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Associazione Laureati in Lingue Università degli Studi di Udine LINGUE ANTICHE E MOD LINGUE ANTICHE E MOD LINGUE ANTICHE E MOD LINGUE ANTICHE E MODERNE ERNE ERNE ERNE Rivista accademica internazionale on-line International refereed on-line journal http://all.uniud.it/lam ISSN: 2281-4841 Volume 5 (2016)

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  • Associazione Laureati in Lingue Università degli Studi di Udine

    LINGUE ANTICHE E MODLINGUE ANTICHE E MODLINGUE ANTICHE E MODLINGUE ANTICHE E MODERNEERNEERNEERNE

    Rivista accademica internazionale on-line International refereed on-line journal

    http://all.uniud.it/lam

    ISSN: 2281-4841

    Volume 5 (2016)

  • LINGUE ANTICHE E MODERNE

    Direttore Responsabile: Renato Oniga

    Vice-direttrice : Nicoletta Penello

    Comitato di redazione (Università degli Studi di Udine)

    Maria Bortoluzzi Annalisa Bracciotti Maria Luisa Delvigo Piervincenzo Di Terlizzi

    Anna Maria Perissutti Milena Romero Allué Fabio Sartor Sara Vecchiato

    Segreteria di redazione: Alessandro Re

    Comitato scientifico internazionale

    Dagmar Bartoňková (Brno) Bernard Bortolussi (Paris) Chiara Gianollo (Bologna) Adam Ledgeway (Cambridge) Dominique Longrée (Liège) Franc Marušič (Nova Gorica)

    Jaume Mateu (Barcelona) Giampaolo Salvi (Budapest) Michael P. Schmude (Vallendar) William M. Short (San Antonio, Texas) Valeria Viparelli (Napoli) Rainer Weissengruber (Linz)

    Editore: Associazione Laureati in Lingue dell’Università degli Studi di Udine Indirizzo del direttore e sede amministrativa Dipartimento di Lingue e Letterature, Comunicazione, Formazione e Società Università degli Studi di Udine Via Petracco 8 33100 Udine (Italia) E-mail: [email protected] ISSN: 2281-4841 Iscrizione presso il Tribunale di Udine n. 14/2012 del 13 novembre 2012 Rivista Annuale – Pubblicazione del numero: 30 novembre CC BY-NC-ND 3.0

  • INDICE Volume 5 (2016)

    Articoli ANDREA MUSIO Spartaco da Cicerone a Stanley Kubrick: la storia romana al rallentatore. 5 ARIANNA SACERDOTI Distinguere lingua (Sil. 1, 78): sul primo canto dei Punica e la sua ricezione. 31 MORENO CAMPETELLA I neologismi tecnici dell’Opus Agriculturae di Palladio: l’influenza della terminologia agronomica latina sui derivati romanzi. 85 PAOLA BAZAN Le interrogative indirette in italiano e francese: un esperimento comparativo. 119 ROSALIA DI NISIO Pragmatics through Literature: A Teaching Experience. 157 MICHAEL TOOKE English for Academic Purposes at Udine University: An Ends Approach. 185 MARIA G. LO DUCA Didattica della grammatica e prove INVALSI . 205 ZUZANA TOTH Riconoscimento delle relazioni anaforiche nelle prove INVALSI (2010-2014). 227

  • Recensioni N. Gardini, Lacuna. Saggio sul non detto, Torino, Einaudi, 2014. (A. Sacerdoti) 249 Z. Martirosova Torlone, Vergil in Russia. National Identiy and Classical Reception, Oxford, Oxford University Press, 2014. (R. De Giorgi) 257

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    SPARTACO DA CICERONE A STANLEY KUBRICK :

    LA STORIA ROMANA AL RALLENTATORE

    ANDREA MUSIO

    ABSTRACT

    This paper gives an overview of the reception of Spartacus, one of the characters of Roman history who was traditionally portrayed as a traitor by classical sources and then was rehabilitated in the eyes of posterity through rewritings in contemporary languages. We will proceed with an attempt to retrace the multilayered philological and cultural processes that have led to the complete shift in the evaluation of the character from Latin authors (also considering the component of racial prejudice due to his barbarian origin) to the famous movie by Stanley Kubrick; we shall also discuss the Marxist reading of the ancient texts in the novel by Howard Fast and Dalton Trumbo’s screenplay.

    1. EROI E TRADITORI TRA LATINITÀ E CINEMA Nel loro Classics on screen – il più recente fra i volumi che si occu-pano in maniera organica e globale di ricezione dell’antichità classica sul grande schermo1 – Blanshard e Shahabudin evidenziano come la

    1 Gli studi su classicità e cinema, le cui origini si possono individuare nel celebre articolo di Hadzists (1920: 70 ss.), iniziano a consolidarsi come filone di ricerca a sé stante in ambito antichistico tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, con le pubblicazioni delle prime monografie interamente dedicate all’argomento da parte dei classicisti Solomon (1978; al 2001 risale una versione completamente rivista e ampliata) e McDonald (1983). Sempre restando alla produzione scientifica più rilevante d’Oltreoceano, segue una serie di volumi – di cui l’ultimo recentissimo – curati da Martin M. Winkler (1991; 2001; 2009; 2015), Professor of Classics alla

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    riscrittura cinematografica della storia romana risenta di una forte disomogeneità cronologica, considerando le poche decadi effettiva-mente abbracciate dalla produzione filmica a fronte di un lasso temporale di circa 1200 anni. Il che è attestato dalla preminente concentrazione dei cineasti sull’epoca imperiale, in particolare quella giulio-claudia. Il sostanziale disinteresse degli sceneggiatori per la Roma arcaica deriverebbe, per i due studiosi, da una scarsa rispondenza degli antiqui mores, incarnati in modo quasi proverbiale dalle vicende più note e onorati fino alle estreme conseguenze dai loro protagonisti, alla matrice fondamentalmente romantica del cinema popolare (si pensi all’incorruttibilità di Romolo e alla sua devozione irremovibile a una embrionale ragion di stato, che conducono ad atti come il fratricidio e il ratto delle Sabine, magari poco congeniali alla sensibilità del pubblico medio)2. Episodi dell’età repubblicana avrebbero invece riservato (e continuerebbero a riservare) non poche criticità in fase di adattamento. Se la mentalità postcoloniale ha inibito non poco la stesura di sceneggiature che potessero veicolare ideali eccessivamente patriottici o anche lontanamente imperialistici, le produzioni più recenti hanno preferito, per lo più, evitare il confronto con un’epoca fitta di alleanze strette e poi disfatte con troppa rapidità, di trasformismi politici, di personaggi poco consoni a categorizzazioni morali ben definite, fluttuanti in un sistema di valori fin troppo labile3.

    Ferma restando la validità di queste argomentazioni, un’attenzione a parte, ai fini della nostra analisi, merita quella fase della storia re-pubblicana (che possiamo circoscrivere grosso modo in un range cro-nologico compreso tra la guerra sociale e la battaglia di Azio) caratte-

    George Mason University (Virginia). Nel contesto accademico italiano, il primo contributo di rilievo è rappresentato dal volume a cura di Bertini (1997), che ha aperto la strada a una nutrita produzione scientifica sullo stesso settore, tra saggi e articoli. Una menzione a parte merita, tra le pubblicazioni più recenti specifica-mente dedicate alla storiografia di Roma antica, l’imponente opera collettanea curata dal latinista spagnolo Cano Alonso (2011). 2 Blanshard – Shahabudin (2013: 77 s.). 3 Blanshard – Shahabudin (2013: 79).

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    rizzata da crisi e trasformazioni senza precedenti che mettono a nudo la vulnerabilità di una potenza fino ad allora considerata invincibile: alla base di questa nuova, perturbante consapevolezza, soggiace l’in-fausta costante della minaccia barbarica.

    Dauge, che ha isolato e analizzato tale fase alla luce dei mutamenti nella concezione romana della barbarie4, fa riferimento a una presa di coscienza ben precisa da parte della Roma victrix: quella del dramma che travolge il suo destino, e si esplica in un conflitto feroce e ne-cessario tra una volontà superiore demiurgica, costruttiva e il conti-nuo rigenerarsi di forze disgregatrici e distruttive che la minacciano prima dall’esterno dei suoi confini e poi al suo stesso interno5. Queste forze sono rappresentate, appunto, dai barbari, verso cui sarebbe forse ingenuo riscontare un atteggiamento antesignano dell’odierno razzi-smo – come peraltro è stato fatto da alcuni studiosi6 – ma è inevitabile cogliere una rivendicazione di netta estraneità e contrasto, in una dia-lettica oppositiva tra civiltà e barbarie traslata (come già, in modo graduale, per i greci) in termini morali.

    Lo stesso Cicerone osserva, per bocca di Lelio, come i tratti distinti-vi tra le due culture finiscano per confluire nella sfera dei costumi e della moralità7: il conseguente divario resterebbe dunque incolmabile anche a fronte di un eventuale assorbimento dei fattori identitari, sia istituzionali che ideologici, della Romanitas più pura, quali ad esem-pio la lingua latina, la religione, lo ius e la Pax. E non bisognerà aspet-tare molto perché sia proprio uno storico latino a invocare, concorde-mente con i Greci, un’ostilità verso i barbari non attribuibile a contin-genze variabili (non mutabilibus in diem causis), ma al loro perenne e incondizionato configurarsi come nemici per natura (natura, quae per-petua est)8. Nella coscienza comune dell’epoca, costoro rappresentano

    4 Dauge (1981: 87 ss.). 5 Dauge (1981: 54). 6 Cfr., a puro titolo esemplificativo, Sherwin-White (1967) e, più di recente, Isaac (2004). 7 Cfr. Cic. rep. 1, 58. 8 Liv. 21, 29, 15 s.

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    l’unica categoria riconoscibile, assodata e incontrovertibile di traditori in età repubblicana9; del resto, in un immaginario collettivo alimentato anche dalla storiografia successiva, il tradimento inizia a insinuarsi nel tessuto più intimo della Romanitas solo a partire dall’età imperiale, addentrandosi subdolamente fra le stanze del potere fino a permeare in toto le condotte dei principes e dei loro éntourages.

