipazione come produttore e non solo come cittadino. Alcunipassi in avanti sono stati fatti in questa direzione dai teorici dellascuola pluralista come Dahl e Lindblom,33 i quali riconosconocome parlare oggi dell’economia come dominio del privato sia,nell’era delle aziende multinazionali, privo di senso, e che dun-que occorra accettare alcune forme di partecipazione dei lavo-ratori alla gestione delle imprese. La nostra prospettiva èsenz’altro molto diversa, perché a nostro parere è necessariomettere in questione l’idea stessa che vi sia un dominio natura-le del “privato”. Le distinzioni pubblico/privato, società civi-le/Stato non sono che il risultato di un certo tipo di articolazio-ne egemonica, e i loro limiti variano a seconda dei rapporti diforza esistenti in un dato momento. È chiaro ad esempio comeil discorso dei nuovi conservatori si impegni, al giorno d’oggi, arestringere il dominio del politico e a riaffermare il campo delprivato di fronte alla riduzione subita, negli ultimi decenni, sottol’impatto delle differenti lotte democratiche.

Riprendiamo a questo punto il nostro argomento concer-nente le limitazioni reciproche e necessarie tra equivalenza e

33. Cfr. R. DAHL, I dilemmi della democrazia pluralista, premessa di S.Veca, trad. it. di L. Caracciolo di San Vito, Il Saggiatore, Milano 1996 e C.LINDBLOM, Politica e mercato: i sistemi politico-economici mondiali, ETASlibri, Milano 1979.

Page 275: opuscula /193 - Monoskop

275

autonomia. La concezione di una pluralità di spazi politici risul-ta incompatibile con la logica dell’equivalenza solo se si presu-me un sistema chiuso. Ma, una volta abbandonato questo pre-supposto arbitrario, non è possibile derivare dalla proliferazionedegli spazi e dall’indeterminatezza ultima del sociale l’impossi-bilità di una società che si auto-significhi – e, dunque, si pensi– come una totalità, o l’incompatibilità di questo momento tota-lizzante con il progetto di una democrazia radicale. La costru-zione di uno spazio politico con effetti equivalenziali non solonon è incompatibile con la lotta democratica, ma ne è in molticasi un requisito. Ad esempio, la costruzione di una catena diequivalenze democratiche di fronte all’offensiva neoconserva-trice è, nelle circostanze attuali, una delle condizioni della lottadi sinistra per l’egemonia. L’incompatibilità non risiede, dun-que, nell’equivalenza come logica sociale. Essa emerge solo nelmomento in cui questo spazio di equivalenze cessa di essereconsiderato come uno spazio politico tra gli altri, ed è valutatocome il centro che subordina e organizza tutti gli altri spazi.Emerge, cioè, nel caso in cui abbia luogo non solo la costruzio-ne di equivalenze a un certo livello del sociale, ma anche la tra-sformazione di questo livello in un principio unificante, cheriduce al suo interno gli altri a momenti differenziali. Vediamoallora come sia, paradossalmente, la logica stessa dell’aperturae della sovversione democratica delle differenze a creare, nellesocietà attuali, la possibilità di una chiusura molto più radicaleche in passato: se la resistenza ai sistemi tradizionali di diffe-renze è interrotta, e l’indeterminatezza e l’ambiguità trasforma-no più elementi della società in “significanti fluttuanti”, divienepossibile istituire un centro capace di eliminare radicalmente lalogica dell’autonomia, ricostituendo intorno a sé la totalità delcorpo sociale. Se, nel diciannovesimo secolo, i limiti di ogniprogetto di democrazia radicale risiedevano nella sopravvivenzadi vecchie forme di subordinazione che attraversavano varidomini delle relazioni sociali, al giorno d’oggi questi limiti deri-vano da una nuova possibilità che ha luogo sul terreno stessodella democrazia: la logica del totalitarismo.

