La Necropoli Portuense

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1 LA NECROPOLI PORTUENSE . . Antonello Anappo Municipio Roma XV - Arvalia Portuense

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LA NECROPOLI

PORTUENSE

.

.

Antonello Anappo

Municipio Roma XV - Arvalia Portuense

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2012 - Municipio Roma XV Arvalia-Portuense

www.arvaliastoria.it

1° ottobre 2012.

Hanno collaborato: Andrea Di Mario, Moena Giovagnoli.

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Cave romane Purfina Drugstore

A. Di Mario - M. Giovagnoli - A. Anappo

Cave romane, Purfina, Drugstore è un termine

convenzionale che descrive una fitta sequenza di interventi

umani (antropizzazioni) sulla collina di Pozzo Pantaleo.

La collina domina un crocevia naturale, tra la

direttrice per il mare (Via Portuense-Campana) e la rotta

interna verso il Tevere (torrente Tiradiavoli). Le fasi principali

di insediamento sono: cava di tufo (Epoca repubblicana),

necropoli portuense (I-IV sec. d.C.), abitato altomedievale,

una lunga fase di frequentazioni sporadiche, Stabilimento

Purfina (a cavallo tra le due guerre) e infine Drugstore (1966).

Quest’ultima fase è caratterizzata dalla problematica

incorporazione dei resti necropolari in una moderna

struttura commerciale, inizialmente aperta 24 ore su 24. Nel

2011 sono stati separati gli spazi dei morti dagli spazi dei

vivi; il sito sembra così aver trovato pace.

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La cava di tufo

Le cava di tufo è attestata sin dall’Epoca

repubblicana.

Vi si estrae un tipo particolare di roccia, chiamato

tufo rosso lionato, estremamente friabile e ricco di venature,

impossibile da tagliare in grandi blocchi e per questo

lavorato soprattutto in scaglie e polveri allo stato di

pozzolana. La cava ha l’aspetto di una latomìa (una cava a

cielo aperto, in cui gli sbancamenti a gradoni procedono a

partire dalla sommità, creando una sorta di cavea). È

presente probabilmente anche un traforo di gallerie, ma oggi

ne rimangono porzioni minime: un grottone presso via

Bianchi (utilizzato oggi come cantina) e parte di una galleria

a piano inclinato presso il Drugstore.

Del grottone è contenuta una descrizione nella Guida

dell’Agro Romano dell’agrimensore Eschinardi (1750): «A

destra si può entrare in una gran grotta, o spelonca, la quale

era anticamente un ergastolo da tenervi schiavi». L’Eschinardi

fa riferimento alla miserevole condizione delle maestranze

della cava, costituite da uomini in schiavitù a seguito di

reati: di giorno costretti al lavoro durissimo di cavatori di

pietre, in catene e marchiati a fuoco; di notte reclusi nel

grottone per evitarne la fuga. Al Museo Nazionale Romano

sono conservati dei collari in ferro, ritrovati in zona, i quali

riportano con poche varianti la triste medesima epigrafe: «Se

fuggo bastonami e riportami al padrone».

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La galleria a piano inclinato misura in origine circa

200 metri e congiunge la cavea con la sottostante Via

Portuensis. La galleria (che in alcuni testi è indicata anche

con il nome di pozzo obliquo) è probabilmente percorsa da

una rampa per il trasporto dei pesanti materiali, e sfrutta la

pendenza per ridurne il peso attraverso la forza di gravità. La

galleria non è documentata che nella sua parte iniziale (a

causa dell’edificazione del condominio sovrastante) e nella

parte finale (che esce dove oggi si trova il Drugstore, tra la

piccola Tomba C e il grande Colombario).

La Necropoli Portuense

A metà del I sec. d.C., con l’apertura al traffico

carrabile del nuovo ramo della Via Campana, che proprio

sotto la collina di via Belluzzo si distacca dal vecchio

tracciato, il fianco della collina si rende disponibile per l’uso

cimiteriale. Vengono realizzate dapprima stanze ipogee e

semiipogee scavate direttamente nel tufo, per poi arrivare ad

un utilizzo estensivo del terreno, che soppianta

progressivamente la cava.

Ad oggi gli studiosi sono soliti dividere la necropoli in

quattro settori: I settore (via di Pozzo Pantaleo, Necropoli di

Pozzo Pantaleo); II settore (via Belluzzo, ~ del Drugstore); III

settore (via Ravizza, ~ di via Ravizza); IV settore (via Bianchi,

~ di Vigna Pia).

Il I settore viene individuato nel 1947, quando, in

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occasione di alcuni sbancamenti seguiti alla parziale

dismissione della fabbrica Purfina a ridosso della ferrovia,

emergono cinque stele funerarie appartenute a guardie scelte

di Nerone (Cippi dei Germani) e viene segnalato un settore

cimiteriale con fosse e recinti per la deposizione di anfore

cinerarie. Segue, nel 1951 il ritrovamento di due interi

sepolcri: la tomba affrescata dei Campi elisi e la tomba

decorata in stucco dei Geni danzanti. Entrambe sono

intagliate dal tufo e trasportate al Museo Nazionale Romano,

insieme ai cippi dei Germani.

Gli scavi sistematici su questo settore iniziano nel

1983 e continuano, a più riprese, fino al 1998. Da essi

emergono un edificio funerario a doppia camera (1989,

indagato sommariamente), un’intera fila di tombe (Tombe

Portuensi, 1996) e un mausoleo circolare (Pozzo Pantaleo,

1998), forse identificabile con la cappellina medievale di San

Pantaleo. Nel 2010, a seguito di nuovi ritrovamenti in

occasione della realizzazione di un nuovo sottopasso

ferroviario, inizia una nuova campagna di scavi: di essi sarà

possibile riferire a breve. Nello stesso anno vengono svolti

anche dei sondaggi preventivi sulla vicina via della Magliana

Antica: da essa non emergono ritrovamenti e nell’area

vengono realizzati un parco giochi e un parcheggio interrato.

Il II settore, contiguo al I, viene individuato nel 1966,

durante l’edificazione del complesso condominiale di via

Belluzzo. Emergono altre cinque tombe, chiamate ciascuna

con una lettera dell’alfabeto, in ordine di ritrovamento:

Tomba A (Tomba di Ambrosia), B (~ delle lesene), C (~

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bianca), D (Colombario Portuense) ed E (~ della Vaschetta).

Nella maggiore di esse, il Colombario, è stato rinvenuto un

sarcofago in marmo (Sarcofago di Selene), trasportato al

Museo Nazionale Romano. La sistemazione delle cinque

tombe avviene nel 1982.

In quello stesso anno viene riconosciuto come parte

della Necropoli Portuense anche un III settore, posto a 400

metri di distanza dai primi due, su via Ravizza, dal quale

emergono due tombe: la tomba 1 (~ dell’airone), e la tomba 2

(~ di Epinico e Primitiva).

Un IV settore infine viene individuato nel 2000, sul

versante opposto della collina rispetto ai primi due settori,

presso via Bianchi durante la costruzione di un parcheggio

interrato. Da esso emergono due nuclei di edifici funerari: un

colombario ad uso collettivo ed un sepolcro familiare, detto

Tomba di Atilia. La sistemazione dell’area si conclude nel

2006.

L’abitato altomedievale

L’utilizzo della necropoli cessa repentinamente,

dall’oggi al domani, nel terzo decennio del III sec. d.C.,

probabilmente a seguito di una grande alluvione: intense e

prolungate piogge devono aver provocato un esteso

smottamento di argille dalle colline di Monteverde,

accompagnato dallo straripamento del Tevere. Il risultato è

stato il deposito sopra la necropoli di uno spesso bancone

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che ha reso impraticabili le aree a ridosso della Via

Portuense e ha segnato la fine dell’utilizzo necropolare.

Questa informazione è stata acquisita nel 1982,

grazie ad uno studio stratigrafico del terreno nell’area tra la

Tomba C e l’ingresso della galleria a piano inclinato. Lo

strato superiore del terreno esaminato si compone di uno

spesso strato di argille delle Colline di Monteverde, tipologia

di terreno estranea all’area ed importata qui dalla grande

alluvione. Al di sotto di questo strato si trova un terreno di

epoca precedente, relativo alla fase di attività della necropoli,

datato a partire dalla metà del I sec. (terreno di colore scuro

ricchissimo di cocciame e altri frammenti ceramici). Al di

sotto vi è uno strato ancora più antico, privo di frammenti

ma ricco di detriti tufacei: è questo il terreno relativo alla fase

di utilizzo come cava in Epoca Repubblicana.

Perduta la funzione di necropoli l’area continua a

vivere come postazione commerciale lungo la Via Portuense,

sul lato della collina che guarda all’attuale via Quirino

Majorana. Peraltro le funzioni commerciali e pubbliche

dell’area non sono successive alla necropoli, ma convivono

con essa già dal I secolo d.C.

Le variegate testimonianze del vissuto dell’area sono

indagate a partire dal 1983, e consistono in un tratto di

strada basolata (Tratto di Via Campana #1), un edificio

termale (Terme di Pozzo Pantaleo) e un edificio identificato

come una probabile stazione di sosta (Mansio di Pozzo

Pantaleo).

Una successiva campagna di scavi inizia nel 1998 e

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permette di attestare con certezza la frequentazione fino ad

oltre il IV sec. d.C., in periodo paleocristiano, e di ipotizzare

una frequentazione anche successiva, già altomedievale.

Di sicuro l’area è nuovamente abitata nell’anno 1130,

quando risulta appartenere, secondo documenti d’archivio

della chiesa di Santa Prassede, ad un tale di nome Pantaleo.

Il Catalogo di Torino vi riporta anche la presenza della

piccola chiesa di San Pantaleo fuori Porta Portese. Di questa

chiesina, a parte il nome, non si conosce altro.

Nella mappa di Eufrosino della Volpaia del 1547 la

chiesina giù non compare più, ma l’immaginetta di un

fontanile e di un tabernacolo della buona via (di quelli che

ancora oggi, nei paesi, accompagnano i visitatori ad ogni

bivio) lascia intendere che una certa frequentazione vi fosse

ancora. Probabilmente in questo periodo cessa di esservi un

abitato stabile, e si ha un popolamento sparso nelle

campagne.

Frequentazioni sporadiche

Le tombe portuensi continuano ad essere conosciute

e visitate di tanto in tanto da curiosi, uomini di scienza e

illustri viaggiatori. Lo studioso Nibby riporta che tra essi vi

fu anche lo scultore Gianlorenzo Bernini, in cerca di

ispirazione. Il Bernini rimane impressionato dalla ricchezza

delle antiche tombe, che, al punto che riporta Nibby, le volle

«imitare ne’ frontistizj del portico di San Pietro».

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Si tratta probabilmente di un’esagerazione, ma

sappiamo che il Nibby, visitando a sua volta i sepolcri

portuensi nel 1827, ne rimane anch’egli impressionatissimo

e così li descrive: «Sepolcri nobilissimi, adorni di stucchi e

pitture, ed uno tra gli altri [...] con alcune urne dentro, nelle

quali era significato il nome del padrone che le fece fare».

Nelle parole del Nibby sembra di poter riconoscere la Tomba

dei Geni Danzanti (stucchi), quella dei Campi elisi (pitture) e

infine il Colombario Portuense (nomi graffiti).

Alla fine dello stesso secolo visita approfonditamente

la zona un altro illustre visitatore, l’archeologo Lanciani. Egli

vi documenta una notevole quantità di materiali, ancora

presenti sul luogo: cippi, lastre marmoree con iscrizioni,

sarcofagi, frammenti di sculture, mosaici e suppellettili

funebri. Lanciani inoltre riconosce i manufatti civili per lo

scolo delle acque piovane verso il fosso di Pozzo Pantaleo.

Lo Stabilimento Purfina

Nel Novecento nell’area si insedia lo stabilimento

Purfina, sul quale non sono disponibili approfondite

informazioni.

Un aneddoto popolare vuole che la torre principale

della fabbrica poggi le fondazioni sul pozzo, appartenente

all’originaria struttura della cava, dalla struttura a piano

inclinato esteso per oltre 200 metri. Probabilmente i

costruttori dello stabilimento scelsero non a caso di

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posizionare le fondamenta della struttura più imponente

della fabbrica nel punto più profondo della latomia,

recuperando il cono del pozzo.