    La riscrittura sul grande schermo di vicende che vedono protagoni-sti traditori eccellenti dell’antica Roma assume un’importanza nevral-gica. Le figure di eroi e traditori, indipendentemente dalla loro collo-cazione cronologica nell’arco della storia romana e dalle contingenze che le hanno generate, si prestano in modo ottimale a placare l’ansia contemporanea di proiettarsi o identificarsi in un passato interpretabile in termini di contrasto, che vivifichi e sintetizzi le tante contraddizioni dell’uomo moderno e della sua epoca. I protagonisti finiscono per ar-ricchirsi di note chiaroscurali che a volte sono frutto della necessità di romanzare le vicende, per renderle più fruibili da parte del grande pubblico oppure funzionali rispetto a un determinato messaggio, altre volte derivano da una lettura più critica, consapevole, sistemica delle fonti storiografiche. Per una ragione o per l’altra, personaggi general-mente tramandati alla posterità come eroi possono rivelare lati oscuri inattesi e altri, tacciati dalla tradizione dominante delle più vili forme di tradimento, possono conoscere una parziale riabilitazione o, comun-que, mostrare una complessità tale da affrancarli da catalogazioni così manichee.

    Ciò avviene soprattutto grazie alla capacità unica del linguaggio ci-nematografico, rispetto a tutti gli altri offerti dalla contemporaneità, di render lo spettatore parte integrante della ricezione, che – forte dello strumento audiovisivo – diventa straordinariamente fluida, ricca di sfumature sensibili che nessun’altra forma di riscrittura sarebbe in

    9 Su questo stesso concetto, cfr. Burns (1994: 221).

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    grado di trasmettere a un pubblico così ampio e diversificato10. Si trat-ta, invero, di una riscrittura fortemente stratificata, in quanto percorsa più di ogni altra da processi selettivi di trasposizione (contenutistica, tematica, psicologica e relativa ai cambiamenti o alle sostituzioni dei valori attribuiti alle singole azioni) e di transcodificazione (inerenti, cioè, al passaggio dal codice letterario a quello cinematografico) a partire dalle fonti antiche. Ecco che l’impresa di Scipione e le vittorie delle aquile repubblicane diventano veicolo di esaltazione dell’impe-rialismo fascista mussoliniano (nel 1937, Scipione l’Africano di Car-mine Gallone spiazza per i forti rimandi all’invasione italiana dell’E-tiopia appena conclusa), il principato neroniano si fa inquietante nega-tivo della Germania nazista (un caso su tutti, Quo vadis? nella celeber-rima versione del 1951), singole storie di gladiatori – forse le figure socialmente più ostracizzate, anche in base alle fonti classiche11 – divengono inni alla libertà e a ritrovati principi egualitari.

    È proprio la figura di un gladiatore, nonché barbaro e – non a caso – traditore, figlio del periodo della Roma repubblicana poc’anzi ricorda-to, a offrirsi come tramite ideale per un’analisi diretta di questa strati-ficazione di passaggi intersemiotici dalla fonte classica alla sala cine-matografica.

    10 Sulla complessità dei problemi relativi alla ricezione cinematografica della storia antica (con particolare riferimento al rispetto delle fonti), cfr., fra gli altri, Campanile (2007: 323 ss). Colgo l’occasione per ringraziare la studiosa per aver messo generosamente a mia disposizione la sua ampia competenza e una vasta gamma di riflessioni. 11 Particolarmente emblematica è la testimonianza di Calpurnio Flacco (decl. 52), per il quale non esiste categoria più miserabile. Ma già Cicerone (off. 1, 150), tra i mestieri da ritenersi più disonorevoli, annovera sia quelli basati sulla forza fisica sia quelli miranti a produrre piacere in un vasto pubblico, lasciando intendere come i gladiatori rientrino in entrambe categorie; non esita poi a puntualizzare (ibid.) come indulgere a questi piaceri e lasciarsi coinvolgere nel ruolo di spetta-tore – dunque anche recarsi ai munera – metta seriamente in discussione la propria rispettabilità. Altrettanto eloquente è l’attestazione, in Cassio Dione (48, 43, 2 s.), del provvedimento restrittivo, risalente al 38 a. C., che impedisce ai membri della classe senatoria di esibirsi come gladiatori.

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    2. L’ ICONA DEL PRIMO TRADITORE ECCELLENTE: LA FIGURA DI SPARTACO NELLE FONTI Un esempio eclatante della negoziazione di significati nel dialogo tra i classici e la cinematografia è dato, appunto dal personaggio di Spar-taco, condannato senza appello da buona parte della latinità (con Sal-lustio come unica eccezione di rilievo) e assurto nelle opere filmiche a leggendario emblema di unità nazionale e di lotta alle disuguaglianze.

    Il gladiatore trace della scuola di Capua a capo dei centocin-quantamila ribelli tra il 73 e il 71 a. C.12 assume, in Cicerone, un ruolo di individuum pro specie, divenendo prototipo della categoria dei la-trones, dei banditi traditori e disgregatori dell’ordine repubblicano, a tal punto che il suo nome, in uso antonomastico, giunge a configurarsi come un autentico insulto13, che trasmette al contempo una marcata idea di pericolosità sociale. Non è un caso che ciò avvenga nel corso delle Filippiche, e che gli obiettivi della vituperatio siano Ottaviano nelle parole di Antonio14 e lo stesso Antonio in ben due occasioni15: rispettivamente, il giovanissimo fautore di un vero e proprio colpo di stato, particolarmente incline a minare la sicurezza della repubblica (anche se l’autore non ne fa un evidente bersaglio, per ovvie ragioni di opportunità), e il più pericoloso nemico della stessa, disposto ad atteg-giarsi a suo fedele garante ma in realtà bieco faccendiere senza scru-poli, pronti, entrambi, a unirsi di lì a poco in un’alleanza dai risvolti fatali per l’Arpinate – il secondo triumvirato, nel 43, insieme a Lepi-

    12 Per una ricostruzione organica e dettagliata della guerra servile sulla base delle testimonianze greche e latine, con un loro puntuale confronto, si rinvia alla lettura di Stampacchia (1976: passim). 13 Sull’uso della cosiddetta ‘antonomasia vossianica’ impiegata contro gli avver-sari politici nell’invettiva latina, cfr. Opelt (1965: 145); Dumont (1987: 292). 14 Phil. 3, 21: quem (scil. Octavianum) in edictis Spartacum appellat, hunc in senatu ne improbum quidem dicere audet (scil. Antonius). 15 Phil. 4, 15: est igitur, Quirites, populo Romano, victori omnium gentium, omne certamen cum percussore, cum latrone, cum Spartaco; 13, 22: o Spartace! quem enim te potius appellem, cuius propter nefanda scelera tolerabilis videtur fuisse Catilina?

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    do. Sempre nelle pagine ciceroniane la figura di Spartaco, associata a quella di Atenione16 – capo della rivolta servile in Sicilia del 104 a.C. – è chiamata in causa come modello ispiratore dell’indole barbara ed empia di Clodio17, il quale, a circa un decennio di distanza, è nuova-mente accomunato al gladiatore trace per la non meno proditoria con-dotta verso Roma: cur hostis Spartacus, si tu civis? (parad. 30).

    La storiografia latina non dimostra certo maggiore clemenza, ecce-zion fatta, come si accennava poc’anzi, per Sallustio, nella cui carat-terizzazione di Spartaco La Penna18 coglie addirittura un’aureola eroi-ca, in ragione dei brevi tratti che trapelano dai frammenti abbozzan-done un ritratto di forte guerriero, ottimo stratega e, soprattutto, uomo ingens virium atque animi (Hist. 3, 91 Maur.)19. Come rilevato dallo stesso studioso, nonostante simili qualità possano bastare a riconosce-re in Spartaco la grandezza di personaggi quali Catilina o Mitridate, rei solo di aver posto le proprie virtù caratteriali, militari e strategiche al servizio del male, Sallustio vi aggiunge quella, del tutto inattesa, della moderatio, dell’umanità, del buon senso, soprattutto quando rife-risce del discorso accorato ma del tutto vano con cui il trace tenta di convincere gli schiavi ad astenersi dai saccheggi violenti e indiscrimi-nati in Lucania (Hist. 3, 98 C Maur.).

    16 L’accostamento tra i due personaggi assume valore quasi topico, se si consi-dera, ad esempio, la sua ricorrenza nella Historia Augusta (Maxim. 10, 6). 17 Alla rozzezza e alla crudeltà di Clodio, simile a quella degli schiavi traditori, è contrapposta la rettitudine morale di due uomini liberi, Gaio e Appio Claudio: istius modi Megalesia fecit pater tuus, istius modi patruus? Is mihi etiam generis sui mentionem facit, cum Athenionis aut Spartaci exemplo ludos facere maluerit quam C. aut Appi Claudiorum? Illi cum ludos facerent, servos de cavea exire iubebant: tu in alteram servos inmisisti, ex altera liberos eiecisti. Itaque qui antea voce praeconis a liberis semovebantur, tuis ludis non voce sed manu liberos a se segregabant (har. resp. 26). 18 La Penna (1963: 256). 19 L’attribuzione di queste qualità al personaggio di Spartaco si deve a Maurenbrecher (1891: 41), il quale fa derivare dal frammento sallustiano la descrizione plutarchea del gladiatore come οὐ µόνον φρόνηµα µέγα καὶ ῥώµην ἔχων (Crass. 8, 3).

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    Per il resto, se le pagine recanti più o meno rapide descrizioni o valutazioni relative alla personalità di Spartaco non provenissero da autori di momenti e contesti della latinità così diversi tra loro, sembre-rebbero il frutto di un’ingegnosa e uniforme macchina del fango.

    Già Cesare, a proposito dei Germani e dei contrattacchi operati verso di loro, in passato, dalle truppe romane, ricorda con tono sprez-zante gli uomini unitisi alla pletora di schiavi guidati da Spartaco, e non manca di rievocare la prontezza e la malafede di questi ultimi nel rigirare la disciplina e la pratica carpite nei contatti con Roma contro lo stesso popolo da cui le avevano apprese20. Con riguardo al passo in questione, Mazzarino21 evidenzia la repulsione di Cesare per Spartaco e i suoi ribelli, accostando i toni impiegati nei loro riguardi a quelli presenti nella condanna per la sobillazione dei gladiatori di Capua da parte di Lentulo (civ. 1, 14).

