Livro - Wittkower - La Scultura Raccontata - 04. Il Rinascimento. Alberti, Leonardo

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da La scultura raccontata da Rudolf Wittkower di Rudolf Wittkower Storia dell’arte Einaudi 1

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da La scultura raccontata da Rudolf Wittkower

di Rudolf Wittkower

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Edizione di riferimento:La scultura raccontata da Rudolf Wittkower. Dall’an-tichità al Novecento, trad. it. di Renato Pedio, Ei-naudi, Torino 1985 e 1993Titolo originale: Sculpture. Processes and principles, Penguin BooksLtd, London© 1977 Margot Wittkower

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Capitolo quarto

Il RinascimentoAlberti, Leonardo

I mutamenti che si verificarono durante quel movi-mento che denominiamo Rinascimento furono di natu-ra tanto fondamentale da portare alla luce, infine, nulladi meno che un nuovo tipo d’uomo. Io mi allineo conquegli studiosi che considerano il movimento rinasci-mentale come l’alba dell’epoca moderna: moderna, siapure, con alcune delle sue dubbie meraviglie.

Posso, ovviamente, soltanto accennare in questa sedead alcuni problemi rinascimentali che ci riguardanoimmediatamente. Non vi è ombra di dubbio circa ilfatto che nel primo decennio del xv secolo una piccolacerchia di maestri fiorentini sperimentasse un singolarerisveglio. Sorgeva fra loro la concezione di un nuovotipo di artista, essenzialmente diverso dagli artigiani edai maestri del passato. L’artista diveniva consapevoledelle proprie capacità intellettuali e creative e conside-rava le sue speciali doti come un dono del cielo conferi-to a pochi eletti. Il locus classicus del nuovo ideale del-l’artista è il trattato Della Pittura di Leon Battista Alber-ti, scritto nel 1435. L’Alberti ci dice, in grande detta-glio, che tipo d’uomo dovrebbe essere l’artista moder-no, e quale attrezzatura morale e dottrinaria gli vengarichiesta. Insiste sulla necessità di porre la professionedell’arte su una salda base teorica.

Nell’ordine delle cose tipico del Medioevo, le Artivisive si affiancavano alle Arti meccaniche e non a quel-

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le liberali, il cui ciclo era allora ristretto alle scienze lin-guistiche e matematiche. La nuova stirpe di pittori, scul-tori ed architetti mirò a farsi ammettere fra le Arti libe-rali e ad assumere il medesimo rango dei letterati, deipoeti e degli studiosi di geometria. In quanto all’artistaliberale, doveva riconoscere il fondamento scientificodella propria arte, doveva essere ferrato nella teoria arti-stica e, se possibile, persino contribuire personalmentead elaborarla. Cosí, da allora in poi, le considerazioniteoriche accompagnarono la pratica dell’arte; o per esse-re piú precisi diviene, secondo me, articolo di fede degliartisti d’avanguardia che la pratica debba fondarsi sullateoria. Da quel momento non dovremo soltanto scopri-re che cosa gli scultori fanno, ma anche che cosa pensi-no e dicano, o, quanto meno, che cosa abbiano espres-so in parole i loro portavoce letterari.

Accadde cosí che l’Alberti – egli stesso scrittore,umanista, dotto, teorico, filosofo e pensatore originale,architetto e scultore: in una parola, un precoce rappre-sentante dell’uomo universale del Rinascimento – siponesse il compito di porre i fondamenti teorici di tuttee tre le arti. Dopo il suo trattato Della Pittura, si pensasubito ai suoi Dieci libri dell’Architettura. Quest’operaponderosa, scritta in un lungo periodo di tempo e ter-minata all’inizio degli anni cinquanta del Quattrocento(circa un quindicennio dopo il Della Pittura) ebbe uninflusso non meno generale di quest’ultimo. Il suo trat-tato di scultura, intitolato De Statua, non ha la classedelle altre due opere. È estremamente breve e sembraaltamente specialistico. Il lettore moderno può trovarloin gran parte sconcertante ed astruso, cosí che rara-mente viene letto o menzionato dagli storici dell’arte.Esistono una traduzione italiana del 1568 dall’origina-le latino, una traduzione inglese del 1733, ed un’affi-dabile edizione tedesca pubblicata nel 1877. Circa cin-quant’anni fa, Panofsky ne commentò brevemente alcu-

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ni aspetti, e nei tempi piú recenti l’interesse per l’ope-ra si è accresciuto. È stato dimostrato che non si trattadell’ultimo dei tre trattati (come si era sempre presun-to), bensí del primo, databile agli inizi degli anni tren-ta del Quattrocento, il che può pure spiegarne alcunidifetti.