Il Drugstore

A seguito della dismissione dello stabilimento Purfina

viene costruito, nel 1966, l’edificio civile noto con il nome

popolare di Drugstore, localizzato tra la Via Portuense, via

Belluzzo e il terrapieno della ferrovia.

Costruito con un parziale sbancamento della collina,

lo stabile ingloba negli scantinati i resti di cinque ambienti

funerari della Necropoli Portuense. Gli ambienti vengono

seriamente danneggiati in fase di costruzione: e quando la

Soprintendenza interviene non può fare più nulla per

impedire lo scempio.

Gli ambienti funerari rimangono chiusi al pubblico

fino al 1982, quando i piani inferiori, fino ad allora adibiti a

cantine e garages, vengono trasformati in locali commerciali

aperti al pubblico. La Soprintendenza ne segue la

trasformazione con una campagna di studi, imponendo ai

proprietari la realizzazione di vetrate di protezione ed infine

disponendo il trasporto al Museo Nazionale Romano dei

materiali più preziosi.

A lavori conclusi viene aperto al pubblico il Drugstore

Museum, con ingresso dal civico 313 della Portuense. Le

tombe romane si presentano in quell’anno circondate dalle

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affollate scansie di un supermercato all’americana, nel quale

è possibile acquistare ogni genere di prodotto, 24 ore su 24.

Questa struttura commerciale, che ha il nome di Drugstore,

ha finito per diventare il nome popolare dell’intero complesso

e sopravvive anche oggi che il supermercato all’americana

non esiste più.

Tuttavia la convivenza tra le funzioni commerciali (il

c.d. mondo dei vivi) e la necropoli romana (mondo dei morti)

si rivela da subito un esperimento infelice: la necropoli,

specie nelle ore notturne e nella stagione fredda, finisce per

diventare un bivacco per senza fissa dimora. Spesso il

Drugstore finisce sui giornali per episodi di degrado e

qualche volta persino di violenza e criminalità. Dopo anni di

difficoltà la struttura viene chiusa.

Segue un delicato intervento di ristruttuazione,

ispirato al criterio di separare lo spazio dei vivi dallo spazio

dei morti. La zona commerciale viene resa del tutto

autonoma, mediante la costruzione di muri (oggi il

supermercato è stato sostituito da uno store di elettronica e

da un’agenzia di turismo), mentre la zona archeologica, il cui

ingresso è ora spostato al civico 317, ospita uffici della

Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. La

struttura, ribattezzata Drugstore Gallery, dispone di spazi

per attività culturali aperti al pubblico.

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Cippi dei Germani

I Cippi dei Germani sono cinque stele funerarie

appartenute a guardie scelte di Nerone (corpores custodes),

oggi conservate al Museo Nazionale Romano.

Alla metà del I sec. d.C. i Germani godono dello status

di peregrini (stranieri di condizione libera) e sono organizzati

in corporazioni paramilitari, chiamate Cohortes Germanorum.

Esse sono a loro volta organizzate in decuriae. La decuria è

una speciale famiglia di 10 individui maschi dai legami

strettissimi, tomba compresa: l’area ex Purfina ha restituito

nel 1947 cinque cippi funerari di altrettanti fratelli d’armi,

ciascuna della misura due metri. L’epigrafe cita il nome, la

sua famiglia d’armi e il confratello che ne diviene erede. Di

cinque cippi solo tre sono integri, e restituiscono i nomi di

Indus, Gamo e Fannius. Quest’ultimo è il più giovane

(appena 17 anni) mentre Indus è il più anziano (35 anni).

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Noi, guardie di Nerone

A differenza dei primi corpores custodes - schiavi

devotissimi di origine germanica, di proprietà

dell’Imperatore, addetti alla sua incolumità personale - ai

tempi di Nerone (54-68 d.C.) le milizie scelte sono divenuti

un corpo paramilitare professionale: sono composte di

stranieri di condizione libera (peregrini), organizzati in coorti

(Germanorum cohortes).

L’unità organizzativa delle coorti è la decuria, speciale

famiglia d’armi composta di dieci individui. Ogni decuria ha

vincoli strettissimi assimilabili alla parentela di sangue, che

unisce i componenti dal momento della cooptazione

(adozione di un nuovo fratello per voto unanime degli altri

nove), al momento della difficoltà o dell’infermità (con

obblighi di solidarietà, anche patrimoniale), fino momento

della sepoltura (a carico della coorte).

L’area ex Purfina a Pozzo Pantaleo ha restituito le

stele funerarie di cinque germani, uguali fra loro nella forma:

due metri circa di altezza e con la sommità stondata.

Nell’epigrafe esse citano il nome del milite, la sua decuria e il

fratello d’armi che ne diviene erede, e recano la sobria

decorazione di una corona di foglie, a rappresentare a tutti la

valorosa condotta marziale.

Di cinque stele solo 3 sono integre, e conservano i

nomi di Indo (Indus), Gamone (Gamo) e Fannio (Fannius).

Fannio ha appema 17 anni e fa parte della decuria di Cotino.

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Indo è il più anziano. La sua epigrafe così recita: «Indo,

straniero di condizione libera, guardia imperiale della decuria

di Secondo, è morto a 35 anni e qui giace. Il fratello d’armi

Eumene diviene suo erede e pone questa lapide».

Riportano concordemente Giovanni di Antiochia

(frammento 91n) e Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche, XIX)

che furono proprio i Germani a favorire l’uccisione di Nerone.

Svetonio (Vita di Galba, 12) riferisce che Galba, temendo di

fare la stessa fine del predecessore, li abolì: «Germanorum

cohortem dissolvit ac sine commodo ullo remisit in patriam» (li

sciolse e li rimandò a casa senza buonuscita). Le guardie

scelte però, in quei tempi di turbolenze, non sono facilmente

rimpiazzabili dai ranghi dell’esercito regolare, al punto che

Traiano ne ripristina la funzione, costituendo il nuovo corpo

degli equites singulares.

Le cinque stele sono oggi al Museo nazionale romano,

nel Giardino delle Terme.

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Tomba dei Campi Elisi

La Tomba dei Campi Elisi è un sepolcro del II sec.

d.C., le cui pareti affrescate raffigurano le beatitudini dei

giusti nel paradiso pagano.

La tomba viene realizzata da due genitori colpiti dalla

prematura perdita dei due figli. I giovani compaiono

raffigurati con fedele realismo in medaglioni all’interno di

tabernacoli, e vengono evocati più volte nelle scene

pittoriche: il passaggio del fiume Lete e le quattro scene dei

giochi beati (il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il

trigon); i genitori compaiono nella scena di mestizia e nel

banchetto dei giusti. Completano gli affreschi la coppia di

pavoni, la coppia di caproni, le quattro stagioni. La tomba è

scavata nel tufo e presenta 26 nicchie, sei fosse e due

sarcofagi. È stata scoperta nel 1951. È stata intagliata e

trasportata al Museo Nazionale Romano.

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Alla ricerca del tempo migliore

La Tomba dei Campi Elisi nasce da un incolmabile

dolore: quello di due genitori della prima metà del II sec. d.C.

che sopravvivono alla morte improvvisa dei due figli, nell’età

della preadolescenza.

I Romani danno un nome preciso a questo triste

evento: «mors iniqua», ovvero morte ingiusta. Si tratta di uno

dei lutti più difficili da elaborare per un genitore dell’Antica

Roma. Se la mortalità alla nascita o nella prima infanzia è

un fenomeno così frequente nel mondo antico da essere

persino accettato come un fatto naturale, vedere invece

morire un bambino nella fascia d’età a ridosso della pubertà

- ma senza esservi ancora entrato - è considerato una grande

iattura, un mancato premio a conclusione di un cammino

costellato di sforzi.

I genitori, committenti di questa tomba sulla Via

Portuensis, superano questa dolorosa perdita

commissionando a ignoti pittori una complessa sequenza di

dieci scene affrescate: le ultime tre si rifanno all’iconografia

funeraria tradizionale (i pavoni, i caproni, le quattro stagioni),

mentre le prime sette, ritenute di grandissima importanza

dagli studiosi, hanno insieme contenuto biografico e didattico:

esse spiegano infatti, con la semplicità delle immagini, come

è fatto e come funziona il paradiso pagano. Esse descrivono,

con grande realismo, la vita spensierata dei due bambini

(fatta di giochi, della costruzione delle prime relazioni sociali,

di esplorazione del mondo), e dei genitori (dal consolidato

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posizionamento sociale); e tramandano così ai posteri il

messaggio consolatorio che ai giusti, nel paradiso pagano, è

consentito continuare a vivere nel proprio tempo migliore.

La particolarità della tomba è infatti la presenza fin

dall’origine di due finestrelle, ai lati della porta d’ingresso,

attraverso le quali ciascuno dei molti passanti della Via

Portuensis avrebbe potuto ripercorrere la storia dei due

giovani e insieme contemplare per immagini la bellezza del

paradiso. Scrive il sovrintendente Aurigemma, che negli Anni

Cinquanta studiò la tomba: «Nei Campi elisi regna eterna

primavera. Ogni dolore è ignoto. Ignota è la vecchiaia. La vita

beata attende i giusti dopo la morte. Chi vi perveniva

conservava l’età in cui aveva goduto la maggiore felicità». I

Romani ritenevano insomma che le anime dei giusti

godessero nell’aldilà di uno stato di grazia e di eterna

giovinezza.

I ritratti di famiglia

La prima scena, chiamata I ritratti di famiglia, è una

sorta di fermo immagine sulla composizione del nucleo

familiare al momento della morte dei due giovani. Si

compone di tre parti: due medaglioni circolari e la scena di

mestizia.

I due medaglioni circolari sono dei ritratti, di

accuratissimo realismo fisiognomico, dei due giovani defunti:

un maschio e di una femmina. I medaglioni sono posti nei

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timpani di due tabernacoli nella parete di fondo, ospitanti

ciascuno le ceneri dei due giovani.

La scena di mestizia, di piccole dimensioni, si trova

sotto un terzo tabernacolo (in posizione centrale tra i due

tabernacoli dei figli, riservato alle ceneri dei genitori quando

sarà il loro momento). La scena raffigura i due coniugi,

seduti e raccolti in una sommessa conversazione, facendosi

forza l’uno con l’altra. Lui indossa una tunica scura; la

consorte è in tunica chiara. Essi sono raffigurati da soli,

senza altri figli o prossimi congiunti a sostenerli nel dolore.

La scenetta di solitudine rivela il dramma familiare di non

avere altri figli che possano continuare la discendenza: i

coniugi sanno che, perduti gli unici due figli, il nome della

famiglia si estinguerà.

La ricchezza della tomba autorizza a pensare ad una

famiglia decisamente benestante, proveniente forse dal

prossimo abitato del Trans Tiberim, dotata anche di un folto

stuolo di servitori. Alcuni graffiti nello stucco della parete di

sinistra ne tramandano i nomi: gli schiavi Timius frater

Horinae (Timio fratello di Orinna), Pardula anima bona

(Pardula dal buon carattere), e un’ancella di nome Asclepia.

La ricchezza della famiglia è attestata anche dal gran

numero di servitori affrancati, cui è stata cioè donata la

libertà: i liberti Alexander, Philetus, Aphrodisia, Eutychia,

Felicissima e Protus Zosimus. Il piccolo cippo marmoreo di

quest’ultimo, ritrovato nella tomba, cita il nome del suo

patrono, Publius Aelius, che con buona probabilità è anche il

pater familias costruttore della tomba e il padre dei due

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giovani defunti.

Complessivamente schiavi e liberti devono essere tra i

15 e i 23, perché nella parete di sinistra è presente un

colombario con 15 nicchie (disposte su tre file da cinque, in

gran parte inutilizzate), e altre 8 nicchie sono sparse nella

parete frontale. La tomba è nel complesso piccola (misura

soltanto 9 metri quadri) e, al momento della scoperta gli

archeologi vi hanno individuato anche sei fosse per

l’inumazione e due sarcofagi, aggiunti successivamente.

La navicella sul fiume Lete

La seconda immagine, chiamata Navicella sul fiume

Lete, è collocata nel soffitto sopra la porta d’ingresso,

racchiusa da una cornice.

