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William Hope Hodgson

L'orrore del mare

A cura di Gianni Pilo

Tascabili Economici Newton

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In copertina Joseph Vernet, La tempête, 1777

Titoli originali: A Tropical Horror, Middle Islet, Out of Storm, The Unknown Horror, Eloi,

Eloi, Lama Sabachtami, The Finding of the Graiken

Prima edizione: Maggio 1993

Tascabili Economici Newton

Divisione della Newton Compton editori s.r.l. © 1993 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 88-7983-201-8

Stampato su carta Tambulky della Cartiera di Anjala Distribuita dalla Fennocarta s.r.l., Milano

Copertina stampata su cartoncino Perigord Mat della Papyro S.p.A.

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Gli incubi marini di Hodgson

Durante la sua vita, William Hope Hodgson fu definito «uno scrittore su

cui si è posato il manto di Poe». H.P. Lovecraft, il più importante scrittore

americano di Horror dopo Poe, lo definì secondo solo ad Algernon

Blackwood nel delineare l'irrealtà. «Pochi lo eguagliano», scrisse

Lovecraft, «nell'adombrare la vicinanza di forze sconosciute e di mostruose

entità attraverso accenni casuali e particolari insignificanti, oppure nel

comunicare le sensazioni dello spettrale e dell'anormale legati ai luoghi».

Lovecraft, poco prima della sua morte, avvenuta nel 1937, scrisse di

essere rattristato dal fatto che le opere di Hodgson fossero «conosciute

molto meno di quanto meriterebbero». Solo negli ultimi anni, dopo la

ristampa dei suoi racconti, ad Hodgson è stata tributata la fama che non

ottenne quando era ancora vivo. Nel 1914, per esempio, scrisse disperato al

fratello: Non ho guadagnato nemmeno un penny dai miei ultimi libri.

William Hope Hodgson nacque il 15 novembre del 1877 a Blackmore

End, nei pressi di Finchfield nell'Essex, dove suo padre era Pastore

anglicano. Il Reverendo Samuel Hodgson era un uomo deciso ed

intelligente, dalle idee radicali sull'interpretazione della Bibbia che lo

misero spesso in conflitto con i propri superiori. Le sue opinioni esplicite lo

fecero trasferire da una parrocchia all'altra. In effetti, egli ebbe undici

parrocchie in ventun anni, e l'ultima fu a Blackburn nel Lancashire, dove il

suo gregge era formato in maggioranza da operai di cotonifici, e dove

William trascorse gli anni della propria formazione.

William era il secondo di dodici figli, tre dei quali morirono in tenera età.

La sua istruzione fu approssimativa e, a tredici anni, fu mandato in

collegio. Qualche mese dopo, il Reverendo Hodgson morì di cancro alla

gola, e l'istruzione di William fu bruscamente interrotta.

C'era la famiglia da mantenere. Perciò, il 28 agosto del 1891, il

quattordicenne William andò a Liverpool e si imbarcò come mozzo su un

veliero mercantile che compiva traversate oceaniche. Era un vita difficile e,

qualche anno dopo, in una intervista al Blackburn Times egli ricordò:

Ero un ragazzino dal fisico non molto robusto, ed ebbi la sfortuna di

essere alle dipendenze di un Secondo Ufficiale del tipo peggiore che mi

potesse capitare. Era brutale, e, sebbene possa dire in tutta sincerità di non

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avergliene mai dato motivo, mi puniva spesso. Rese la mia vita così

miserabile che alla fine raccolsi il coraggio sufficiente per ribellarmi ed

attaccarlo. Fu in tutto e per tutto come una lotta tra un mastino ed un

terrier, perché il Secondo Ufficiale era forte e sapeva come punirmi.

Naturalmente, mi toccò una misericordiosa fustigazione.

L'incidente avviò William al suo hobby più importante. Divenne un

cultore dello judo e fu ossessionato dallo sviluppo del corpo. Studiò la

scienza dell'interazione dei muscoli, un interesse che gli procurò una certa

notorietà.

Nell'ottobre del 1902, il grande contorsionista, Harry Houdini, si esibì al

Blackburn Palace Theatre. Aveva sconcertato la Polizia di Blackburn,

scappando con facilità dalla prigione per fare pubblicità alla propria

esibizione. Il 24 ottobre, Houdini lanciò una sfida al pubblico in sala:

qualcuno doveva legarlo in modo che non potesse liberarsi. Hodgson saltò

sul palcoscenico. Aveva dei lacci speciali che gli aveva prestato la Polizia

locale. Questi lacci e la sua perfetta conoscenza dell'interazione dei

muscoli, gli permisero di legare Houdini in modo tale che il contorsionista

impiegò due ore a liberarsi. Nessun altro è mai riuscito a tenere

imprigionato Houdini per tanto tempo.

Il Blackburn Star riferì che Hodgson lasciò il teatro e si rifugiò alla

locale stazione di Polizia, temendo l'ira del pubblico che riteneva fosse

stato non inglese per il modo sleale in cui aveva legato Houdini.