Claude Lefort ha mostrato come la “rivoluzione democra-

Page 276: opuscula /193 - Monoskop

276

tica”, quale nuovo terreno che presuppone una profonda muta-zione simbolica, implichi una nuova forma di istituzione delsociale. Nelle società precedenti, organizzate secondo una logi-ca teologico-politica, il potere si incorporava nella persona delprincipe, rappresentante di Dio, ovvero della giustizia e dellaragione sovrane. La società era pensata come un corpo e lagerarchia dei suoi membri si fondava sul principio di un ordineincondizionato. Per Lefort, la differenza radicale introdotta dallasocietà democratica è che il luogo del potere diventa uno spaziovuoto; scompare il riferimento a un garante trascendente e, conesso, la rappresentazione dell’unità sostanziale della società. Siproduce di conseguenza una scissione tra le istanze del potere,del sapere e della legge: i loro fondamenti non sono più garan-titi. Si apre così la possibilità di un processo infinito di interro-gazione:

nessuna legge che possa fissarsi, i cui enunciati non siano contestabi-li, i cui fondamenti non siano suscettibili di interrogazione; in breve,nessuna rappresentazione di un centro della società: l’unità non sareb-be più capace di cancellare la divisione sociale. La democrazia inau-gura l’esperienza di una società inafferrabile, incontrollabile, in cui ilpopolo sarà sì proclamato sovrano, ma la sua identità non cesserà diessere problematica, restando latente.34

È in tale contesto, per Lefort, che deve intendersi la possi-bilità di emergenza del totalitarismo, che consiste in un tentati-vo di ristabilire l’unità che la democrazia ha infranto tra i luoghidel potere, della legge e del sapere. Una volta aboliti tutti i rife-rimenti a poteri extra-sociali, attraverso la rivoluzione democra-tica può emergere un potere puramente sociale, che si presenticome totale e che derivi solo da sé il principio della legge e delsapere. Con il totalitarismo, piuttosto che designare un postovacante, il potere cerca di rendersi materiale in un organo chepretende di rappresentare un popolo unitario. Con il pretesto

34. Cfr. C. LEFORT, L’invention démocratique, Fayard, Paris 1981, p. 173.

Page 277: opuscula /193 - Monoskop

277

della realizzazione dell’unità del popolo viene negata la divisio-ne sociale resa visibile dalla logica della democrazia. Questanegazione costituisce il centro della logica del totalitarismo e siattua in un duplice movimento:

l’annullamento dei segni della divisione di Stato e quello dei segnidella divisione interna della società. Essi implicano l’annullamentodella differenziazione tra le istanze che governano la costituzionedella società politica. Non si danno più criteri ultimi della legge, nécriteri ultimi del sapere separati dal potere.35

Se le esaminiamo alla luce della nostra problematica, èpossibile legare queste analisi a ciò che abbiamo caratterizzatocome il campo delle pratiche egemoniche. È proprio perché nonci sono fondamenti garantiti da un ordine trascendente, da uncentro capace di tenere insieme potere, legge e sapere, chediviene possibile e necessario unificare alcuni spazi politiciattraverso articolazioni egemoniche. Ma queste articolazioniegemoniche saranno sempre parziali e suscettibili di essere con-testate perché non c’è un garante supremo. Ogni tentativo di sta-bilire una sutura definitiva e di negare il carattere radicalmenteaperto del sociale istituito dalla logica democratica, conduce aquello che Lefort designa come “totalitarismo”, vale a dire unalogica di costruzione del politico che consiste nello stabilire unpunto di partenza dal quale la società possa essere perfettamen-te dominata e conosciuta. Che si tratti di una logica politica enon di un tipo di organizzazione sociale è provato dal fatto cheessa non può ascriversi a un orientamento politico particolare:può essere il risultato di una politica “di sinistra”, per la qualeogni antagonismo può essere eliminato e la società resa com-pletamente trasparente, o il risultato di una fissazione autorita-ria dell’ordine sociale nelle gerarchie stabilite dallo Stato, comenel caso del fascismo. Ma, in entrambi i casi, si eleva lo Statoallo statuto di unico possessore della verità dell’ordine sociale,

35. Ivi, p. 100.

Page 278: opuscula /193 - Monoskop

278

nel nome del proletariato o della nazione, cercando di controlla-re tutte le reti della socievolezza. Di fronte alla radicale indeter-minatezza aperta dalla democrazia, questo implica un tentativodi imporre nuovamente un centro assoluto e di ristabilire lachiusura che restaura l’unità.