Prosegue idealmente la narrazione, raccontando il

viaggio dei due giovani defunti verso la dimensione beata dei

Campi Elisi. La scena propone un florido paesaggio fluviale,

con una parete rocciosa come scenario, con un pino

marittimo a fare da quinta prospettica. Il fiume è il Lete, il

fiume dei Campi Elisi, speculare all’Acheronte dell’Ade. Su di

esso naviga una graziosa barchetta a vele gonfie, nell’atto di

accostarsi delicatamente alla riva, con un uomo intento alle

manovre. È il nocchiero dei Campi Elisi, figura speculare a

Caronte. Sulla riva, ad attenderlo, ci sono le due figurette di

due giovani: una è impiedi, quasi a salutare il nocchiero;

l’altra è seduta sulla sponda in serena attesa. Il

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sovrintendente Aurigemma vede in questa rappresentazione,

come spesso accade nei contesti funerari, anche la citazione

colta di un famoso episodio omerico: Ulisse nel Paese delle

Sirene.

La narrazione prosegue a questo punto su una terza

parete, la parete di destra, dove sono collocate in sequenza

quattro immagini, le quali insieme prendono il nome di

Scene dei giochi beati. Ai due giovani, che in vita si sono

condotti secondo pietas e iustitia - la pietas è il rispetto delle

leggi divine; la iustitia è il rispetto delle leggi degli uomini -,

una volta giunti nei Campi Elisi, è concessa la ricompensa di

rivivere il loro tempo migliore. Le preziosissime scene, che

sono insieme un flashback della vita passata e una

proiezione di cosa li aspetta nei Campi Elisi, misurano

complessivamente circa 2 metri e sono inventariate con il

numero AFS331131. Si tratta di un rettangolo orizzontale, in

campo bianco, sormontato da un festone a tema vegetale.

All’interno sono dipinte in sequenza quattro immagini,

ognuna delle quali raffigura un gioco infantile. Esse sono,

nell’ordine: il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il trigon.

Il plaustrum

La terza immagine, chiamata Il gioco del plaustrum,

raffigura un giovane svestito, con le sole pudenda coperte da

un panno. La scena sarebbe di per sé poco significativa, se

non fosse per il curioso oggetto di alta tecnologia che il

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ragazzo conduce in corsa: un plaustrum, cioè un carro in

miniatura, sorprendentemente simile ad un moderno

monopattino. Pare che si tratti dell’unica testimonianza

visiva di un monopattino pervenutaci dall’antichità.

Il plaustrum è descritto in vari testi dell’antichità: a

quattro, una o tre ruote. I più comuni sono quelli a quattro

ruote, vere e proprie miniature dei carri più grandi, trainati

da animali di piccola taglia, legati con un laccio di cuoio: in

genere cani o caprette, ma non mancano testimonianze

fantasiose di carretti volanti trainati da oche, colombi e

fenicotteri, o racconti di carri trainati da servi o, a turno, da

altri compagni di giochi. Con un plaustrum i monelli fanno

scorribande ad alta velocità, e non sempre la corsa finisce in

maniera tranquilla: spesso le bestiole si divincolavano dal

laccio, o qualche amico buontempone lascia andare il

compagno di giochi proprio in prossimità di una discesa.

C’è poi un altro tipo di carro a ruota unica, che

consiste in un asse di legno o un semplice bastone (che

funge da timone), con all’estremità una forcella nella quale è

montata una sola ruota. I bambini costruiscono i carri

monoruota in casa. Stare in equilibrio sul bastone

monoruota non deve essere un’impresa facile, ma pare che

questo gioco abbia goduto di una certa popolarità.

Infine la terza tipologia è una variante della seconda,

in cui al timone viene aggiunto anche un telaio orizzontale di

base, sorretto da altre due rotelle posteriori. Su questo

spleciale plaustrum a tre ruote la trazione non è data da un

animale, ma dal suo stesso conducente, che con una gamba

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si tiene in equilibrio sul telaio, e con l’altra sospinge la sua

corsa. Si tratta di un oggetto straordinariamente moderno,

che potremmo tranquillamente trovare in vendita in un

mercatino artigianale di oggi.

Gli astragali

La quarta immagine, chiamata Il gioco degli astragali,

raffigura un gruppetto di quattro ragazzini seduti per terra,

con lo sguardo rivolto verso un quinto, all’impiedi, nell’atto

di lanciare in aria dei piccolissimi oggetti. Essi sono stati

riconosciuti dagli studiosi come astragali, sorta di

succedaneo povero (e diffusissimo) dei moderni dadi.

L’astragalo è un ossicino del tarso posteriore dei

caprini, situato tra calcagno e bicipite, dalla forma cubica. A

differenza dei dadi ognuno di questi ossicini cubici ha sole

quattro facce utili, in quanto le altre due sono di forma

arrotondata e non stanno in equilibrio. Le quattro facce utili

sono a loro volta diverse fra di loro: la faccia del cane è

perfettamente piatta e corrisponde all’1 dei dadi moderni; la

faccia del cavo è concava e corrisponde al 3; la faccia del

dorso è convessa e vale 4; infine l’ultima, la faccia di Venere,

è anch’essa perfettamente piatta: è la più desiderata e vale

ben 6 punti. La somma delle facce opposte dà sempre 7;

mancano il 2 e il 5.

Se con gli astragali gli adulti praticano il gioco

d’azzardo, vincendo o perdendo delle fortune, ai più giovani

Page 25: La Necropoli Portuense

25

è consentito un innocente gioco di iniziazione, chiamato

gioco delle tre prove. Il gioco è una sequenza di tre esercizi di

destrezza, di livello via via crescente: vince il primo che le

porta a termine tutte e tre senza errori. La prima prova

consiste in esercizi di lancio. Si tratta di tirare in aria con la

mano sinistra cinque astragali, facendone cadere almeno

uno sul dorso della mano destra. È possibile recuperare da

terra gli ossicini caduti, effettuando lanci di recupero,

durante i quali sono richiese posizioni acrobatiche

complesse, tutte minuziosamente descritte da testi

dell’antichità. Nella seconda prova gli astragali sono poggiati

su un piano (generalmente per terra), e l’abilità consiste nel

manipolarne quattro, componendo diverse sequenze (ad

esempio la prima è dorso-cavo-cane-Venere), nel breve tempo

del lancio in aria del quinto astragalo. Si arriva così alla

terza e più difficile prova: effettuare dei veri e propri esercizi

ginnici - chiamati raffica, cerchio e pozzo - anch’essi nel

breve tempo di un volteggio in aria di un quinto astragalo.

Secondo un’altra interpretazione, però, gli oggetti

scuri nell’affresco non sono astragali, ma le popolarissime

noci, utilizzate dai giovani della Roma imperiale per

un’infinità di giochi: prove di destrezza come negli astragali,

percorsi simili alle moderne biglie, oppure una sorta di

antenato del gioco del bowling, tirando una noce contro una

barriera (cappa) di altre noci. Conosciamo i giochi con le noci

attraverso il poeta Ovidio, che dedica un’intera opera all’età

dei giochi, chiamandola emblematicamente Nuces (Le Noci).

Il gioco preferito del giovane poeta è il Ludus castellarum (il

Page 26: La Necropoli Portuense

26

gioco delle torri). Si tratta di comporre delle torri disponendo

a triangolo tre noci con sopra poggiata una quarta, fino a

comporre un’intera cintura di torri, che simulano un castello

da assediare: l’avversario, lanciando ripetutamente un’altra

noce come fosse un ariete, deve espugnare il castello,

abbattendone una ad una tutte le torri. L’utilizzo delle noci è

insomma così popolare e multiforme che esiste addirittura

una frase comune, «relinquere nuces» (smettere di giocare alle

noci), per indicare il passaggio dall’età dei giochi

all’adolescenza.

La moscacieca

La quinta immagine, chiamata Il gioco della

moscacieca, mostra tre giovani in tunica corta. Uno di essi

ha gli occhi coperti da una mano, mentre l’altra è protesa

verso gli altri due giocatori, che cerca di afferrare.

Il nome latino del gioco è musca eburnea, che

letteralmente significa mosca di bronzo e fa riferimento alla

sgradevolissima mosca cavallina, dall’addome iridescente e

capace di riflettere i colori, proprio come le superfici a

specchio del bronzo. Il gioco simula la caccia a questo

animale: un giocatore è il cacciatore mentre gli altri sono

mosche cavalline da acchiappare.

A differenza della versione moderna del gioco, che si

pratica a viso bendato, al cacciatore dell’antichità è

semplicemente richiesto di mettersi una mano davanti agli

Page 27: La Necropoli Portuense

27

occhi, confidando nella sua onestà. Il regolamento ci è

tramandato da uno scritto di Pollione. Il cacciatore si copre il

viso e i compagni lo fanno girare più volte su se stesso, fino a

fargli perdere l’orientamento. Mentre ruota recita una

filastrocca, che in italiano suona così: «Acchiappo la mosca di

bronzo». I compagni gli rispondono «La cerchi, la trovi, ma non

l’acchiappi», in modo che il cacciatore, attraverso il senso

dell’udito, possa individuarne la posizione, lanciandosi

subito dopo in un goffo inseguimento tra sberleffi grossolani.

Racconta Pollione che è consentito sferrare qualche colpetto,

dolorosi calci sul sedere o, persino scudisciate con frustini di

cuoio. Finché, fatalmente, qualche ardimentoso si avvicina

troppo al cacciatore, e la mosca viene presa.

Come per il gioco precedente esistono altre letture.

Potrebbe trattarsi di un gioco simile, chiamato «muida»,

antenato della moderna acchiapparella.

Oppure, se leggiamo nei movimenti delle braccia il

gesto scenico di un oratore, potrebbe anche trattarsi di un

gioco molto diverso - raffinato e forse persino noioso per i

tempi d’oggi -, chiamato «iudices» (gioco dei giudici). Elio

Sparziano riferisce che questo gioco poco rumoroso è l’unico

consentito durante le cerimonie ufficiali, le processioni e i

contesti altolocati. Si tratta di un gioco di imitazione degli

adulti, in cui i piccoli a turno interpretano i ruoli di giudice,

imputato, avvocati e testimoni in un immaginario processo,

raccontando con compostezza delle storie inventate e

incredibili, rendendole verosimili: il giudice ha il delicato

ruolo di smascherare l’impostore o premiare le capacità di

Page 28: La Necropoli Portuense

28

affabulazione.

Il trigon

La sesta immagine, chiamata Il gioco della palla,

raffigura tre ragazzini in tuniche variopinte posizionati ai

vertici di un triangolo, con il braccio destro alzato a colpire

una palla fluttuante nell’aria. In questa scena è stato

riconosciuto il gioco sportivo del trigon, che è una specialità

a tre giocatori, simile alla moderna pallavolo, del comune

gioco dello sphaeristerium (il gioco della palla).

La palla usata per i giochi aerei è la pila trigonalis; è

una palla dura, realizzata con un sacco di pelle conciata,

imbottito di sabbia o sassolini. Caratteristica del gioco è

l’obiettivo comune e collaborativo di mantenere la sfera

sospesa in aria il più a lungo possibile, finché, compiuta una

determinata sequenza di palleggi, uno dei giocatori può porvi

termine con un lancio in schiacciata. Il trigon è ancora oggi

praticato nelle scuole italiane, con il nome dello

schiacciasette.

Il trigon era un gioco leggero, praticato dai ragazzi più

giovani o dalle ragazze. Ai maschi, in genere più grandi di

età, era invece assai gradito un altro gioco con la palla, ben

più invasivo: il pulverulentus. Il polverulentus (letteralmente:

gioco che genera nuvole di polvere) si gioca in grandi spazi

sterrati con una palla dura, l’harpastum (simile alla pila

trigonalis ma più piccola), con un regolamento ibrido tra il

Page 29: La Necropoli Portuense

29

calcio e il rugby, in cui bisogna contendersi il possesso di

una palla e scagliarla infine nel settore avversario. Agli

infanti è riservata una palla più grande e leggera, la

paganica, riempita delle piume di animali da cortile. Esiste

infine un quarto tipo di palla, gonfiata di aria, il follis, con

cui giocano adulti e persino anziani, soprattutto all’interno

delle terme. Con il follis si pratica il ludere expulsim (oggi:

palla respinta o palla prigioniera). Ma il follis è un lusso

davvero per pochi: nella Tomba dei Campi Elisi per

rappresentare la felicità del paradiso basta una pila

trigonalis.

Con il trigon si chiude la sequenza dei giochi beati. Va

detto che nella Roma imperiale vi sono almeno altri tre

giochi, popolarissimi, che, sebbene non compaiano nella

tomba portuense, meritano comunque di essere citati: i galli,

la morra, i bellatores. Plutarco racconta delle guerre tra galli.