Quando era imbarcato, Hodgson si era dedicato anche alla fotografia,

che prediligeva fin da quando era un ragazzino. Divenne un noto cultore di

quest'arte, fotografando cicloni e uragani. In seguito, le fotografie e i giri di

conferenze gli resero quasi lo stesso denaro che guadagnava con il suo

lavoro di scrittore.

Dopo otto anni trascorsi in mare, decise che era «una vita da cani». Nel

frattempo, aveva ottenuto il grado di Terzo Ufficiale ed era stato insignito

dalla Royal Human Society della medaglia per atti di eroismo. Infatti, al

largo delle coste della Nuova Zelanda, si era tuffato nelle acque infestate

da squali per salvare il Primo Ufficiale della sua nave dall'annegamento.

A ventidue anni tornò a Blackburn dove aprì la «Scuola di Cultura Fisica

W.H. Hodgson», al numero 13 di Ainsworth Street. Gli agenti della Polizia

locale divennero i suoi migliori clienti. Ben presto, Hodgson si guadagnò

anche la fama di essere il personaggio più eccentrico della città. Il

Blackburn Weekly Telegraph del 30 agosto del 1902, riferisce un racconto

di un testimone oculare a proposito di una delle imprese di Hodgson. La

Brantfell Road a Blackburn era così ripida che nessun veicolo riusciva a

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percorrerla ed era, inoltre, formata da sedici gradini larghi parecchi piedi.

Questa strada conduceva a Park Mount, una frazione di Revidge, dove

Hodgson si sarebbe trasferito ed avrebbe composto la maggior parte delle

sue opere.

Il Telegraph riferisce:

La prudenza, naturalmente, avrebbe richiesto una deviazione. Ma ci sono

uomini per i quali la paura è una qualità sconosciuta, e il pericolo è solo un

elemento da conquistare. Uno di questi uomini è il signor W.H. Hodgson, il

noto professore di cultura fisica che, questa settimana, ha disceso in

bicicletta la ripida scalinata, senza rompersi il collo!

Nel 1903, Hodgson fece il suo primo tentativo di scrivere... articoli di

cultura fisica e di fotografia, per i quali trovò un mercato favorevole.

L'anno seguente, passò alla narrativa e scrisse un breve racconto dal titolo:

La Dea della Morte.

Nel Parco di Blackburn c'era un laghetto, nel quale si ergeva la statua di

Flora. Utilizzando la statua come centro del racconto, Hodgson scrisse di

una piccola città inglese, nella quale si trova una statua Hindu, sottratta ad

un tempio indiano. La statua si anima per vendicarsi delle persone che

l'hanno rubata. Il Royal Magazine pubblicò la storia nell'aprile del 1904.

Fu la seconda storia a far guadagnare a Hodgson fama e rispetto da

parte degli scrittori professionisti e degli editori.

S'intitolava A Tropical Horror e fu pubblicata dal Grand Magazine

(fondato per emulare il più popolare Strand). J. Greenhough Smith, editore

e noto critico letterario del tempo, scrisse:

Benché questa storia, un racconto del terrore sul mare, possa essere

troppo raccapricciante per il gusto di qualcuno, è scritta con grande

maestrìa e con un certo realismo, che attira e trattiene l'attenzione del

lettore in un modo che ricorda le cose migliori di Defoe.

Hodgson chiuse quindi la Scuola di Cultura Fisica e si trasferì a Revidge.

Cominciò a guadagnarsi da vivere con il giornalismo e l'attività di

conferenziere. Scrisse anche degli articoli di denuncia sulle condizioni di

vita e di lavoro a bordo delle navi mercantili. Riassunse la propria

posizione a questo riguardo, in un articolo «Perché non sono imbarcato»

(The Grand Magazine, settembre 1905) con queste parole:

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Non sono imbarcato perché disapprovo il cattivo trattamento, il cibo

cattivo, la paga cattiva e le prospettive ancora peggiori. Non sono

imbarcato perché ho scoperto molto presto che sulle navi si vive una vita

scomoda, stancante e ingrata, una vita così piena di difficoltà e di squallore

che la gente a terra può difficilmente immaginarla. Non sono imbarcato

perché non mi piace essere una pedina con il mare come scacchiera e gli

armatori come giocatori.

Nondimeno, fu proprio dal mare che Hodgson trasse l'ispirazione per i

suoi racconti più belli ed agghiaccianti. Nell'aprile del 1906, un periodico

americano, il Monthly Story Magazine, pubblicò il racconto di Hodgson:

Dal mare senza maree. Fu una pietra miliare nella sua carriera di scrittore,

perché fu la prima storia sulle leggende del Mar dei Sargassi.

La maggior parte dei suoi racconti d'orrore sul mare sono ispirati alle

leggende del Mar dei Sargassi. In questo modo Hodgson creò tutto un

mondo, immaginario ma vivido, di terrore. Quando furono richieste a gran

voce le continuazioni di quel primo racconto, Hodgson le fornì volentieri.