Consideriamo questo trattato un poco piú da vicino.L’Alberti inizia considerando brevemente la motivazio-ne dei primi tentativi dell’imitazione tridimensionaledella natura. Da qui, procede ad una definizione dellearti plastiche, formulando immediatamente una diffe-renziazione della massima importanza. Coloro che lavo-rano in cera o in stucco, egli dice, procedono aggiun-gendo o sottraendo materiale, e li chiamiamo modella-tori; mentre coloro che si limitano a togliere ed a por-tare in luce la figura umana potenzialmente nascostaentro un blocco di marmo, li chiamiamo scultori. Quan-tunque l’Alberti si lasci qui guidare da Plinio e da Quin-tiliano, nessuno mai prima di lui aveva espresso contanta chiarezza la differenza tra modellatore e scultore(o intagliatore).

Per i successivi cinquecent’anni circa, questa riparti-zione è rimasta salda nella mente degli scultori. Li haangosciati, si potrebbe quasi dire che li ha perseguitati,e gli scultori raramente sono stati capaci di rilevare ladifferenza tra modellatori e scultori con la serenità del-l’Alberti. Tanto gli uni che gli altri, cosí l’Alberti ci dice,tentano egualmente di creare la somiglianza con le formedella natura. E procede asserendo che essi incorrereb-bero meno in errore nel loro lavoro se volessero seguirele sue norme ed il suo insegnamento. Ciascuna arte e cia-scuna scienza possiede le proprie regole ed i propri prin-cipî, dice l’Alberti, e lo scultore che li conosca ridurràal minimo la possibilità di errori. Poiché scopo dello scul-tore è l’imitazione della natura, egli dovrà osservare cheesistono due aspetti del problema dell’imitazione: esi-

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stono cioè, dobbiamo riconoscerlo, universali e partico-lari. Tutti gli umani appaiono simili, ma nel medesimotempo non esistono due uomini uguali.

Secondo il metodo proprio dell’Alberti, dimensio efinitio (che sono grosso modo traducibili come «misura»e «definizione») sono i presupposti della realizzazionedi qualsiasi rassomiglianza. Si può giungere alla misuraimpiegando due strumenti: l’exempeda, una riga dirittamodulare atta a rilevare le lunghezze; ed un paio disquadre mobili da carpentiere, con cui misurare i dia-metri. Con l’aiuto di essi lo scultore può determinarecon precisione matematica la dimensione esatta di qual-siasi parte del suo modello. Ma quantunque la misuragarantisca precisazioni affidabili per quanto riguarda ilrapporto di una parte del corpo con l’altra e con il tutto,in tal modo si possono determinare soltanto gli univer-sali. Per determinare i particolari, occorre la finitio odefinizione. Essa è il metodo mediante il quale vengo-no determinati i profili, con tutte le cavità e le protu-beranze di una figura in moto, il che si realizza con l’aiu-to di un altro strumento, che l’Alberti denomina defini-tor. Esso consiste di un disco circolare cui è fissata unabacchetta rotante, dalla cui estremità pende un filo apiombo. Con l’uso del definitor si può determinare qual-siasi punto sul modello. L’Alberti sceglie, come esempio,una statua sepolta nella creta. Il definitor consentirà alloscultore di trovare qualsiasi punto dato su questa statuaperforando la creta alla profondità necessaria. L’Alber-ti non parla mai esplicitamente di trasferimento mecca-nico dal modello al marmo. Ma dato che il nocciolo delsuo argomento consiste nel proporre che l’imitazionescientificamente affidabile della natura possa ottenersisoltanto con l’uso di metodi meccanici di confronto abil-mente maneggiati, e poiché, per di piú, a tutti gli effet-ti egli sta descrivendo il metodo dei punti di riferimen-to, ritengo che egli qui pensasse a metodi meccanici di

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trasferimento. Di fatto, ricostruendo il suo definitor sigiungerebbe davvero assai vicini ad una moderna mac-china a pantografo.