Ogni monello ha il suo galletto da combattimento, sul quale

scommette in combattimenti dal grande pathos. Essi

possono concludersi con la morte del galletto, e il padroncino

piange sonoramente quando il suo galletto ha la peggio.

Molto diffuso è anche il gioco della morra, che consiste

nell’aprire repentinamente la mano mostrando un certo

numero di dita (da 0 a 5), cercando di indovinare la

sommatoria dei tiri di tutti i giocatori. Nelle famiglie più

ricche sono infine presenti delle scacchiere, di varie forme e

dimensioni, alle quali si gioca con modalità di complessità

crescente: come nel moderno gioco del filetto; in maniera

simile alla dama (gioco delle dodici linee) o agli scacchi

Page 30: La Necropoli Portuense

30

(Latrunculi o Bellatores). Per i Romani, insomma, giocare era

l’anticipazione in terra della beatitudine del paradiso.

Il banchetto dei giusti

La settima scena, chiamata Il banchetto dei giusti,

torna ad evocare l’immagine dei genitori. Ad essi - proprio

come i figli - spetta di godere nei Campi Elisi del proprio

tempo migliore. Il paradiso pagano è una dimensione senza

tempo, in cui ognuno vive nell’età che gli ha dato la maggior

felicità, dilettandosi con le attività più gradite. E se per i figli

il tempo migliore è quello dei giochi innocenti, per Publio Elio

e la sua amata il tempo migliore è l’età dei vent’anni, subito

dopo il matrimonio: li ritroviamo ritratti in un momento di

banchetto, nell’atto di distribuire agli altri commensali le

poste iniziali per il gioco d’azzardo.

La scena (posta al di sotto del lucernario di destra)

raffigura i due coniugi sdraiati su un elegante triclinio con

spalliera. La moglie ha accanto a sé la serva prediletta, e le

impartisce con autorevolezza alcuni ordini, puntando l’indice

verso un tavolino a tre piedi sul quale sono poggiati tre

piattelli vuoti.

La consuetudine vuole che siano i padroni di casa ad

offrire le poste iniziali dei giochi conviviali, deponendole su

piattelli. Chi durante i giochi esaurirà le poste potrà scegliere

se ritirarsi dal gioco, oppure proseguire mettendo sul tavolo

denari propri.

Page 31: La Necropoli Portuense

31

Il gioco d’azzardo con gli astragali si pratica con una

logica abbastanza simile al monderno gioco del poker. Ogni

giocatore lancia quattro astragali e ad ogni faccia

corrisponde un punteggio da 1 a 6. I punteggi di norma si

sommano, attribuendo la vittoria a chi ottiene il punteggio

maggiore, ma la massima ambizione del giocatore di

astragali non è fare sommatoria, bensì di realizzare una delle

35 combinazioni speciali - un po’ come la doppia coppia, il

full, il poker, la scala reale di oggi -, ordinate secondo una

speciale gerarchia, che il giocatore provetto conosce a

memoria. Conosciamo queste combinazioni attraverso il più

celebre giocatore dell’antichità, l’Imperatore Ottaviano

Augusto, che scriveva al figlio adottivo Tiberio lunghi

resoconti delle sue prodezze al gioco, con lettere ora

giubilanti, ora mestissime.

Ad esempio, la combinazione più sventurata è l’1-1-1-

1, ovvero quando tutti e quattro gli astragali mostrano la

faccia del cane. Questa combinazione è chiamata «Anubis» o

colpo del cane e chi la fa deve corrispondere agli altri

giocatori una vertiginosa penale. Un altro lancio ben

sventurato è il «Sex» o colpo del sei, composto dalla

combinazione di tre cani e un cavo (1-1-1-3). Testimonia

Augusto in una lettera: «Caro Tiberio […], gettati gli astragali,

chi faceva cane o sei doveva mettere per posta sul tavolo tanti

denarii quanti erano i punti degli astragali degli altri giocatori.

Vinceva tutte le poste chi faceva Venere».

Il «Venus» o colpo di Venere è la combinazione più

felice, caratterizzata da quattro facce tutte diverse l’una

Page 32: La Necropoli Portuense

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dall’altra. Chi fa Venus allarga le braccia e arraffa tutte le

poste sul tavolo. Del Venus, sogno proibito di ogni giocatore,

parla un celebre epigramma di Marziale, il quale avendo

donato ad un amico quattro astragali d’avorio, così gli scrive:

«Aspetta a ringraziarmi: fallo soltanto quando nessuno degli

astragali ti presenterà un volto uguale».

Va detto infine che nel gioco, durante il banchetto

conviviale, è richiesto un certo stile, caratterizzato dalla

magnanimità. Ad esempio, alla fine del banchetto, è buona

norma che coloro i quali hanno vinto restituiscano al

padrone di casa le poste iniziali. E se, durante il gioco, un

giocatore ha una fortuna così sfacciata da lasciare tutti gli

altri senza altri denari per proseguire, ha quasi l’obbligo di

donare agli altri nuove poste per proseguire il gioco,

ricevendone in cambio una grande ammirazione. Augusto ci

lascia una preziosa testimonianza della concezione romana

del fair play: «Caro Tiberio, alla fine ho perso 20.000 sesterzi.

Ma sia chiaro: solo perché come al solito sono stato generoso.

Se solo avessi richiesto indietro ai commensali le poste iniziali,

quelle che ho condonato loro quando ho vinto, e quelle che ho

aggiunto via via per alimentare il gioco, alla fine di sesterzi ne

avrei avuti in mano 50.000. Preferisco così! La mia generosità

mi farà finire direttamente in paradiso!».

I temi funerari

Con il Banchetto dei giusti terminano le immagini

Page 33: La Necropoli Portuense

33

biografiche, ma la decorazione pittorica è tutt’altro che

conclusa. Seguono altre tre grandi immagini, anch’esse di

elevatissima qualità pittorica, che attingono all’iconografia

funeraria tradizionale, e, pur non aggiungendo elementi

nuovi alla nostra conoscenza dei Campi Elisi, meritano

comunque di essere descritte.

Nella parete di sinistra, al di sopra del colombario, è

presente un’ottava scena, chiamata Coppia di pavoni

affrontati che bevono alla fonte della vita. Si tratta di una

composizione offertoriale con al centro una grande coppa

colma di vino (che raffigura simbolicamente la fonte della

vita), alla quale si abbeverano due pavoni dalle lunghissime

e variopinte code (simbolo dell’immortalità dell’anima).

Nella parete di destra, come spesso avviene nei

sepolcri familiari, si trova un’immagine esattamente

speculare, la nona, chiamata Lotta tra due caproni. Essa

raffigura due montoni selvatici dal pelame mai tosato e con

un superbo palco di corna. Accanto ad essi sono raffigurati

un cratere (un vaso basso e aperto) ed uno scudo.

Il soffitto è l’unica parte danneggiata della tomba, ma

nelle parti di intonaco non cadute è possibile distinguere

motivi geometrici e larghe fasce purpuree. Sono

perfettamente conservati i quattro spigoli, nei quali trovano

posto quattro medaglioni circolari con figure femminili a

mezzo busto, i quali raffigurano insieme la decima e ultima

immagine del sepolcro, chiamata I geni delle quattro stagioni.

Su di essi la studiosa Felletti-Maj ha scritto: «L’avvicendarsi

delle stagioni, l’addormentarsi e rinascere delle forze della

Page 34: La Necropoli Portuense

34

natura, è espresso simbolicamente nell’arte per mezzo di

questi genii, che vengono così ad assumere un significato di

resurrezione».

Completano la decorazione pittorica numerose

immaginette di offerte votive situate soprattutto nella parete

frontale (due brocche da acqua, una coppa, un calice da

vino, piccoli volatili e fiori) e un cesta colma di frutta nella

parete d’ingresso: i melograni, le pere, i rametti verdi, così

come gli intarsi in vimini della cesta, sono raffigurati con

impressionante realismo.

La tomba è stata scoperta nel 1951, insieme all’altra

tomba chiamata Tomba degli stucchi. L’Istituto Centrale per il

Restauro ha curato il taglio dal costone tufaceo che la

conteneva e il trasporto al Museo Nazionale Romano, dove è

oggi visitabile. La tomba è stata restaurata nel 2008.

Page 35: La Necropoli Portuense

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Tomba dei Geni danzanti

La Tomba dei Geni danzanti è un piccolo e prezioso

sepolcro a camera, decorato in stucco con figurette

mitologiche diverse, tutte nell’atto di correre e danzare.

La volta è organizzata secondo un originale impianto

geometrico, nel quale si inseriscono, iscritte in medaglioni

circolari, le raffigurazioni in movimento di divinità minori: il

genio alato, il satiro, la ninfa in nudità, la ninfa con le vesti

mosse dal vento, i cupidini (putti alati) alla guida di una biga,

i dioscuri al galoppo dei loro destrieri, i genii a cavallo di un

ariete, e infine la tigre, il caprone, il grifone. La parete

frontale presenta due cupidini in volo, che sorreggono un

festone vegetale. Il sepolcro è datato tra II e III sec. d.C.; è

scavato nel tufo e presenta nicchie per le urne cinerarie e

fosse per l’inumazione. È stato scoperto nel 1951, intagliato

e trasportato al Museo Nazionale Romano.

Page 36: La Necropoli Portuense

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La danza della vita

Il sepolcro presenta sia cremazioni che inumazioni ma

non trasmette informazioni dirette sugli occupanti.

L’osservazione ci permette di immaginare un piccolo nucleo

familiare (lo attestano le ridotte dimensioni: appena cinque

metri quadri), di condizioni economiche agiate (lo attesta la

presenza di costose decorazioni), colpito da un lutto in

qualche misura previsto e facilmente elaborato, avvenuto tra

la metà del II sec. d.C. e gli inizi del III.

Quest’ultimo elemento si desume dalla modalità di

svolgimento delle opere funerarie. Esse sono state

probabilmente curate da almeno un paio di prossimi

congiunti, desiderosi di archiviare la pratica in maniera

dignitosa ma sbrigativa, con una certa organizzazione e

suddivisione dei compiti. La parte di lavori relativa alla

parete frontale e alla volta è adempiuta con grande solerzia,

mentre le pareti restanti sono solo preparate per le

decorazioni ma sono rimaste spoglie. Possiamo immaginare

che il congiunto incaricato di questa parte del lavoro - e

questo può accadere in ogni buona famiglia -, abbia

incontrato qualche difficoltà, rimandandone l’adempimento a

tempi migliori.

La volta è strutturata secondo un impianto

geometrico estremamente ingegnoso, basato sull’intersezione

di cerchi e quadrati, che permette l’inserimento alternato,

come in una scacchiera, di una trentina di decorazioni

modulari giustapposte: dei medaglioni circolari di uguale

Page 37: La Necropoli Portuense

37

dimensione.

Ciascun medaglione è finemente decorato in stucco

color bianco-avorio. La metà di essi riporta un chiché, cioè

una decorazione ripetitiva composta da un fiorellino al

centro di un quadrato dai lati concavi, a sua volta iscritto in

un cerchio con alle estremità un giglio stilizzato. L’altra metà

dei medaglioni riporta invece dei motivi figurativi, l’uno

diverso dall’altro, tutti accomunati dal tema della danza

della vita, con il messaggio consolatorio del perpetuo

rinnovarsi delle forme e delle energie vitali. È stato osservato

che - per un particolare gioco della geometria - le quattro

concavità dei quadrati, poste perpendicolarmente tra di loro,

formano a loro volta degli altri cerchi.

Il più noto e accurato tra i medaglioni è il genio alato

danzante (una figuretta dal morbido panneggio in

movimento, e dai lunghi capelli). Insieme al genio alato

danzano una serie di altre divinità: un satiro, una ninfa in

nudità, un’altra ninfa (o comunque una figura femminile non

meglio identificata) dalle delicate vesti mosse dal vento. Vi

sono inoltre tutta una serie di personaggi in corsa: i cupidini

(putti alati) alla guida di una biga, i dioscuri al galoppo dei

rispettivi cavalli, dei genii che cavalcano un ariete. E infine tre

animali dell’iconografia tradizionale, esotica o immaginaria:

il caprone, la tigre, il grifone.

