Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    Mario Rigoni Stern

    ARBORETO SALVATICO 

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    Nota editoriale

    Con "Arboreto salvatico" Rigoni Stern fa un appassionato omaggio a

    quello che Gadda chiamava «il popolo degli alberi», un popolo antico,

    dignitoso, saggio. L'affetto di Rigoni Stern per gli alberi è come quello portato a un fratello maggiore, un fratello che si riconosce sostanzialmente

    migliore. E come fratelli maggiori gli alberi hanno sempre aiutato gli uomini,

    ne hanno reso possibile la vita e favorito l'affinarsi delle civiltà. Per contro gli

    uomini spesso li umiliano, li feriscono o li distruggono, soprattutto per 

    stupidità e per ignoranza. Rigoni Stern sceglie venti alberi a lui

     particolarmente cari e li descrive, ne dà le necessarie caratteristiche botaniche

    e ambientali, ne illustra la storia e le ricchezze, ne spiega gli influssi chehanno avuto nella cultura popolare e nella letteratura, e naturalmente anima il

    tutto con le proprie esperienze di uomo di montagna, i ricordi, la sua

    sensibilità di scrittore di razza. Come uno scienziato Rigoni Stern ci racconta i

    meccanismi logici di queste straordinarie forme di vita; come uno psicologo

    ci svela l'«anima» del salice, del frassino, della quercia, della betulla e degli

    altri «amici» a cui dedica le sue pagine; come amante degli alberi ci trasmette

    il suo amore per tutti loro.

    Mario Rigoni Stern ha pubblicato presso Einaudi "Il sergente nella neve.

    Ricordi della ritirata di Russia" (1953), "Il bosco degli urogalli" (1962),

    "Quota Albania" (1971), "Ritorno sul Don" (1973), "Storia di Tönle" (1978),

    "Uomini, boschi e api" (1980), "L'anno della vittoria" (1985), "Amore di

    confine" (1986). Nel 1989 è uscito "Il magico Kolobok e altri racconti", editoda «La Stampa».

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     Introduzione.

    Cechov, nel 1888, scriveva: «Chi conosce la scienza sente che un pezzo di

    musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l'uno e l'altro sono creati

    da leggi egualmente logiche e semplici». Dieci anni dopo a un amico che va a

    trovarlo in Crimea dice: «Qui ogni albero l'ho piantato io e mi sono cari. Ma

    ciò che importa non è questo, è il fatto che prima che venissi io qui non c'era

    che un terreno incolto e fossi pieni di pietrame e cardi selvatici. Hotrasformato quest'angolo perduto in un luogo bello e civile. Lo sa? Fra tre,

    quattrocento anni, tutta la terra si trasformerà in un bosco fiorito e la vita sarà

    meravigliosamente leggera e facile...» Quando vagabondo per le mie

    montagne boscose ripenso a quanto diceva Anton Cechov e lo ripeto anche

    agli amici che vengono quassù a trovarmi. Ma a volte provo anche sfiducia

    se mi capita di constatare quanto poco gli uomini si occupino dei problemi

    degli alberi. E sì che da tempo studiosi e tecnici vanno scrivendo dei pericoliche li minacciano, e ai pochissimi che li ascoltano o che si interessano

    corrispondono i troppi che si accorgono degli alberi solo quando, presi dalla

    calura estiva, cercano la loro ombra per posteggiare l'automobile. Se incontro

    un albero sradicato dal vento, o schiantato dalla neve, o roso dal ghiro, o

    morso dal cervo provo dispiacere, ma quando vedo una corteccia incisa da

    un barbaro coltello o un albero tagliato da una scure di frodo provo amarezza

    e rabbia perché se coltivare boschi è segno di civiltà, danneggiarli e

    distruggerli è inciviltà e regresso. Un giorno ritornando dalla passeggiata

    mattutina e passando vicino a una contrada, con disgusto il mio sguardo era

    andato a posarsi su due frassini e un sorbo ai quali qualche violento imbecille

    aveva spezzato le cime. Erano stati posti a dimora in un'aiuola erbosa

    nell'area comune dove un tempo si raccoglieva l'acqua piovana per 

    abbeverare il bestiame e in quella primavera avevano ripreso a vegetare con

    vigore e bellezza. Ora i tre cimali pendevano spezzati, con le foglie appena

    sbocciate che appassivano e la linfa che gemeva dalle ferite mortali. Ma chi poteva essere stato? Non certo i ragazzi che conosco: lassù non

    arriverebbero, e poi i tronchi sono ancora troppo esili per arrampicarli. Forse

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    era stato l'emigrante ritornato dall'Australia e che ogni tanto si ubriaca? O

    quei giovani dall'automobile rossa che quasi ogni sera vanno a fumare alla

    curva del bosco? Ero amareggiato e andando verso casa pensavo a un

    articolo letto su un giornale e che aveva per titolo: "Uccise un albero,

    all'ergastolo". Era per una quercia secolare sacra a certe tribù indiane ma

    anche nota come «La quercia del trattato di Austin» perché alla sua ombra erastato firmato l'accordo per l'annessione del Texas agli Stati Uniti e per gli

    americani era simbolo di storia concreta e viva. Forse l'ergastolo richiesto per 

    un uomo colpevole di aver ferito gravemente un albero storico era una

    condanna troppo severa, ma dieci anni di lavori silvocolturali, pensavo, ci

    starebbero bene. Anticamente, per chi profanava un bosco sacro in certi casi

    c'era la pena di morte perché dagli alberi erano nati gli dei e gli uomini...

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    "A Giulio Einaudi amatore d'alberi".

    Arboreto salvatico

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    Il larice. Albero cosmico lungo il quale scendono

    il sole e la luna.

     

    Da sempre l'albero ha esercitato sugli uomini sensazioni di mistero e di

    sacro e il bosco è stato il primo luogo di preghiera. Dice Plinio il Vecchio

    nella sua "Naturalis historia" che «... non meno degli Dei, non meno dei

    simulacri d'oro e d'argento, si adoravano gli alberi maestosi delle foreste».

    Agli alberi come specie o anche come singole creature sono legati miti e

    leggende, favole e fiabe ma anche storie vere. Gli antichi poeti raccontano di

    Egido, mostro spargitore di fuoco, che distrusse le foreste dalla Frigia alle

    Indie e dal Libano alla Libia; infine fu vinto e venne ucciso dalla dea Atenanella pianura dell'Epiro.

    Forse questo mostro sacro era stato ideato per esprimere le violenze

    devastanti dei conquistatori o, anche, il bisogno delle società in crescita di

    aumentare i terreni coltivabili. Ma il risultato fu anche che questi grandi e

    disordinati diboscamenti portarono diminuzione delle piogge, inaridimento

    delle sorgenti e l'inizio del deserto. Fu da allora, come scrive Adolfo di

    Bérenger nel suo bel saggio "Dell'antica storia e giurisprudenza forestale"(Venezia, 1863) che gli uomini al fine di dover proteggere gli alberi e i boschi

    decisero leggi per la conservazione: «... e l'afforzarono col mistero della

    religione, perché fossero meglio rispettate ovunque e da tutti».

    Oggi, dopo migliaia d'anni, il fenomeno della distruzione forestale si va

    ripetendo in altri luoghi della Terra; e se poco valgono gli allarmi degli

    scienziati, se leggi non vengono emanate o rispettate, quali miti, quale forza

    di religione si dovrebbero ideare, quale nuova dea Atena dovrebbe

    intervenire per fermare il novello Egido ignivomo che devasta la grande

    foresta dell'Amazzonia?

    Con queste rievocazioni, amici lettori, vorrei raccontarvi di quanto sugli

    alberi sono venuto a sapere nel corso dei miei anni, di quanto ho appreso

    camminando e lavorando per boschi, da testi anche antichi, da poeti e

     boscaioli, da dottori forestali, e spero, come vado dicendo da un po' di

    tempo, che la carta che uso per questo mio scrivere valga almeno l'albero che

    l'ha data Incomincerò dagli alberi del mio brolo e poi dirò di quelli della miaterra, perché di tutti sarebbe impossibile scrivere e se, alla fine, qualcosa

    sono riuscito a comunicarvi, mi sentirò lieto nel cuore. Prossimi alla mia casa

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    sono due larici, me li vedo davanti agli occhi ogni mattino e con loro seguo

    le stagioni; i loro rami quando il vento li muove, come ora, accarezzano il

    tetto.

    Quando misi mano a tirare su i muri perimetrali, questi larici erano già

    nati dalla terra smossa da una granata che nel 1918, esplodendo, aveva ferito

    il pascolo, ma non avevano l'aspetto di oggi: erano alti, sì, a dondolarsi nelcielo, ma i loro diametri non superavano i venti centimetri. Sotto di loro in

    quell'autunno raccolsi un bel cesto di agarici violetti, profumati e sodi funghi

    che chiudono la stagione. Quando nella primavera ripresi i lavori, anche i

    due larici si vestirono di un bel verde chiaro rallegrato dai fiori gialli e

    arancioni; e sotto questi alberi luminosi raccolsi ancora i funghi di San

    Giorgio, primizia di primavera. Il "Larix decidua" appartiene alla famiglia

    delle "Pinacee": albero di bell'altezza può raggiungere anche i cinquanta

    metri; è molto longevo e il suo tronco diritto e slanciato è vestito da unaleggera corona piramidale di rami sparsi: gli alti guardano verso l'alto, i bassi

    sono penduli; da giovane la sua corteccia è liscia e tendente al grigio ma con

    il passare degli anni diventa bruno-rossastra, profondamente solcata e molto

    spessa.

    Gli strobili hanno la forma di piccole uova brune, sono lunghi da tre a

    quattro centimetri e quando si aprono lasciano cadere i semi, ognuno unito a

    una piccola ala lunga poco più di un centimetro. (Nel trascorso inverno hoosservato centinaia di lucherini e di fringuelli che sul terreno si cibavano di

    questi semi). Il larice è albero tipicamente alpino e si spinge fin oltre i

    duemilacinquecento metri di quota; ma si trova anche nei Carpazi, specie

     particolari vivono in Polonia, in Siberia e in Giappone. Ama il sole, inverni

    freddi e nevosi, estati asciutte; è specie d'avanguardia e lo si riscontra quando

    spontaneamente occupa terreni denudati per frane, o alluvioni, o fratte rase:

    ogni terreno smosso, purché asciutto, è buono per attecchire. Forma boschi puri (lariceti) e si consorzia sovente con le altre conifere delle Alpi.