Nessuno aveva prima parlato della scultura come neparlava ora l’Alberti. Può essere vero che gran parte diquanto egli suggeriva era troppo complesso per dei sem-plici operatori, ma non dimentichiamo che egli era amicodi artisti e scultori sofisticati, che dedicò il suo Della Pit-tura a Brunelleschi, che stimava oltremodo Ghiberti eLuca della Robbia, e chiamava Donatello «suo amicis-simo». Cosí, non si può dubitare che il suo trattatovenisse letto, e che possa aver determinato agitazionenotevole tra la congrega degli avanguardisti. Ma in qualemisura influenzò la pratica corrente? È impossibile for-nire una risposta conclusiva, poiché – come ho osserva-to – gli storici dell’arte hanno trascurato il trattato edhanno pertanto omesso di discuterne l’influsso. Pure, sipossono avanzare alcune osservazioni che hanno qualcheimportanza per il nostro argomento. Leonardo conosce-va il De Statua dell’Alberti. Probabilmente, egli studiòcon estrema attenzione qualsiasi trattato dell’Alberti sucui poté mettere le mani. In ogni caso, Panofsky hariconosciuto che un disegno nel codice Vallardi (Parigi),evidentemente copiato dall’originale di Leonardo permano di uno dei suoi seguaci, era proporzionato secon-do il sistema dell’exempeda dell’Alberti, e pertanto nonci si stupisce di trovare Leonardo nell’atto di sperimen-tare con un metodo pantografico meccanico. La suadescrizione nel ms A dell’Institut de France a Parigi (cherisale all’inizio degli anni novanta del Quattrocento) èdi cristallina chiarezza. Leonardo scrive:

Se vuoi fare una figura, di marmo, fanne prima una diterra, la quale, finita che l’hai, e seccata, mettila in unacassa che sia ancora capace, dopo che la figura sarà estrat-ta da esso luogo, di ricevere il marmo che vuoi scolpirvi den-

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tro la figura, alla similitudine di quella di terra. Di poi,messa la figura di terra in detta cassa, abbi bacchette cheentrino a punto per i suoi buchi e spingile dentro tanto, perciascun buco, che ciascuna bacchetta bianca tocchi la figu-ra in diversi luoghi. E la parte d’esse bacchette, che restafuori dalla cassa, tingi di nero e fa il contrassegno alla bac-chetta ed al suo buco, in modo che a tua posta si scontri.E trai da essa cassa la figura di terra e mettivi il tuo pezzodi marmo. E tanto leva, del marmo, che tutte le tue bac-chette si nascondano, insino al loro segno, in detti buchi(ms A, Institut de France, Parigi, 43r).

Il testo originale è accompagnato da un piccolo schiz-zo ed illustra molto sommariamente la dettagliata espo-sizione scritta. Il sistema della «cassa e bacchetta» diLeonardo è piú semplice del definitor dell’Alberti. Difatto, è tanto interamente meccanico che il piú stupidoapprendista di studio avrebbe dovuto essere in grado dimaneggiarlo. Ma era praticabile? Ebbene, sarebbe statofunzionale per pezzi piccoli, o molto piccoli. Tanto perdirne una, non riesco a vedere come, secondo Leonar-do, si potesse «levare con i ferri [cioè intagliare], congran facilità» (sono queste le parole che concludono ilpasso) senza ripetere senza fine l’operazione di togliereil blocco dalla cassa e rimettercelo dentro un infinitonumero di volte.

Per uomini come l’Alberti e Leonardo, i metodi mec-canici di trasferimento costituivano un’autentica sfidascientifica. Quantunque il loro ragionamento differis-se (e su Leonardo ritorneremo), l’uno e l’altro eranodediti ad una concezione dell’arte fondata su fattioggettivi e verificabili. I metodi meccanici di trasferi-mento fornivano una versione corretta o una copiaimpeccabile di un’altra immagine. Sembra improbabi-le che nessun altro scultore abbia compiuto esperimen-ti sul problema nei sessant’anni intercorsi tra i mecca-

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nismi suggeriti dall’Alberti e da Leonardo. Una voltaposto il problema del controllo meccanico, esso restavanell’aria, e non lo si poteva piú eliminare dalla mente;e gli scultori ne sarebbero stati attratti per ragioni piúpratiche che filosofiche.