Il tema della danza della vita prosegue anche sulla

parete frontale, dove sono rappresentati altri due cupidini,

anch’essi in stucco, che sostengono in volo due festoni

vegetali. In piccolo, al di sotto di essi, è raffigurata una

Page 38: La Necropoli Portuense

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siringa, sorta di flauto a canne tipico del mondo rurale.

La tomba è stata rinvenuta nel 1951, a poca distanza

dalla Tomba dei Campi Elisi e, come questa, è stata

intagliata, trasportata al Museo Nazionale Romano e

restaurata nel 2008.

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Tomba di Petronia

Moena Giovagnoli

La Tomba di Petronia è l’edificio funerario di maggior

pregio tra quelli emersi nel 1996, durante la posa di cavi

elettrici sulla Via Portuense.

La tomba presenta un pavimento a mosaico a tessere

bianche e nere, con decorazioni ad arabesco. L’iscrizione,

consacrata agli Dei Mani, è dedicata dai genitori alla defunta

figlia Petronia. Le altre tombe sono tutte disposte in fila,

lungo l’asse del vicino Tratto di Via Campana. Le tecniche

costruttive sono le più varie. Si tratta di strutture in

elevazione, con murature in mattoni e opus reticulatum; i

pavimenti sono in opus spicatum e talvolta a mosaico; le

decorazioni interne sono su intonaci dipinti a fresco o con

stucchi. Gli usi funerari sono misti, con prevalenza

dell’incinerazione (si hanno nicchie, talvolta a colombario, ed

esternamente si hanno dei recinti per le ceneri dei servi).

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Lo scavo del 1996

Nel 1996, durante saggi di scavo per la posa di cavi

dell’alta tensione, emergono sulla Via Portuense in località

Pozzo Pantaleo dei resti di edifici funerari romani.

Si tratta di una serie allineata di tombe a camera, le

cui celle sono ordinate secondo l’asse del vicino tratto di Via

Campana, individuato e scavato fra il 1983 e il 1989. Le celle

sono variamente delimitate da muri in opera mista, reticolata

e laterizia, con pareti ornate con stucchi e intonaci dipinti.

Talvolta sulle pareti si aprono le nicchiette di colombari

(dove venivano deposte le urne funerarie) o dei recinti (piccoli

spazi chiusi per la deposizione delle ollette con le ceneri dei

defunti più poveri). Le pavimentazioni sono in opus spicatum

(a listelli alternati, a comporre il disegno di spighe) e talvolta

musivum (a mosaico).

Tra di esse la tomba più interessante è quella detta di

Petronia. Il mosaico del pavimento presenta uno schema

decorativo ad arabesco vegetale e animale, in tessere nere su

fondo bianco. L’iscrizione funeraria - studiata da Tomei nel

2006 - è in tessere di pasta vitrea, inserite nell’ordito. Essa

porta una dedica con consacrazione ai Mani, le divinità

dell’Oltretomba, offerta dai genitori per la defunta figlia

Petronia.

Tali ritrovamenti, in posizione esterna al terreno ex

Purfina, dove erano già avvenuti significativi ritrovamenti

archeologici, rafforzano l’ipotesi che la superficie della

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necropoli si estenda ben al di là dell’area oggetto di indagini.

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Page 43: La Necropoli Portuense

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Pozzo Pantaleo

A. Di Mario - M. Giovagnoli - A. Anappo

Pozzo Pantaleo è un mausoleo romano, che deve il

nome al riutilizzo come cisterna (pozzo) e, successivamente,

come chiesina dedicata al culto di San Pantaleo.

L’edificio risale al I o II sec. d.C. Viene scoperto dalla

Sovrintendenza di Roma nel 1998. Ha pianta circolare ed è

in opera laterizia, con corridoio anulare esterno e copertura

a volta. L’interno presenta una sequenza di nicchie,

tamponate con muratura in opera quasi reticolata. La

struttura viene in seguito foderata di malta idraulica e

reimpiegata come cisterna e poi come pozzo, rimanendo in

uso fino ad oltre il IV sec. L’agrimensore Eschinardi annota

un riutilizzo da parte della Comunità ebraica, mentre in

epoca medievale è attestata in loco una chiesina cristiana,

con il nome di San Pantaleo fuori Porta Portese. In epoca

rinascimentale della chiesina si perdono le tracce.

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La chiesina di San Pantaleone

Pozzo Pantaleo è un mausoleo romano, di forma

circolare in opera laterizia, indagato dalla Soprintendenza tra

il 1998 e il 1999, durante la terza campagna di scavi

archeologici a Pozzo Pantaleo, grazie ai fondi per il Giubileo

del 2000.

Esternamente vi era un corridoio anulare coperto a

volta. L’ingresso alla camera sepolcrale era da un ampio

ingresso con soglia in marmo, aperto a nord. L’ambiente

interno, intonacato con malta idraulica alta circa metà

dell’alzato, presenta una sequenza di ampie celle radiali,

alternate ad altre di dimensioni più piccole, tamponate con

muratura in opera quasi reticolata di tufo. Al mausoleo sono

legati altri ambienti ipogei, oltre ad una serie di tarde

sepolture a cappuccina.

Nella sua descrizione della Vigna in loco detto Pozzo

Pantaleo Eschinardi annota: «Si dice che […] i Gentili se ne

servissero superstiziosamente». L’agrimensore, solitamente

ben informato, attribuisce ai Gentili (la comunità ebraica

romana) il riutilizzo del mausoleo circolare come piccolo

tempio (cfr. lo spregiativo termine «superstiziosamente»).

Eschinardi è tuttavia il solo a riportare una

frequentazione ebraica, mentre numerose sono quelle

attestanti una frequentazione cristiana. Ad esempio il

medievale Catalogo di Torino descrive l’edificio come una

piccola chiesa dedicata a San Pantaleone, chiamata San

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Pantaleo fuori Porta Portese.

In epoca rinascimentale la chiesina sembra in

abbandono, e al suo porto il cartografo Eufrosino della

Volpaia (1547) torna a disegnare un pozzo (rappresentato

come un fontanile) affiancato ad un’edicola sacra non meglio

identificata. Infine, l’agronomo Eschinardi annota che nel

1750, anno in cui scrive, nemmeno il pozzo è più in

funzione: «Ora è ripieno di terra».

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Page 47: La Necropoli Portuense

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Tomba di Ambrosia

Antonello Anappo

La Tomba di Ambrosia è una camera funeraria del II

sec. d.C., che deve il nome popolare alla raffigurazione della

ninfa Ambrosia, nel momento della sua morte cruenta.

Per gli archeologi la tomba è denominata Tomba A, in

quanto è la prima delle cinque tombe scoperte nel 1966

durante la costruzione del Drugstore Portuense. La struttura

risale a metà del II sec. e subisce forti rimaneggiamenti alla

fine del secolo. È interamente scavata nel tufo, con volta a

botte. Da un gradino si accede all’ambiente quadrangolare,

intonacato in giallo e porpora, con un nicchione centrale e

numerose nicchiette e loculi. Il pavimento in mosaico bianco

e nero raffigura, tra scene di vendemmia, Licurgo ubriaco

che, colto da folle frenesia, uccide la ninfa Ambrosia a colpi

di scure: la ninfa ottiene dagli dèi di sopravvivere nella linfa

delle viti, generando il rosso nettare del vino.

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Una storia di famiglia

La tipologia costruttiva della Tomba A è quella del

sepolcro familiare. Si tratta di un ambiente unico, di forma

quadrangolare, con al centro nella parete di fondo il

nicchione rettangolare destinato alle ceneri del pater

familias. Accanto e intorno (nelle pareti laterali), si trovano,

disposte simmetricamente, le altre sepolture dei componenti

dell’unico nucleo familiare, discendenti o affini che fossero.

Sono stati rinvenuti, in tutto, i resti di otto individui e

ceneri di cremazione, ma non sono state trovate scritte che

attestassero i nomi o le vicende familiari. Non sappiamo

quindi se il pater familias era l’effetivo capofamiglia, il

capostipite o, come anche poteva accadere, un parente ricco,

generoso finanziatore della camera funeraria.

La grande nicchia rettangolare è sormontata da una

calotta a forma di conchiglia, in stucco bianco. Al di sotto si

trova un loculo, che ospitava due sepolture e ospitava due

discendenti o affini importanti, morti un paio di generazioni

dopo il pater familias. La decorazione pittorica della parete è

assai ricca. La parte inferiore è organizzata per riquadri a

fondo bianco, contornati con una fascia color porpora, in cui

sono raffigurati policromi elementi geometrici e figurativi. La

parte superiore è intonacata in colore giallo. Ai lati della

nicchia centrale vi sono due figure volanti con scudo in

stucco bianco.

Le pareti laterali presentano in origine due file di 4

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nicchie su per ciascun lato, destinate a contenere le urne

cinerarie dei defunti. Nel II sec. d.C. succede tuttavia che

l’uso della cremazione dei defunti (incinerazione), tradizionale

nella cultura romana, viene via via soppiantato dalla

deposizione della salma integra (inumazione). Questo porta

in genere, nei sepolcri di famiglia di questa fase storica, ad

interventi di restauro nelle camere funerarie esistenti, per

adattarle al passaggio da una tipologia all’altra,

trasformando le nicchie per le urne cinerarie in loculi e

arcosoli. Questo fenomeno ha interessato anche questo

sepolcro.

Nella parete di destra, particolarmente evidente è

l’ingrandimento della seconda nicchia da sinistra della fila

inferiore, cui è stata aggiunta una copertura ad arco

ribassato. I lavori di edificazione del Drugstore hanno

danneggiato la prima e la seconda nicchia a destra della fila

superiore e la prima nicchia di destra della fila inferiore.

Nella parete di sinistra i lavori moderni sono stati

ancora più invasivi, e i rifacimenti delle nicchie sono oggi

difficilmente interpretabili. Si cercava in genere, nei sepolcri

familiari, di mantenere una certa simmetria, per cui

possiamo immaginare anche qui un doppio filare di

nicchiette, tagliate poi per ricavarvi altri loculi per

l’inumazione. Si nota inoltre lo scavo, alla base, di un loculo

aggiuntivo. Poco o nulla rimane della parete d’ingresso.

Il pavimento è decorato in mosaico bianco e nero e si

conserva integro, con la sola eccezione di una fossa

intagliata sul lato destro, realizzata quando i loculi alle

Page 50: La Necropoli Portuense

50

pareti erano ormai tutti occupati. Nella fossa è stata

rinvenuta una moneta di Caronte raffigurante l’imperatore

Clodio Albino, il cui breve regno ci permette di datare la

sepoltura nell’anno 196 d.C. Questa fu probabilmente

l’ultima sepoltura della tomba.

Ninfa Ambrosia: vino, sangue, oblìo

Il mosaico pavimentale propone una rappresentazione

dionisiaca - una terribile scena di stupro e morte -, nella

quale, tra immaginette di lavori per la vendemmia, compare

centralmente il tristo personaggio di Licurgo. Vuole la

tradizione che Licurgo, inebriato durante la vendemmia fino

a perdere il lume della ragione, abbia assalito la ninfa

Ambrosia, intenzionato a violarla. Alla resistenza della ninfa,

Licurgo brandisce una scure bipenne, infierendo sul suo

corpo: perché se la ninfa non può essere sua, costei non sarà

di nessun altro.

La ninfa invoca gli dèi affinché le concedano la

salvezza, o per lo meno cancellino, nell’Aldilà, il ricordo della

brutalità dell’assalto. La sua richiesta viene esaudita

all’istante e la ninfa sfugge al carnefice trasformandosi in un

tralcio di vite. Da allora Ambrosia vive all’interno di ogni vite,

e accompagna chi beve il rosso nettare che la vite genera,

concedendogli il potere di dimenticare, insieme a lei, il male

della vita.

La raffigurazione musiva rappresenta il momento più

Page 51: La Necropoli Portuense

51

drammatico del mito, quello in cui Licurgo si avventa sulla

ninfa scagliandole contro colpi di scure. La ninfa appare già

trasformata in un ramo di vite.

Il mosaico è contornato, ai lati, da una fascia

decorativa composta di tralci di vite intrecciati. Ai quattro

angoli sono raffigurati quattro kantaron (grandi vasi), dai

quali si originano i rami. Al centro di ogni lato si distinguono

quattro figurette maschili, che rappresentano ognuna una

diversa fase della vendemmia.