    Sui pascoli è l'albero preferito perché con la sua leggera copertura non

    impedisce la produzione dell'erba e sotto la sua ombra, nei meriggi estivi, il

     bestiame ama sostare. Dal suo tronco, quando viene inciso alla base, cola una

    resina ambrata dalla quale si ricava la "trementina di Venezia", un tempo

    molto usata in farmacia e dai pittori. Il suo legno ha un durame rosso-bruno,

    l'alburno è più chiaro, gli anelli di accrescimento sono ben distinguibili; è

    odoroso, compatto e duro. Da sempre è servito agli uomini delle montagne per costruire capanne e case. (Più il larice cresce in alta montagna migliore è

    il suo legno). In Val di Fassa certi architravi maestosi portano scolpiti date e

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    nomi che vanno indietro nei secoli. Ma anche con il larice si fanno assicelle

     per la copertura dei tetti (le "scandole"), mastelli, botti, mobili e suppellettili.

     Nell'acqua è immarcescibile e, oltre a costruire le navi, i Veneziani, sopra i

     pali di larice, hanno edificato chiese e palazzi.

    Venezia, però, aveva anche regolato con leggi severissime lo sfruttamento

    delle foreste e a questo scopo, nei primi anni del Cinquecento, avevanominato uno specifico magistrato. Plinio ci racconta che Tiberio per la

    costruzione del Ponte Naumachiario fece venire dalle Alpi Rezie una trave di

    larice che lasciò stupefatti i Romani: era lunga centocinquanta piedi e aveva

    una grossezza uniforme di due piedi per ogni lato. Ma oggi, a pensarci, ci

    stupisce ancora di più il suo trasporto. I tre larici della Ultental, in Sudtirolo,

    oltre il villaggio di Santa Geltrude, sono certo gli alberi più antichi delle Alpi.

    Il più maestoso di questi misura più di otto metri di circonferenza e la sua

    altezza, malgrado un fulmine o la neve che gli hanno spezzato l'apice, è diventotto metri. Il quarto fratello di questi tre venne divelto da un bufera nel

    1930 e contando gli anelli si poté determinare che aveva duemiladuecento

    anni. Ora gli esperti dicono che il maggiore è lì a guardare le montagne da

    duemilatrecento anni!

    Anche il «mio»albero da ragazzo era un larice. L'aveva fatto piantare mio

    nonno per ricordare il ventesimo secolo. Poi venne la Grande Guerra e nella

    corteccia portava le cicatrici di quando, tra il 1916 e il 1918 si trovò tra l'una el'altra trincea del fronte. Le ferite delle pallottole e delle schegge erano allora,

    attorno agli anni Trenta, incrostate di resina, e forse la biforcazione in alto era

    dovuta alla stroncatura inferta da una granata di passaggio. Ma il larice, oltre

    alle tormente e ai fulmini, sopporta anche la guerra. Mi arrampicavo lassù,

    sul «mio» larice, tra gli aghi d'oro infiammati dal sole verso il tramonto. A

    volte mi sedevo a cavalcioni nella forcella della biforcazione e la resina mi

    impeciava la gambe nude e i calzoncini. Ma quando il sole incominciava ascendere dietro le Piccole Dolomiti mi alzavo da ramo in ramo come uno

    scoiattolo, fin dove la punta incominciava a dondolare sopra il vuoto e i rami

    flessibili e sottili riuscivano a sopportare il mio peso. Mi pareva, da lassù, di

     poter guardare più a lungo il sole che tramontava tra nuvole infuocate e di

    navigare con la fantasia verso avventure infinite.

    Era questo il momento in cui noi ragazzi, ognuno sul suo albero,

    restavamo silenziosi. Dalla lontana Siberia, dove cresce il "Larix sibirica", un

    viaggiatore ha raccontato che certe popolazioni primitive lo considerano"albero cosmico" lungo il quale scendono il Sole e la Luna sotto forma

    d'uccelli d'oro e d'argento. Lassù avevano anche un Bosco Sacro dove ai rami

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    dei larici appendevano le più belle pellicce e ogni cacciatore vi deponeva una

    freccia.

    Ma i larici che personalmente ammiro e fors'anche venero, sono quelli che

    nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei

    secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici

     prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni primavera quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si

    rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli.

    E all'autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d'oro le

     pareti.

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    L'abete. Albero della nascita e a lui era dedicato

    il primo giorno dell'anno.

     

    Il peccio, "Picea excelsa" Link, o abete rosso, è l'albero che è sempre stato

     presente e mi accompagna nella vita. Nella casa dove sono nato e ho

    trascorso la mia giovinezza, i mobili, le suppellettili, i pavimenti, le scale, le

    grandi e geometriche capriate del tetto, tutto era stato ricavato dai pecci dei

    nostri boschi: erano alberi feriti dalla guerra che per necessità di coltura, tra il

    1919 e il 1922, si dovette abbattere.

    Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che

    mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; comesempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani

     piantavano appena la neve liberava il terreno.

    C'erano diversi vivai, "orti forestali" li chiamavamo, ubicati in località

    distinte per clima e altitudine al fine di poter procedere nel lavoro di semina e

    di rimboschimento in armonia con la stagione meteorologica. I semi

    venivano dalle foreste della Val di Fiemme che, dicono gli esperti, sono le più

     belle e dànno il migliore legname delle Alpi.Quello del "piantar piantine" e del recupero dei materiali bellici è stato il

     principale lavoro della nostra gente per molti anni; ma tante volte, anzi

    sempre, scavando le piccole buche per il rimboschimento, assieme alla terra e

    ai sassi uscivano cartucce, bombe inesplose, resti di caduti perché ovunque

    era stato campo di battaglia.

    Ora, a distanza di settant'anni, ci si rende conto che fu errore impiantare

     boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio

    molto fragile perché parassiti di ogni genere, malattie fungine, insetti e

    inclemenze stagionali possono in breve tempo rendere vani lavoro e capitale.

    Ma allora si trattava di ricostruire in fretta la foresta distrutta e di coprire così

    i vistosi disastri della guerra.

    Anche nel mio brolo, assieme ad altre diverse specie d'alberi di alto fusto,

    ci sono i pecci: crescono rigogliosi tanto che ormai, anche se sono nel terreno

     più in basso, mi riducono lo sguardo sul paesaggio.

    Quand'erano ancora piccoli, mi era molto comodo raccogliere da loro glisciami delle mie api; poi, quindici anni fa, vennero i fringuelli a fare i nidi tra

    i loro rami a ogni primavera (che regolarmente, alla schiusa, le cornacchie

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    distruggevano anche se restavo all'erta); quest'anno una coppia di tordi è stata

    scacciata da una coppia di cesene che ora, mentre scrivo, porta vermi e larve

    ai nidiacei che, sgraziatamente, stridono. Il peccio resta pur sempre l'albero

     per eccellenza delle nostre foreste alpine, e da lui hanno tratto da vivere tante

    famiglie di montanari che dal suo legno ricavavano oggetti che poi venivano

    commerciati in paesi anche lontani.Fino alla scoperta e all'uso della plastica, attorno alle case delle nostre

    contrade c'erano sempre castelli di assicelle o doghe messe a essiccare al sole,

    e poi da queste, quando il lupo mangiava l'inverno, si ricavavano mastelli,

    secchie, tini, fasce per il formaggio, scatole di varie misure per le farmacie e

    gli orefici. Rari pecci con particolari caratteristiche (denudati dalla corteccia

    mostrano delle piccole verruche regolarmente distribuite lungo il tronco)

    venivano e vengono chiamati "alberi di risonanza" e abbattuti, stagionati e

    segati in maniera accurata e seguendo le fasi lunari (l'abbattimento deveessere fatto subito dopo il plenilunio e, dopo qualche anno il tronco segato in

    luna calante perché così il legno, materiale vivissimo, risulta più stabile). Di

    queste assi così ottenute i liutai si servono per costruire le casse degli

    strumenti a corda.

    La foresta pura di peccio è uniforme, cupa, qualche volta priva di

    sottobosco o con sottobosco povero. Gli alberi si alzano diritti come colonne

    e la luce filtra tra loro creando forti contrasti come in una cattedrale gotica.D'inverno, a volte, la neve rimane sospesa sui rami per più giorni e quando

    scivola al suolo crea delle trincee attorno ai tronchi. Le abbondanti nevicate

     primaverili accumulano grande quantità di neve pesante sulle cime uniformi

    del bosco e se a queste nevicate si accompagna forte vento, il fenomeno

     provoca grandi schianti di tronchi e sradicamenti, con rumori violenti e

    improvvisi, boati, scrosci e nuvole di neve.

    E chi passerà per una strada forestale o per una mulattiera in tali momenti, proverà profonda emozione e anche spavento. Il peccio, della famiglia delle

    "Pinacee", da molti, e non solo dai cittadini sprovveduti, erroneamente è

    chiamato pino. Ma altri alberi sono i pini. Questo peccio, o abete rosso, è

    albero di primaria grandezza, alto, talvolta, più di quaranta metri; è longevo

    tanto che in alcune foreste ancora intatte se ne possono trovare di quattro-

    cinque secoli d'età. I rami sono disposti a piramide con le estremità rivolte

    verso l'alto. Nelle quote più alte o nelle regioni del Nord assumono forma

    colonnare perché dalla neve e per lungo tempo i loro rami vengonoschiacciati contro il tronco. La corteccia è rossastra e a piccole squame,

    invecchiando si fessura e si dispone a placche. Le foglie aghiformi lunghe

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    due-tre centimetri sono disposte tutt'intorno ai ramuli; i fiori maschili, sui

    rami più giovani, sono amenti giallo- rossastri; i femminili di un bel colore

    rosso vivo.

    Gli strobili sono penduli, lunghi anche venti centimetri e cadono al suolo

     prima di aprirsi. (Ma gli scoiattoli comodamente seduti tra i rami amano

    desquamarli per mangiarne i semi e a terra lasciano cadere il torsolo nudo). Isemi sono bruni e grandi come un grano di miglio, con un'ala lunga quindici

    millimetri. Quest'albero ama l'ombra, i terreni sciolti e acidi; forma anche

     boschi misti con il faggio e l'abete bianco e, nelle quote più alte, con il larice.