Desidero darvi un esempio che recentemente mi hamolto sconcertato. Nella National Gallery di Washing-ton c’è un piccolo rilievo che rappresenta San Girolamonel deserto, di Desiderio da Settignano, che è semprestato il pezzo di scultura prediletto dal pubblico nellacollezione della Galleria. Il rilievo non ha provenienzaantica e documentata. Venne trovato a Firenze sulloscorcio degli anni ottanta del secolo scorso, ed imme-diatamente attribuito a Desiderio. Quantunque per taleattribuzione non si abbia alcuna prova documentaria,nessun nome può candidarvisi in modo tanto convin-cente quanto quello di Desiderio, se si considera la dolcefigura devota del santo, alla cui preghiera il personaggiosulla croce sembra rispondere piegandosi verso di lui conpari dolcezza. Soltanto a Desiderio si può associare l’at-teggiamento candidamente sincero e interamente parte-cipe del santo, la cui espressione è inseparabile da unaraffinatezza straordinaria dei valori plastici. Una qualitàdelicata, quasi squisita, è caratteristica di tutte le opereche oggi conosciamo come sue, e le contraddistinguerispetto ai lavori piú robusti dei suoi contemporanei.Desiderio morí a trentacinque o trentasei anni nel 1464,e vi sono buoni motivi per datare quest’opera a pocoprima della sua morte.

Ora, qualche anno fa, un secondo rilievo in marmo,assolutamente identico, comparve a Firenze e venneacquistato da un collezionista di New York. Nella pri-mavera del 1970 fu possibile organizzare un confrontodiretto fra i due pezzi. Ambedue misurano 43 x 55 cm,ed ambedue si corrispondono in tale misura che rilieviinterni presi a caso con grandi compassi si sono rivelati

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praticamente identici. Quantunque, però, la corrispon-denza di disegno sia tanto alta, esistono differenze chedevo menzionare. La versione di Washington ha unasuperficie lucida e scintillante, un calore ed uno sfumatoche mancano nella seconda versione, leggermente piúrobusta e piú nettamente definita. Di piú, una patina bru-nastra, che conferisce al pezzo della National Gallery unaspetto quasi di alabastro, ne accresce l’affascinante qua-lità di superficie. L’altro pezzo, invece, ha superficie bian-castra, o piuttosto color grigio chiaro. Inoltre, il secondopezzo aveva qualche macchia di ruggine nella metà inbasso a destra, che è stata trattata con acido, il che ha con-dotto, in certe zone, a un’erosione della superficie.

Come possiamo spiegare queste due versioni identi-che? Sono ambedue falsi moderni, e si avranno altre ver-sioni identiche sul mercato d’arte fiorentino che com-pariranno di tanto in tanto? 0 la seconda versione è unariproduzione moderna in marmo? Io mi sento quasi oaddirittura del tutto certo che, in questo caso, dobbia-mo escludere la frode. Cercando di risolvere il proble-ma, mi è capitata una vecchia fotografia, ripresa neglianni novanta dell’Ottocento, di un calco fatto del rilie-vo nella National Gallery prima che esso lasciasse Firen-ze per la sua destinazione: la grande casa di campagnadi un aristocratico russo-baltico (il pezzo raggiunse gliStati Uniti dopo la rivoluzione russa). La fotografia rive-la che il pezzo della National Gallery deve aver avuto,all’epoca in cui il calco venne fatto, una superficie diver-sa, e assai piú nettamente definita. La dolcezza e lo sfu-mato attuali della superficie vanno considerati «acqui-sizioni» relativamente recenti, derivanti dalla pulitura elavatura frequenti. Cosí, originariamente il rilievo avevaun aspetto assai piú vivace, piú definito, e meno pitto-rico di quello che ha oggi. Ciò significa pure che lesuperfici delle due versioni erano allora assai piú similidi quanto siano oggi.

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Dobbiamo considerare anche un altro punto. In con-trasto con la vita urbana dei secoli precedenti, dal xivsecolo in poi si sviluppò, nelle città-stato progredite d’I-talia e particolarmente a Firenze, un’inclinazione sem-pre crescente per un’esistenza civile e comoda. Nel xvsecolo, numerosi fiorentini della classe medio-superioreerano fieri possessori di deliziose dimore: cassoni colo-rati, quadri da studiolo, altari domestici, statue e rilie-vi facevano parte in numero sempre maggiore degli arre-di. La scultura impiegata a tali propositi doveva avereprezzi ragionevoli, e pertanto si sviluppò una produzio-ne speciale (che Charles Seymour chiama appropriata-mente mercanzia da bottega) di calchi in stucco pococostosi, papier mâché e terracotta realizzata in base astampi. Di norma tali opere riproducevano un pezzo inmarmo dovuto ad un maestro riconosciuto, ed esisteva-no probabilmente, per questo tipo di riproduzione, offi-cine specializzate. Quantunque si conoscano alcunipezzi, in materiali deperibili, di qualità alta o persinoaltissima, di solito il loro carattere di derivazione è evi-dente, e sono facilmente riconoscibili le fasi dall’origi-nale fino alle forme diluite di tali riproduzioni.