A quel punto sentì che era arrivata l'ora di scrivere un romanzo.

L'equipaggio del Glen Carrig, fu pubblicato da Chapman e Hall nel 1907.

Tratta di un equipaggio che naufraga e trova rifugio su un'isola

abbandonata, abitata da mostri terrificanti. Le lodi della critica furono

immediate. «Un libro che ritornò al successo rapido e notevole. È ricco di

un'immaginazione che ci ricorda quella di H.G. Wells...», scrisse il Daily

Telegraph.

In seguito, la rivista americana The Blue Book, pubblicò quello che

considero il più bello dei racconti brevi di Hodgson: La Voce nella Notte.

Lo lessi per la prima volta da ragazzo e, ancora oggi, mi provoca dei

brividi di paura. Ha ispirato moltissimi racconti dello stesso genere, come,

per esempio, la novella di Philip M. Fischer Jr. L'isola-fungo, ed anche

molti film.

Hodgson consolidò il proprio successo con il suo secondo romanzo. La

Casa sull'Abisso fu pubblicato nel 1908. Lovecraft, che fu molto influenzato

da Hodgson, lo considerava il migliore dei suoi lavori. Si incentra su una

casa irlandese, solitaria e mal vista, che è il punto focale di terribili forze

provenienti da un altro mondo.

L'anno seguente, il 1909, fu pubblicato I Pirati Fantasma. È un

affascinante racconto sull'ultimo viaggio di una nave maledetta e stregata,

e sui terribili esseri marini che l'assediano trascinandola alla fine verso un

destino ignoto. «Non c'è nessun altro libro che possa paragonarsi a questo,

in tutta la letteratura contemporanea», osservò il critico del Bookman.

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Ma i racconti non gli procuravano denaro, e Hodgson doveva

guadagnarsi da vivere. Passò ai racconti polizieschi, in un periodo in cui

decine di scrittori cercavano di emulare il successo dello Sherlock Holmes

di Conan Doyle.

Nella rivista The Idler, Hodgson inventò un nuovo tipo di detective,

Carnacki. Era un «investigatore dell'occulto», un detective psichico che

lottava con forze provenienti dall'Altro Mondo. La Strada per il Mostro fu il

primo racconto, che fu dato alle stampe nel gennaio del 1910. L'ultima

storia di Carnacki apparve nel 1912, e nel 1913 Nash pubblicò tutte le

storie di Carnacki, con il titolo: Carnacki: il Cacciatore di Fantasmi.

Tra il 1910 e il 1911, Hodgson scrisse quella che considerava la sua

opera migliore. Era il romanzo apocalittico, lungo 200.000 parole, La

Terra della Eterna Notte. Si svolgeva in un futuro lontano milioni di anni,

quando il sole ormai sarà morto e la notte sarà eterna. I sopravvissuti sono

raccolti nell’Ultimo Rifugio, un’oasi di sanità mentale in un mondo da

incubo. Lovecraft lo descrive come «Una delle opere più potenti di

immaginazione macabra mai scritte».

Il London Magazine lo definì come «Il libro più notevole che sia stato

creato in questi ultimi anni. Solo Hodgson avrebbe potuto scriverlo..». Il

Morning Leader lo acclamò come un «tour de force». Vanity Fair disse:

«Notevole sotto ogni aspetto... una volta che si comincia a leggerlo, non si

riesce più a smettere». Country Life lo descrisse come un «Romanzo di

notevole immaginazione e di originalità sorprendente».

Eppure La Terra della Notte ha i suoi difetti: è di difficile lettura perché è

scritto in uno stile quasi settecentesco; il riadattamento per una lettura più

semplice fu pubblicato nel 1921 da Holden e Hardingham. Comunque sia,

La Terra della Eterna Notte rimane l'opera più profonda di Hodgson.

Nel 1911 Hodgson sposò Betty Farnworth, una ragazza di Cheadle

Hulme, che compilava la rubrica delle persone scomparse per Home Notes.

Avevano entrambi trentacinque anni. Poiché con i romanzi guadagnava

poco, Hodgson si concentrò maggiormente sui racconti brevi. Nel 1914 fu

pubblicata Uomini dei Mari Profondi, un'antologia di racconti brevi. Fu

accolta dal Times come «Un serio contributo alla storia della letteratura».

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Hodgson, benché avesse

quasi quarant'anni ed avesse superato l'età massima per il servizio militare,

si offrì volontario per il servizio attivo. Rifiutò di entrare in una

Commissione per la Marina e divenne invece Luogotenente nella Reale

Artiglieria. Nel 1916 fu disarcionato da un cavallo, si ruppe la mascella e si

ferì gravemente alla testa. Perciò fu congedato dall'Esercito per motivi di

salute.