    Riveste le montagne tra gli ottocento e i duemila metri ed è specie tipicamente

     boreale in quanto la sua distribuzione va dalle Alpi alle montagne più alte

    della Grecia, dalla Transilvania alla Scandinavia fin oltre il Circolo Polare.

     Narrano i poeti greci e latini che il peccio era albero pronubo e sacro a

    Imeneo perché dal suo legno resinoso si ricavavano le tede per illuminare iltalamo nuziale.

    L'abete bianco, "Abies alba" Mill, è pure un grande e maestoso albero che

     può raggiungere i cinquanta metri d'altezza e superare i quattro di

    circonferenza, come il bellissimo "Avez del prinzep" (Abete del principe) in

    quel di Lavarone, alla cui ombra amava sostare Sigmund Freud e che

    certamente è stato ammirato anche da Robert Musil. Il portamento dell'abete è

    eretto, il fusto diritto e cilindrico; la chioma è slanciata ma con gli anni, o coni secoli, assume la forma «a nido di cicogna». Il suo colore è verde intenso

    con i riflessi d'argento dovuti alle pagine inferiori delle foglie aghiformi,

    appiattite e persistenti, disposte a pettine su un solo piano ai lati del ramulo

    che le porta. La corteccia è liscia e argentea, con bolle resinose; con il tempo

    si screpola a placche e s'inscurisce come in tutti gli alberi. I rami principali

    sono robusti e fitti, a palchi. Come il peccio è albero monoico; i fiori

    compaiono in primavera, i maschili, sulla parte medio bassa della chioma,sono di colore giallastro; i femminili, sui rami più alti, sono rosso-violacei.

    Gli strobili, lunghi anche dieci centimetri o più, sono prima verdi e poi

     bruni, portati verso l'alto. Il suo areale comprende l'Europa centro-orientale,

    ma alcune razze di abete bianco si trovano persino in Marocco, in Calabria, in

    Sicilia, nella Grecia e sulle rive del Mar Nero. Sulle Alpi si spinge sino ai

    limiti della vegetazione forestale, e lo troviamo di solito consociato con

    l'abete rosso e il faggio; ama i climi umidi e piovosi. Il suo legno è bianco ma

    tendente al giallino o al rosato, con gli anelli di crescita ben distinti. I tronchi più belli e alti venivano usati per le alberature delle navi a vela, ma anche

    nelle armature e nelle capriate di certo impegno perché robusti e forti. Invece

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    le tavole per falegnameria sono meno pregiate di quelle che si ottengono dal

     peccio. La corteccia di abete bianco, ricca di tannino, macinata e ridotta in

     polvere, fino agli inizi di questo secolo veniva usata dai miei conterranei per 

    conciare i pellami.

    Quando gli uomini vivevano con la natura, nel tempo dell'anno che il

    Sole ritornava a salire nel cielo, sentivano di dover festeggiare il grandeavvenimento adornando un abete nella foresta e, nella radura luminosa, con

    danze e canti si rallegravano nel cuore. Poi, dal Paese dove il mare non

    gelava mai, un giorno arrivarono alcuni uomini ad annunciare la grande

    novella: era nato Uno che portava la luce. La luce dentro di noi, non fuori di

    noi. Così per festeggiare quest'Uomo unirono la sua nascita alla festa del

    Sole. Da allora si diffuse la tradizione dell'albero di natale che oggi

    ambientalisti e verdi vorrebbero far morire. La loro ragione, molto emotiva e

     poco razionale, è che migliaia se non milioni di abeti vengono così sacrificati,che boschi vengono distrutti con grave danno ecologico.

    E si indignano. Ma le cose non stanno così. Intanto si può subito dire che

    dove per così tanto tempo questa tradizione è viva e viene praticata, i boschi

    non sono affatto scomparsi. Nei Paesi del Nord Europa le foreste di conifere

    coprono ancora grandi estensioni di quei territori, ed è da credere che le

    superfici boscate sono aumentate. Ben altre sono le minacce alla loro vita! Da

    noi, invece, per i boschi delle nostre montagne, si deve dire che non sarannocerto gli alberi di natale a stravolgere l'ambiente.

    E mi spiego.

    Gli alberi che vediamo vendere agli angoli delle piazze cittadine hanno

    verso la punta un sigillo del Corpo Forestale che ne garantisce la

     provenienza. Per lo più vengono da coltivazioni apposite, poste su terreni

    abbandonati che qualche montanaro coltiva per avere ogni otto- dieci anni

    una entrata extra per il suo magro vivere. Vengono pure utilizzati per alberinatalizi i cimali degli abeti tagliati nel bosco per necessità colturali. Si sa che

    la migliore foresta, la più utile all'uomo sotto ogni aspetto, non è la foresta

    vergine o quella abbandonata a se stessa, ma quella mista, disetanea e

    coltivata. Lo dicono da tempo l'esperienza e gli studiosi che tutta la vita

    hanno dedicato al bosco; e per coltivarlo, per avere i benefici, bisogna

    appunto tagliare o agevolare lo sviluppo. La foresta ci deve dare legname da

    opera e da carta, legna per riscaldarci. E anche alberi di natale per ricordare il

    ritorno del Sole e la nascita di Cristo.Qui, al confine con il mio brolo, c'è un pascolo ai margini del bosco. Nel

    corso degli anni ho potuto constatare come va cambiando nell'aspetto. Un

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    tempo vi pascolavano nove vacche; poi è stato abbandonato. Ha incominciato

    a coprirsi di cardi, di cespugli di ginepro, rosa canina e crespino. Tra questi

    cespugli sono comparsi dei piccoli abeti e qualche frassino. Qualche anno fa

    il contadino ha voluto riprendere l'allevamento e al posto delle dieci vacche,

    sullo stesso pascolo, non può tenere più di sette vitelle: hanno trovato poca

    erba e così ha dovuto decespugliare e ripulire l'area. Ma intanto sono anchecresciuti gli alberi che con la loro ombra e con il loro sviluppo hanno ancora

    ridotto il pascolo.

    Ora, proprio in questi giorni di dicembre, il proprietario ha avuto dal

    Corpo Forestale l'autorizzazione a tagliare qualche centinaio di alberelli al

    fine di far crescere l'erba per alimentare le vitelle. Questi alberelli

    diventeranno alberi di natale per voi che vivete in città e questa operazione

    non la trovo per niente antiecologica. A conferma di questo, proprio l'altro

    giorno un agronomo Rettore d'Università, mi diceva come, a causadell'abbandono della montagna, anno dopo anno aumenti notevolmente la

    superficie boscata delle nostre Alpi, Prealpi e Appennini.

     Non preoccupatevi, quindi, amici ecologisti e verdi, per gli alberi di natale

    che vedrete vendere nelle vostre città: hanno lo stesso valore morale dei fiori

    nelle fiorerie. E a coloro che verranno a trascorrere le vacanze natalizie e di

    fine anno in montagna, vorrei solo dire di non essere loro ad andare nel

     bosco a tagliarsi l'albero di natale, che sì potrebbero fare danno, oltre al furto.E poi sotto quell'abete che rallegrerà le nostre case non mettiamo solo doni

    costosi, inutili o diseducativi per i nostri ragazzi, ma assieme a qualche libro

    anche qualcosa per la ricerca sul cancro, o per i vecchi del ricovero.

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    Il pino. Il cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi,

    è, con il larice, il più bello.

     

    Abete bianco, abete rosso o peccio, larice sono pinacee; altro genere, pur 

    delle stessa famiglia, sono i pini: una novantina di specie distribuite

    nell'emisfero boreale, dall'Atlantico al Pacifico. Ma anche se con pazienza e

    l'aiuto di testi potrei distinguerne un discreto numero, mi limito o parlarvi dei

     pini che sono nel mio brolo: del "Pino silvestre", del "Pino montano" e del

    "Pino cembro". Il pino silvestre che sta a mezzogiorno e che ben si armonizza

    tra le due betulle, lo raccolsi e lo trapiantai da una antica morena un giorno

    che ero andato a camminare con mio figlio, sul finire di un lungo inverno.Ma come ora è cresciuto! Ed è a guardarlo che mi rendo conto di come

     passano le stagioni. Albero di primaria grandezza il pino silvestre può

    arrivare a quaranta metri e oltre; anche lui, come tutte le conifere è molto

    longevo e può passare i cinque secoli di vita. Il suo fusto è diritto, ma la

    neve, i fulmini, le pietre che cadono dall'altro della montagna, il vento lo

     possono rendere tormentato. La sua chioma è rada e irregolare, i rami hanno

    gli apici rivolti verso l'alto; dove cresce stretto ad altri consimili ha forma piramidale allungata, si distende quando è isolato o rado. La sua corteccia è

    squamosa, rossastra da giovane, tendente al grigio e solcata da maturo, ma

    sempre portata al rosso verso la cima. Le foglie sono aghiformi, di colore

    verde-glauco, raggruppate a due a due, lunghe da tre a sette centimetri,

    contorte a spirale (sono più corte nei Paesi freddi, più lunghe nel

    Meridione).

    Come le altre conifere è albero monoico e i fiori di questo pino sono

    molto ricchi di polline, tanto che le api ne fanno abbondante raccolto che

    concorre alla produzione della cera. Quando tra maggio e giugno sono in

    fioritura, camminando sotto di loro ci si può ritrovare con gli abiti tutti

    spruzzati di una polvere gialla che si stacca dagli stami a ogni leggero soffiare

    di vento; un tempo questo fenomeno veniva chiamato pioggia miracolosa di

    zolfo. E' un albero che ama il sole e i climi continentali; sopporta molto bene

    freddo e siccità ed è anche specie pioniera nei terreni degradati.

    Se uno percorre la Val Venosta può osservare come il lato di sinistra,quello arido rivolto a mezzogiorno, sia qua e là popolato da macchie di pino

    silvestre, mentre quello a destra, rivolto a mezzanotte e umido, sia invece

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    coperto da pecci, abeti e latifoglie. Il buon legno del pino silvestre, con

    l'alburno bianco-rosato e giallino e il durame più tendente al bruno, varia di

    qualità secondo la provenienza: il migliore è quello che cresce lentamente nei

    luoghi freddi o elevati; è di lunga durata, resistente, ottimo per costruzioni

    navali ma anche per mobili e oggetti casalinghi. Dai tronchi che non vengono

    usati in segheria si ricava cellulosa da carta. Dalla ramaglia un tempo siotteneva un carbone dolce particolarmente ricercato e usato per la fusione di

    acciai speciali. Dagli alberi adulti, quando raggiungono l'età di cento-

    centoventi anni, incisi al piede fuoriesce una resina grassa che, distillata, dà

    un'ottima acquaragia; dal residuo di questa distillazione si ottiene la pece

    greca o colofonia e quella ricavata dal pino silvestre è la migliore tra tutte per 

    impeciare i crini degli archi degli strumenti musicali.