Con una digressione, siamo però ritornati ai nostririlievi. Senza dubbio questi due marmi non possonorappresentare da un lato l’originale, dall’altro un pezzoderivato: la loro qualità, egualmente alta, non consenteuna simile conclusione. Non riesco a trovare che unaspiegazione sensata, e precisamente che Desideriodovesse soddisfare due committenti, ambedue desiderosidi possedere un marmo, del quale possono aver vistonella sua bottega un modello preparatorio. Cronologi-camente, ci troviamo esattamente a mezza strada tra gliesperimenti dell’Alberti e di Leonardo, e suggerisco chelo stesso Desiderio sperimentasse, in questo caso, unqualche metodo pantografico: un metodo meccanico chegarantisse la corrispondenza completa fra i due pezzi.

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Francamente, dopo aver speso moltissimo tempo neltentare di risolvere il mistero, non sono del tutto certose la mia conclusione appaia convincente agli occhi dialtri come appare ai miei.

Un altro caso che suggerisce l’impiego di un metodomeccanico di trasferimento, esattamente alla stessa data,il 1464, è stato recentemente trattato da Irving Lavinin uno stimolante articolo. Il David di Michelangelo èstato scolpito in un grande blocco di marmo che origi-nariamente era servito ad Agostino di Duccio per unafigura gigantesca commissionatagli dall’Opera delDuomo di Firenze. Come c’informano i documenti, lastatua di Agostino doveva corrispondere ad un modellorealizzato in cera. Il tentativo di Agostino di ingrandi-re a scala gigantesca quello che aveva dovuto essere unpiccolo modello in cera fallí: il blocco marmoreo restòmale abozatum per quasi quarant’anni nel laboratoriodella cattedrale. È probabile che per l’operazione diingrandire il modello a scala gigantesca Agostino abbiausato il metodo meccanico descritto e raccomandatodall’Alberti, o qualche apparecchiatura meccanica con-simile, da esso derivata. Ora, in margine al documentoche registra il passaggio del vecchio blocco a Michelan-gelo, una nota avverte che «il detto Michelangelo comin-ciò ad adoperare sul detto gigante la mattina del 13 set-tembre 1501, quantunque qualche giorno prima, il 9 set-tembre, avesse rimosso con qualche colpo di scalpello uncerto nodo (o protuberanza) che aveva sul petto». IlLavin si domanda se tale nodus non fosse, di fatto, unpunto, un nodulo di marmo serbato da Agostino comeriferimento fisso per prendere le misure del suo colossoin base al modello.

Può essere difficile che mai si giunga a risultati asso-lutamente conclusivi circa l’impiego di procedimentimeccanici nel xv secolo. Il passo che ho citato dai tac-cuini di Leonardo, tuttavia, ha dimostrato che l’argo-

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mento occupava la mente di uomini del suo calibro versola fine del secolo. Vale la pena di tornare indietro, daquest’epoca, all’inizio del xv secolo a Firenze. Il rilievodi Nanni di Banco data a poco dopo il 1410. Nanni fuuno dei padri fondatori della scultura del Rinascimen-to, contemporaneo di Donatello, devoto appassionatodella scultura antica; ed ebbe un ruolo importante nelladecorazione delle nicchie di Orsanmichele, la chiesadelle Corporazioni fiorentine. Il rilievo si trova sotto lanicchia che appartiene alla Corporazione degli scalpelli-ni e legnaioli. Non è dissimile da una parte del materialetardo-medievale che abbiamo piú sopra veduto. A destrasi scorge uno scultore che lavora su un putto, sistematonella posizione obliqua che conosciamo da molti altriesempi. Lo scultore vibra un martello da sbozzo con cuista evidentemente rimuovendo la parte posteriore delblocco, dalla quale il putto (che è quasi finito) è statotratto. A sinistra, si ha uno scalpellino con un capitello(risultato del suo lavoro) dinanzi a sé. Maneggia unasquadra da carpentiere. Ambedue i personaggi operanodirettamente sulla pietra, ambedue sono vestiti con uncamice simile da operaio: indicazioni, queste, del fattoche essi hanno il medesimo rango in quanto membridella loro Corporazione.