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Le ferite non gli impedirono di continuare a lavorare. Il Destino del

Forte, una seconda antologia di racconti, fu pubblicato nel 1916. Il Daily

Telegraph commentò: «Ad Hodgson è stato fatto più di una volta il

complimento di somigliare a Poe. È un complimento dato con cognizione di

causa.» Nel 1917 fu stampata un'altra antologia di racconti, Il Comandante

Gault.

Quello stesso anno, guarito dalle ferite, Hodgson fece domanda per

essere reintegrato nell'Esercito e fu rimandato sul Fronte Francese.

All'inizio del 1918, scrisse a sua madre dalle trincee:

Il sole era basso all'orizzonte quando sono tornato e su questa terra

desolata di protezioni che erano state erette dall'uomo contro l'Uragano

che da sempre, giorno e notte, notte e giorno, travolge questa atroce

Pianura della Distruzione.

Dio mio! Se pensi ad un Mondo Perduto, se pensi alla fine del mondo, se

pensi alla Terra della Eterna Notte, è tutto qui, a non più di duecento miglia

da dove vivi tu, infinitamente lontana. E il pathos infinito, terribile,

spaventoso, delle cose che si vedono: il cratere di granate pieno di croci

conficcatesi nel terreno, che emergono appena dall'acqua, e la morte che

sta al di sotto, sommersa... Se vivrò ed uscirò fuori da qui (e, se Iddio vuole,

spero che tornerò) che libro scriverò, se la mia antica abilità non mi ha

abbandonato!

Ahimè, quel libro non sarebbe mai stato scritto. All'inizio dell'aprile del

1918, Hodgson respinse un attacco nemico con l'aiuto di pochi soldati, e

sostenne una eroica azione di retroguardia sotto la grandine delle

pallottole di mitragliatrice, per tre miglia. Pochi giorni dopo, il 19 aprile

1918, rimase ucciso in un bombardamento nei pressi di Ypres. Aveva

quarant'anni.

Per tutta la vita aveva scritto poesie. Nel 1920, Selwyn e Blount

pubblicarono due collezioni di suoi versi: Il Richiamo del Mare e La Voce

dell'Oceano. In uno di questi poemi Hodson aveva scritto:

Sto morendo, e il mio lavoro mi è davanti,

Come una matita spezzata da un coltello.

Così mi ha spezzato il filo crudele

Del pensiero dalla lama affilata, che foggiò la mia vita,

E che mi rese pronto e avido di parlare davanti a Te.

Ed ora muoio, preparato tanto da cantare.

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Una cosa ancora: se pensate di fare presto un viaggio per mare, non

continuate la lettura di questo libro...

GIANNI PILO

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Nota bibliografica

OPERE

The Boats of Glen Carrig, Chapman Hall, Londra, 1907.

The House on the Borderland, Chapman Hall, Londra, 1908.

The Ghost Pirates, Chapman Hall, Londra, 1909.

The Night Land, Holden and Hardingham, Londra, 1912.

Carnacki, the Ghost Finder, Nash, Londra, 1913.

Men of the Deep Waters, Holden and Hardingham, Londra, 1914.

Captain Gault, Holden and Hardingham, Londra, 1914.

The Luck of the Strong, Nash, Londra, 1915.

The Call of the Sea, Holden and Hardingham, Londra, 1920.

The Voice of the Ocean, Holden and Hardingham, Londra, 1921.

BIBLIOGRAFIA

S. MOSKOWITZ, Explorers of Infinity, Ace, 1957.

J. VAN HERP, Hodgson, Cahier de l’Herne, 1969.

J. BARON, William Hope Hodgson, Planete, 1969.

F. TRUCHAUD, Le Maison au bord du Monde, Editions Opta, 1971.

F. TRUCHAUD, W.H. Hodgson, Planete, 1972.

R.A. EVERTS, Some Facts in the Case of William H. Hodgson, Shadow, 1973.

B. ALDISS, Billion Year Spree, Widenfeld & Nicholson, 1973.

TRADUZIONI ITALIANE

Naufragio nell’Ignoto, Fanucci, 1976.

Carnscki, Cacciatore di Spettri, SIAD, 1982.

La Casa sull’Abisso, Fanucci, 1985.

Pirati Fantasma, Fanucci, 1986.

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L'ORRORE DEL MARE

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Il mostro

1.

Abbiamo lasciato Melbourne centotrenta giorni fa e, per tre settimane, ci

siamo fermati in questo luogo calmo e soffocante.

È mezzanotte, ed è il nostro Quarto fino alle quattro antimeridiane. Esco

e mi siedo sul boccaporto. Pochi minuti dopo Joky, il nostro apprendista più

giovane, mi raggiunge per chiacchierare. Siamo stati seduti in questo modo

tante volte, ed abbiamo parlato durante i Quarti di Notte, sebbene chi

parlasse veramente fosse solo Joky. Io sono contento di fumare e di

ascoltare, assentendo ogni tanto per dimostrare la mia attenzione.