    Il nome di Spartaco ricorre in due occasioni negli Annales tacitiani come exemplum proverbiale di disonore e sciagura. Nel primo caso si ricorda che neppure al trace, praedo e latro come Tacfarinate, il co-mandante numida delle truppe ausiliare disertore e leader di un’impo-nente rivolta antiromana, sconfitto da Dolabella nel 24 d. C., sia stato concesso di trattare la propria resa con governo dell’Urbe (cosa acca-duta, invece, tra il soldato e Tiberio e ritenuta dallo storico alquanto infamante)22. Nella seconda occorrenza, il ricordo di Spartaco rinnova nella mente del popolo antiche disgrazie (vetera mala), riaprendo una ferita alimentata dal pavor verso i traditori in occasione del tentativo di fuga di altri gladiatores dalla città di Preneste (ann. 15, 46).

    20 Cfr. Caes. Gall. 1, 40: factum etiam nuper in Italia servili tumultu, quos tamen aliquid usus ac disciplina, quam a nobis accepissent, sublevarint. 21 Mazzarino (1968: 207). 22 Cfr. Tac. ann. 3, 73: non alias magis sua populique Romani contumelia indoluisse Caesarem ferunt quam quod desertor et praedo hostium more ageret. Ne Spartaco quidem post tot consularium exercituum cladis inultam Italiam urenti, quamquam Sertorii atque Mithridatis ingentibus bellis labaret res publica, datum ut pacto in fidem acciperetur; nedum pulcherrimo populi Romani fastigio latro Tacfarinas pace et concessione agrorum redimeretur.

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    Impietosi i toni del racconto di Floro, che prima sintetizza icastica-mente il passato di Spartaco cristallizzandolo nei quattro stadi di miles, desertor, latro, gladiator (epit. 2, 8, 8), poi condanna con indi-gnazione la pretesa assurda di voler cancellare con un colpo di spugna i suoi trascorsi, dominati dall’ignominia (particolarmente emblematico l’uso del termine dedecus), trasformandosi d’emblée in munerarius, una sorta di patronus – in teoria di rango senatoriale – degli stessi spettacoli che lo avevano sempre visto come protagonista, in occasio-ne dei ludi funerari indegnamente organizzati per i suoi uomini caduti in battaglia23.

    Ammiano Marcellino incornicia la figura di Spartaco fra tre exempla della diabolica alleanza tra schiavi e banditi (gli altri due sono Euno e Viriato), da sempre vero e proprio incubo tutto romano, nonché dell’iniquità di una fortuna che costringe il valore di illustri figli della città eterna all’umiliazione di doversi rapportare a così abietti individui24.

    Paolo Orosio, con una consistente dose di retorica, inserisce invece la guerra contro Spartaco fra le drammatiche esperienze, contraddi-stinte da rovine e violenze insostenibili, rispetto alle quali l’Italia può consolarsi solo pensando alle disgrazie causate dai suoi stessi abitanti, i cui effetti si sono rivelati, spesso, anche più disastrosi (5, 24, 20).

    23 Cfr. epit. 2, 8, 9: qui defunctorum quoque proelio ducum funera imperatoriis celebravit exsequiis, captivosque circa rogum iussit armis depugnare, quasi plane expiaturus omne praeteritum dedecus, si de gladiatore munerarius fuisset. È, con buona probabilità, a una di quelle celebrazioni funebri che Appiano si riferisce quando racconta della crocifissione, ordinata da Spartaco, di trecento prigionieri romani in onore del defunto amico Crisso (App. civ. 1, 14, 117). 24 Cfr. Amm. 14, 11, 33: et Eunus quidam ergastularius servus eluctavit in Sicilia fugitivos. Quam multi splendido loco nati eadem rerum domina conivente Viriathi genua sunt amplexi vel Spartaci?

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    Fuori dal genere storiografico, Orazio e Lucano incastonano nei propri versi l’immagine di uno Spartaco nemico e malvagio25.

    Poco o nulla di attinente, insomma, con la figura tramandata di norma dalla cinematografia, quella dell’eroe, dai tratti quasi romantici, pronto a morire per l’utopia di un mondo libero, paradigma di virtù naturale, dalla caratura etica inarrivabile, persino avvolto da un’aura di santità (la celeberrima pellicola kubrickiana non è la sola ad attri-buirgli una suggestiva quanto fantasiosa fine su una croce).

    A fronte di un’inversione di rotta così dirompente e spiazzante sulla ricezione del personaggio, un resoconto, per quanto minuzioso, delle varie licenze poetiche, sviste più o meno grossolane, macroscopiche invenzioni che distanziano le riscritture dei cineasti dalla verità storica si rivelerebbe, oltre che dispersivo, di una rilevanza del tutto opina-bile. Sarà piuttosto il caso di appuntare la nostra ricerca, come già ac-cennato, sull’esistenza di possibili riscontri testuali relativi a elementi della narrazione antica delle gesta di Spartaco (al di là del racconto sallustiano, comunque frammentario) che, selezionati, ridotti o ampli-ficati, e ideologicamente, psicologicamente o culturalmente trasposti, possano aver condotto a tali riscritture, a livello letterario prima e audiovisivo poi.

    25 Cfr. Hor. carm. 3, 14, 14 ss.: ego nec tumultum / nec mori per vim metuam tenente / Caesare terras. / I pete unguentum, puer, et coronas / et cadum Marsi memorem duelli, / Spartacum siqua potuit vagantem / fallere testa; epod. 16, 1 ss.: altera iam teritur bellis civilibus aetas, / suis et ipsa Roma viribus ruit. / Quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi / minacis aut Etrusca Porsenae manus / aemula nec virtus Capuae nec Spartacus acer / […] impia perdemus devoti sanguinis aetas […]; Luc. 2, 552 ss.: Parthorum utinam post proelia sospes / et Scythicis Crassus victor remeasset ab oris, / ut simili causa caderes qua Spartacus hostis.

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    3. IL CASO SPARTACUS (1960): SCRITTURA E IDEOLOGIA Nonostante la mole considerevole di filmografia incentrata sul gladia-tore trace26, c’è un caso esemplare su cui vale la pena soffermarsi, ossia lo Spartacus di Stanley Kubrick del 1960. La sua unicità non è data semplicemente dai costi e dagli incassi da record, né tantomeno dal suo configurarsi come uno dei kolossal hollywoodiani più famosi di sempre, o dal pregio della regia e dell’intero cast artistico (che, oltre al protagonista – nonché produttore esecutivo – Kirk Douglas, può vantare nomi come quelli di Lawrence Olivier, Tony Curtis e Peter Ustinov). L’interesse particolare ai fini della nostra ricerca è soprattut-to filologico, perché lo script della pellicola in questione, a differenza degli altri, non è liberamente ispirato alle fonti storiografiche, ma è a sua volta la riscrittura di un romanzo; gli autori dell’uno e dell’altro – rispettivamente Dalton Trumbo e Howard Fast – sono due nomi eccel-lenti dell’ambiente culturale statunitense di quegli anni, profondamen-te condizionato dalla politica maccartista.

    Fast inizia a scrivere il suo Spartacus nel 1950 in prigione, dove sconta una pena comminata dalla Commissione per le attività antiame-ricane (Huac) per aver indebitamente sovvenzionato la costruzione di un ospedale a beneficio dei reduci della guerra civile spagnola, per conto del Comitato di aiuto per i rifugiati antifascisti. Quel romanzo,

    26 Solo per limitarci al cinema italiano, che in particolare tra gli anni ‘60 e’70 sviluppa un prolifico interesse verso i toga-movies sulla falsariga di Hollywood, ricordiamo pellicole come Spartaco, il gladiatore della Tracia (1953) di Riccardo Freda, con Massimo Girotti nei panni del protagonista, Il figlio di Spartacus (1962) di Sergio Corbucci, Il trionfo dei dieci gladiatori (1964) di Nick Nostro (in realtà, una coproduzione italo-franco-spagnola), La vendetta di Spartacus (1964) di Michele Lupo, La rivolta delle gladiatrici (1973) di Aristide Massaccesi, etc. Su queste e altre versioni filmiche diverse da quella di Kubrick, si veda l’interessante contributo di Lapeña, il cui scopo dichiarato poco dopo l’apertura, ferma restando l’assoluta centralità della pellicola del ‘60 a livello di distribuzione e di influenze successive, «no es otro que el de poner un poco de orden en la información que disponemos acerca de los ‘otros Espartacos’» (Lapeña Marchena 2002: 56).

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    come ammetterà egli stesso nella sua autobiografia27, raccoglie la disperazione e il sofferto senso d’impotenza delle classi disagiate spe-rimentati in prima persona durante la reclusione e il personaggio di Spartaco finisce col veicolare il grido di protesta degli oppressi contro le più meschine forme di ingiustizia esercitate dal potere costituito, di cui l’autore, da membro attivo del Partito Comunista statunitense, si sente vittima. Una vicenda analoga a quella di Fast, che curiosamente culmina anch’essa con la stesura di un romanzo dedicato a Spartaco – dal titolo I gladiatori, edito la prima volta nel ‘39, poi ristampato nel ‘56 per contrastare la fama dello stesso Fast – riguarda Arthur Koestler, comunista attivo nella guerra di Spagna e arrestato da Franco, che scrive la sua opera nei giorni delle numerose esecuzioni capitali dei compagni.

    Ma esiste anche un minimo rapporto fondato fra la tradizione classica relativa al gladiatore e l’ideologia comunista? In una lettera datata 27 febbraio 1861, Karl Marx esprime all’amico Engels un forte entusiasmo per la lettura, appena conclusa, dei Bella civilia di Ap-piano, e in particolare per la narrazione della vicenda di Spartaco, che definisce «l’uomo più folgorante della storia antica», un «personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità» e, prima di ciò, «grande generale (non un Garibaldi)»28. Questa inclusio-ne del personaggio trace all’interno del pensiero marxista come arche-tipo della resistenza al dominio del capitalismo, come fautore di una rivoluzione operaia ante litteram è abbastanza notoria29, ma sorge il

    27 Fast (1990: 269). 28 Marx a Engels, 27 febbraio 1861, in Marx – Engels (1949; trad. it. 1951: 25). Citando questo passo, Canfora (2006: 222) attribuisce la menzione di Garibaldi come modello negativo non solo all’atavica antipatia di Marx nei suoi confronti, ma anche al suo modus operandi durante la campagna dei Mille, irregolari poi costituitisi in un’armata né più né meno come i gladiatori di Spartaco, ma rei di essersi svenduti, alla fine, al potere statale. Da qui la considerazione di Garibaldi come una sorta di ‘anti-spartaco’, non capo partigiano ma partigiano fallito. 29 Si vedano, a puro titolo esemplificativo (oltre al già citato contributo di Canfora): Orena (1984: 33 ss); Utcenko (1986: 152); Dogliani (1997: 32); Hardwick (2003: 40); Futrell (2001: 77 ss.); Urbainczyk (2014; trad. it. 2015: 81).