Il sincretismo religioso

Questo tipo di decorazione a tema dionisiaco non

connota necessariamente il capofamiglia come un seguace

del dio Bacco. Al contrario, testimonia la moda dell’epoca (il

c.d. sincretismo religioso), in cui la religione romana classica

convive con i culti emergenti di provenienza straniera,

sapendone cogliere e integrare gli aspetti mancanti nella

religiosità tradizionale (in questo caso: il superamento e

l’elaborazione del dolore ingiusto).

Dopo la conquista della Grecia e del Vicino Oriente,

Roma si apre con benevolenza ad un sistema religioso

complesso, in cui le fedi dei vinti e dei vincitori convivono e si

permeano a vicenda: tre tipologie di culti - quelli romani

arcaici (detti indigeni), quelli tradizionali (il pantheon

classico) e importati (detti esotici) - trovano l’elemento di

coesione e rispetto nel comune riconoscimento della

Page 52: La Necropoli Portuense

52

auctoritas dell’Imperatore.

Una quarta tipologia di culto è costituita dai culti

tradizionali greci, che vengono assimilati direttamente nel

pantheon romano. Così Poseidon è la declinazione greca di

Nettuno, ed è per i naviganti di entrambe le culture

l’indiscusso signore dei mari, il comune destinatario delle

loro preghiere. Allo stesso modo Zeus-Giove è per tutti il

padre degli dèi; Athena-Minerva è l’immagine universale della

sapienza, ecc.

In alcuni casi l’assimilazione è imperfetta (Dioniso

greco ha tratti completamente diversi dal Bacco romano), e

in altri casi ancora l’assimilazione è impossibile, come per le

divinità lunari Diana e Selene, che rimangono distinte.

Le simpatie verso una religione non escludevano

l’appartenenza all’altra (e spesso i culti si contaminavano,

rendendo i confini incerti). Le nuove religioni, fin tanto che

non sconfinavano in violazioni delle leggi dello Stato

Romano, erano per lo più tollerate.

Page 53: La Necropoli Portuense

53

Tomba delle lesene

La Tomba delle lesene è una piccolissima camera

funeraria della prima metà II sec. d.C., decorata all’ingresso

da due finte colonne, chiamate in architettura lesene.

È la seconda delle tombe scoperte nel Drugstore, e per

questo tra gli archeologi è chiamata Tomba B. La struttura è

in parte scavata nel tufo, in parte costruita in muratura.

L’esterno in mattoni rosso-arancio presenta, ai lati

dell’ingresso, due finte colonne scanalate (lesene), anch’esse

in laterizio. Le pareti laterali, con decorazioni floreali e

geometriche, hanno una doppia nicchia per lato (ciascuna

ospitava un’olla cineraria). Della parete di fondo,

danneggiata, si conserva la sezione inferiore di una nicchia,

nel cui foro, sigillato da un coperchietto, sono state trovate

ceneri intatte. Si tratta dunque di una piccola tomba

familiare. All’esterno è stato rinvenuto un recinto funerario.

Page 54: La Necropoli Portuense

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Il recinto funerario

Sul lato sinistro della Tomba B (rispetto all’ingresso) è

presente un recinto funerario della fine del I sec. d.C.

I recinti sono dei giardinetti, per lo più rettangolari,

destinati a contenere nella terra nuda le urne cinerarie dei

servi. In origine i recinti sono delimitati agli angoli da quattro

massi. Nel rettangolo ideale che essi disegnano, sono deposte

olle, anforette e contenitori varia natura, con dentro le ceneri

dei servi, partendo dagli angoli e occupando via via le

porzioni centrali.

Poiché la Tomba B è di epoca successiva al recinto, si

può ipotizzare che essa sia stata ricavata riducendo l’area

originaria del recinto. In questa fase debbono essere stati

edificati (o più probabilmente ricostruiti) i due muri di

recinzione che gli archeologi chiamano Muro a e Muro b. Nel

Muro a sono state individuate sette nicchie (di cui tre ancora

integre e contenenti, ciascuna, due olle). Si può ipotizzare

che le olle rinvenute al momento della costruzione della

Tomba B riano state qui pietosamente traslate. Il Muro b, sul

lato opposto, presenta varie fasi di rifacimento e una

conformazione di più difficile lettura.

Quando poco distante viene edificata anche la Tomba

A, il rettangolo si chiude, e all’interno viene deposto un

nuovo strato di terra, potendo così ospitare nuove sepolture.

I recinti, essendo destinati ad individui di umilissime

condizioni, presentano spesso questa conformazione a strati

Page 55: La Necropoli Portuense

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sovrapposti, e spesso caotici.

È stato rinvenuto, al centro del recinto, anche un

pilastro in laterizio, che lascia supporre che il giardinetto, sia

stato, in una fase tarda, dotato di un tetto e trasformato in

una cemera funeraria per inumazione.

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Tomba bianca

La Tomba bianca è una camera funeraria di piccole

dimensioni, utilizzata tra il I sec. d.C. e l’inizio del III. Le sue

pareti intonacate non hanno dipinti.

La struttura è parzialmente ipogea ed è intagliata nel

tufo, con la parete d’ingresso in muratura. Vi si accede da

una scala con quattro gradini. Sulla parete di destra è

presente un loculo a cassone scavato nel tufo, mentre sulla

parete di sinistra c’è un secondo cassone con la parte

esterna in mattoni. La parete di fondo è stata danneggiata

dal posizionamento di un pilastro in cemento armato

durante l’edificazione del Drugstore. Sul pavimento è

presente un’unica fossa. Complessivamente sono stati

rinvenuti tre individui inumati, dei quali uno è un bambino

di 4 anni, con corredi ceramici. Tra gli archeologi è chiamata

Tomba C.

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Page 59: La Necropoli Portuense

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Colombario Portuense

Il Colombario Portuense è una grande camera

sepolcrale ad uso collettivo, in uso tra fine I sec. d.C. - inizio

II e primi decenni del III sec.

È il quarto tra gli ambienti del Drugstore, chiamato

anche Tomba D. È di forma rettangolare (stretta e lunga), con

tre lati intagliati nel tufo. La tomba è stata danneggiata

dall’edificazione dell’edificio sovrastante e dal passaggio di

una conduttura fognaria: si conserva integra la parete

d’ingresso in muratura, con la facciata interna organizzata a

columbarium, con nicchiette per le urne cinerarie disposte in

file ordinate. Successivamente vi vengono ricavati loculi per

l’inumazione e banconi per i sarcofagi (due di essi si trovano

oggi al Museo Nazionale Romano). Esternamente è stato

individuato un focolare (con resti di ossa animali e

frammenti ceramici) per i banchetti in onore dei defunti.

Page 60: La Necropoli Portuense

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Vicini come colombe

La parete in muratura, lunga circa otto metri, si

presenta oggi, all’esterno, priva di finiture, con i resti di un

piccolo avancorpo per proteggere l’ingresso. Lo studioso

Nibby, che visita il colombario nel 1827, attesta invece che

all’epoca era ancora impiedi una «facciata di colonne,

architrave, fregio e cornice, tutto di terracotta ». Dal piccolo

avancorpo, scesi tre gradini, si accede all’ambiente

sepolcrale, parzialmente ipogeo. La facciata interna,

intonacata di colore giallo chiaro, ha una struttura a

columbarium (colombario).

Il colombario è un tipo di costruzione funeraria ad

uso collettivo, suddivisa in file orizzontali di nicchie nelle

quali vengono conservate le urne cinerarie dei defunti. Il

nome deriva dal fatto che le nicchie scavate nel muro

ricordano, nell’aspetto, le cavità in batteria per l’allevamento

dei colombi. I colombari hanno la massima diffusione nel

periodo tra metà I secolo a.C. e il I secolo d.C., che coincide

col periodo di massima diffusione della pratica della

cremazione. Il colombario del Drugstore (come del resto gli

altri due colombari dell’area) è quindi un esempio

relativamente tardo. Questo tipo di sepoltura infatti -

estremamente funzionale ed economico, potendo contenere

in spazi limitati le ceneri di molte persone - è tipico dei

contesti urbani in rapida espansione ed incremento

demografico, come lo era in effetti il Suburbium del I-II sec.

d.C. La curiosità è che anche le moderne cappelle funerarie

Page 61: La Necropoli Portuense

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nei cimiteri delle città più popolose (come Prima Porta, a

Roma) spesso hanno struttura a colombario.

Il colombario del Drugstore è decorato in basso da

uno zoccolo color porpora, ed è organizzato in quattro file di

nicchie, ciascuna delle quali è contornata, nell’archetto, da

una fascia anch’essa di color porpora. Sull’intonaco sono

spesso graffiti i nomi dei defunti. Nella fila inferiore, sopra

l’arco dell’ottava nicchia, si trova l’epigrafe di Ianuaria

(«Ianuariae») e, poco prima, sopra la quarta, l’epigrafe

curvilinea di Brigantina («Brigantine», con errore nel caso

genitivo).

A pochi metri di distanza è stato rinvenuto un altro

piccolo colombario da 15 nicchie (nella Tomba dei Dipinti), e,

di recente, nella vicina Necropoli di Vigna Pia è stato

rinvenuto un terzo colombario. Altri colombari si trovano,

sempre sulla Via Portuense, nella Necropoli dell’Isola Sacra.

I quattro sarcofagi

Nel Colombario Portuense sono stati ritrovati, in

tutto, quattro sarcofagi.

Sul un lato dell’ingresso viene rinvenuto un sarcofago

in marmo (sarcofago n. 1), poggiato sopra un bancone in

muratura addossato alla parete. Il marmo, anch’esso

sprovvisto di coperchio e datato alla stessa epoca del

sarcofago di Selene, presenta il clipeo con una dedica per

una donna che aveva superato i 40 ma non ancora raggiunto

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i 50 anni. Il dedicante è il marito.

Il sarcofago n. 1 si trovava poggiato su un bancone in

muratura addossato alla parete d’ingresso, sulla sinistra. Si

tratta di un sarcofago in marmo, ritrovato senza coperchio,

che presenta al centro un occhiello con un clipeo con una

dedica per una donna anziana (per l’epoca!), di età compresa

fra i 40 e i 50 anni. Il dedicante è il marito. Il sarcofago è

stato datato ai primi decenni del III secolo d.C. È oggi

conservato al Museo Nazionale Romano.

Il sarcofago n. 2 si trovava anch’esso su un bancone,

simmetrico a quello del sarcofago n. 1 rispetto all’ingresso. È

anch’esso in marmo, senza coperchio e datato ai primi

decenni del III secolo d.C. È decorato a lenos, con due clipei

con all’interno le sculture in bassorilievo dei due busti delle

divinità esotiche Helios e Selene, simboli del perpetuo

alternarsi del giorno e della notte. Nel sarcofago gli

archeologi hanno rinvenuto lo scheletro di una bambina di

dieci anni con il suo corredo: un braccialetto d’oro e due

orecchini, anch’essi in oro. Sia il sarcofago n. 2 che il

corredo si trovano oggi al Museo Nazionale Romano.

Il sarcofago n. 3, in marmo, senza decorazioni, si

trovava accanto al n. 2. Gli archeologi vi hanno rinvenuto,

all’interno, i resti di un bimbo di 7 anni, senza corredo. Il

sarcofago è ancora conservato nel Drugstore.

Il sarcofago n. 4, in terracotta e anch’esso senza

decorazioni, si trovava vicino al 2 e al 3. Gli archeologi vi

hanno rinvenuto due scheletri di età adulta, privi di corredo.

Anche questo sarcofago è stato lasciato nel Drugstore.

Page 63: La Necropoli Portuense

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Non è nota la relazione intercorrente tra i defunti del

Colombario Portuense, ma in genere si tratta di componenti

di un’unica famiglia allargata (clan familiare), compresi

affini, schiavi, liberti, clientes (persone in rapporti d’affari) e

persino amici sprovvisti di una tomba propria: nei colombari

non si guardava insomma al legame di sangue al momento

della nascita, ma soprattutto ai rapporti di cooperazione

avuti in vita. Altre volte il vincolo è dato dall’appartenenza

della medesima corporazione (ma non sembra questo il caso),

e infine, soprattuto nei contesti extraurbani, talvolta i

colombari finivano per andare oltre i confini del clan,

aprendosi a tutti i componenti della comunità locale (ipotesi

che al Drugstore potrebbe anche essere verosimile).

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Tomba della Vaschetta

La Tomba della Vaschetta è un ambiente funerario di

piccole dimensioni, in opus reticulatum e blocchetti, sul cui

pavimento è intagliata una vasca rettangolare.