Detto per inciso, se qui confronto l’interesse dotto diLeonardo per il trasferimento meccanico con una simi-le rappresentazione, che fondamentalmente è ancoralegata alle convenzioni medievali, non intendo suscita-re l’impressione che l’inizio e la fine del secolo fosseroirrevocabilmente separate da un abisso. Leonardo stes-so tornò a scivolare nelle concezioni tradizionali asse-rendo che la scultura non è una scienza, ma un «eserci-zio meccanicissimo, accompagnato spesse volte da gransudore».

Nel suo ben noto Paragone fra le arti, che stimolò gliartisti del Rinascimento per ben oltre un secolo, Leo-

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nardo poneva senza esitare la pittura al di sopra dellascultura. «Lo scultore conduce le sue opere – egli dice-va – con maggior fatica di corpo che il pittore, ed il pit-tore conduce le opere sue con maggior fatica di mente...conciossiaché lo scultore nel fare la sua opera fa perforza di braccia e di percussione a consumare il marmo,od altra pietra soverchia ch’eccede la figura che dentroa quella si rinchiude, con esercizio meccanicissimo». Sipuò immaginare che, nello stesso momento, il padre diMichelangelo si esprimesse esattamente nello stessomodo. Certamente, a quanto pensava Leonardo, l’in-venzione di un metodo pantografico funzionante aiu-tava a ridurre la fatica manuale dello scultore, poichéle mani dei suoi aiuti potevano sostituire le sue senzaalcun rischio di rovinare l’opera. Col passare del tempo,questa linea di ragionamento ricompare sempre piúsovente.

L’idea del trasferimento meccanico era strettamentelegata all’esistenza di un modello; un modello prepara-torio ne costituiva un presupposto. Ciò è ovvio, e sial’Alberti che Leonardo parlano dei modelli come di cosaovvia. Ormai i modelli vengono menzionati nei con-tratti e nei documenti, come accade nel caso della sta-tua gigantesca di Agostino di Duccio, di cui abbiamoParlato. Sono sopravvissuti alcuni modelli preparatoririsalenti alla seconda metà del xv secolo. Il modello interracotta riguarda il cenotafio del Cardinal NiccolòForteguerri nella Cattedrale di Pistoia, presso Firenze,dovuto al Verrocchio, commissionato nel 1476. Il Ver-rocchio non terminò il lavoro, e si hanno numeroseaggiunte successive; ma il modello, oggi al Victoria andAlbert Museum di Londra, ci dà una buona idea dellesue intenzioni. Con ogni probabilità il modello non è dimano del Verrocchio, bensí di un assistente di bottega.Una vera e propria letteratura si è accumulata intornoal problema della sua autenticità. Non parleremo, però,

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di questo, ma piuttosto della dimostrazione del grado dirifinitura che possiamo trovare, o che possiamo atten-derci, in un modello del Quattrocento.

Si può asserire tranquillamente che, in generale, l’im-piego di modelli tridimensionali per la preparazione diun pezzo di scultura costituiva un punto di partenzanuovo; punto di partenza che non può venir separatodall’installazione di botteghe individuali, dalla determi-nazione di stili e di procedimenti di lavoro personali, edalla tendenza a separare l’invenzione dall’esecuzione;l’accento del processo creativo si sposta dall’oggettofinito ai primi lampi dell’ispirazione. Retrospettiva-mente, tutto ciò può apparire inevitabile. Ma nel xvsecolo, e persino nella prima metà del xvi, queste altronon erano che potenzialità, tuttora avviluppate dallepratiche tradizionali. Sembra, inoltre che il desiderio dimettersi su una nuova strada si limitasse in un primotempo largamente a Firenze. Abbiamo visto che in Ger-mania, all’epoca di Donatello e del Verrocchio, le operedi scultura venivano preparate soltanto in base a dise-gni, e spesso a disegni forniti da pittori, disegnatori edartisti grafici. In una certa misura può essere stato veroanche per l’Italia, esclusa Firenze, almeno durante laprima metà del xv secolo.

Persino quando lo scultore realizzava lui stesso ildisegno, l’uso di modelli era, a quanto sembra, scono-sciuto.