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    dubbio legittimo se il fascino esercitato sul pensatore dal racconto appianeo sia frutto di una pura sublimazione etica della guerra servile o si basi su dati concreti.

    Per quanto Sallustio costituisca la fonte sia di Appiano sia, con ogni probabilità, di Plutarco30 – le cui testimonianze, tra tutte quelle perve-nuteci, risultano forse le più complete e organiche – lo storico ales-sandrino non veste certo il proprio resoconto della marcata coloritura ideologica presente in Sallustio stesso né, in senso opposto, all’interno della restante tradizione latina. Ma, anche nella garbata, coscienziosa acriticità della sua narrazione storica31, l’autore tanto apprezzato da Marx si lascia sfuggire alcuni dettagli non di poco conto: Spartaco divideva sempre i beni ricavati dalle scorrerie in parti uguali32; inoltre, nell’occupazione pacifica di Turi e dei monti intorno, vietò ai nego-zianti di introdurre metalli preziosi e ai suoi di possederne, incorag-giando però il commercio di ferro e bronzo che essi erano comunque tenuti ad acquistare regolarmente, senza toccare con un dito i vendito-ri33.

    Difficile non cogliere in simili elementi un’embrionale avvisaglia del concetto di equa ripartizione della ricchezza, ma anche, conside-rando l’eventuale chiave di lettura marxista, una sommessa forma di opposizione tra una società romana governata dal profitto del singolo individuo e una ‘microsocietà’ di umili il cui metro di misura è invece il beneficio di tutti i suoi membri.

    30 Cfr. Canfora (2006: 217). 31 Gabba (1958: XXVII) riscontra una notevole mancanza di partecipazione della voce autoriale nel racconto di diversi eventi di età repubblicana (con uno scarso interesse, in particolare, per il tema della libertas), avvertiti in parte, nel periodo antoniano, come distanti e di rilevanza molto relativa. 32 Cfr. App. civ. 1, 14, 116: µεριζοµένῳ δ᾽ αὐτῷ τὰ κέρδη κατ᾽ἰσοµοιρίαν ταχὺ πλῆθος ἦν ἀνδρῶν. 33 Ibid., 117: […] τὰ δ’ ὄρη τὰ περὶ Θουρίους καὶ τὴν πόλιν αὐτὴν κατέλαβε, καὶ χρυσὸν µὲν ἢ ἄργυρον τοὺς ἐµπόρους ἐσφέρειν ἐκώλυε καὶ κεκτῆσθαι τοὺς ἑαυτοῦ, µόνον δὲ σίδηρον καὶ χαλκὸν ὠνοῦντο πολλοῦ καὶ τοὺς ἐσφέροντας οὐκ ἠδίκουν.

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    Subito dopo la sua pubblicazione, l’attore e produttore Kirk Douglas, protagonista indiscusso dello star system Hollywoodiano dell’epoca, legge il romanzo di Fast, restandone conquistato; decide così di acquistarne i diritti per un film. Non desta stupore l’assoluta mancanza di considerazione sia per I gladiatori di Koestler sia per lo Spartacus di Grassic Gibbon, l’altro romanzo che, ancora prima (1933), vede protagonista il gladiatore trace. Se Gibbon suggerisce un’equazione tra la figura di Spartaco e quella del Cristo in quanto incarnazione della speranza umana – evidenziando d’altra parte come lo schiavo ribelle si offra quale longa manus del popolo, indefesso esecutore del suo volere –, l’opera di Koestler descrive la parabola in caduta libera di un eroe solo e sofferente, costretto a rinunciare alla sua sacrosanta battaglia a causa dell’ignavia degli altri schiavi italici e destinato ad assurgere a manifesto dell’inesorabile fallimento degli ideali34. L’entusiasmo e l’interesse di Douglas sono così catalizzati dall’unico fra i tre romanzi effettivamente depositario dell’archetipica figura rivoluzionaria35.

    Quando si tratta di scegliere l’autore della sceneggiatura, Douglas non ha dubbi: contatta Dalton Trumbo, lo screenplayer hollywoodiano più richiesto degli anni ‘50, finito suo malgrado nella Hollywood Ten, la lista nera, stilata dalla Huac, di cineasti sgraditi alle autorità gover-

    34 Come evidenzia adeguatamente Urbainczyk (2014; trad. it. 2015: 93 s.), la vicenda dello Spartaco di Koestler si presta a una chiara lettura politica che veicola l’amaro sentimento di disillusione verso il socialismo, anch’esso destinato a fallire perché isolato in un solo paese e nelle menti di pochi, onesti ma impotenti rappresentanti. Dopo aver deplorato l’inerte condotta degli schiavi, che seguono i capi ottusamente, senza pensare con la propria testa e facendo sì che, alla fine, le cose restino come sono, l’autore descrive il brusco risveglio di Spartaco, il quale realizza come nessuna rivoluzione contro la tirannide sia realmente possibile fino a quando la conoscenza sarà «imposta agli uomini dall’esterno», laddove dovreb-be invece «nascere con un parto travagliato dal loro stesso corpo» (Koestler, 1939; trad. it. 2002: 243). 35 Urbainczyk (2014; trad. it. 2015: 104) non manca di rilevare come un altro forte elemento di attrattiva sul produttore, rispetto agli altri due romanzi, sia costituito da una scrittura «entusiasmante e compulsiva».

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    native a causa della sua adesione al Partito Comunista e appena uscito, anch’egli, dal carcere per aver rifiutato di rispondere alla commissione in merito all’identità di altri compagni di partito appartenenti all’indu-stria cinematografica36.

    Un dato, quest’ultimo, di indubbio interesse se si pensa a quella che è forse la scena più famosa del film, generata dalla penna di Trumbo, del tutto priva di riferimenti nel libro e naturalmente nelle fonti: i ribelli, sconfitti nella battaglia campale, rifiutano la possibilità di sal-vare la propria vita, evitando un’atroce agonia, in cambio della rivela-zione dell’identità di Spartaco; alla proposta dell’ufficiale di Crasso, si alzano in piedi uno per uno gridando «Io sono Spartaco!»37. Una frase laconica, quasi un gelido epitaffio che però racchiude un messaggio ben chiaro: i romani non hanno più il potere di controllare le loro idee e i loro valori e questo, a dispetto della morte incombente, li rende uomini liberi, proprio come i ‘Dieci di Hollywood’. Non è del tutto casuale che la sceneggiatura di Spartacus sia la prima su cui Trumbo appone la propria firma dalla sua comparsa nella lista nera, senza ricorrere all’uso di pseudonimi. 4. DALLE FONTI STORICHE AL ROMANZO, DAL ROMANZO ALLO SCRIPT Oltre a quelli già accennati, il film detiene sicuramente anche il prima-to per il carattere travagliato delle sue riscritture, dal romanzo – che, peraltro, a differenza della sceneggiatura, ripercorre la vicenda di Spartaco à rebour, nella ricostruzione corale dei vincitori e di figure a loro vicine, allo script fino al montaggio finale del film; non è certo questa la sede per ricostruire tali vicissitudini, ma basterà ricordare che, ai diversi scontri fra Trumbo – con la sua smania incontenibile di

    36 Per la ricostruzione dell’intera vicenda e delle varie vicissitudini dello sceneg-giatore e del produttore prima e dopo la stesura dello script, si rimanda alla lettura del recentissimo saggio autobiografico di Kirk Douglas dal titolo “I am Spartacus”: Making a Film, Breaking the Blacklist (New York, 2012). 37 Cfr. Spartacus: Revised Final Screenplay (January 16, 1959), sc. 328 H – K.

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    destrutturare e rivoluzionare il romanzo – e Douglas – produttore ese-cutivo, prima ancora che interprete, di una certa invadenza nella riven-dicazione delle sue idee – va ad aggiungersi la personalità, già molto forte per quanto artisticamente ancora in evoluzione, del giovane Stanley Kubrick, alla sua prima esperienza col cinema a colori38.

    Di sicuro, resta un fil rouge che lega i diversi processi di riscrittura: la riabilitazione del personaggio di Spartaco riplasmato dal pensiero marxista, non senza riferimenti – si è visto – alle fonti classiche. E proprio queste ultime, pur libere da connotati ideologici (a differenza delle testimonianze passate in rassegna all’inizio), forniscono inaspet-tatamente nuovi elementi per una ritrovata caratterizzazione positiva. Alcuni di questi elementi, poi, attraverso le fonti penetrano nel roman-zo, quindi nella sceneggiatura per offrirsi, infine, allo spettatore della pellicola; altri si perdono o si affievoliscono da un livello all’altro.

    Si è già menzionato l’appunto di Appiano circa l’equa spartizione dei beni, ordinata da Spartaco all’interno degli accampamenti dei gla-diatori (civ. 1, 4, 116): si tratta di un esempio eloquente di informa-zione che, veicolata dai diversi gradi di riscrittura, ritroviamo integra nel film. Da quanto si è avuto modo di rilevare, però, questo dato comportamentale è stato investito di una valenza della quale, per certi versi, né l’autore della fonte né tantomeno i personaggi oggetto del racconto potevano avere reale sentore: si tratta, in una parola, di ciò che Genette definirebbe opportunamente ‘transvalorizzazione’39.

    Diversi sono anche gli elementi che qualificano la personalità del trace in virtù della sua condotta sul campo di battaglia. Intanto, è note-vole la dilatazione di cui sono oggetto, soprattutto nello script e nel montaggio finale, le vittorie di Spartaco dall’arroccamento sul Vesu-

    38 Kagan (2000: 71), nel suo ricco resoconto di retroscena inerenti alla realizza-zione del film, non manca di sottolineare l’autentico disagio di Kubrick rispetto a una serie di scelte di Trumbo, nonché i contrasti che ne derivarono. Un quadro molto esaustivo a tal riguardo è offerto altresì da Urbainczyk (2014; trad. it. 2015: 105 ss.). 39 Genette (1982; trad. it. 1997: 407 ss).