Joky è stato zitto per un po' di tempo con la testa china come se

meditasse. Improvvisamente rialza la testa, certamente con l'intenzione di

parlare un po'. Mentre fa questo, vedo la sua faccia irrigidirsi piena di un

terrore senza nome. Si rannicchia all'indietro con gli occhi fissi su qualcosa

di pauroso fino a quel momento invisibile che è dietro di me. Poi spalanca

la bocca, emette un grido strozzato, e cade dal boccaporto sbattendo la testa

sul ponte. Spaventato, non so da che cosa, mi volto a guardare.

Mio Dio! Emergendo dal parapetto, ben chiara alla luce bianca della luna,

c'è un'enorme bocca bavosa a pochi metri di distanza. Dalle grandi labbra

gocciolanti pendono lunghi tentacoli. Mentre la guardo con disgusto e

orrore, quella cosa si arrampica sopra l'orlo di murata. Viene sempre più su,

sempre più in alto. Non si vedono gli occhi, solo quella bocca bavosa posta

su un orribile collo rassomigliante ad un tronco che, mentre lo guardo,

striscia dentro la nave con la rapidità di un'enorme anguilla. Viene dentro in

spire ondeggianti di cui non si vede la fine.

La nave inizia un lento rollio a tribordo mentre avverte il nuovo peso.

Alla fine la coda, una enorme quantità di materia liscia, scivola sopra la

murata e cade con un tonfo sul ponte. L'orrenda creatura giace per pochi

secondi come una massa di spire fangose che si contorcono. Poi, con un

movimento rapido, la testa mostruosa si muove sul pavimento.

Vicino all'albero maestro ci sono i barili di cuoio e, lì accanto, un barile di

carne salata da poco aperto con il coperchio appena appoggiato in cima.

L'odore della carne sembra attirare il mostro che sento annusare respirando

forte. Poi quelle labbra si aprono mostrando quattro zanne enormi: ecco che

con un rapido movimento in avanti della testa, un salto ed uno scrocchio di

mascelle, sia i barili che la carne sono spariti. Il rumore fa accorrere uno dei

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marinai fuori del castello di prua. Entrando in quella zona buia, egli per un

momento non riesce a vedere nulla. Poi, procedendo verso poppa, riesce a

vedere e, urlando di terrore, si precipita in avanti. Troppo tardi! Dalla bocca

della «Cosa» esce fuori fulmineamente una specie di lama, lunga e larga, di

un biancore scintillante, armata di denti potenti.

Distolgo lo sguardo, ma non posso non sentire la inevitabile scorpacciata

nauseabonda di quel mostro.

L'uomo di guardia, attirato dal rumore, ha assistito alla tragedia, e corre a

rifugiarsi nel castello di prua slanciandosi verso la pesante porta di ferro.

Il carpentiere ed il velaio vengono fuori correndo dal ponte di mezzo

indossando soltanto i mutandoni. Vedendo quella «Cosa» orribile, si

precipitano a poppa verso le cabine urlando di paura. L'Ufficiale in

Seconda, dopo uno sguardo a ciò che succede a poppa, fugge giù per la

scaletta del boccaporto seguito dal timoniere. Posso sentirli sbarrare la porta

e, all'improvviso, mi rendo conto di essere rimasto solo sul ponte di coperta.

Fino ad ora ho dimenticato di essere anch'io in pericolo. I pochi minuti

passati sembrano far parte di un sogno orribile. Adesso, però, mi rendo

conto della mia condizione e, liberandomi dell'orrore che mi ha paralizzato,

mi volto in cerca di salvezza.

Mentre sto guardando qua e là, scorgo Joky che giace raggomitolato e

privo di sensi dove è caduto poco prima. Vicino, c’è il ponte di mezzo vuoto

salvo un piccolo caposotto costruito in acciaio con porte di ferro; quella

sottovento è tenuta aperta per mezzo di un gancio. Una volta dentro, sarò al

sicuro.

Fino ad ora la «Cosa» non sembra aver notato la mia presenza. Adesso,

però, la sua enorme testa dalla forma di botte si muove nella mia direzione;

poi si sente un muggito soffocato e la grande lingua guizza avanti e indietro

mentre il mostro si volta e scivola a poppa per prendermi.

Capisco che non c'è un minuto da perdere e, rialzato il ragazzo inerte, mi

precipito verso la porta aperta che è distante solo pochi metri: ma

quell'orrendo mostro percorre il ponte con grandi spire attorcigliate.

Raggiunto il casotto, metto giù il giovane Joky, poi esco di nuovo sul ponte

per staccare il gancio e chiudere la porta. Mentre faccio questo, un qualcosa

di bianco si attorciglia intorno alle estremità del casotto. Con un balzo entro

dentro e provvedo a sprangare la porta. Attraverso gli spessi vetri degli

oblò, vedo la «Cosa» che si aggira intorno al casotto cercandomi invano.