Ma se non si può dubitare che uno dei pericoli per la demo-crazia sia il progetto totalitario di procedere oltre il caratterecostitutivo dell’antagonismo, negando la pluralità per restaurarel’unità, c’è anche un pericolo simmetricamente opposto: la man-canza di ogni riferimento a quest’unità. Infatti, sebbene impos-sibile, questo rimane un orizzonte necessario, data l’assenza diarticolazione tra relazioni sociali, per impedire l’implosione delsociale e un’assenza di ogni punto di riferimento comune.Questo disfarsi del tessuto sociale, causato dalla distruzionedella struttura simbolica, è un’altra forma della scomparsa delpolitico. In contrasto con il pericolo del totalitarismo, che impo-ne autoritariamente articolazioni immutabili, qui il problema èl’assenza delle articolazioni che rendono possibile l’instaurarsidi significati comuni a differenti soggetti sociali. Tra la logicadell’identità completa e quella della pura differenza, l’esperien-za della democrazia dovrebbe consistere nel riconoscimentodella molteplicità delle logiche sociali insieme alla necessitàdella loro articolazione. Ma questa articolazione dovrebbe esse-re costantemente ricreata e rinegoziata, senza che sia possibilepervenire a un punto di equilibrio finale.

Eccoci giunti alla terza questione, quella della relazione tralogica democratica e progetto egemonico. Da tutto quello che siè detto finora, risulta che la sola logica della democrazia non puòbastare alla formulazione di alcun progetto egemonico, perché lalogica della democrazia è semplicemente lo spostamento equiva-lenziale dell’immaginario egalitario verso relazioni sociali anco-ra più estensive, e come tale non è che una logica di eliminazio-ne delle relazioni di subordinazione e disuguaglianza. La logicadella democrazia non è una logica della positività sociale, ed èquindi incapace di fondare un punto nodale di qualsiasi tipointorno al quale possa ricostituirsi il tessuto sociale. Ma se ilmomento sovversivo della logica democratica e il momento posi-

Page 279: opuscula /193 - Monoskop

279

tivo dell’istituzione del sociale, non sono più unificati da alcunfondamento antropologico che li trasformi nelle due facce di unmedesimo processo, ne segue chiaramente che ogni possibileforma di unità è contingente, quindi il risultato di un processo diarticolazione. Così nessun progetto egemonico può basarsi esclu-sivamente su una logica democratica, ma deve consistere anchedi un insieme di proposte per l’organizzazione positiva del socia-le. Se le rivendicazioni di un gruppo subordinato sono presenta-te semplicemente come richieste negative, sovversive di un certoordine, senza essere connesse ad alcun progetto plausibile per laricostruzione delle aree specifiche della società, la loro capacitàdi agire egemonicamente è esclusa fin dall’inizio. Questa è ladifferenza tra quelle che potrebbero definirsi una “strategia diopposizione” e una “strategia di costruzione di un nuovo ordine”.Nel primo caso predomina l’elemento di negazione di un certoordine sociale o politico, ma questo elemento negativo non èaccompagnato da alcun tentativo reale di stabilire differenti puntinodali a partire dai quali possa istituirsi un processo di ricostru-zione, differente e positivo, del tessuto sociale: la strategia è cosìcondannata alla marginalità. È il caso delle diverse versioni di“politiche delle enclaves”, ideologiche o corporative. Nel secon-do caso, quello della “strategia di costruzione di un nuovo ordi-ne”, predomina al contrario l’elemento di positività del sociale,ma questo crea un equilibrio instabile e una tensione costantecon la logica sovversiva della democrazia. Una situazione ege-monica sarebbe quella nella quale il governo della positività delsociale e l’articolazione delle diverse rivendicazioni democrati-che pervenissero a un massimo di integrazione: la situazioneopposta, in cui la negatività sociale comporta la disintegrazionedi ogni sistema stabile di differenze, corrisponderebbe a una crisiorganica. Questo permette di vedere in che senso si può parlaredel progetto di una democrazia radicale come alternativa per lasinistra. Questa alternativa non può consistere nell’affermazione,a partire da posizioni marginali, di un insieme di rivendicazioneanti-sistema; deve al contrario fondarsi sulla ricerca di un puntodi equilibrio tra un progresso massimo della rivoluzione demo-cratica, in un’ampia gamma di sfere, e la capacità di direzione