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    vio alla marcia verso le Alpi, precedentemente all’arrivo di Crasso40, se si effettua un confronto con lo spazio dedicato alla prima fase del conflitto nei racconti di Velleio Patercolo (2, 30, 5), Frontino (strat. 1, 5, 21), Floro (2, 8, 3), Orosio (5, 24, 1), oltre che in Plutarco (Crass. 9, 1 ss.) e Appiano (civ. 1, 14, 116).

    Che questa insistenza sulle dimostrazioni del valore guerriero di Spartaco non risponda a meri criteri narrativi o a un’esigenza di spet-tacolarizzazione del lato bellico della vicenda lo dimostra un punto nevralgico sia nel romanzo sia nella sceneggiatura, poi escluso dal montaggio conclusivo per scelta di Kubrick ma misteriosamente pre-sente, in parte, nel trailer ufficiale del film. Lo script originale, in apertura, attribuisce a Crasso, in piedi nella sua tenda dell’accampa-mento davanti ai suoi ufficiali, un lapidario ma eloquente resoconto delle imprese di Spartaco alla vigilia della battaglia finale: egli affer-ma che nove contingenti romani sono stati distrutti dal gladiatore per essersi messi in campo contro degli schiavi. Aggiunge di doversi far forza per convincerli che il nemico che stanno per affrontare è sì abile e arduo, ma non più di quelli che possano aver incontrato in tutta la loro carriera militare; se non dovesse riuscirci, andrebbero anch’essi incontro a una pesante sconfitta. E la loro sconfitta significherebbe la rovina di Roma. Pone, infine, una domanda, a sua detta imprescindi-bile: com’è potuto succedere che un manipolo di schiavi sia stato ca-pace di distruggere le truppe migliori che il mondo abbia mai visto? Per rispondere a questo quesito – ammonisce – c’è bisogno di capire bene cosa si nasconda dentro e dietro quel manipolo; e, nello specifi-co, chi sia veramente l’uomo che lo comanda41. La scena funge, ini-zialmente, da prologo, per dar luogo al flashback che, fino al momento della battaglia, ripercorre tutta la storia. Ricollocata, in un secondo momento, al punto della narrazione filmica che coincide con la vigilia dello scontro – e rimpiazzata dal monologo di una voce narrante fuori campo – è stata tagliata all’ultimo. Come si diceva poc’anzi, la prima affermazione, quella che attribuisce a Spartaco la sconfitta di ben nove 40 Cfr. Spartacus: Revised Final Screenplay (January 16, 1959), sc. 175-289. 41 Ibid., sc. 8.

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    contingenti romani, è presente, pronunciata con tono grave e con una lentezza volta quasi a scandirla in tutta la sua drammaticità, nel trailer originale. Basterebbe quella a racchiudere, come scolpita nella pietra di un gigantesco simulacro, l’idea della statura del nemico. E, in effetti, anche nel romanzo si riscontra la medesima affermazione, messa in bocca non al personaggio di Crasso ma di Cicerone (ine-sistente nello script di Trumbo), il quale la rafforza ulteriormente, as-sociando al concetto di distruzione quello della cancellazione totale dalla faccia della terra delle armate sconfitte42.

    Ci troviamo dinanzi a un altro caso lampante di amplificazione contenutistica rispetto alla fonte classica; in questo caso, si tratta di Plutarco (il racconto di Appiano, in relazione all’evolversi del conflit-to, risente di una leggera approssimazione, come quando afferma che, al momento della prima marcia di Crasso contro i ribelli, τριέτης τε ἦν ἤδη καὶ φοβερὸς αὐτοῖς ὁ πόλεµος [civ. 1, 118]). All’interno della Vita di Crasso, nel ritmo concitato del suo racconto e senza porre alcuna enfasi sulla quantità di forze romane sgominate da Spartaco, egli cita il contingente giunto da Capua (9, 1), gli uomini di Clodio (ibid. 2), i tremila soldati del luogotenente Furio subito prima di quelli di Varinio (ibid. 5), le armate di Lentulo prima e di Cassio poi (ibid. 9 s.), le due legioni di Mummio (10, 2), l’ultimo successo contro il lega-to Quinto e il questore Scrofa (ibid. 6).

    Ci sono altresì casi in cui l’informazione della fonte non viene sem-plicemente amplificata ma è oggetto di una vera e propria trasforma-zione funzionale del contenuto.

    Nel romanzo di Fast, un Crasso nostalgico e rassegnato (nuovamen-te privato di ogni vigore, di ogni guizzo di carattere), nel momento in cui rievoca alla giovane Elena, figlia di nobili romani, la ferita ancora sanguinante che Spartaco è stato in grado di infliggere all’Urbe, è pure

    42 Cfr. Fast (1951; trad. it. 2004: 254). Il personaggio di Cicerone, in realtà, non parla della sconfitta di nove contingenti semplici, ma di cinque armate consolari. Non v’è però alcuna contraddizione, dal momento che, nel racconto plutarcheo di riferimento, su nove armate totali sconfitte da Spartaco (Crass. 9, 9 ss.), cinque sono esplicitamente legioni consolari.

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    disposto ad accettare che, agli occhi dei suoi concittadini, sia Pompeo a passare per eroe43.

    La sceneggiatura va oltre, cercando con ogni mezzo di trasmettere il messaggio che, se Spartaco non fosse stato accidentalmente44 sconfitto nello scontro finale, Roma sarebbe stata sua (tesi in parte sostenuta, con toni più dimessi, in Ath. 273a45) e, soprattutto, che la disfatta di Spartaco non avrebbe mai avuto luogo se le armate di Lucullo e Pom-peo non fossero sopraggiunte in tempo a prestare soccorso a Crasso, generale consumato e destinato al fallimento. Lo spettatore assiste così all’arrivo di un doppio deus ex machina che si materializza subito dopo l’inizio della battaglia. Dalla convocazione dei condottieri rispet-tivamente dalla Tracia e dalla Spagna – attestata all’unanimità dalle fonti – a fronte della situazione di emergenza e dietro effettiva richie-sta dello stesso Crasso, si giunge ad attribuire un ruolo decisivo a due personaggi che su quel campo di battaglia non arrivarono mai: Lucul-lo, fermatosi a Brindisi (Plut. Crass. 11, 2; App. civ. 1, 14, 120) e Pompeo, ancora sulla via del ritorno dalla Spagna lungo il confine na-turale delle Alpi (Cic. leg. Man. 30; Plut. Crass. 11, 3 ss.; Pomp. 21, 1 s.; App. civ. 1, 14, 119)46.

    Non è l’unica circostanza in cui, soprattutto nella sceneggiatura di Trumbo, si cerca di accrescere il prestigio della figura di Spartaco

    43 Fast (1951; trad. it. 2004: 235). 44 La dinamica dell’uccisione di Spartaco, così come descritta rapidamente da Appiano, suggerisce anch’essa, in effetti, una matrice abbastanza casuale (1, 14, 120: τιτρώσκεται ἐς τὸν µηρὸν ὁ Σπάρτακος δορατίῳ καὶ συγκάµψας τὸ γόνυ καὶ προβαλὼν τὴν ἀσπίδα πρὸς τοὺς ἐπιόντας ἀπεµάχετο, µέχρι καὶ αὐτὸς καὶ πολὺ πλῆθος ἀµφ’ αὐτὸν κυκλωθέντες ἔπεσον). 45 Ateneo parla, nello specifico, di sforzi fuori dal comune per l’esercito – simili a quelli affrontati contro Euno in Sicilia – nel caso in cui non si fosse riusciti ad eliminare Spartaco in quell’occasione. 46 Plutarco ricorda, tuttavia, (Crass. 9, 11; Pomp. 21, 3) che Pompeo riuscì comunque a farsi attribuire il merito della reale sconfitta dei gladiatori, per lo sterminio di circa cinquemila fuggiaschi superstiti che ebbero la sfortuna di imbattersi nella sua armata, come se fosse stato lui a estirpare la guerra ἐκ ῥιζῶν παντάπασιν (Pomp. 21, 3).

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    delegittimando programmaticamente quella di Crasso. La condotta di quest’ultimo si qualifica già nelle fonti, per molti versi, come moral-mente deprecabile: Plutarco riferisce, a più riprese, sulle origini delle sue ricchezze, accumulate mediante sistemi illegali e irriguardosi ver-so la dignità non solo di un membro della nobilitas, ma di qualunque civis all’altezza di questo nome (dal bieco sfruttamento delle liste di proscrizione di Silla per acquisire i beni delle sue vittime47 alle specu-lazioni sulle case distrutte da crolli e incendi48). La sua smodata avi-dità non è dunque un mistero. La caratterizzazione filmica del perso-naggio, però, travalica finanche i limiti dell’amplificazione tematica laddove mette in discussione la sessualità di Crasso: lo fa esplicita-mente nella scena delle ostriche e delle lumache49, in cui i tentativi di seduzione di uno schiavo – che, in preda allo sfinimento, fuggirà per unirsi ai ribelli di Spartaco – si consumano in una interminabile se-quela di doppi sensi mentre il giovane lava l’uomo nella vasca50. Una licenza, questa, priva di ogni giustificazione, dal momento che, stando alle fonti, proprio il modus vivendi risulta l’unico elemento davvero ineccepibile relativo alla sua persona: in apertura della sua trattazione, lo stesso Plutarco lo definisce σώφρων καὶ µέτριος […] περὶ τὴν δίαιταν (Crass. 1, 1), caratteristiche riprese in più occasioni, anche in merito alla sua vita familiare e sessuale51, immune da ogni maldicenza e caratterizzata da un rapporto fedele e duraturo con la moglie Tertulla (ibid., 2, 4 ss; 3,1)52.