    Secondo rilievi fatti nel secolo scorso da Adolfo di Bérenger nei boschi

    della Stiria, ogni pino adulto produce tra i tre e i quattro chilogrammi diresina all'anno; sicché un ettaro di pineta può dare circa millesettecento

    chilogrammi dai quali si ricavano per distillazione trecentocinquanta

    chilogrammi di olio di trementina e circa mille di colofonia. Dopo essere stata

    così utilizzata, la parte del tronco scortecciata e che restava impregnata di

    resina, era un prezioso legno da teda perché tagliata in asticelle forniva

    facelline da usarsi al posto delle candele o delle lucerne e, un tempo, ne

    veniva fatto grande commercio.Ricordo come cinquant'anni fa in Albania, nei mercati di Tirana e di

    Koriza, i montanari scesi dai villaggi vendevano per poche lire i mazzetti di

    queste stecche di pino silvestre che gocciolavano ragia; e come nei boschi

    vedevamo ogni tanto un pino scavato nel tronco, da dove anche noi abbiano

     poi imparato a staccare le tede per illuminare i ricoveri. Bruciando il legno di

    quest'albero, disposto in cataste simili a quelle delle carbonaie ma con più

    cura, si raccoglieva il catrame che colava in una fossa o in un recipientesottoposti; questo distillato serviva per le vele delle navi e per i cavi.

    Raffinato o ricotto dava altri preziosi prodotti come la «pece rossa» che si

    usava spalmare nell'interno dei vasi vinari, o quella «pece bruna» che in

    Germania adoperavano mista a creta per impeciare le botti da birra.

    La «pece navale» era indispensabile per calafatare le navi; la «pegola»

    serviva a calzolai e sellai per impegolare lo spago da cucito. Marziale scrive

    che la «pece rabulana» veniva aggiunta al vino per renderlo più abboccato. Il

     pino silvestre è pure pianta medicinale: le gemme, gli aghi e i ramulicontengono principi balsamici attivi e disinfettanti; e se volete fare un bagno

    veramente salutare mettete nell'acqua molto calda della vasca un bel mazzo di

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    ramuli freschi ricchi di aghi, allungate l'acqua alla temperatura desiderata e

     poi immergetevi respirando i vapori.

    Al di là delle Alpi si raccolgono gli aghi del sottobosco e dopo averli

    messi a macerare si ottiene la "lana di bosco" (Waldwolle) che per le sue

     proprietà igieniche e salutari (cura i reumatismi) può sostituire la lana di

     pecora nei materassi e nei guanciali. Tante cose ha sempre dato all'uomoquest'albero! Plinio ci racconta che dal pino silvestre si ricavavano i cannelli

     per scrivere ("fasces calamorum"): temperati a forma di penna d'oca

    venivano induriti per mesi dentro un letamaio. Vitruvio descrive come dentro

    appositi forni o dentro capanne chiuse da ogni lato si ottenesse il "nero di

    fuliggine" bruciando legno di pino, e questo "nero" veniva usato dai pittori, e

     più ancora come ingrediente principale nella composizione dell'inchiostro.

    Presso i Greci il pino silvestre era il simbolo della verginità e per questo

    dedicato a Diana; ma anche a Pan in memoria di una fanciulla da lui amata einsidiata che Borea spinse sulle montagne e fece precipitare da una roccia. La

    Terra pietosa la trasformò in pino e quando Pan sentiva il soffio di Borea non

    cessava mai di piangere.

    Le gocce di ragia che il pino geme sono le lacrime della fanciulla amata. Il

     pino montano. Il "montano" è dei pini il più polimorfo, ossia assume forme

    diverse da luogo e luogo, o anche sullo stesso luogo e, persino, assicurano gli

    esperti, sullo stesso individuo; tanto che per classificarlo è da preferire il suo portamento che non i caratteri degli strobili. In linea di massima possiamo

    dire che nell'area occidentale: Pirenei, Alpi occidentali, Engadina, si trova il

    tipo "arborea" a fusto unico o anche a più fusti eretti e slanciati che possono

    raggiungere i venticinque metri d'altezza; nelle Alpi orientali, nei Carpazi e nei

    Balcani il tipo "prostrata" a fusti numerosi e striscianti pure lunghi sui venti

    metri ma che, al massimo, raggiungono in altezza i quattro.

    La sua corteccia è scura, quasi grigio-nera, i rami sono verticillati, ossiainseriti a due o a più di due nello stesso nodo; hanno gli apici rivolti verso

    l'alto; le foglie, lunghe tra i tre e gli otto centimetri, sono diritte e pungenti, di

    colore verde cupo. I fiori maschili sono gialli, i femminili violacei. Gli

    strobili mutano da varietà a varietà: "uncinata", "pumilio", "mughus" e sono

    lunghi dai tre ai cinque centimetri. I semi sono piccoli, con una piccola ala, e

    il vento delle tormente li dissemina nei luoghi più impervi. Fiorisce tra la fine

    della primavera e l'inizio dell'estate, quando le pernici bianche dischiudono le

    uova. Sulle montagne forma boscaglie pure, o anche miste con larice, peccio,cirmolo, ontano verde; si arrampica a coprire ghiaieti, rocce, ripiani, scende

    dagli orli degli abissi o risale al limite della vegetazione forestale fino oltre i

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    duemilacinquecento metri di quota.

    Per questo suo comportamento esercita in alta montagna una notevole

    azione protettiva, trattenendo l'acqua e la dilavazione del suolo. Se la neve

    non è tanto alta da coprirlo interamente, specialmente nelle forme "prostrata",

    impedisce la caduta di valanghe.

    Distillando i suoi ramuli si ottiene il "mugolio", un olio essenziale digrandi proprietà medicamentose ad azione balsamica e antiflogistica per le vie

    respiratorie dei bambini e dei vecchi. Il legno del pino montano non vale

    molto perché, a causa delle modeste dimensioni che raggiunge il tronco, non

    è utilizzabile come legname da opera. A cagione della sua breve estate cresce

    lentamente e così diventa pesante e compatto, flessibile anche al vento e al

     peso della neve. Dopo due o tre anni dal taglio (che deve essere fatto in luna

    calante!) brucia bene e dà un buon calore; e questo ben lo sanno i pastori che

    dopo averlo reciso lo lasciano per «due agosti» alle intemperie e al sole. A me, sin da ragazzo durante le escursioni, e poi nel tardo autunno nei

    ricoveri di caccia, il suo fuoco ha fatto compagnia, e riscaldato e asciugato

    dalla pioggia o dalla neve. Il pino montano varietà mugo del mio brolo l'ho

     portato giù dalla montagna di Campo Filon, giusto vent'anni fa, quel giorno

    che Ermanno Olmi era salito lassù per girare una scena dei "Recuperanti",

    quella dove si vede una grossa bomba nel mentre che passa un gregge. Le

     pecore, camminando, avevano smosso la poca terra denudando così le radicidi un piccolo mugo che poi raccolsi e trapiantai qui a casa.

    Ora è cresciuto molto di più che se fosse rimasto lassù; ma invece di

    essere prostrato e contorto, il clima e le precipitazioni nevose dovute ai mille

    metri di differenza di quota, lo hanno sviluppato policormico ed eretto come

    i pini montani delle Alpi occidentali. Ma i pini mughi delle nostre montagne,

    ora che i carbonai più non li tagliano e i sentieri si rinchiudono a causa del

    loro sviluppo, sono anche famosi per i problemi che possono creare aiviandanti che osano attraversarli; e anch'io la settimana scorsa ho girato a

    vuoto per più di un'ora sotto la pioggia e tra l'intrico dei loro tronchi

    striscianti e alla fine mi sono ritrovato, sfinito, al punto di partenza. E dai

    vecchi è ricordata come «la Barancia» una compagnia del Settimo Alpini che

    alla fine del secolo scorso, durante una manovra, si perdette tra i «baranci», i

    mughi delle Dolomiti.

    La mancata utilizzazione da parte dell'uomo di questa specie di pino,

    fenomeno che si è verificato in questi ultimi cinquant'anni, ha portato unnotevole cambiamento non solo nel paesaggio ma anche negli habitat della

    selvaggina, e Oggi non è raro trovare a quote insolite famiglie di caprioli

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    mentre, per mancanza di pascolo a loro confacente, si sono fatti più rari i

    galli di monte e le pernici bianche. Il pino cembro. Per i due piccoli pini

    cembri che ho nel brolo ci vorranno molti anni perché diventino alberi ben

    visibili! Ma se gli uomini saranno saggi e avremo posteri, i nipoti dei miei

    nipoti potranno dire: «Questi cembri li aveva messi a dimora il nonno di

    nostro nonno».Il "Pino cembro", o cirmolo, tra gli alberi delle nostre Alpi è, con il larice,

    il più bello: socievole e sempreverde non raggiunge l'altezza dell'abete o del

     peccio, ma può arrivare oltre i settecento anni di vita. Dove i fulmini, le

    valanghe, i sassi feriscono il tronco, assume forme tormentate e

    inconfondibili; e lassù, tra i millecinquecento e i duemilacinquecento metri di

    quota, tra nevai, rocce e ghiacciai è vedetta arborea della natura. E' di

    lentissimo accrescimento; i rami sono grossi e irregolari, incurvati verso l'alto

    a formare una densa chioma; la corteccia è grigia, profondamente fessuratalungo il tronco; gli aghi delle foglie sono riuniti a fascetti di cinque, teneri e

    sottili, di colore verde- glauco e durano sul ramo quattro-cinque anni; gli

    strobili (che messi in infusione nella grappa donano un bel colore ambrato e

    un sapore non piccante di resina) sono lunghi otto centimetri e al secondo

    anno maturano i semi dentro una guaina legnosa. Questi pinoli sono cibo

    molto ricercato da scoiattoli e nocciolaie che molte volte li nascondono tra le

    crepe delle rocce per i tempi di carestia; quelli dimenticati germogliano e le piantule allungano le radici a cercare tra le pietre e i muschi un briciolo di

    vita: tanto che è sempre stupefacente vederle poi cresciute sopra un masso al

    margine di un ghiacciaio o su una parete di roccia.