Consentitemi di darvi un esempio importante e bendocumentato. Il 15 dicembre 1408 la città di Sienadiede incarico a Jacopo della Quercia di eseguire, comesuona il contratto, una fontana lunga ventotto piedi elarga otto, con sculture, figure, fogliami, cornici, gra-dini, pilastri e stemmi, e di fare o far fare un disegnodella detta fontana nella sala del Consiglio del PalazzoPubblico. Si è presunto che si sia trattato di un dise-gno di grandi dimensioni (forse piú o meno scala al

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vero) fatto sulla parete della grande sala a beneficiodella commissione responsabile. Un mese dopo, il 22gennaio 1409, si ebbe un nuovo contratto; il progettooriginale venne ampliato, il prezzo fu aumentato, ed ilcontratto fu accompagnato da un nuovo disegno trac-ciato su un certo foglio di pergamena per mano di mae-stro Jacopo: disegno depositato presso il notaio cheaveva steso il contratto. Dopo molte difficoltà, la fon-tana venne eseguita e terminata nel 1419. Frammentise ne trovano oggi nel Palazzo Pubblico, ed una copiaottocentesca è stata collocata nella posizione originaria,nella grande piazza antistante il palazzo. Per uno straor-dinario colpo di fortuna, la maggior parte del disegnodel 1409 è giunta fino a noi. La metà destra fu acqui-sita dal Victoria and Albert Museum nel xix secolo; lametà sinistra è stata scoperta all’inizio degli anni cin-quanta ed acquistata dal Metropolitan Museum. Mancauna piccola zona centrale.

Gli studiosi di Jacopo della Quercia hanno sviscera-to i problemi presentati da questo disegno recuperato.Il progetto, qual è rappresentato nel disegno, non cor-risponde affatto alla fontana eseguita; ma non occorrequi approfondire questo lato della questione. Quel chedesidero stabilire è questo: in primo luogo, il disegnovenne realizzato per il committente ed aveva la validitàdi un documento legale. In secondo luogo, in un altrocaso ancora, la decorazione scultorea del portale princi-pale di San Petronio a Bologna (1425), Jacopo preparòun disegno a piccola scala, «di propria mano» e lo firmò.In base a questo schizzo un pittore produsse un muralescala al vero, a beneficio della commissione competen-te. Cosí, in questo caso sappiamo di uno schizzo cheJacopo può aver fatto pensando ad una doppia finalità,come studio per sé e, nel medesimo tempo, come baseper l’ampliamento che andava sottoposto ai commit-tenti. In terzo luogo, in nessuno dei documenti riguar-

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danti Jacopo si parla di un modello. Chiaramente, il suomodo di preparare le opere si accostava ancora alla tra-dizione medievale: anche se il suo lavoro successivo(soprattutto in San Petronio) fu cos˙í avanzato, cosípotente e personale, che lo stesso Michelangelo ne fuprofondamente impressionato.

Dai primi anni del xv secolo desidero ritornare unavolta di piú alla fine dello stesso secolo e a Leonardo.Può darsi che alcuni tra voi conoscano la famosa bozzadi lettera nella quale egli, allora a Firenze ed in età ditrent’anni, offriva i propri servigi a Ludovico il Moro,duca di Milano. Tra molte cose che era capace di fare,egli scrive: «item, conducerò in sculptura de marmore,di bronzo e di terra, similiter in pictura, ciò che si possafare a paragone de omni altro, e sia chi vole». Per di piú,prometteva di esser capace di eseguire il monumentoequestre del padre del duca, Francesco Sforza, che daun certo numero di anni si progettava di erigere.

Leonardo venne a Milano, e si mise al lavoro per ilMonumento Sforza. Doveva essere un’enorme opera inbronzo, di dimensione piú che doppia rispetto al Gat-tamelata di Donatello. Nel 1493 venne esposto al pub-blico l’immenso modello in argilla del cavallo (senza ilcavaliere), ma esso non venne mai gettato. Nel 1499 iFrancesi invasero Milano al comando del generale ita-liano Giacomo Trivulzio, mortale nemico degli Sforza.La dinastia Sforza venne spazzata via; il modello diLeonardo fu danneggiato dai soldati ed infine distrut-to. Leonardo tornò a Firenze. Nel 1506 era di nuovo aMilano, e presto accettava l’incarico del Trivulzio per lasua tomba, che doveva essere coronata da una statuaequestre scala al vero. Solo disegni, e qualche idea but-tata giú da Leonardo, recano testimonianza dei suoiprogetti per i due monumenti, e di come egli intendes-se procedere. In breve, egli cominciò col progettare ilMonumento Sforza con un cavallo rampante ed una

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figura umana in irrequieto movimento. Alcuni disegnioriginali e quattro incisioni tratte da disegni perdutiillustrano questa fase.