    47 Cfr. Plut. Crass. 2, 3; ibid., 6, 6 s. 48 Ibid. 2, 4. 49 La scena, tagliata – per ovvie ragioni – dalla censura della Universal Pictures nella versione del 1960, è stata reintrodotta solo nel 1990: ne dà conto diffusa-mente Blanshard – Shababudin (2013: 96). 50 Cfr. Spartacus: Revised Final Screenplay (January 16, 1959), sc. 211. 51 Considerando l’alacrità delle fonti nell’annotare le voci circa la presunta bises-sualità di Giulio Cesare (cfr., ad es., Suet. Iul. 49,1-52,3, Catull. 57, passim), è fuori di dubbio che l’argomento non fosse comunque da ritenersi illecito. 52 Sappiamo bene che Plutarco non si pone remore nel qualificare negativamente le vite coniugali di personaggi illustri, come dimostrano i racconti relativi alla serie di matrimoni e divorzi strategici di Pompeo, dettati da mero opportunismo

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    Simili operazioni, naturalmente, interessano anche il protagonista. È pur vero che, come si è abbondantemente rilevato, i frammenti sallu-stiani insistono sul giudizio, sulla magnanimità, sul senso assoluto della libertà che veicolano le azioni di Spartaco, e quindi sui suoi con-tinui e inutili tentativi di placare gli istinti ferini di buona parte dei suoi uomini, dediti a stupri, omicidi, incendi durante le loro scorrerie (Hist. 3, 91; 3, 98 C Maur.). Ma, anche in questo caso, i tratti eviden-ziati dalla fonte si trovano a essere amplificati oltre la soglia della cre-dibilità. Nel film, si afferma esplicitamente che l’obiettivo precipuo di Spartaco e della sua lotta è l’abolizione della schiavitù53. Un’altra sce-na vede inoltre il trace, a Capua, condannare aspramente il comporta-mento dei suoi uomini, rei di aver costretto dei cittadini romani prigio-nieri a vestirsi e armarsi da gladiatori e a combattere per il loro intrat-tenimento54. Per quanto riguarda il primo aspetto, lo stesso cristiane-simo, il cui avvento è trionfalmente annunciato dalla voce narrante in apertura, ammette una struttura sociale basata sull’esistenza degli schiavi55. Quanto alla rabbia di Spartaco nella scena citata, sappiamo da Floro (2, 8, 956) e Orosio (5, 24, 3) che egli stesso soleva celebrare i riti funebri facendo combattere tra loro prigionieri romani e, come si è già riscontrato57, Appiano (1, 14, 117) ricorda che durante uno di que-sti riti, in onore dell’amico Crisso, il gladiatore di prigionieri ne fece crocifiggere trecento e cita altresì l’episodio della crocifissione di un altro prigioniero come monito ai suoi della sorte che li avrebbe attesi qualora avessero perso sul campo (ibid. 119).

    Ancora una volta, il confine tra celebrazione e idealizzazione si mostra in tutta la sua labilità, e il compromesso ideale nell’approccio alle fonti resta, probabilmente, quello di non perdere mai di vista la

    politico (cfr. Pomp. 4, 2; ibid. 9, 1 ss; ibid. 42, 6 s.). Sull’argomento, cfr. anche Cic. fam. 5, 26; Suet. Iul. 50, 1). 53 Cfr. Spartacus: Revised Final Screenplay (January 16, 1959), sc. 207. 54 Cfr. Spartacus: Revised Final Screenplay (January 16, 1959), sc. 174. 55 Cfr. Matth. 10, 24 ss; 25, 14 ss.; Luc. 12, 47; Pet. 2, 18. 56 Cfr. supra, n. 13. 57 Idem.

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    natura di Spartaco come figlio della propria epoca, con i suoi νόµιµα ἄγραπτα, il suo comune sentire e le sue contraddizioni.

    Pur con tutti i dubbi e le perplessità del caso, la vicenda della riscrittura della storia e del personaggio di Spartaco dalle testimonian-ze greche e latine al film di Kubrick, passando per il romanzo e la sceneggiatura originale, resta un percorso filologicamente di grande interesse, perché a operare sul testo non sono solo cambiamenti fun-zionali ai necessari processi di trasposizione linguistica dalle fonti classiche, transtilizzazione (dalla narrazione storiografica alla lettera-tura d’intrattenimento) e transcodificazione (dal linguaggio letterario a quello audiovisivo), ma in questo percorso entrano in gioco sistemi di valori e norme culturali di enorme robustezza e vitalità, seppur a distanza di quasi due millenni gli uni dagli altri.

    Università degli Studi di Foggia Dipartimento di Studi Umanistici [email protected]

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    DISTINGUERE LINGUA (SIL . 1, 78):

    SUL PRIMO CANTO DEI PUNICA E LA SUA RICEZIONE

    ARIANNA SACERDOTI

    ABSTRACT

    This article is built around two different and intervowen lines. The first topic is Silius’ book 1, and its specific way of ‘sense making’ with choices concerning stylistic and semantic levels (both of which will be the focus of the analysis). The second topic is the relationship between two ‘creative imitators’ of Silius, Cesare Beligoni and Onorato Occioni, translators of Punica in XIX Century in Italy, whose texts - I will argue - are closely related to Silius’ work and one with the other. Links between Punica and our contemporary world are established throughout.

    1. SPAZI E CONFINI (UN’ INTRODUZIONE) Campi di indagine potenzialmente illimitati (perché collegati, oltre che al passato, al ‘contemporaneo’ di oggi e di ‘oggi futuri’), i Translation Studies e i Reception Studies1 intersecano, in questo con-tributo, un’esegesi di alcuni passi del primo libro dei Punica di Silio in

    1 Una disamina accurata e utile della storia della Reception fino al 1982 è quella di Holub (1982). Per inquadrare i Reception Studies in riferimento ai Classici v. Hardwick (2003); Porter (2011: 469); Brockliss – Chaudhuri – Lushkov – Wasdin (2012); Martindale (2013: 170). Altra prospettiva che non possiamo non ricordare è quella di Leonard – Prins (2010), che negli studi italiani, evidentemente sensibili all’uso nazionalistico dell’antichità latina, si è declinata in contributi importanti come quelli di Braccesi (1989) e Dionigi (1994).

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    una prospettiva multidisciplinare2. Al centro del nostro lavoro sarà il primo canto del poema siliano3: un libro, il primo, di connessioni e di ‘scarto’, di sincronia tra momenti diversi della storia lineare4 e asin-cronia tra processo della narrazione e oggetto della narrazione (Sil. 1, 3-11; et al.); un libro di guerra e torture, ma anche di emozioni e sen-timenti di uomini, dei, elementi naturali (Sil. 1, 38; 40; 70-71). Un libro, il primo del poema, che è stato commentato nel 1982 da Denis Feeney, il cui lavoro rimane tuttora punto di partenza imprescindibile per le studiose e gli studiosi di questo lungo e importante incipit, e al quale riserveremo sondaggi stilistici e lessicali non ancora percorsi dalla Scholarship5.

    Pur senza ripercorrere la storia della fioritura degli studi siliani, che non è l’oggetto di questo contributo, ricordiamo come dagli anni in cui Feeney ha lavorato al commento sopra citato l’interesse per Silio non 2 Brockliss – Chauduri – Lushkov – Wasdin (2012: 3) scrivono a tal proposito, nella Introduction (pp. 1-16) al ricco volume da loro curato: «[…] interdisciplinary collaborations help us to conceptualize the (albeit fluid) line between disciplinarity and interdisciplinarity, and to see how different institutional practices lead to different scholarly practices». 3 L’edizione di riferimento per i passi di Silio citati in questo lavoro è quella di Delz (1987); le traduzioni italiane sono quelle di Beligoni (1841) e Occioni (1871). 4 Alludo non solo ai piani temporali del passato (con i suoi diversi livelli crono-logici) e del presente (l’oggetto della narrazione principale), ma anche a quello del futuro, che viene immesso nella filigrana della narrazione come sogno premo-nitore (Sil. 1, 64-65), desiderio e auspicio (Sil. 1, 110-112), promessa solenne (Sil. 1, 114-119), vaticinio e visione dall’alto tasso patetico (Sil. 1, 125-137), sprone all’azione (Sil. 1, 346), terreno di possibili scenari da scongiurare (Sil. 1, 651-652), da perseguire (Sil. 1, 692-694) o semplicemente da prevedere (Sil. 1, 679-689). 5 Le direttrici del commento di Feeney, peraltro esplicitate nella Preface (pp. i-iii), sono una discussione della struttura e di linee tematiche del canto e notazioni stilistiche e testuali (ancorate a edizioni precedenti e non a un lavoro diretto sui testimoni, come esplicita Feeney 1982: i). I rapporti tra epica e storiografia risul-tano altro importante oggetto di interesse (Feeney 1982: iii), ma anche l’interte-stualità siliana e le dinamiche con la poesia epica di età imperiale svolgono un ruolo non secondario all’interno del volume (Feeney 1982: iii).

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    ha accennato a diminuire6 e tuttora coinvolge linee di ricerca non solo tradizionali (Augoustakis 2010). In tale scenario internazionale, un discreto impulso ha avuto – soprattutto in anni recenti – lo studio delle traduzioni moderne dei Punica7, all’interno di un panorama che fa

    6 Vessey (1988: 254), recensendo il commento integrale di Silio ad opera di Spaltenstein (1986), registrava l’inizio della crescita, che si è poi verificata con continuità, degli studi siliani: «Given the population of the world, readers of Silius Italicus’ Punica are statistically insignificant. Even among classicists, they are not many and the compliant that his detractors have often not read him, or only cursorily, has some justification. Their excuses – at least in respect of books 1 to 8 – are now weakened by François Spaltenstein’s commentary». 7 Ripercorrerendo i lavori sulla presenza di Silio in Inghilterra, segnalo innanzi-tutto il contributo di Bassett (1953), e in particolare il passaggio di p. 166, che apre la strada – in maniera contrastiva – alle nostre riflessioni sull’interesse italia-no per Silio nel medesimo periodo: «If, in spite of Tytler’s efforts, interest in Silius practically disappeared during the nineteenth century, this was not the situation in the sixteenth, seventeenth, and eighteenth centuries. Silius may have exerted no great influence on the major writers; but, in general, he was not ignored. The sixteenth-century educators and literary critics recommended him, the works of Milton and Dryden seem to contain some echoes of the Punica, Addison is bursting with quotations from Silius […]. Tytler refers (pp. vii-viii) to the earlier favour which Silius enjoyed». Ulteriori e più specifici lavori sulle traduzioni inglesi di Silio Italico sono quelli di Bond (2009: 595: «The general faithfulness of the translation proves him a more than competent Latinist, while his lucid, if pedestrian, heroic couplets suggest some degree of literary skill and are no bad reflection of Silius’s own verse style»); di Dominik (2010), il quale tra l’altro cita la traduzione italiana di Occioni alle pp. 427-428: «There are few modern translations of the entire Punica in comparison with most other Roman epics. In English there are the translations of Ross (1661), Tytler (1828), J.D. Duff (1934), and Wilson (1991); in French those of Nisard (1878) and Devallet, Martin, Miniconi, and Volpilhac-Lenthéric (1979-92); in Italian that of Occione (1889) and Vinchesi (2001), and in German that of Bothe (1855-57)». Grata a Antony Augoustakis per aver potuto leggere il dattiloscritto del suo saggio Forthcoming sulla traduzione siliana di Thomas Ross, segnalo al contempo la prossima pubblicazione del volume tutto (Brill Companion to Epic Continuations), che comprende il lavoro che ho appena citato, e che – opera di latinisti – si situa nella cornice di indagine del progetto di ricerca che mi impegna, accanto ad altri, dal 2013.