    Il legno del cirmolo è bianco-crema, il durame rosso-bruno odoroso e

    inintaccabile dagli insetti; per la sua grana fine e per la sua omogeneità è

    albero da sculture e molto bene lo usò Andrea Brustolon, grande scultore

    decorativo del rococò veneziano, artefice di altari, stalli, sedie, bastoni e dielementi decorativi.

    Augusto Murer dai tronchi di cirmolo delle sue montagne ricavava le sue

    amorose "maternità".

    Ma per i montanari è soprattutto grande legno da casa per mobili e oggetti,

    e per rinvestire contro il gelo le stanze da godere nei lunghi inverni.

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    La sequoia. A ricordo dei compagni che sono

    morti su queste montagne.

     

    Tra quelli del mio brolo l'unico albero fuori dal suo naturale ambiente è

    una "Sequoia gigantea"; ormai è alta sei-sette metri, ma solo in questi ultimi

    anni ha preso vigoroso sviluppo perché quando la misi a dimora, una

    quindicina di anni fa, era alta poco più di un metro. La sua forma

    decisamente conica, i suoi rami bruni un poco pendenti, le foglie di un bel

    colore verde prato lineari-lanceolate lunghe da due a cinque millimetri

    appressate al ramulo, la corteccia grigiastra tendente al bruno, fessurata lungo

    il tronco con chiazze di licheni alla base, tutto questo, la fa ben distingueredalle altre conifere.

    La mia sequoia non ha ancora gli strobili: è troppo giovane; ma spero di

    vederli un giorno: dovrebbero venire lunghi circa cinque centimetri, prima

    eretti e poi penduli, e dentro le venticinque squame nascondere i piccoli semi

    con la loro ala. E il vento, forse, li porterà a germinare su qualche buona terra

    delle mie montagne. Dicono che il legno delle sequoie sia leggero e tenero,

    ma anche resistente e inintaccabile dagli insetti; ma credo che quello di questamia che ha ormai così bene attecchito, non sarò certo io a usarlo.

     E qui scrivo che dovrà essere lasciata fin che la natura vorrà. Anche se tra

    secoli sarà così grande da far crollare la mia casa con le sue radici!

    Dell'ordine delle "Conifere", famiglia delle "Taxodiacee", hanno solo due sole

    specie: "Sequoia gigantea" e "Sequoia sempervirens". Un tempo

    lontanissimo, milioni di anni fa, erano distribuite su tutto l'emisfero

    settentrionale e i paleontologi sono riusciti a descriverne quaranta specie

    fossili.

    Qualche anno or sono, a Dunarobba, una frazione del comune di

    Avigliano Umbro, degli operai di una fornace scavando materia prima per 

    laterizi, si imbatterono, increduli, contro una massa dura e insolita in quel

    sottosuolo: pietre giganti infisse nell'argilla. Si resero subito conto che, per 

    qualche ragione, quelle strutture meritavano attenzione e notificarono la

    scoperta.

    Arrivarono da Perugia i paleontologi che dissero quelle «cose» alberi pietrificati. Vennero così alla luce, su due ettari di superficie, una cinquantina

    di tronchi colossali con il diametro di oltre due metri, alti tra i sette e i dieci.

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    Si tratta di resti fossilizzati di sequoia vissuta forse un milione e mezzo di

    anni fa, nel Pleistocene Inferiore, che un incomprensibile fenomeno aveva

    schiantato nel loro vigore vegetativo; lasciando in piedi questi tronchi a

    testimonianza di quel tempo e come esempio unico al mondo «di resti

    vegetali fossilizzati in posizione di vita».

    Ora, dopo milioni di anni, il loro ambiente naturale rimane limitato a poche aree lungo la Serra Nevada, in California, a un'altitudine tra i

    millecinquecento e i duemilaquattrocento metri: è lì che troviamo gli alberi

    viventi più vecchi della terra che dall'alto dei loro cento e più metri d'altezza,

    dai loro diametri di oltre dieci metri e dai millenni di vita (la più anziana si

    calcola abbia più di quattromila anni!) guardano la nostra storia. Il nome a

    questi giganti del mondo vegetale era stato dato dagli indiani in onore di un

    uomo della loro tribù chiamato Sequoiah, inventore dell'alfabeto cherokee.

     Nei libri di botanica dell'Ottocento la sequoia viene anche chiamata"Wellingtonta gigantea", o anche "Albero mammouth". Il Figuer nella sua

    "Storia degli alberi" così la descrive: «E' un albero della famiglia delle

    Conifere, che fu, a quanto dicesi scoperto da un viaggiatore inglese, il

    naturalista Lobb, su una montagna della California...» Anche il botanico

    Müller nella sua opera "Meraviglie del mondo vegetale" dice di questa

    scoperta, e dopo averlo descritto nella sua maestosità dice: «... Egli è perciò

    che l'albero venne eretto in genere particolare e chiamato "Wellingtoniagigantea", benché recentemente la vanità americana, a quanto pare, ne abbia

    fatto una "Washingtonia". Sovra un miglio si incontrano circa novanta di

    questi alberi. La massima parte trovasi riuniti in gruppi di due o tre sopra un

    suolo fertile, nero, bagnato da un rivo. Perfino i cercatori d'oro vi hanno

     prestato attenzione. Infatti uno di questi alberi porta il nome di "Capanna del

    minatore" e possiede un tronco di trecento piedi d'altezza, in cui è praticata

    una cavità di diciassette piedi di altezza. Le "Tre sorelle" sono individui procreati da una sola ceppaia. Il "Vecchio scapolo", arruffato dagli uragani,

    mena vita solitaria. La "Famiglia" si compone di una coppia di antenati con

    venticinque figli...»

    Per dare l'idea di come questi alberi isolati siano da per se stessi un bosco,

    si pensi che la sequoia denominata "Generale Sherman" ha un volume

    calcolato di oltre millesettecento metri cubi: l'equivalente di circa mille abeti

    maturi dei nostri boschi! Ma perché una giovanissima sequoia è capitata nel

    mio brolo? Attorno agli anni Sessanta ogni estate veniva sull'Altipiano, daTorino, un signore alto e magro, distinto, che qualche volta si accompagnava

    a passeggiare con mio padre.

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    Venni così anch'io a conoscere il signor Giuseppe e a sapere che la sua

     puntuale presenza era dovuta al fatto che nel 1915 e 1916 era stato quassù

    come fantaccino della Brigata Ivrea. Con i suoi compagni nascosti dentro i

     boschi la mattina del 24 maggio 1915 aveva sentito quel colpo di cannone che

    annunciava la nostra entrata in guerra contro l'Austria- Ungheria.

    Sei giorni dopo gli alpini dei battaglioni Bassano e Val Brenta e i fantidella Brigata Ivrea tentarono di forzare le linee di fortificazioni sulla strada

     per Trento subendo molte perdite. Ma fu l'anno dopo, nel maggio, che in

    questa zona del fronte si scatenò la «Spedizione punitiva» contro l'Italia, e il

     battaglione dove era il signor Giuseppe venne quasi annientato da un

    violentissimo bombardamento.

    Si legge nella relazione: «... La lotta sul Costesin fu veramente tra le più

    epiche di questa battaglia, nella quale rifulse il tenace valore dei difensori e in

     particolare della Brigata Ivrea».Un corrispondente austriaco della «Neue Freie Press» scriveva al suo

    giornale: «... osservando le postazioni nemiche si nota un caos

    raccapricciante: un ammasso di reticolati divelti, contorti, di tronchi a terra,

    enormi buche nel terreno generate dallo scoppio delle granate. Quando il

     bombardamento ebbe inebetiti i nemici cagionando loro terribili perdite,

    allora fu sferrato l'assalto delle fanterie...»

    Il generale Murari Brà che comandava la Brigata Ivrea, ha lasciato scrittonelle memorie di quei giorni: «... Fu l'artiglieria che ci vinse, la fanteria fu

    sempre preceduta da vere cortine di proiettili. Ogni qualvolta le due fanterie

    si urtavano noi avevamo il vantaggio...»

    Il signor Giuseppe, che nella sua casa in collina coltivava il bel giardino,

    era sopravvissuto a tutto questo e ogni estate, negli ultimi anni della sua vita,

    veniva al Costesin dove ancora ci sono i segni della terribile lotta. Anch'io lo

    accompagnai un giorno; non disse nemmeno una parola ma quandogiungemmo su quel dosso i suoi occhi erano pieni di lacrime.

    Quando venne l'ultima volta mi portò la sequoia che era passato a

     prendere in un vivaio dell'Appennino Pistoiese. «La pianti qui nel suo brolo,

    - mi disse, - a mio ricordo e a ricordo dei miei compagni che sono morti su

    queste montagne». Insieme scegliemmo il posto. Quando negli scorsi inverni

    era gravata dalla neve mi facevo premura a liberarla, e quando il vento

    l'asciugava, le bagnavo le foglie.

    Ora non ha più bisogno del mio aiuto e i miei nipoti sanno che quello èl'albero del signor Giuseppe e dei fanti della Brigata Ivrea.

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    Il faggio. Si costruisce e si conserva la foresta.

     

    Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia

    dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastataal sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia

    con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così

    che alzando la testa dal tavolo e vedendo l'inverno sulle montagne e sui

     boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per 

    scrivere a un amico. Ho incominciato da ragazzo a «sentire» il faggio come

    albero felice agli dei, e non lo sapevo.

    Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigli e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell'assegnazione

    d'uso civico. I forti cavalli nell'autunno portavano i pesanti carri verso le case

    degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i

    mucchi in bell'ordine.

    Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si

    segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche

    questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le

    contrade era tutto un fervore, e dove c'erano vedove o vecchi c'era semprequalcuno che dava una mano a preparare la legna.

    Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall'America, anch'io

    segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere

    rivolto verso un poggiolo dove c'era una ragazzina che usciva a guardarmi.

    L'odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più

    tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si

    confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese.

    Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta,

    venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione

    lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno

    spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli,

     picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta

    alle mani dell'uomo, e ben lo sapevano i Veneziani che saggiamente

    amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi. Dove

    un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva

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  • 8/20/2019 Mario Rigoni Stern - Arboreto Salvatico

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    scelto per costruire la "slitakufa", slittastorta: dal tronco smussato in punta si

    ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi

    si mettevano su un'asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso

    di bosco o di campo.

    Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e

    dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbericavato gli sci. Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo

    trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco

    comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano

    alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l'ombra e l'umidità li ho

    messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso

    l'alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere

    diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell'aspetto

    rotondiforme che li farà solenni.Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti. L'anno

    scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di

    latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d'Europa.

    Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie

    eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai

    rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa

     primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri matra cinquant'anni richiameranno l'attenzione dei passanti.

     Il "Fagus silvatica" è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera,

    ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare,

    nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi

    isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di

    colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il

     pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono algrigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque-dieci centimetri, ovali e

     brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella

     parte superiore, più pallide e un po' pelose nella pagina inferiore. Quando

    fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta,

    nel ricordo di una fame tra le montagne dell'Austria, le mastico e le mangio

    come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma

    è nell'autunno, tra l'ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel

    colore giallo- rosso squillante che rallegra la selva. Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben "radicate". Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi,

     penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il

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    tempo ha fatto l'humus con l'aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi

    faggi ci dànno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi

    da notte di Natale.

    L'albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli

    dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti

    maturano alla fine dell'estate; sono a cupola chiusa, un po' spinosa, a quattrovalve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi

    circa un centimetro e mezzo. L'areale di questa latifoglia è tipicamente

    oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al Mar Nero e dalle Alpi

    Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e

    sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le

    caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un'area

    fitoclimatica particolare: il "Fagetum" che sta tra il più caldo "Castagnetum" e

    il più rigido "Picetum".Le foreste possono essere pure ma anche miste con l'abete bianco e altre

    latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i

    terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni

    vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e

    conserva la foresta!

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    Il tiglio. Albero di giustizia perché attorno ad

    esso si riunivano i saggi.

     

    Perché quest'anno i tigli del mio brolo non hanno profumato l'aria dei

    crepuscoli?

    Ogni anno, a luglio, raccolgo in abbondanza i loro fiori e li distendo in

    soffitta sopra un graticcio e, quando sono bene asciutti, li ripongo al buio in

    vasi di vetro. Nelle sere dell'inverno, dopo cena o prima di coricarmi, una

    tazza di infuso di fiori di tiglio con un cucchiaio di miele di salvia delle isole

    dalmate è un'ottima bevanda che concilia il sonno e agevola la respirazione.

    Le proprietà medicinali di questi fiori sono note sino dai tempi più antichi:contengono zuccheri, tannino, acido malico e acido tartarico, olio essenziale.

    Tutte queste cose in loro raccolte hanno proprietà sudorifere,

    antispasmodiche e sedative.

    Qualche volta persino le api, quando con insistenza raccolgono nettare da

    certi tigli, vengono come assopite e si adagiano sull'erba all'ombra

    dell'albero.

    La famiglia delle "Tiliaceae" ha solamente il genere "Tillia"; da noi sonotre le specie che crescono, ma se ne conoscono molte di più, ed è curioso

    leggere come certi autori ne classifichino diciotto e altri sessantacinque.

    Da noi il tiglio più comune è il "Selvatico" o "Maremmano"; dei tre

    nostrani è il meno grande, ma pure può raggiungere i venticinque metri

    d'altezza. Il "Tilia platiphillos" è il più maestoso e bello: albero di prima

    grandezza può raggiungere i trentacinque-quaranta metri e una circonferenza

    anche superiore ai dieci metri.

    Tra gli alberi è uno dei più longevi: due-trecento anni è una età comune;

    già nelle cronache medioevali troviamo citati tigli venerandi e robusti che

    ancora oggi vivono, e che quindi dovrebbero avere superato i mille anni

    come quello di Neustadt, nel Württemberg. Meritano pure di essere ricordati

    il Tiglio di Sant'Orso a Aosta e il Tiglio del Maso Widum (Bolzano) che alla

     base misura sette metri di circonferenza.

    Da parte mia ricordo una maestosa e solenne "linta" che ombreggiava le

    case del mio paese: la sua chioma era come un bosco bello e misterioso e latradizione diceva che ai suoi piedi, all'inizio della buona stagione e al

     principio dell'inverno, si radunavano i reggitori della comunità eletti dai

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    capifamiglia.

    Discutevano delle rendite dei beni comuni, del governo dei boschi e dei

     pascoli; trattavano i rapporti con la gente della pianura e con quella al di là

    delle montagne; ma anche con i preti che avevamo sì l'obbligo di mantenere,

    ma che a loro volta erano scelti e «non dovevano interessarsi della cosa

     pubblica, ma solo della cura delle anime».Dopo qualche secolo venne costruita la chiesa in tronchi e il "Palazzo

    della Reggenza dei Sette Confederati Comuni", rustico e severo ma non sacro

    come il tiglio: la "linta delle vicinie", che vide incendi, invasioni, pestilenze

    ma anche balli e feste, la vita, insomma, della mia gente. Sopravvisse persino

    alla Grande Guerra che in piedi non aveva lasciato nemmeno una casa.

    Quando tornarono nel 1919 trovarono tutto distrutto, ma non la nostra "linta"

    che, benché ferita, in quella primavera sopra l'odore della morte mandava il

    suo mormorio e il suo profumo.Ora non c'è più: avevano detto che minacciava di crollare sopra le case

    che stavano intorno. Su quel brolo hanno costruito un condominio e siamo

    rimasti in pochi a ricordarla. Il fusto del tiglio è slanciato e diritto, nei luoghi

    freddi ho osservato che si dirama in fusti secondari; la corteccia, nei soggetti

    giovani, è liscia, di colore grigio-bruno; con gli anni si fessura screpolandosi

    in senso verticale e assume un colore più scuro.

     Negli esemplari isolati l'impalcatura dei rami, che sono robusti e di colore più carico del tronco, non è molto discosta dal suolo; nel bosco, invece,

    come in quasi tutti gli alberi, si raccoglie verso l'alto. La chioma è folta,

    rotondeggiante, armonicamente disposta. Le foglie, che misurano quattro per 

    sette centimetri, sono caduche, cuoriformi, con un apice appuntito, seghettate

    ma liscie alla base, con le nervature ben marcate, di colore verde denso, più

    chiare e coperte da leggera peluria nella pagina inferiore.

    Ma che colore giallo-dorato ci donano all'autunno! «Il cerchio d'oro deltiglio / è come un serto nuziale», dice Pasternàk in una sua poesia. I fiori

    sono ermafroditi, di un bel colore bianco-ambrato che la pioggia estiva rende

    luminoso; il loro peduncolo è fissato a una brattea oblunga; i sepali sono a

    corolla e i cinque petali contornano numerosi stami. Fioriscono verso la metà

    di luglio e nei giorni favorevoli per clima e umidità sono a uno a uno

     perlustrati e bottinati da miriadi di insetti. Ancora Pasternàk in "Un viale di

    tigli" scrive: «... Vengono i giorni della fioritura / e i tigli in una cinta di

    steccati / diffondono insieme con l'ombra / un irresistibile aroma. / La genteche passeggia sotto i tigli / col cappello d'estate vi respira / questo forte odore

    inesplicabile, / ma familiare all'intuito delle api...»

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    E tanto è profumato il miele di tiglio che non da tutti è gradito per il forte

    aroma. I frutti sono ovali, di circa un centimetro, legnosi; i semi contengono

    un olio simile per aspetto e sapore a quello dell'oliva. Il legno è bianco

    avorio, brillante e quasi sericeo, omogeneo e tenero; non si scheggia e per 

    questo si può tagliare in ogni senso: più di ogni altro si presta ad essere

    scolpito.E poi i tarli non lo intaccano. Di legno di tiglio sono gli zoccoli olandesi,

    cornici intagliate, ornamenti di mobili, altorilievi. Il carbone che si ottiene da

    quest'albero è un ottimo "carboncino" per disegnare e, un tempo, era

    componente della polvere da sparo. Tra i rami più grossi e nelle biforcazioni

    degli alberi adulti, alle volte una macchia di verde più compatta denota la

     presenza del "Viscum album", caro a noi ragazzi di un tempo quando con il

    "vischio di Cles" facevamo le panie per catturare gli uccelli.

    Si racconta che agli inizi del tempo la ninfa Filira, figlia di Oceano, sigiacque con Crono padre di Zeus; colti sul fatto da Rea che assieme a Crono

    sovraintendeva al pianeta Saturno, Crono si tramutò in stallone e galoppò

    via. Da Filira nacque un esserino mezzo uomo e mezzo cavallo; ma poiché

    allattandolo le faceva ribrezzo chiese agli dei di diventare un'altra e così fu

    trasformata in "Philyra": tiglio. Il piccolo mostro, crescendo, divenne il

    saggio centauro Chirone, che si dimostrò pure grande medico, ma questo

    dono gli era venuto dalla madre "Tilia" piena di virtù medicamentose date alei in cambio del latte.

    Per Plinio, invece, il tiglio è uno degli alberi felici perché dalla sua scorza

    messa a macero si ricavavano le lunghe fibre con cui si tessevano i nastri per 

    legare le corone dedicate a Venere e le bende per fasciare le ferite dei

    guerrieri. Il tiglio era anche chiamato «albero di giustizia» perché attorno ad

    esso si riunivano i saggi a sentenziare.

    E se passate dalla Val di Fiemme non mancate di andare al Parco dellaPieve di Cavalese: tra i secolari tigli, in anelli circolari, ci sono i sedili

    monolitici dove le autorità della valle prendevano posto durante le assemblee

     per amministrare la giustizia. Ancora oggi l'antica opera è conosciuta come

    «Banco de la Resòn».

    (Ma perché quest'anno i tigli del mio brolo non avevano profumo? Forse

     per l'inverno senza neve, la primavera fredda, l'estate troppo piovosa? O per 

    qualche causa provocata dagli uomini?)

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    Il tasso. ... Talee di tasso colte mentre la luna è in

    eclisse... (SHAKESPEARE).

     

    Sembra strano come a volte i contrapposti simboli convivano in un solo

    albero. Questo è il caso del tasso ("Taxus baccata" L.) che è

    contemporaneamente l'albero della morte e dell'eternità.