L’equilibratura di questo cavallo avrebbe presenta-to un problema assai grave. Leonardo abbandonò que-sto progetto e progettò ora un cavallo che andava tran-quillamente al passo. Esistono numerosi studi per que-sto nuovo progetto. Fra essi sono i suoi studi dell’ana-tomia, dei muscoli e delle proporzioni dei cavalli, fon-dati sulle ricerche che aveva condotto nelle scuderie delduca. Un posto centrale è occupato dagli studi sulla pro-porzione dell’uomo e dell’animale. Il mutato caratteredi simili studi può illustrarsi confrontando il disegnoleonardesco di una testa d’uomo con una pagina del tac-cuino di Villard de Honnecourt. L’artista medievaletende ad imporre all’immaginazione una norma geo-metrica prefissata; mentre l’artista rinascimentale tendead estrarre una norma metrica dai fenomeni naturaliche osserva.

Uno splendido disegno a Windsor (12321) riguardaprincipalmente lo studio dei muscoli pettorali del caval-lo. Un altro disegno a Windsor (12343) ci dà un’ideadel disegno finale del monumento, mostrato una voltadi piú in proiezione laterale completa. Nei disegni peril monumento, assai piú tardo, del Trivulzio, neppuresso eseguito, Leonardo di nuovo oscillava tra le duesoluzioni, il cavallo rampante e quello al passo. Uno diquesti disegni ci sembra combinare i due tipi: il movi-mento incipiente dell’impennata viene bloccato dalcavaliere.

I disegni di Leonardo possono insegnarci molto circail modo meticoloso in cui un grande artista del Rina-scimento preparava il suo lavoro di scultura. Ma essi ciinsegnano molto piú che elementi generali. Su uno deidisegni di cavallo a Windsor (12350) Leonardo anno-tava che, per poter maneggiare il modello grande, occor-

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reva prepararlo modellando un modello piccolo. E in unaltro luogo scriveva pressappoco: «a te piace vedere unmodello. Sarà utile a te ed a me ed anche a chi sia inte-ressato alla mia utilità». Combinando quest’informa-zione con l’evidenza dei disegni, si ha un quadro delprocedimento scultoreo canonico a quel tempo. Lo scul-tore comincia con disegni, studi dal vero e schizzi com-positivi. Passo successivo è il piccolo modello in argil-la, cera o terracotta. Tale modello serve sia a lui che alcommittente. Poi procede a configurare il modello gran-de, corrispondente per la dimensione al lavoro da ese-guire in pietra e, per tutti gli elementi essenziali, al pic-colo modello preparatorio. Possiamo apprendere anchedi piú. Abbiamo visto che tutti i disegni preparatori peri due monumenti presentano il cavallo in semplici vedu-te di profilo. Leonardo abbandonò questo tipo di rap-presentazione quando non si occupò piú di statue. Neldisegno di Windsor 12331 studiò animali in movimen-to (per esempio, un gruppo con san Giorgio e il dragocompare da tutti i lati ed in tutti i possibili scorci). Èstato suggerito che questo ed altri disegni facesseroparte di un trattato da lui progettato sul movimentodegli animali. Questi, e studi consimili, datanti al 1510circa, difficilmente potrebbero essere piú diversi daquelli della tomba Trivulzio, appartenenti al medesimoperiodo.

Ritengo che la spiegazione del carattere dei disegniper monumenti equestri si possa ritrovare in una delleprofonde note di Leonardo sulla scultura:

Dice lo scultore che non può fare una figura, che nonne faccia infinite per gl’infiniti termini che hanno le quan-tità continue; rispondesi, che gl’infiniti termini di tal figu-ra si riducono in due mezze figure, cioè una mezza dalmezzo indietro e l’altra mezza dal mezzo innanzi; le quali,essendo ben proporzionate, compongono una figura tonda,

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e queste tali mezze avendo i loro debiti rilievi in tutte leloro parti, risponderanno per sé senz’altro magistero pertutte le infinite figure che tale scultore dice aver fatte.

Sembrerebbe che, in accordo con questo passo, Leo-nardo si limitasse allo studio di due vedute di profilo deisuoi monumenti equestri.

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