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    dell’osmosi tra discipline (il cui centro risulta, comunque, la letteratu-ra latina) un’occasione di rivitalizzazione e di ripensamento dei nostri studi alla luce delle sfide culturali (e agli stimoli, alle possibilità) del nostro presente (e, d’altro canto, la pratica e la teoria della traduzione affondano le loro radici nell’antichità classica)8.

    In tale solco diacronico e interdisciplinare si inscrive questo nostro contributo, che si prefigge di presentare sondaggi ermeneutici che da un lato approfondiscano alcuni aspetti del testo latino non precedente-mente discussi (e.g. l’uso siliano dei lessemi improbus, patrius, avi-dus, astus...) e che dall’altro – contestualmente – esaminino i rapporti tra due traduttori dei Punica della seconda metà dell’Ottocento italia-no, Cesare Beligoni e Onorato Occioni, arricchendo il commento del testo latino anche attraverso una lettura della resa ‘creativa’ delle due traduzioni ottocentesche di Silio, le quali – tra loro, a nostro avviso, interrelate9 – rientrano in quelle zone di intersezione (che arrivano talvolta al plagio) di cui scriveva Steiner (1984: 406):

    «I segni verbali del messaggio o dell’enunciazione originale ven-gono modificati da uno di una infinità di mezzi o da una com-binazione di mezzi. Questi includono la parafrasi, l’illustrazione grafica, il pastiche, l’imitazione, la variazione tematica, la paro-dia, la citazione in un contesto di supporto o di confutazione, la falsa attribuzione (accidentale o deliberata), il plagio, il collage e numerosi altri».

    Motivi e legittimazioni di una ricerca interdisciplinare come quella

    che qui svolgeremo risiedono, oltre che in una specifica curiositas scientifica per la poesia flavia; per la poesia italiana; e per l’universo affascinante della traduzione, anche in canali di senso teorici quali 8 Lavori sulle traduzioni di testi latini non sono condotti solo oltralpe. Anche in Italia sono comparsi studi su questo versante: Gamberale (2006); Centanni (2014); Condello – Rodighiero (2014). 9 I due testi ottocenteschi sono, a mio avviso, interrelati fin dalle Prefazioni, che presentano analogie notevoli e fitte (cfr. Sacerdoti [2014a: 318]).

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    quelli con forza sottolineati da Condello – Rodighiero (2015: 8):

    «(...) siamo convinti che di ‘teoria’ traduttiva e ‘metodi’ tradut-tivi sia urgente parlare: e con adeguata dose di militanza, viste le ricadute sul piano formativo, specie quando si tratta di tradu-zione dalle lingue antiche, giunti come siamo a un momento im-portante di un’ormai durevole discussione su sensi e forme del-l’ institutio classica a livello liceale e universitario»

    e, sotto una diversa prospettiva ‘militante’, da Bona (2008: 9):

    «Non è un caso che in questi anni gli studi sulla traduzione nelle sue varie forme abbiano visto notevoli sviluppi. Anche al di là dell’ottica specialistica, il tema della traduzione, intesa non come semplice transcodificazione, ma come mediazione culturale in senso ampio, è di scottante attualità in un mondo che affronta quotidianamente le sfide della globalizzazione e in cui il raffron-to fra le culture, la reciproca comprensione, ma anche la stessa sopravvivenza delle loro identità è problema all’ordine del giorno».

    Del resto, i Translation Studies (già centrali nella temperie culturale

    sessantottina)10 sono un campo di studi in crescita esponenziale speci-ficamente tra i classicisti di tutto il mondo, come testimoniano due ini-ziative scientifiche contestuali alla fase di revisione di questo contri-buto, e cioè il Convegno “Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni ‘d’autore’ da classici latini e greci nella letteratura italiana del Nove-cento. Convegno internazionale, Ravenna 21-22 aprile 2106. Diparti-mento di Beni Culturali, Ravenna”; e il ricco volume, da poco licen-ziato, a cura di Butler (2016). Sui contributi pregressi, la cui menzione meriterebbe uno spazio superiore alle possibilità concrete di un artico-lo su rivista, si vedano Steiner (1984); Tolliver (2002); e, ancora,

    10 V. Bassett (2011: 3): «One of the developments of the decade of academic contestation that began in the late 1960s was the systematic study of translation».

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    Parker – Mathews (2011)11. Stato dell’arte e ipotesi su Trends prossi-mi venturi sono nell’importante e recente lavoro di Condello – Rodi-ghiero (2015: 7-11)12. Infine, su traduzioni dei poeti flavi si vedano almeno Braund (2015) e Augoustakis (2016) e sulle traduzioni di epica latina Wilson (2012). 2. POESIA E METAPOESIA Alludo, con il titolo di questo paragrafo, all’inquadramento della pro-blematica del testo di Silio (‘poesia’) e delle due traduzioni ottocente-sche che in seguito discuteremo (‘metapoesia’). Ogni atto di traduzio-ne di poesia infatti è, secondo Holmes (1995: 244), una sorta di meta-poesia:

    «la metapoesia sarà il punto di incontro di un intreccio di rela-zioni convergenti da due diverse direzioni: da un lato dal testo originario, connesso in modo specifico alla tradizione poetica

    11 Il volume si apre con la dichiarazione, che mi piace ricordare, di Bassnett (2011: 1): «We are all translators, in one way or another, even those of us who only live with one language in our heads. Engaging with different people in our daily lives, we also engage in acts of translations as we shift linguistic registers, edit and adapt what we choose to communicate, reshape narratives in different contexts for different people». 12 V. in particolare p. 9: «Siamo oggi in tempi di classical reception studies fiorenti, se non dominanti, o almeno avviati a futuro predominio. In questo qua-dro, però, lo studio della traduzione rimane un aspetto a conti fatti marginale. E ciò è grave da più punti di vista: perché studiare la fortuna dell’antico per meri cacumina, cioè limitandosi ai grandi autori del canone, fa mancare un’attenta analisi di quel tessuto connettivo esteso ‒ riscritture minori, repertori di speciale fortuna, strumenti di consultazione diffusi, e ovviamente traduzioni di comune impiego ‒ che darebbe un concreto contesto alle sporadiche eccellenze; e perché, senza analizzare nei fatti (cioè nelle parole) esperienze traduttive a vario titolo fortunate, si finisce per mancare dei dati che consentirebbero di valutare davvero quanti e quali fenomeni, in materia traduttiva, siano di breve o medio o lungo periodo».

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    della propria lingua; e dall’altro dalla tradizione poetica della lingua di arrivo, con le sue più o meno cogenti aspettative in termini di poeticità, a cui la metapoesia se vuole avere una buona riuscita, deve venire in qualche misura incontro».

    E in questa sorta di costante ‘negoziazione’, come vedremo, la spe-

    cificità dei testi ‘derivati’ (le traduzioni) viene di volta in volta a in-trecciarsi, fondersi, distanziarsi con la specifica poesia del testo latino.

    Se uno dei principi del vertere (segnatamente, delle traduzioni ‘bel-le e infedeli’ in lingua italiana dell’epica latina)13 è la cosiddetta imita-tio cum variatione14 – o, per usare il titolo del bel libro di Eco (2003), un “Dire quasi la stessa cosa” –, nel caso che andremo ad analizzare un traduttore imita, variandolo, non solo il testo antico, ma anche quello di un altro traduttore di non molti anni precedente: un caso, insomma, in cui la dialettica tra fedeltà e riformulazione creativa si

    13 Sul concetto di imitatio cum variatione v. Nonni (2010: 13-14; 53). Sulle traduzioni ‘belle e infedeli’, v. Berman (1999 [2003]: 25-39, e in particolare: 25-26); sul tema sempreverde della dialettica tra ‘fedeltà’ e ‘infedeltà’ nell’opera-zione del tradurre i contributi sono numerosi (rimando, exempli gratia, a Terracini [1983: 9-10; 50, dove si cita il noto passo di Girolamo, Ep. LVIII, che teorizza la distinzione tra traduzioni che riportano verbum e verbo e altre che traslano sensum de sensu]). 14 V. Nonni (2010: 53), che – riferendosi alla traduzione della Farsaglia di Cassi – chiosa la definizione sopra citata: «[…] Cassi non resiste all’impulso di operare proiezioni, di farsi rapire da evocazioni, ricordi, dal rimosso, di ipotradurre o ipertradurre a seconda dei desideri interpretativi che sono suoi, e che spesso poco hanno a che vedere con Lucano. Il suo volgarizzamento è imitatio cum variatione: attraverso i tre piani operativi delle riduzioni, delle aggiunte e delle sostituzioni, esso si costituisce come opera a metà strada tra versione e ricreazione. È quella che Berman definisce traduzione ‘ipertestuale’, perché forza il testo di partenza attraverso tutta una serie di ‘tendenze deformanti’, intervenendo a vari livelli e secondo diverse tipologie connettive, ‘distruggendo’ la lettera dell’originale a esclusivo vantaggio del ‘senso’ e della ‘bella forma’».

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    moltiplica, in un gioco di specchi di poesia con poesia15. Il primo canto di Silio – tradotto, insieme al secondo, da un profes-

    sore di Liceo di Cremona, Cesare Beligoni (1805-1875) – è stato infat-ti, a mio avviso, ripreso in svariati punti16 dall’accademico Onorato Occioni (1830-1895)17 all’interno dell’ambizioso opus magnum della traduzione integrale del lungo poema latino.