    Forse perché fra gli alberi è considerato tra i più longevi e le sue fronde

    contengono un veleno mortale?

    Ma chi, oggi, va a cercare e conoscere il tasso? I miti, le leggende e la

    venerazione che per millenni gli alberi hanno suscitato negli uomini si vanno

    sempre più affievolendo, perdono interesse e non sono più nemmenocuriosità.

    Eppure ancora qualcuno da un grosso ramo di tasso ha pensato di scolpire

     per me un bellissimo bastone da montagna: giustamente alto da poter posare

    le braccia per l'osservazione con il binocolo, giustamente leggero da non

    stancare nel cammino e sufficientemente forte da poter fare raspa nella

    discesa sui ghiaioni.

    Il pensionato che si diletta di scultura ha scelto il tasso per le sue qualità e bellezza: ha polito e levigato il ramo al fine di far risaltare il bel colore rosso-

     bruno e poi con grande pazienza ha intagliato i finti nodi; come faceva

    Andrea Brustolon per i nobili veneziani o anche per sé quando andava per le

    montagne del Cadore e nel riposo, all'ombra di un larice, si dilettava a

    intagliare bastoni che ora sono diventati ricercati oggetti d'antiquariato.

    Da noi non esistono boschi di tassi, e quest'albero si trova sporadico tra le

    altre specie che vegetano dalle Alpi al mare. Ama l'ombra più densa e i posti

    reconditi, quasi volesse nascondersi alla vita e lentissimamente cresce per 

    vivere moltissimo. («Studia lentamente se vuoi studiare a lungo»,

    raccomandava un abate della mia terra a uno studioso di Padova alla fine del

    Settecento).

    Secondo leggende e tradizioni anche scritte, i più antichi tassi sono quelli

    che vivono in Scozia, valutati a oltre duemila anni d'età; ma anche sul monte

    Catria, negli Appennini, dove sorge l'eremo di Fonte Avellana, vi è ancora un

    tasso millenario con una circonferenza di quasi cinque metri e un'altezza dìquindici. Una decina di tassi contorti a portare il tempo vive in località

    Tadderieddu, sul Gennargentu a 1500 metri d'altitudine, e sono i relitti di una

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    antica foresta.

    Sono arrivati sino a noi perché soggetti a un misterioso culto? Un amico

    lettore mi ha segnalato che in una costa scoscesa, alta sopra il mare di

    Liguria, dove la Dolomia del Trias erosa dalle acque assume forme

    fantastiche, andando un giorno alla ricerca di fossili, ha scoperto tra le cavità

    di una roccia un minuscolo bosco di tassi: sono una trentina che vivono conqualche goccia d'acqua su pochissima terra e non raggiungono l'altezza di

    quaranta centimetri. Quando si arrampica tra quelle rocce per le sue ricerche,

    non manca mai di andare a visitare questo miracolo della natura e un giorno

     portò con sé il moncone di uno di questi alberelli spezzato da una pietra

    caduta dall'alto.

    Giunto a casa ha voluto sezionare il tronco, lucidarlo e, con l'aiuto di una

    lente, contargli gli anelli: dimostrava di avere centocinquanta anni!

     Nell'era Terziaria, quando l'uomo non era ancora apparso sulla Terra estavano formandosi le grandi catene montagnose, il tasso era albero molto

    diffuso e si sono trovati i suoi resti fossili. Attualmente in Europa occupa

    un'area che va dalla Scandinavia al Mediterraneo e lo ritroviamo in Algeria a

    occidente e nel Caucaso a oriente. Il genere "Taxus" è monotipico e le razze

    geografiche che vivono in America settentrionale e in Asia sono tutte simili

    alle nostre.

     Non è albero di grande altezza, raramente supera i quindici metri; certevolte si presenta come arbusto. Il tronco si ramifica a poca uscita dal suolo; la

    chioma è di un intenso e immutabile colore verde cupo, espansa e a corona

    leggermente ovale. Il tronco, sempre tozzo rispetto all'altezza, ha la corteccia

    di colore rossastro come pure i rami più grossi; con il passare degli anni il

    ritidoma si arriccia e si stacca a placche o a striscie. I rami principali sono

    grossi e alterni, i rami secondari piuttosto corti e a volte penduli; i ramuli

    sono verdi, le gemme piccole e squamose. Le foglie assomigliano un po' aquelle dell'abete bianco: sono lineari, appiattite, un poco falcate, acuminate

    ma non pungenti perché tenere; sono lunghe dai quindici ai trenta millimetri e

    inserite a spirale tutt'intorno sui rametti; verde cupo sulla pagina superiore,

     più chiare e tendenti al giallo nell'inferiore. I fiori maschili e femminili sono

     portati da individui diversi (pianta dioica) e fioriscono sul finire dell'inverno;

    i fiori maschili sono numerosi in amenti gialli inseriti sotto i rami, i femminili

    si distinguono dalle gemme foliari per il colore che tende più al giallo che al

    verde. Il frutto è un arillo composto da una parte carnosa fatta a coppa che inautunno diventa di un bel rosso laccato contenente un seme ovoide di colore

     bluastro che matura nell'anno.

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    La parte carnosa del frutto è dolce e si può mangiare, contrariamente a

    certe convinzioni che risalgono ai Greci; anche gli uccelli ne sono ghiotti e

    così, siccome il seme è protetto da un tegumento, disseminano la pianta

    lungo le loro vie migratorie. Il legno del tasso è di grande pregio: e per il

    colore giallognolo dell'alburno e porporino del durame, e per la sua grana

    che è la più fine tra i legni d'opera e ben si presta per i lavori al tornio, diebanisteria e di intaglio; inoltre è molto elastico e fino alla scoperta delle armi

    da fuoco era molto ricercato per costruire archi.

    Oggi il valore del tasso è prevalentemente decorativo nei parchi e nei

    giardini; ma sarebbe bello vederlo nelle alberature stradali, specialmente là

    dove tira il vento, e questo anche perché resiste ai parassiti, alle intemperie e

    alla neve. Quest'albero bello dalla lunghissima vita era dedicato alle Furie e

    agli dei dell'Averno; lo troviamo ancora come pianta ornamentale dei cimiteri,

    e in certi luoghi delle Alpi è usanza onorare le tombe dei defunti con iramoscelli di tasso dai rossi arilli. Forse per questo è chiamato "Albero della

    morte", ma anche perché il veleno contenuto nelle sue foglie è ritenuto

    mortale.

    Scriveva il Mattioli nel Cinquecento «... Sono alcuni che dicono da qui

    chiamato il veleno tassico, che hora diciamo tossico co'l quale s'avvelenano

    le saette...» Per la sua qualità venefica lo troviamo citato fino dall'antichità.

    Teofrasto nella "Storia delle piante" dice che le sue fronde ingerite fannomorire il bestiame che non rumina.

    Plinio scrive che i tassi dell'Arcadia hanno in loro così potente veleno che

     per morire è sufficiente dormire o mangiare alla loro ombra, che il fumo

    delle sue fronde ammazza i topi, ma anche che piantando un chiodo di rame

    nel suo legno si annulla ogni effetto mortale.

    Cesare, nel Libro sesto della "Guerra gallica" ci racconta che Catuvolco re

    degli Eburoni, sfinito dagli anni e dalla guerra, si tolse la vita con il veleno ditasso.

    Shakespeare nel "Macbeth" (atto terzo, scena prima) nel diabolico

    intruglio che stanno preparando le streghe fa mettere «... talee di tasso / colte

    mentre la luna è in eclisse...»; come succo tratto dal tasso è quello che

    nell'"Amleto" Claudio versa nell'orecchio del re per farlo morire.

    Ma è anche curioso notare come il nostro Mattioli nei suoi "Discorsi"

    asserisca che gli uccelli che si cibano dei frutti del tasso diventano neri; (A

    questo punto mi permetto di aggiungere una mia piccola osservazione: i merlinati nell'anno, in autunno tendono ancora al marrone ed è sul principio

    dell'inverno che diventano tutti neri, completando la muta, e i merli, come

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    tutti i turdidi, sono molto ghiotti di arilli di tasso).

    I pastori delle valli delle Alpi occidentali dicono anche che il morso delle

    vipere viene neutralizzato applicandoci sopra foglie di tasso ben pestate.

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    Il frassino. ...Il cervo lo morde in alto / ai lati

    marcisce / lo addenta Nìdhhörggr in basso (Snorri

    Sturluson)

     

    Vicino alle vecchie case, a Levante, c'era sempre un frassino. Qualcuno è

    sopravvissuto anche alla Grande Guerra e ora allarga i suoi rami sui tetti e sui

     prati intorno. I tordi e le cesene che si cibano dei suoi frutti hanno distribuito

    i semi nei boschi dove vanno a posare di notte e tra gli abeti e i faggi, i

    giovani frassini stanno ridando al bosco quell'aspetto che certamente avrà

    avuto un tempo lontano.

    Anche nell'orto della vecchia casa mio nonno, quando ritornò per 

    ricostruirla, volle piantare un frassino al posto di quello ucciso dalle granate.

    Ma non era grande e i due pioppi che stavano agli angoli dell'orto ben presto

    lo sovrastarono. Io aspettavo che crescesse e ogni anno gli misuravo il tronco

     perché volevo fare tavole da sci. Quando tornai dalla mia guerra non trovai

     più quel frassino e ora dove mia madre andava a raccogliere le dalie ci sono

    le automobili in parcheggio.

    Sarà per tutto questo che a nord dell'orto ho voluto piantare anch'io ungiovane frassino che ho levato dal bosco?

    E' alto e diritto, flessibile al vento e alla neve, e solo adesso incomincia ad

    allungare i rami che dalle piccole gemme nere gli erano spuntati. Non lo

    vedrò allargare i suoi rami verso il tetto, e ora che gli sci si fabbricano con le

    resine sintetiche e fibre di carbonio, i miei nipoti non avranno bisogno di

    immaginare tavole dal suo tronco.

    Crescerà.Crescerà da diventare come i vecchi frassini secolari accostati alle antiche

    e piccole case?