Si tratta della quinta tomba del Drugstore in ordine di

scoperta (Tomba E). La sua edificazione risale alla fine del I

sec. d.C. La struttura muraria è parte in laterizi di tufo,

parte in opus reticulatum. La presenza di vistosi interventi di

rifacimento nei muri lascia supporre un utilizzo prolungato

nel tempo. Nell’ambiente si accede da una piccola scala di

tufo. Internamente non presenta né intonaci né decorazioni.

Gli archeologi non vi hanno rinvenuto né resti umani né

corredi funerari. L’ambiente ha quindi importanza assai

modesta e la sua specificità risiede nella presenza di una

vasca rettangolare, intagliata nel tufo ad una profondità di

circa 40 cm. La sua funzione non è nota.

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Sarcofago di Selene

Il Museo Nazionale Romano conserva un nobile

sarcofago in marmo, rinvenuto nel Drugstore Portuense nel

1966, raffigurante la divinità esotica Σελήνη (Selene).

Durante le indagini sul Colombario Portuense (Tomba

D), viene rinvenuta un cassone marmoreo, privo di

coperchio. Esso è databile ai primi decenni del III secolo d.C.

in base alla moda delle decorazioni a scanalature ondulate

(lenos o strigili). Su un lato è scolpito in un occhiello (clipeo)

il busto in bassorilievo di Selene, con gli attributi della torcia

accesa e del crescente. Selene rappresenta il perpetuo

alternarsi del giorno e della notte, con il fratello-amante

Helios, rappresentato sull’altro lato del sarcofago in un altro

clipeo. Nel sarcofago gli archeologi hanno rinvenuto lo

scheletro di una bimba di dieci anni con il suo corredo: un

braccialetto in oro e due orecchini, anch’essi in oro.

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Un culto esotico

Σελήνη è una divinità lunare importata dalla Grecia a

Roma nel II sec. d.C., non assimilabile a Diana, la divinità

lunare romana del pantheon classico.

Per entrambe le culture si tratta della personificazione

della luna. Ma se per i Romani Diana è soprattutto la dea

della caccia, per i greci ha tratti propri, narrati nella

Teogonia di Esiodo (371): dea della fecondità, della morte e

della rinascista, del perpetuo rigenerarsi delle cose. Selene è

la dea delle fasi e dei cicli, ma è anche la dea indulgente delle

eccezioni a quanto la natura ha prestabilito. Quando un

pagano di epoca imperiale doveva chiedere una cosa

impossibile (e a Roma ogni cosa possibile aveva il suo nume

tutelare) non rimaneva altro che dirlo alla Luna. Fra tutte le

cose impossibili vi erano soprattutto gli amori proibiti. Il culto

lunare arriva (o ritorna) quindi a Roma in forme del tutto

nuove, come un culto esotico e seducente, mai provato

prima.

Selene è una donna matura, ancora bellissima, dal

viso incredibilmente pallido, tanto da far impallidire al suo

passaggio anche le stelle. Il suo attributo, una torcia dalla

fiamma d’argento, le riflette sul viso, mentre un secondo

attributo, un fermaglio a forma di luna crescente, le raccoglie

ordinatamente i capelli. È raffigurata con lunghe vesti ariose,

su una biga d’argento tirata da una coppia di candidi buoi,

nell’atto di inseguire senza riuscirvi la quadriga d’oro del

Page 69: La Necropoli Portuense

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fratello Ἥλιος (Helios), personificazione del sole.

A Selene si attribuiscono quattro amori - tutti diversi,

importanti e tutti proibiti -, corrispondenti ognuno ad una

fase della vita, crescente o calante che sia: quello giovanile

(ed incestuoso) con il fratello che diventerà l’amore di

sempre; quello rubato da Pan con la violenza che,

trasformatosi in passione, lascerà il posto al rimpianto;

quello effimero con il maturo Zeus che si dimenticherà

presto di lei; e infine quello fulmineo e terribile (perché

associato al sonno e alla morte) con il giovane figlio di Zeus,

Endimione.

Selene e gli amori proibiti

Helios è il fratello di Selene, ed entrambi sono figli del

titano Iperione e di sua sorella Theia e hanno una sorella

minore: Eos (l’aurora). È rappresentato alla guida della

quadriga d’oro, tirata da cavalli che sputano fuoco dalle

narici. Il carro sorge ogni mattina dal mare e traina l’astro

d’oro (il sole) nel cielo, da est a ovest. Dall’alto della sua

posizione, Helios vede tutto: non c’è accadimento umano che

gli sia sconosciuto, sempre che avvenga alla luce del sole. Per

questo i Romani, nei giuramenti, sono spesso soliti invocarlo

a testimone: ancora oggi si dice «alla luce del sole» per

indicare un fatto incontrovertibile. Al termine della sua

giornata, al tramonto, Helios adagia la sua quadriga

sull’orizzonte marino, proprio mentre la biga di Selene dal

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mare è in procinto di iniziare la corsa nel cielo notturno,

portando con sé al traino l’astro d’argento (la luna). In questi

fugaci istanti i due fratelli, secondo il mito, si incontrano e si

amano in gran segreto.

Con l’irsuto, greve e oscuro, indesiderabile dio Pan

Selene ha una passione travolgente e rubata. Alla dea,

romantica e radiosa, che non lo degna della minima

attenzione, Pan prepara un inganno, rendendosi invisibile ai

suoi occhi ricoprendosi con il vello di una pecora bianca.

Quello che avviene dopo lo lasciamo alle parole di Karoly

Kerenyi: «Nascosto il pelo nerastro sotto il vello di una bianca

pecora, ha potuto avvicinarla convincendola a salire sulla sua

groppa per poi goderla, ormai consenziente». Selene dunque,

oltre al suo simile (Helios, la luce solare) ama anche il suo

contrario (Pan, l’oscurità e le tenebre), di cui accetta

l’abbraccio avvolgente nella notte. Si dice che Selene abbia

perdonato la brutalità di Pan, e che questi le abbia fatto il

dono riparatorio della pariglia di candidi buoi che trainano il

suo carro nella notte, per poi sparire per sempre dalla vista

dell’amata.

A Selene si attribuisce anche una amore con Zeus,

dalla quale nascono Pandia ed Erse (la rugiada). È l’amore

della maturità, per un amante farfallone che dopo averla

avuta si dimentica presto di lei.

E quando Selene, lasciato il padre, incontra il figlio

Endimione, giovane e bellissimo, l’amore è fulmineo. Il mito

riferisce che Selene scorge la prima volta Endimione

addormentato, in una grotta del Monte Latmo, in Asia

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Minore. Non sopportando l’idea di non potersi avvicinare

all’amante giovanissimo se non mentre dorme, perché da

sveglio probabilmente la respingerebbe, Selene si siede

accanto a lui nella notte, lo bacia sulle palpebre e da allora

Endimione cade in un sonno eterno, un torpore simile alla

morte, nel quale Selene può ammirarlo e baciarlo, con

bramosia e crudeltà insieme. Da Selene e Endimione

nasceranno ben cinquanta figlie femmine.

Vuole il mito che, se Zeus l’ha dimenticata e Pan non

osa più avvicinarla, Selene continua a incontrare Helios ad

ogni tramonto. Per tre giorni al mese però, durante la luna

nuova, Selene scompare alla vista di chiunque: si reca di

nascosto a far visita ad Endimione.

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Tomba dell’airone

La Tomba dell’airone (o Tomba 1) è un sepolcro

familiare del II sec. d.C., con gli affreschi di un airone, un

pavone, una colomba, un’anatra e tre cavalli marini.

I quattro volatili rappresentano il volo dell’anima

verso l’Aldilà, mentre i tre cavali marini (animali fantastici

dal corpo di serpenti e il busto di cavalli) hanno la funzione

apotropaica di proteggere la tomba dagli spiriti dell’Ade. Tra

le pitture la più suggestiva è quella dell’airone, raffigurato

nell’atto di levarsi in volo trasportando un nastro flessuoso.

Il nastro disegna nell’aria la lettera « M », interpretata come

iniziale della famiglia proprietaria del sepolcro. Le pareti

ospitano nicchie per le urne cinerarie (disposte a colombario

e intorno all’arcosolio del pater familias); il pavimento

contiene fosse e banconi per le inumazioni. Il sepolcro è

interamente scavato nel tufo, con volta a botte.

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Anime in volo, come aironi

Il sepolcro si trova in una porzione periferica nella

vasta area necropolare portuense, probabilmente legata al

diverticolo di collegamento tra l’interno (Monteverde) e Pozzo

Pantaleo. La tomba è sopravvissuta alla rovinosa

speculazione edilizia della zona perché si trova sotto una

strada pubblica, l’attuale via Ravizza. Vi si accede dal garage

condominiale al civico 12: dopo una percorrenza interna,

attraverso una porticina in ferro, si arriva sotto la strada,

nella camera funeraria sotterranea.

L’edificazione risale al II sec. d.C. È interamente

scavato nel nel tufo (dimensioni 6,40 m × 4,20), con la volta

a botte. Il pavimento contiene sia fosse che sarcofagi a

cassone, mentre le sepolture alle pareti sono all’interno di un

colombario disposto in file ordinate di nicchie, e altre ve ne

sono in ordine sparso vicine al nicchione (arcosolio) del pater

familias.

I quattro affreschi principali riproducono con vivido

realismo altrettanti volatili, di specie diverse. Essi sono tutti

rappresentati nel momento in cui stanno per spiccare il volo

o lo hanno appena intrapreso, e rappresentano

simbolicamente le anime dei defunti che, staccatesi da terra,

si levano in volo verso la dimensione dell’Aldilà.

L’affresco dell’airone (posto alla destra dell’entrata) ha

tratti di grande realismo. Il volatile è rappresentato nell’atto

di distendere le ali per alzarsi in volo, con colori di tonalità

Page 75: La Necropoli Portuense

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che vanno dal bianco al grigio al rosa. L’animale afferra con

le zampe un nastro flessuoso di color porpora, il quale

compone nell’aria, con alcune volute, il monogramma « M ».

Il monogramma cela probabilmente il nome della famiglia

proprietaria del sepolcro. Che si tratti addirittura dei Manlii,

l’antica Gens Manlia all’origine del toponimo Magliana?

L’ipotesi è improbabile ma comunque suggestiva, perché in

questo caso si tratterebbe della tomba zero dell’intero

territorio. Si tratta comunque di una famiglia benestante e

ben in vista se, per evocarla ai contemporanei, era sufficiente

citarne solo l’iniziale.

Sopra la nicchia del pater familias si trova il secondo

affresco, il quale raffigura un pavone in movimento, a terra,

con le ali ancora chiuse e la coda distesa. Sulla parete

sinistra è presente una colomba già in volo che si abbevera

in un vaso: infine un terzo affresco raffigura un’anatra.

Il «drago» portuense

Sono presenti anche tre piccoli affreschi che

riproducono animali fantastici (due nella nicchia del pater

familias; un terzo in una nicchia laterale), definiti nel

linguaggio comune draghi.

Si tratta più propriamente di cavalli marini - per metà

serpenti marini e per metà cavalli - che gli archeologi

chiamano con il nome di ippocampi. Il cavallo marino è un

elemento spesso presente nell’iconografia portuense,

Page 76: La Necropoli Portuense

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raffigurato tra l’altro nella vicina porzione di necropoli di

Vigna Pia.

Negli ippocampi gli studiosi ravvisano una funzione

apotropaica: essi hanno il compito di spaventare gli spiriti

dell’oltretomba proteggendo così la tomba stessa da presenze

indesiderate.

Nella tomba sono infine presenti altre decorazioni

minori. Esse riproducono un piattello offertoriale (una

patera), graziose roselline rosse sbocciate (della varietà

campagnola, ben diverse da quelle che si trovano oggi dai

fiorai!), una cesta con fiori, un candelabro, una maschera.

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Tomba di Epinico

Si ha notizia, poco distante dalla tomba dell’airone su

via Ravizza, di una seconda tomba, chiamata Tomba 2 o

Ipogeo di Epinico o Ipogeo di Epinico e Primitiba.

Essa prende il nome dal proprietario del sepolcro e

dalla sue consorte. In essa è stato rinvenuto un mosaico di

buona fattura, recante un’epigrafe. Tale sepolcro

sembrerebbe, dalle scarne informazioni disponibili,

accessibile solamente agli studiosi, per via di un percorso di

ingresso non agevole e di una certa fragilità della struttura.