Joky non si è ancora mosso, perciò mi inginocchio, gli allento il colletto

della camicia, e gli spruzzo in faccia dell'acqua del barilotto. Mentre sto

facendo tutto questo, sento Morgan che grida qualcosa, poi segue un grande

urlo di terrore ed ancora quel nauseabondo rumore di mascelle.

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Joky si muove a malapena, si strofina gli occhi e, all'improvviso, si mette

a sedere.

«Che cosa sta gridando Morgan?» chiede, poi comincia ad urlare: «Dove

siamo? Ho fatto un sogno orribile!»

In quel momento si ode un rumore di passi di qualcuno che corre in

coperta e sento la voce di Morgan vicino alla porta.

«Tom, apri!»

All'improvviso tace ed emette un orribile grido di disperazione, poi lo

sento correre via. Attraverso l'oblò lo vedo saltare fra i cavi di prua ed

arrampicarsi come un pazzo verso l'alto. Qualcosa gli si avvicina, qualcosa

che sembra bianco alla luce della luna, e gli si attorciglia intorno alla

caviglia destra. Morgan si ferma di botto, tira fuori il suo coltello e colpisce

ripetutamente e con forza quella «Cosa» malvagia. Questa lo lascia andare e

lui, in pochi secondi, raggiunge la cima arrampicandosi sempre più su.

Segue un periodo di calma e mi accorgo che si avvicina l'alba. Non si

sente alcun suono eccetto il pesante ansito dcl respiro del mostro. Mentre

sorge il sole, la mostruosa creatura si sdraia sul ponte e sembra godersi il

calore. Non c'è ancora alcun suono né da parte degli uomini a prua né dagli

ufficiali a poppa. Posso solo supporre che abbiano paura di attirare

l'attenzione del mostro. Eppure, un po' più tardi, sento verso poppa la

detonazione di una pistola e, guardando, vedo il serpente alzare la sua

enorme testa come se stesse in ascolto. Mentre sta facendo questo

movimento, riesco a vedere bene la parte anteriore, e vedo quello che la

notte aveva nascosto.

Sopra la bocca ci sono due occhi porcini che sembrano brillare di

un'intelligenza diabolica. Volta la testa di qua e di là poi, all'improvviso, si

gira in fretta e guarda attraverso l'oblò. Mi ha visto e poggia la sua enorme

bocca sul vetro.

Non oso respirare. Dio mio! E se rompesse il vetro? Mi ritraggo pieno di

orrore. Dalla parte dell'oblò giunge un suono forte e raschiante. Sto

tremando. Poi ricordo che ci sono dei piccoli scuri di ferro che si chiudono

sugli oblò quando il tempo è cattivo. Senza perdere un minuto, mi alzo in

piedi e chiudo gli scuri sull'oblò. Poi vado vicino agli altri e faccio la stessa

cosa. Adesso siamo al buio e dico piano a Joky di accendere la lampada, il

che riesce a fare a tastoni.

Circa un'ora dopo mezzanotte, mi addormento.

Qualche ora dopo mi desto all'improvviso sentendo un urlo di dolore ed il

suono metallico della ciotola per l'acqua. C'è un breve suono di lotta e poi

quell'odioso suono di mandibole. Indovino ciò che è successo. Uno degli

uomini dev'essere uscito dal castello di prua per prendere un po' d'acqua.

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Evidentemente ha cercato di approfittare del buio per nascondere i suoi

movimenti. Povero diavolo! Ha pagato con la vita questa sua mossa!

Dopo non riesco più a dormire, sebbene il resto della notte trascorra

abbastanza calmo. Verso mattina faccio un sonnellino, ma mi sveglio di

soprassalto dopo pochi minuti. Joky sta dormendo in pace. Sembra davvero

che abbia superato la terribile tensione delle ultime ventiquattr'ore. Verso le

otto lo chiamo, e facciamo colazione alla meglio con le gallene e dell'acqua.

Di questa, fortunatamente, ne abbiamo una buona riserva. Joky sta

riprendendosi e comincia un poco a parlare, forse più forte di quanto

dovrebbe; Infatti, mentre parla qualcosa sbatte al casotto, che produce un

suono metallico. Dopo, Joky non parla più.

Mentre stiamo seduti là, non posso fare a meno di pensare a quello che

stanno facendo gli altri uomini, ed a come quei poveri diavoli a prua se la

possono passare rinchiusi senza acqua, come la tragedia della notte aveva

dimostrato.

Verso mezzogiorno, sento una forte detonazione seguita da un terribile

muggito. Poi giunge un rumore di legno spezzato e grida umane di dolore.

Invano mi chiedo che cosa è successo. Poi comincio a ragionare. Il suono

della detonazione era evidentemente più forte di quello di un fucile o di una

pistola e, a giudicare dagli urli della «Cosa», lo sparo deve averla colpita.