    Mi chiedo questo perché sempre più ardua è diventata la vita degli alberi,

    ora che gli uomini si manifestano insensibili verso il mondo vegetale. Ma

    quest'usanza di avere un frassino accanto alla casa viene forse dai tempi

    remotissimi quando si credeva che da quest'albero discendessero gli umani. Il

    genere "Fraxinus" appartiene alla famiglia delle "Oleacee"; di questo genere si

    conoscono una settantina di specie che si trovano esclusivamente

    nell'emisfero settentrionale.

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    Vegetano dal Mediterraneo alla Norvegia e, sulle nostre montagne, li

    incontriamo sino a millecinquecento metri d'altitudine. Possono raggiungere i

    trenta- quaranta metri d'altezza e un diametro di tre, quattro metri. Ma se ne

    conoscono di più maestosi, con secoli di vita, specialmente nei Paesi a nord

    delle Alpi. Il tronco è slanciato, non molto ramificato; negli alberi cresciuti

    isolati la corona è ampia e densa. Da giovane la sua corteccia è liscia, dicolore olivastro, con gli anni diventa grigia, rugosa e fessurata. (Come con

    l'età gli umani assomigliano agli alberi!)

    Le foglie sono decidue, composte da nove o più foglioline sessili,

    lanceolate, ai bordi leggermente seghettate, di colore verde scuro e glabre

    nella parte superiore, più pallide nella pagina inferiore. Le gemme sono

    vellutate e scure, quasi nere come carboncini. I fiori si sviluppano prima

    delle foglie, tendono al colore violetto e sono riuniti in racemi. I frutti che

    contengono i semi già pronti a germinare, sono formati da samare allungatedi due, quattro centimetri; munite di un'ala apicale nell'inverno o in

     primavera vengono disseminate dal vento o dagli uccelli. Il legno del frassino

    è bianco-rosato con riflessi madreperlacei; viene usato per manici di attrezzi

    da lavoro o da sport, per costruire mobili, carri, recipienti. Dai tronchi grossi

    e diritti si ricava un bel tavolame e dai pedali marezzati un pregiato «ebano

    grigio». Le foglie dei frassini sono anche un buon foraggio sia verde che

    secco; messe in infuso nell'acqua bollente curano i reumatismi e sonodiuretiche; la corteccia veniva usata per conciare le pelli, ma anche per 

    abbassare la febbre perché, come quella del salice, contiene salicilina.

    Della specie "Fraxinus ornus", l'orniello, si ha una buona produzione di

    manna: un essudato giallastro che stilla dalle ferite del tronco e che a contatto

    dell'aria diventa bianco e si rapprende. Ha un gusto morbido e dolce, si

    scioglie bene nell'acqua ed è un buon rinfrescante e blando purgante.

    Un tempo se ne faceva un grande uso, tanto che a Venezia se neconsumavano migliaia di libbre provenienti dall'Italia del Sud con una spesa

    di ventimila ducati annui. Il Senato pensò allora di poter ricavare la manna

    dai boschi entro i confini della Repubblica e su consiglio di un frate,

    Francesco da Cosenza, nel 1769 decretò «intangibili» persino ai privati

     proprietari tutti i frassini-orni della Dalmazia e di appaltare la raccolta,

    stabilendo i prezzi.

    Ma la cosa non ebbe buon esito e nel 1790, con altro decreto ritornò

    ognuno in piena libertà di estrarre la manna dai boschi anche pubblici e divenderla al miglior offerente (Adolfo di Bérenger, "Archeologia forestale"). I

    migliori frassini da manna si trovano in provincia di Palermo perché vi sono

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    lì le particolari condizioni di clima, di precipitazioni e di fertilità del suolo; si

    ha, inoltre, un periodo vegetativo lungo, luminoso e relativamente asciutto.

    Durante l'estate e ogni giorno, con una particolare tecnica in modo da non

    offendere eccessivamente l'albero, vengono praticate sul tronco delle

    incisioni orizzontali da dove poi la linfa discende e rapidamente si rapprende

    in manna, così da essere raccolta. Ma se quel giorno dovesse piovere il prodotto viene disciolto!

    Anche il frassino era per i Greci «albero felice»; lo avevano consacrato a

     Nemesi e alle ninfe Melìe, nate dal sangue di Urano. Ma nei loro miti più

    remoti facevano discendere dal frassino, da cui caddero come frutta matura,

    gli uomini della terza stirpe, quella degli antichi invasori elleni allevatori di

     bestiame, che portavano armi di bronzo, insolenti e spietati che al frassino

    dedicavano il loro culto.

     Esiodo, in "Opere e giorni", ci ha lasciato scritto: «... Zeus padre una terzastirpe di gente mortale / fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento, /

    nata da frassini, potente e terribile: loro di Ares / avevano care le opere

    dolorose e la violenza, né pane / mangiavano, ma d'adamante avevano

    l'intrepido cuore,...»

    Ma è in un luogo molto lontano, lassù nel Nord dell'Europa dove gli dei

    tengono consiglio ogni giorno, che esiste un frassino particolare e unico:

    "Yggdrasill", l'albero del destino. Si innalza nel cielo a sorreggere l'universo ei suoi rami si espandono su tutta la terra. E' sostenuto da tre radici: una

    finisce nel mondo della morte, "Hel", l'altra nel mondo dei Giganti del

    ghiaccio, "Mìmir", la terza nella terra degli "Asi". Accanto al «primo degli

    alberi» si trova la fonte di "Urdhr", dove le Norme determinano il destino

    degli uomini e spruzzano d'acque e fango bianco il frassino "Yggdrasill"

     perché non dissecchi: «... di lì proviene la rugiada / che cade nella valle».

    La sibilla della Völuspà ricordava quest'albero prima ancora che fosse, prima che si alzasse dal suolo, e quando appare nella sua pienezza già

    incomincia la decadenza perché i cervi ne mangiano le foglie e un serpente le

    radici.

    Canta Snorri Sturluson nell'"Edda": «Il frassino Yggdrasill / patisce pene /

     più di quanto si sappia / il cervo lo morde in alto / ai lati marcisce / lo

    addenta Nìdhhöggr in basso».

    Questo frassino gigante, stipite e colonna dell'universo, con gli elementi

    del mito diventa simbolo dei tanti mortali pericoli incombenti e provenientida incontrollato sviluppo tecnologico che rode le radici stesse della vita e ne

    intorbida le fonti.

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    La betulla. ... o seno di fanciulla, verde

    capigliatura (S. ESENIN).

     

    Da ragazzo, nel mondo vegetale, non erano le betulle ad attirare la mia

    attenzione; i larici e i grandi abeti erano gli alberi che mi affascinavano e, tra

    gli arbusti, il salicone e il maggiociondolo quelli che ricercavo ai margini dei

     pascoli per ricavare forcelle per il tirasassi e aste per l'arco e le frecce dei

    nostri giochi. Delle betulle non capivo la bellezza; vicino a loro giocavamo in

     primavera quando scioglieva la neve, senza alzare gli occhi ai loro rami

    celestiali.

     E l'uso dei nostri antichi, che a maggio manifestavano il loro amore alleragazze del villaggio con rami di betulla appena sbocciati posti davanti agli

    usci delle loro case, si è perduto a contatto con la civiltà mediterranea.

    "Beth", la betulla, nel "Calendario degli alberi", era la prima delle tredici

    specie e apriva l'anno dei tredici mesi della luna, e il suo simbolo aveva il

    tempo tra il 24 dicembre e il 21 gennaio: albero cosmico e luminoso che

    indicava la risalita del sole nell'arco del cielo.

    Con gli ontani forma la famiglia delle "Betulacee" e i botanici neconoscono quaranta specie che vivono tutte nell'emisfero boreale. Da noi due

    sono le betulle più conosciute: la "Betula verrucosa", più nota come betulla

     bianca o pendula, e la "Betula pubescens", betulla pelosa, in Italia abbastanza

    rara ma che copre vastissime aree nel Settentrione d'Europa. Una varietà

     particolare della verrucosa è la "Aetnensis", endemica dell'Etna, che troviamo

    a 2700 metri di quota: estremo limite vegetativo di questa famiglia verso il

    Sud.

    Se da noi la betulla, rimasta al di qua delle Alpi dopo l'ultimo periodo

    glaciale, è albero solitario o a piccoli gruppi forma allegre macchie chiare nei

     boschi misti, oltre le montagne, su verso il Grande Nord, quest'albero forma

    estesissime foreste perché, più di ogni altro, sopporta i grandi geli e gli sbalzi

    termici.

    Sono alberi monoici, a foglie caduche; gli amenti maschili o gattici,

    appaiono tra l'estate e l'autunno; hanno forma cilindrica allungata ma si

    aprono la primavera successiva quando compaiono i fiori femminili che sonogracili e lievi. I semi maturano tra luglio e ottobre ed è con la neve che cince

    e lucherini vanno tra i rami delle betulle per beccare i piccoli semi per 

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    nutrirsi. (Mai ne avevo visto così tanti sulle quattro betulle del mio brolo

    come lo scorso inverno).

    La betulla può raggiungere e superare i venti metri d'altezza, ma non è

    molto longeva rispetto agli altri alberi perché a cento anni è da considerarsi

    già vecchia. Il fusto è cilindrico ed elastico, ma quando la neve o il vento lo

    spezzano può anche ramificarsi; la corteccia è sottile, bianco argento, e il suocolore è dovuto a una sostanza, la "betulina", che impregna il ritidoma;

    qualche striscia orizzontale più scura può interrompere il bianco e, verso la

     base, nelle piante adulte, si ispessisce e si screpola assumendo un colore

    giallastro. I rami principali, tendenti verso l'alto, e i rami piccoli penduli,

    dànno alla betulla quell'immagine gentile, elegante e leggera.

    Dalle sue gemme viscose le api raccolgono un liquido gommoso per 

    comporre la propoli: quella specie di resina da loro arricchita di enzimi e

    forse antibiotici che usano per rivestire all'interno le loro case (e che insoluzione alcolica io uso per disinfettare e fare cicatrizzare in fretta le piccole

    ferite). Le foglie sono di un colore denso e brillante nella pagina superiore,

     più tenue e un poco attaccaticce sul rovescio; hanno forma romboidale acuta,

    seghettate lungo i bordi più lunghi, e sono inoltre cibo ricercato da molti

    insetti che, in certi anni, riescono a denudare le ultime crescite dei rami. Le

    radici della betulla sono piuttosto superficiali, ramificate. Dalle mie parti,

    quando c'era carenza di funi, venivano usate come stroppo. Il legno èomogeneo, elastico e