Come la tomba dell’airone tale tomba si è salvata dalla colata

di cemento che ha investito l’area perché si trova non

all’interno di una proprietà privata, ma al di sotto di una

strada pubblica: via Ravizza per l’appunto. Maggiori

informazioni, purtroppo, non sono disponibili. La cura della

tomba è in carico alla Soprintendenza Archeologica di Roma.

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Necropoli di Vigna Pia

Moena Giovagnoli

La Necropoli di Vigna Pia è un complesso funerario,

composto di: tomba collettiva (Colombario di Vigna Pia),

tomba familiare (~ di Atilia Romana) e una parte interrata.

Il settore collettivo si compone di più ambienti

organizzati a Colombario, con file ordinate di nicchiette e

qualche sepoltura intagliata nel pavimento (a mosaico o in

opus spicatum) o in arcosoli. Vi è una cucina funeraria per i

banchetti in onore dei defunti. Le decorazioni raffigurano

rose, volatili e cavalli marini. La tomba familiare è dedicata

ad Atilia Romana, defunta moglie di Atilius Abascantus,

raffigurata in un ritratto a mosaico in tessere bianche e nere.

Una terza area (oggi ricoperta) ha restituito delle semplici

murature. L’area viene individuata nel 1998, vicino il

ristorante La Carovana. Nel 2000 iniziano gli scavi e nel

2006 l’area viene sistemata e aperta al pubblico.

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La Tomba di Atilia

Nel luglio 1998, durante lavori di archeologia

preventiva per la realizzazione di box auto nell’area tra le vie

Riccardo Bianchi, Ettore Paladini, viale di Vigna Pia e via

Portuense, emerge una nuova porzione del vasto complesso

necropolare Portuense, di cui sono già note le aree di Pozzo

Pantaleo, del Drugstore e di via Ravizza. Tutte e quattro le

aree afferiscono infatti alla viabilità dell’antica Via

Portuensis. I resti sono oggi compresi nella fascia centrale del

terreno del ristorante La Carovana, posto su un diverso

piano di calpestìo. Gli scavi iniziano nel 2000 e continuano

anche nel biennio successivo. La successiva sistemazione

pubblica (con la realizzazione di tettoie protettive) si conclude

nel 2006.

Nell’area sono presenti strutture funerarie di diverse

tipologie, appartenenti a diversi modi di trattare il corpo del

defunto: l’inumazione (data la presenza di sarcofagi, tombe a

cappuccina e anche fosse ricavate nel terreno, a volte anche

distruttive per quanto riguarda i mosaici) e l’incinerazione

(sono state trovate ollette e anfore, usate per conservare le

ceneri del defunto). Complessivamente, la Necropoli di Vigna

Pia risulta articolata in tre sezioni: il Sepolcro di famiglia,

l’area del Colombario e un’area con murature oggi ricoperta.

Il sepolcro di famiglia è dedicato da Atilius Abascantus

alla defunta moglie Atilia, citata in un’epigrafe e raffigurata a

mezzo busto nel mosaico a tessere bianche e nere. Proprio la

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scoperta del sepolcro dedicato a questa donna porta gli

archeologi a nominare l’intera area con il nome di Necropoli

di Atilia.

Il Colombario di Vigna Pia

L’area del Colombario presenta pavimenti in mosaico

a tessere bianche e nere, con figure ad elemento vegetale,

geometrico o simbolico (come il nodo di Salomone). Il colore

che spicca di più sulle pareti, all’inizio identificate solo di

colore bianco, è il rosso porpora, il quale delinea anche le

nicchie del colombario. Le pareti presentano anche

decorazioni a motivo floreale (roselline) oppure volatili,

animali ultraterreni (ippocampi) e anche raffigurazioni

simboliche di carattere dionisiaco (la maschera).

È stata evidenziata la presenza di fumo sulle pitture:

queste tracce stanno ad indicare l’uso di una cucina

funeraria, unica testimonianza nel Territorio Portuense,

sebbene sappiamo che l’uso di banchetti per cerimonie e

commemorazioni di defunti sia stato molto diffuso nella

civiltà romana.

Al centro tra le due aree principali si trova una terza

area nella quale sono state trovate delle murature. Tali muri,

ritenuti di minor rilevanza, sono stati indagati con la finalità

di individuare un diverticolo o un nuovo tratto di Via

Campana. La strada non è stata trovata e l’area è stata

ricoperta di terra.

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Tratto di Via Campana #1

Moena Giovagnoli

Nel terreno ex Purfina di Pozzo Pantaleo è visibile un

tratto di strada romana basolata, identificato come parte

della Via Portuense-Campana.

Nel 1983 i sondaggi per la realizzazione di una

centrale operativa ACEA in località Pozzo Pantaleo rilevano la

presenza di resti del tracciato stradale. La successiva

campagna di scavi della Soprintendenza Archeologica di

Roma, protratta fino al 1989, porta alla luce una porzione

lunga circa 50 metri e larga 6, pavimentata con basali (pietre

di lava leucitica di forma poligonale). Secondo alcuni studiosi

il tratto non è propriamente da identificarsi non con l’antica

Via Campana, ma con un suo diverticolo, cioè una

diramazione di servizio, forse a congiunzione tra la Campana

e la Portuense.

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Terme di Pozzo Pantaleo

Moena Giovagnoli

Le Terme di Pozzo Pantaleo sono un impianto termale

pubblico di epoca imperiale, di cui sono stati scavati il

calidarium e una parte del frigidarium.

Nel calidarium si svolgevano i bagni caldi e i bagni di

vapore. Lo speciale pavimento è sorretto da suspensurae, al

di sotto delle quali passa l’aria calda prodotta nel

praefurnium (non scavato). Le pareti in opera laterizia e

vittata (blocchetti di tufo) presentano dei tubuli, anch’essi

destinati al passaggio dell’aria calda. In un secondo

ambiente, identificato come frigidarium, sono presenti

pavimenti con figure mitologiche in mosaico bianco e nero.

Gli spogliatoi e la sala per i massaggi non sono stati invece

individuati. Lo scavo è stato condotto tra il 1983 e il 1989; la

struttura è riconoscibile, tra i vari manufatti di Pozzo

Pantaleo, per la presenza di una tettoia protettiva.

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Per lavarsi e per parlare

Le Terme di Pozzo Pantaleo sono un edificio di età

imperiale in opera laterizia e vittata (blocchetti di tufo),

destinato ai bagni (abluzioni in acque calde e fredde), al

ritrovo e la socialità.

Tra il 1983 e il 1989 la Soprintendenza Archeologica

di Roma rinviene i resti del calidarium (la sezione destinata

ai bagni caldi e ai bagni di vapore). Il pavimento è retto da

suspensurae, sorta di pilastrini al di sotto dei quali passa

l’aria riscaldata prodotta dalla fornace (praefurnium). Nelle

pareti sono presenti tubuli, ossia laterizi speciali a sezione

rettangolare, anch’essi destinati alla circolazione dell’aria

calda. I bagni si svolgevano in acque aromatizzate con

spezie, profumi e talvolta vino, mentre il lavaggio vero e

proprio si svolgeva con pietra pomice e cenere.

È venuto alla luce anche un ambiente esterno,

probabilmente parte del frigidarium (destinato ai bagni

freddi) o del tepidarium (moderatamente riscaldato), con

pavimenti in mosaico bianco e nero decorati con figure

mitologiche.

Attorno a questi ambienti dovevano trovarsi gli

spogliatoi e una sala per i massaggi, non individuati. I resti

delle terme sono oggi riparati dagli agenti atmosferici con

una tettoia e sono chiusi al pubblico.

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Mansio di Pozzo Pantaleo

Moena Giovagnoli

La Mansio di Pozzo Pantaleo è una sosta per viandanti

di epoca imperiale, in cui era possibile rinfrescarsi,

consumare un pasto frugale, trovare ospitalità e compagnia.

Il sito, indagato parzialmente, emerge durante la

campagna di scavi della Soprintendenza fra il 1983 e il 1989

e si trova poco più ad ovest rispetto alle Terme. Si tratta di

un gruppo di piccoli ambienti in opera mista, affiancati l’uno

all’altro, con affaccio comune sul Tratto di Via Campana. Gli

ambienti sono preceduti da un portico. L’edificio è dotato di

un doppio sistema idraulico, in cui acque potabili e acque

reflue circolano separatamente. Le acque sono attinte dal

vicino fosso Tiradiavoli o, per la stagione estiva, da un pozzo.

È presente un ambiente con una vasca in malta idraulica.

Affiancato alla Mansio è stato sommariamente indagato

anche un edificio funerario a doppia camera.

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La sosta dei viandanti

La Mansio della Via Portuensis è un manufatto

romano di epoca imperiale, identificato come una sosta per

viandanti, qualcosa di molto simile ad un moderno snack

bar, in cui era possibile trovare ristoro, breve ospitalità e

persino compagnìa.

Il sito emerge durante la campagna di scavi del 1983-

1989. A margine dell’indagine principale (Via Campana e

impianto termale) si esplora anche un settore periferico più

ad ovest. Ne emerge un gruppo di ambienti in opera mista,

non completamente esaminati, posti in serie l’uno accanto

all’altro, e affacciati sulla strada attraverso un porticato.

Gli ambienti sono serviti da un doppio sistema

idraulico (acque chiare e acque scure) alimentato dal vicino

torrente e con cunicoli fognari per smaltire il refluo. Sono

presenti anche una vasca impermeabile, foderata con malta

idraulica, e un pozzo (per sopperire all’essiccazione estiva del

torrente). I viandanti potevano godere della frescura della

vasca e dell’ombra del porticato e, con l’occasione,

consumare a pagamento un pasto frugale, un bicchiere di

vino o, magari, un incontro amoroso a pagamento.

L’indagine ha restituito anche i resti di due ambienti

in opera laterizia appartenenti ad un edificio funerario, con

ingresso opposto alla Via Campana, caratterizzati dalla

presenza di sepolture in formae (sotto tegole).

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Sommario

Cave romane Purfina Drugstore ...................................... 3 La cava di tufo ................................................................ 4 La Necropoli Portuense .................................................... 5 L’abitato altomedievale ................................................... 7 Frequentazioni sporadiche .............................................. 9 Lo Stabilimento Purfina ................................................. 10 Il Drugstore ................................................................... 11

Cippi dei Germani ......................................................... 13

Noi, guardie di Nerone .................................................. 14 Tomba dei Campi Elisi .................................................. 17

Alla ricerca del tempo migliore ...................................... 18 I ritratti di famiglia ........................................................ 19 La navicella sul fiume Lete............................................ 21 Il plaustrum .................................................................. 22 Gli astragali .................................................................. 24 La moscacieca ............................................................... 26 Il trigon ......................................................................... 28 Il banchetto dei giusti .................................................... 30 I temi funerari ............................................................... 32

Tomba dei Geni danzanti ............................................... 35

La danza della vita ....................................................... 36 Tomba di Petronia ......................................................... 39

Lo scavo del 1996 ......................................................... 40 Pozzo Pantaleo .............................................................. 43

La chiesina di San Pantaleone ...................................... 44

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Tomba di Ambrosia ....................................................... 47 Una storia di famiglia ....................................................48 Ninfa Ambrosia: vino, sangue, oblìo ..............................50 Il sincretismo religioso ...................................................51

Tomba delle lesene ....................................................... 53

Il recinto funerario .........................................................54 Tomba bianca ............................................................... 57 Colombario Portuense ................................................... 59

Vicini come colombe .......................................................60 I quattro sarcofagi .........................................................61

Tomba della Vaschetta .................................................. 65 Sarcofago di Selene ....................................................... 67

Un culto esotico ..............................................................68 Selene e gli amori proibiti...............................................69

Tomba dell’airone ......................................................... 73

Anime in volo, come aironi .............................................74 Il «drago» portuense ........................................................75

Tomba di Epinico .......................................................... 77 Necropoli di Vigna Pia ................................................... 79

La Tomba di Atilia .........................................................80 Il Colombario di Vigna Pia .............................................81

Tratto di Via Campana #1 ............................................. 83 Terme di Pozzo Pantaleo ............................................... 85

Per lavarsi e per parlare ................................................86 Mansio di Pozzo Pantaleo .............................................. 87

La sosta dei viandanti ...................................................88 Sommario ......................................................................... 89