Pensando ancora di più, mi convinco che, in qualche modo, gli uomini a

poppa devono aver fatto uso del piccolo cannone che abbiamo e, sebbene

abbia capito che qualcuno dev'essere rimasto ferito, o forse ucciso, un

sentimento di esultanza mi afferra mentre ascolto i ruggiti della «Cosa» che

mi rendo conto essere stata ferita, forse mortalmente. Dopo un po' i muggiti

terminano, e solo ogni tanto si ode un urlo che esprime più ira che altro.

Adesso mi accorgo che il mostro è andato verso tribordo, perché la nave

s'inclina da quella parte, e una grande speranza mi pervade: c'è la possibilità

che si sia stancato di noi e che stia tornando in mare scavalcando il

parapetto.

Per un po' tutto tace, e la mia speranza diventa sempre più forte. Mi

sporgo e tocco Joky che dorme con la testa appoggiata alla tavola. Il

ragazzo si sveglia con un forte grido.

«Zitto!» gli sussurro con voce rauca. «Non ne sono certo, ma credo che se

ne sia andato.»

La faccia di Joky s'illumina vivamente, e mi rivolge un fuoco di fila di

domande. Aspettiamo un'altra ora circa e la speranza aumenta. Anche la

nostra sicurezza ritorna in fretta. Non udiamo alcun suono, neppure il

respiro di quella «Bestia». Quando prendo delle gallette, Joky, dopo aver

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cercato nell'armadietto, tira fuori un pezzettino di maiale ed una piccola

bottiglia di aceto. Con gusto, ci precipitiamo a mangiare.

Dopo la lunga astinenza il pasto ci fa l'effetto del vino, e che cosa si mette

in mente Joky se non insistere nel voler aprire la porta per assicurarsi che la

«Cosa» è andata via? Non glielo permetto, e gli faccio capire che sarebbe

più sicuro se almeno aprissimo prima gli scuri di ferro e guardassimo fuori.

Joky continua a discutere, ma io non mollo. Lui diventa irrequieto, il che mi

fa pensare che il giovane sia un po' sciocco. Poi, mentre mi volto ad

allentare le viti di uno degli scuri, Joky si precipita alla porta ma, prima che

riesca ad aprire il chiavistello, lo afferro e, dopo una breve lotta, lo

riconduco verso la tavola. Mentre mi sforzo di calmarlo, si sente un lungo e

forte grugnito provenire dalla porta di tribordo, quella che Joky aveva

tentato di aprire, seguito immediatamente da un ululato assordante, e da

sotto la porta penetra dentro la stanza un orrendo puzzo di fiato putrido.

Comincio a tremare violentemente e, se non fosse per il banco del

carpentiere al quale mi appoggio, cadrei a terra. Joky impallidisce e dà di

stomaco violentemente, dopodiché comincia a singhiozzare.

Le ore passano, e mi sento così stanco da sdraiarmi sul banco su cui mi

sono seduto per tentare di riposare. Verso le due di notte, dopo un sonno più

lungo del solito, vengo destato all'improvviso da un rumore assordante che

proviene dalla porta di prua; sono voci umane che urlano, bestemmiano, e

pregano, ma deboli e fievoli malgrado il terrore che esprimono, ogni tanto

interrotte dall'infernale muggito di sazietà che è l'inumano grido della

«Cosa».

Sono in preda ad una paura invincibile, e posso solo cadere in ginocchio e

pregare. So molto bene ciò che sta accadendo.

Joky ha continuato a dormire durante questo evento e ne ringrazio Dio.

Adesso, da sotto la porta viene un po' di luce, e mi rendo conto che è

spuntato il sole sul secondo mattino della nostra prigionia.

Lascio dormire Joky: è meglio che viva in pace fin che può. Il tempo

passa, ma io non lo noto. La «Cosa» è quieta: forse sta dormendo. Verso

mezzogiorno, mangio un po' di gallette e bevo dell'acqua. Joky sta ancora

dormendo. Meglio così.

Un suono interrompe la calma. La nave oscilla leggermente e capisco che

la «Cosa» si è svegliata di nuovo. Striscia lungo il ponte e fa sì che la nave

si muova in modo percettibile. Una volta va verso la prua per esplorarla.

Evidentemente non ci trova nulla perché ritorna immediatamente. Si ferma

un momento davanti al casotto, poi continua verso poppa. Su in alto,

dall'impalcatura lontana l'Orrore si ferma di botto. Io ascolto con attenzione,

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ma non sento nulla salvo uno strano cigolio al di là dell'estremità del

casotto, come se un peso fosse caduto sull'attrezzatura.

Dopo un minuto sento un urlo su in alto, seguito quasi istantaneamente da

un forte tonfo sul ponte che pare scuotere la nave... Attendo pieno d'ansia e

di paura. Poi si ode un altro grido di paura, che cessa improvvisamente.