Page 280: opuscula /193 - Monoskop

280

egemonica e ricostruzione positiva di tali sfere da parte dei grup-pi subordinati.

Ogni posizione egemonica si basa perciò su un equilibrioinstabile: la costruzione muove dalla negatività, ma si consolidasolo se riesce a costituire la positività del sociale. Questi duemomenti non sono articolati teoricamente: delineano lo spaziodi una tensione contraddittoria che costituisce la specificitàdelle differenti congiunture politiche (come abbiamo visto, ilcarattere contraddittorio di questi due momenti non implica unacontraddizione nella nostra argomentazione, perché da un puntodi vista logico la coesistenza delle due logiche differenti e con-traddittorie, esistenti nella forma di una limitazione reciprocadei loro effetti, è perfettamente possibile). Ma se tale pluralitàdelle logiche sociali è caratteristica di una tensione, essa richie-de anche una pluralità di spazi in cui costituirsi. Nel caso dellastrategia di costruzione di un nuovo ordine, i mutamenti che èpossibile introdurre nella positività sociale dipenderanno nonsolo dal carattere più o meno democratico delle forze che per-seguono tale strategia, ma anche da un insieme di limiti struttu-rali stabiliti da altre logiche: al livello degli apparati di Stato,dell’economia e così via. A tale proposito, è importante nonricadere nelle differenti forme di utopismo che cercano di igno-rare la varietà degli spazi che costituiscono quei limiti struttura-li, o nell’a-politicismo che rigetta il campo tradizionale dellapolitica a favore del carattere limitato dei mutamenti che è pos-sibile attuare dal suo interno. Ma è altrettanto importante cerca-re di non limitare il campo della politica alla gestione della posi-tività sociale, accettandone solo quei mutamenti che è possibilerealizzare nel presente, rifiutando ogni carico di negatività ecce-dente. Negli ultimi anni si è molto discusso, ad esempio, sullanecessità di una “laicizzazione della politica”. Se con ciò siintendesse una critica dell’essenzialismo della sinistra tradizio-nale, che procedeva tramite categorie assolute come “il Partito”,“la Classe”, o “la Rivoluzione”, non vi sarebbe nulla da eccepi-re. Ma spesso una tale “laicizzazione” ha assunto un significatoassai diverso: quello della totale espulsione dell’utopia dalcampo della politica. Ora, senza “utopia”, senza la possibilità

Page 281: opuscula /193 - Monoskop

281

della negazione di un ordine fino al punto in cui è possibileminacciarlo, non c’è alcuna possibilità di costituire un immagi-nario radicale, sia esso democratico o di ogni altro tipo. La pre-senza di questo immaginario come insieme di significati simbo-lici che totalizzano, come negatività, un certo ordine sociale, èassolutamente essenziale per la costituzione di un pensiero disinistra. Abbiamo già indicato come le forme egemoniche dellapolitica suppongano sempre un equilibrio instabile tra questoimmaginario e la gestione della positività sociale; ma questatensione, che è una delle forme in cui si manifesta l’impossibi-lità di una società trasparente, dovrebbe essere affermata e dife-sa. Ogni politica democratica radicale dovrebbe evitare i dueestremi rappresentati dal mito totalitario della Città Ideale e dalpragmatismo positivista dei riformisti senza progetto.