    L’unica traduzione italiana precedente era quella, comunemente ri-tenuta mediocre18, di Padre Massimiliano Buzio (1765)19; tale stato 15 Per un approccio alla teoria della traduzione, campo ricchissimo di studi, v. Benjamin (1962: 37-50, in particolare: 41); Steiner (1984); Fortini (1989); Eco (2003); Buffoni (2004), e in particolare, in riferimento al lavoro che qui presen-tiamo, il saggio (contenuto nel volume) di Koch (2004). Sul problema specifico delle traduzioni dalle lingue classiche v. Valgimigli (1964); Nicosia (1991); Serianni (2015, in particolare p. 536: «Nessun poeta italiano, non solo nel Medioevo [diciamo fino a tutto l’Ottocento], se avesse voluto leggere un classico, l’avrebbe fatto senza leggerlo nel testo latino. Ben diverso è il quadro offerto, dal Cinquecento in avanti, dai grandi traduttori-scrittori. Qui non siamo certo in presenza di traduzioni di servizio, ma di opere con piena dignità letteraria, i cui autori erano ben consapevoli della gara che, di fatto, ingaggiavano col testo di partenza, anche in vista dell’ampliamento delle possibilità espressive del volga-re»). 16 Sacerdoti (2014a). 17 Su questa figura si veda il recente contributo di Piras (2013). 18 V. la recensione di Vitali (1841: 274-75, e in particolare p. 274: «[…] del Silio Italico, non essendovi altro che la traduzione del Padre Massimiliano Buzio, ed essendo pur poeta che non manca qua e là di bellezze, comechè, a dir di Plinio il Giovane, scrivesse majore cura quam ingenio, stava bene, che vi avesse anche di quello un traduttore, che fedele al testo, e fornito di una buona elocuzione e di un verso spontaneo e disinvolto, non solo invogliasse a leggere italiano un poeta latino, che sin qui era negletto, ma sì anche rimediasse ai difetti del Buzio; sopra i quali peraltro io mi sarei passato, poichè quando uno si pone a voltare qualche opera dall’una in un’altra lingua, e che per dar pregio alla propria, deprime le altre traduzioni, egli è, come si suol dire, un voler levare dalle nicchie i santi altrui per porvi i proprj». Cfr. anche Cusani (1854): «Durante la compilazione, sovente mi trovai posto fra due estremi, cioè un numero strabocchevole di traduzioni per alcuni autori, e una totale mancanza per altri. Sia abitudine scolastica, sia desi-derio di fama letteraria, gli italiani continuano a ritradurre i classici senza tregua; ma quasi nessuno si occupa a far conoscere i molti autori non mai finora tradotti,

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    dell’arte (la mancanza, all’altezza del sec. XIX, di una traduzione ita-liana stimata valida da studiosi e cultori dell’antico) ha indirizzato Beligoni verso un progetto di volgarizzamento dei primi due canti del poema secondo l’ambizioso piano, poi non realizzato, di coprire, col tempo, la traduzione di tutti e diciassette i libri, come dichiarato da lui stesso nella Prefazione20.

    Onorato Occioni, cui è stata dedicata nel 2013 una voce del DBI21, completerà trent’anni dopo l’opera del suo predecessore, con un vol-garizzamento prima parziale (1869; 1871) e poi completo (1878), che vedrà in seguito anche una ristampa riveduta e aggiornata (1889). In un contributo precedente, che contiene in nuce i risultati di questo lavoro22, ho analizzato e comparato le prefazioni ai due testi, che pre-sentano struttura e contenuti simili, così come ho commentato gli in-cipit delle due traduzioni, che propongono talune medesime scelte lessicali23. Tali corrispondenze non interessano i soli primi versi: co-me dimostreremo in questo lavoro, infatti, il primo canto dell’epos latino è reso da Occioni, nella versione del 1871, con significative

    quantunque siano importanti per gli studi storici e archeologici, e nel testo latino siano intellegibili a pochi […] Nel primo caso io non avea che a scegliere, e lo feci cercando di preferenza le versioni che unissero fedeltà ed eleganza […]». 19 La traduzione settecentesca è quella di Buzio (1765). Degno di menzione è il fatto che detractationes esplicite di traduzioni precedenti per far risaltare i pre-sunti (o veri) meriti delle proprie, e che sono operazioni condotte sia da Beligoni (1841: XX-XXX) che da Occioni (1871: V), ovvero espressioni evidenti di agonismo letterario, in certa misura inaugurato dagli autori antichi, risultano frequenti tra i traduttori di opere antiche (Nonni [2010: 41], a proposito del Lucano tradotto da Francesco Cassi), così come frequenti risultano dichiarazioni programmatiche dei traduttori (così in Nonni [2010: 43-44]). 20 Beligoni (1841: XXXII): «E i primi due canti che io vengo ora pubblicando non sono altro che un mezzo onde esperimentare il giudizio che ne recheranno i letterati, con disegno di pubblicare in appresso la versione dell’intero poema se il presente saggio venisse reputato meritevole di qualche lode». 21 Piras (2013). 22 Sacerdoti (2014a). 23 Riflessioni teoriche che ben collocano, mi pare, la ‘casistica’ dei passi che discuteremo in una ricorsiva tendenza comune sono in Condello (2014: 33).

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    riprese, soprattutto lessicali e stilistiche, della precedente traduzione meno nota a firma di Cesare Beligoni, pur con la presenza di un sus-sultorio andamento di autonomia e originale, creativa autorialità.

    Saranno dunque analizzati in maniera contrastiva saggi di testo lati-no e traduzioni italiane, a monte di un lavoro complessivo su tutti e tre i testi nella loro completezza. I casi che discuteremo risultano esem-plificativi di alcune tendenze: 1) il primo canto dei Punica si propone all’attenzione degli studiosi

    come testo di notevole interesse e come occasione di approfondi-mento in svariate direzioni ermeneutiche: dai sondaggi da noi con-dotti su lessemi-chiave e sulla cifra formale emergono aspetti origi-nali e significativi del textual frame dei Punica, che discuteremo;

    2) in un discreto numero di passaggi, Occioni riprende tout court Beli-goni nel campo del lessico e delle scelte semantiche, in maniera inequivocabile (per la ricercatezza dei termini usati e/o la distanza dall’originale latino);

    3) a livello stilistico, non sono rari i casi di (relativa, talvolta totale) convergenza della traduzione di Occioni con l’originale siliano e con la mediazione (pur non confessata) di Beligoni. Non saranno affrontati, se non tangenzialmente, temi interconnessi

    e stimolanti, come lo specifico uso dell’antico (letterario, politico...) sotteso alle operazioni del vertere ottocentesco24; come la collocazio-ne dei traduttori-poeti Beligoni e Occioni all’interno della tradizione letteraria italiana; le questioni testuali e filologiche relative al primo

    24 Su questo punto si veda almeno Bandinelli (1991: 365-366): «Le molteplici indagini alle quali ho accennato sono percorse trasversalmente da un filone che riguarda un aspetto particolare della fortuna del Classico: la sua ‘usurpazione’ a fini politici. Non è questa la sede, nonché per analizzare, nemmeno per indicare gli ultimi sviluppi del dibattito relativo all’evolversi del fenomeno dall’inizio dell’età umanistica alla fine dell’Ancien Régime. Quanto al periodo successivo, una larga presenza dei modelli greci e romani, di rado in funzione democratica, più spesso in chiave reazionaria, è osservabile dagli anni della rivoluzione france-se alla seconda metà dell’Ottocento… Tuttavia, poche stagioni del Nachleben dell’Antico risultano più ambigue della fase che va, per indicare delle date con-venzionali, dal congresso di Berlino (1878) alla caduta dei fascismi (1945)».

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    Lingue antiche e moderne 5 (2016) ISSN 2281-4841

    canto25. Dati gli interessi e date le competenze di latinista di chi scri-ve, il testo letterario di Silio sarà punto di partenza delle discussioni e centro propulsore di riflessioni condotte per saecula e per textus. 3. TRAME TESTUALI Lo stile del primo libro dei Punica di Silio è, secondo Feeney (1982: ii-iii), uno stile che presenta «sensitivity», «a most judicious choice of diction», «flavour of language», abilità nell’individuare «what is appropriate register for the matter in hand», ma anche creatività attraverso «a series of plays upon words and pointed uses of language»; laddove Lundström (1971: 7-9 e bibliografia ivi citata) e Helze (1996: 231-232 e bibliografia ivi citata) si sono espressi in modo differente a riguardo dello stile dei Punica, non solo relativa-mente al primo libro26.

    Vorrei muovere le mie analisi a partire da una voce ulteriore, quella di Vinchesi (2001: 68-72), la quale analizza, nel paragrafo “Stile e linguaggio” (ibid.) della sua “Introduzione” a Le Guerre Puniche della B.U.R., prima la posizione di Silio nei confronti della tradizione poe-tica latina, poi la creatività siliana, consistente in variazione di colori; amore per i chiaroscuri; sensibilità; ricerca del pathos e insieme chia-rezza e predilezione per uno «stile piano, che cela tuttavia una elabo-razione ricercata» (Vinchesi 2001: 71) e per alcune «impennate d’ef-fetto» (Vinchesi 2011: 72).

    25 Qualche cenno essenziale alla tradizione manoscritta dei Punica è, tuttavia, opportuno: su Silio e Poggio Bracciolini e sui codici dei Punica v. Reynolds – Wilson (1937); sul codice di Silio su cui ha lavorato Onorato Occioni v. Summers (1901); ma soprattutto, per un inquadramento generale della tradizione manoscrit-ta, si veda la recente messa a punto di Augoustakis (2010a: xi-xii). 26 V. Bennett (1978), anche se il contributo del giovane studioso risulta, a mio av-viso, meno maturo e convincente di quello di altri studi – citati supra – relativi allo stile di Silio.

  • 42 ARIANNA SACERDOTI

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    Dalle indagini che condurremo in questo lavoro, spesso incentrate sul livello formale della costruzione letteraria di Silio, emergeranno alcuni elementi ulteriori rispetto a quelli indicati supra, come ad esempio la predilezione dell’auctor latino per combinazioni sintagma-tiche inattese, che rispondono a logich