Questo momento di tensione, di apertura, che conferisce alsociale il suo carattere essenzialmente incompleto e precario, èciò che ogni progetto di democrazia radicale dovrebbe cercare diistituzionalizzare. La diversità istituzionale e la complessitàpeculiari di una società democratica dovrebbero essere concepi-te in maniera molto differente rispetto alla diversificazione dellefunzioni in un sistema burocratico complesso. In quest’ultimo laposta in gioco è sempre, unicamente, la gestione del socialecome positività, e ogni diversificazione ha luogo, di conseguen-za, all’interno di una razionalità che domina l’intero insiemedelle sfere e delle funzioni. La concezione hegeliana della buro-crazia come classe universale è la perfetta cristallizzazione teo-rica di questa prospettiva. Essa è stata trasferita sul piano socio-logico, in quanto all’interno del sociale la diversificazione deilivelli – secondo una prospettiva funzionalista, strutturalista osimile – si lega alla concezione di ciascuno di questi livelli comemomenti costituenti di una totalità intelligibile che li domina,conferendo loro un significato. Ma, nel caso del pluralismocaratteristico della democrazia radicale, la diversificazione èstata trasformata in una diversità, perché ciascuno degli ele-menti e dei livelli non è più l’espressione di una totalità che litrascende. La moltiplicazione degli spazi e la diversificazioneistituzionale che la accompagna non consistono più in una fio-

Page 282: opuscula /193 - Monoskop

282

ritura razionale di funzioni, né obbediscono a una logica sotter-ranea che costituirebbe il principio razionale di ogni mutamen-to, ma esprimono esattamente l’opposto: attraverso il carattereirriducibile di questa diversità e pluralità la società costruiscel’immagine e la gestione della sua stessa impossibilità. Il com-promesso, la precarietà di ogni accordo, l’antagonismo, costi-tuiscono fatti primari: è solo all’interno di questa instabilità cheha luogo il momento della positività e della sua gestione. Laprogressione verso un progetto di democrazia radicale consistedunque nello spingere il mito di una società razionale e traspa-rente a ritrarsi progressivamente dall’orizzonte del sociale: essodiviene un “non-luogo”, il simbolo della sua stessa impossibi-lità.

Ma, per questa stessa ragione, si cancella anche la possibi-lità di un discorso unificato della sinistra. Se le varie posizionisoggettive, i diversi antagonismi e punti di rottura, costituisconouna diversità e non una diversificazione, è chiaro che non pos-sono essere ricondotti a un punto muovendo dal quale sarebbepossibile comprenderli e spiegarli in un unico discorso. Ladiscontinuità discorsiva diviene primaria e costitutiva. Il discor-so della democrazia radicale non è più il discorso dell’universa-le; la nicchia epistemologica dalla quale si esprimerebbero leclassi e i soggetti “universali” è stata sradicata e sostituita da unapolifonia di voci, ciascuna delle quali costruisce la sua identitàdiscorsiva peculiare. Questo è un punto decisivo: non si dàdemocrazia radicale e plurale senza rinunciare al discorso del-l’universale e al suo presupposto implicito di un punto privile-giato di accesso alla “verità”, che può essere raggiunto solo daun numero limitato di soggetti. In termini politici, questo signi-fica che proprio come non si danno superfici privilegiate a prio-ri per l’emergenza degli antagonismi, non si danno nemmenoregioni discorsive che il progetto di una democrazia radicaledebba escludere a priori come possibili sfere di lotta. Le istitu-zioni giuridiche, il sistema educativo, le relazioni lavorative, idiscorsi di resistenza delle popolazioni marginali costruisconoforme originali e irriducibili di protesta sociale, e contribuisco-no così a tutta la complessità e ricchezza discorsiva su cui

Page 283: opuscula /193 - Monoskop

283

dovrebbe fondarsi il programma di una democrazia radicale. Ildiscorso classico del socialismo era di tipo assai diverso: era undiscorso dell’universale, che trasformava certe categorie socialiin depositarie di privilegi politici ed epistemologici; era undiscorso a priori concernente livelli differenziali di effettivitàall’interno del sociale, e come tale riduceva il campo dellesuperfici discorsive sulle quali riteneva possibile intervenire; erainfine un discorso relativo ai punti privilegiati di innesco deimutamenti storici: la Rivoluzione, lo Sciopero generale ol’“evoluzione” come categoria unificante del carattere cumula-tivo e irreversibile dei progressi parziali. Ogni progetto di demo-crazia radicale include necessariamente, come abbiamo detto, ladimensione socialista, ovvero l’abolizione dei rapporti di pro-duzione capitalistici; ma esso rifiuta l’idea che a tale abolizionesegua necessariamente l’eliminazione di altre disuguaglianze.Di conseguenza, il de-centrarsi e l’autonomia dei discorsi edelle diverse lotte, la moltiplicazione degli antagonismi e lacostruzione di una pluralità di spazi all’interno dei quali posso-no affermarsi e svilupparsi, sono le condizioni sine qua non perla realizzazione dei diversi elementi che compongono l’ideasocialista, e che senza dubbio occorre estendere e riformulare.Come abbiamo ampiamente mostrato in queste pagine, questapluralità degli spazi non nega, ma richiede piuttosto, la surde-terminazione dei suoi effetti a livelli determinati e la loro con-seguente articolazione egemonica. Veniamo quindi a una con-clusione. Questo libro è stato costruito intorno alle vicissitudinidel concetto di egemonia, della nuova logica del sociale in essaimplicita e degli “ostacoli epistemologici” che, da Lenin aGramsci, hanno impedito la comprensione del suo radicalepotenziale politico e teorico. È solo quando viene accettato ilcarattere aperto e non suturato del sociale, quando viene rifiuta-to l’essenzialismo della totalità e degli elementi che questopotenziale diventa chiaramente visibile, e l’“egemonia” puòdiventare uno strumento fondamentale per l’analisi politicadella sinistra. Si tratta di condizioni che originariamente sonoemerse nel terreno della cosiddetta “rivoluzione democratica”,ma che vengono massimizzate in tutti i loro effetti decostruttivi

Page 284: opuscula /193 - Monoskop

284

solo nel progetto di una democrazia radicale, o detto altrimentiin una forma di politica fondata non sul postulato dogmatico diuna qualche “essenza del sociale”, ma al contrario sull’afferma-zione della contingenza e dell’ambiguità di ogni “essenza” e sulcarattere costitutivo della divisione sociale e dell’antagonismo.È l’affermazione di un “fondamento” che vive soltanto negandoil suo carattere fondamentale; di un “ordine” che esiste solocome parziale limitazione del disordine; di un “senso” che sicostruisce solo come eccesso e paradosso di fronte all’assenzadi senso. In altre parole, il campo del politico come spazio perun gioco che non è mai a “somma zero”, perché le regole e i gio-catori non sono mai del tutto esplicitati. Questo gioco, che eludeil concetto, almeno ha un nome: egemonia.

Page 285: opuscula /193 - Monoskop

INDICE

PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA 5di Fortunato Cacciatore e Michele Filippini

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE 21

INTRODUZIONE 37

I EGEMONIA: GENEALOGIA DI UN CONCETTO 43

II EGEMONIA: LA DIFFICILE EMERGENZADI UNA NUOVA LOGICA POLITICA 97

III OLTRE LA POSITIVITÀ DEL SOCIALE:ANTAGONISMO ED EGEMONIA 155

IV EGEMONIA E DEMOCRAZIA RADICALE 227

Page 286: opuscula /193 - Monoskop

Finito di stamparenel mese di ottobre 2011

per i tipi de “il nuovo melangolo”dalla Microart’s S.p.A. - Recco (Ge)

Fotocomposizione e impaginazione:Type&Editing - Genova

Page 287: opuscula /193 - Monoskop
Page 288: opuscula /193 - Monoskop