L'attesa diventa impossibile, e non riesco più a sopportarla. Molto

cautamente apro uno degli scuri e guardo fuori. Mi si presenta agli occhi

uno spettacolo orribile. Là, con la coda sul ponte e l'enorme corpo

attorcigliato intorno all'albero maestro, c'è il mostro: la sua testa è sopra il

pennone della vela maestra con il tentacolo a forma di artiglio che si agita

nell'aria.

È la prima volta che vedo bene la «Cosa». Mio Dio! Deve pesare cento

tonnellate! Sapendo di averne il tempo, apro l'oblò e sporgo la testa fuori

guardando in alto. Là, sull'estremità del pennone più basso della vela

maestra, vedo uno dei marinai. Anche da qui posso notare l'orrore che gli si

è dipinto in faccia. In quell'istante mi vede ed emette un rauco grido di

aiuto. Non posso fare nulla per lui. Mentre lo sto guardando, la grande

lingua si protende fuori e lo porta via dal pennone alla maniera di un cane

che prende una mosca da un vetro.

Più in alto, e fortunatamente lontani dalla sua portata, ci sono altri due

uomini. Per quanto posso giudicare, si sono legati all'albero sopra il

pennone reale. La «Cosa» tenta di raggiungerli, ma smette ben presto quegli

sforzi inutili e comincia a strisciare verso il basso, spira dopo spira,

raggiungendo il ponte. Mentre si muove, posso notare una grande ferita

aperta nel suo corpo a circa venti piedi sopra la coda.

Abbasso lo sguardo e guardo a poppa. La porta della cabina è scardinata e

la parte superiore che, al contrario di quella di mezzo ponte, è costruita in

legno di tek, è quasi tutta rotta. Con un brivido mi rendo conto del perché di

quelle urla dopo il colpo del cannone. Voltandomi, mi guardo intorno e

tento di vedere l'albero di trinchetto, ma non mi è possibile. Mi rendo conto

che il sole sta calando e la notte si avvicina. Allora ritiro la testa e chiudo

l'oblò e gli scuri.

Quando finirà? E come finirà?

Dopo un po' Joky si sveglia. È molto irrequieto: sebbene non abbia

mangiato nulla in tutto il giorno, non riesco a mangiare niente. La notte si

avvicina.

Noi siamo troppo esausti, troppo depressi per parlare. Io mi sdraio ma non

dormo... Il tempo passa...

2.

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Un ventilatore è in funzione da qualche parte del ponte, e là risuona senza

interruzioni quel rumore rauco e difettoso. Più tardi, sento il miagolio di

morte di un gatto e poi c'è pace di nuovo. Dopo un po', sento un forte tonfo

vicino. Quindi, per alcune ore, tutto è quieto e silenzioso come in una

tomba.

Ogni tanto mi metto a sedere sul banco e sto in ascolto, ma neppure il

minimo bisbiglio giunge alle mie orecchie. C'è silenzio assoluto, ed anche il

monotono rumore delle macchine è cessato completamente, per cui una

speranza reale finalmente si fa viva dentro di me.

Quel tonfo, questo silenzio: certamente ho ogni motivo di sperare. Questa

volta non sveglio Joky; voglio provare prima a me stesso che tutto è sicuro.

Attendo ancora. Non voglio correre dei rischi senza necessità.

Dopo un po' vado davanti all'oblò e mi metto in ascolto, ma non sento

alcun suono. Con la mano tocco la vite, ed esito ancora, ma non per molto.

Senza far rumore comincio a svitare la chiusura del pesante scuro che pende

dai cardini, poi lo tolgo via e guardo fuori. Il cuore mi batte

affannosamente. Fuori tutto pare stranamente buio: forse la luna è oscurata

da una nuvola. All'improvviso, un raggio di luna entra dall'oblò e altrettanto

presto sparisce. Guardo fuori a lungo: qualcosa si muove. Di nuovo la luce

inonda la stanza e adesso mi pare di guardare dentro una grande caverna nel

cui fondo qualcosa di un pallido bianco si muove e si accartoccia.

Il mio cuore cessa di battere. È quella «Cosa» orrenda. Indietreggio ed

afferro lo scuro di ferro per chiudere. Ma, mentre faccio questo movimento,

qualcosa rompe il vetro. Come un ariete di rame, lo manda in mille pezzi ed

entra nella cabina.

Urlo e indietreggio. L'oblò è del tutto occupato dalla massa che una

lampada illumina fiocamente. Si arriccia e si muove qua e là. È grossa come

un albero con un grande artiglio a forma di tenaglia come quello d'una

aragosta, solo mille volte più grande. Mi ritraggo nell'angolo più lontano. Il

mostro ha sfasciato il banco degli arnesi con un colpo di quelle paurose

mandibole, Joky si è nascosto sotto la cuccetta. La «Cosa» si dirige verso di

me ed io sento che il sudore che mi cola giù per la faccia ha il sapore del

sale. Quella morte orribile si avvicina sempre di più...

Un rumore! Rotolo indietro mentre il mostro ha spezzato il barilotto

dell'acqua, che allaga il pavimento. L'artiglio si muove su e giù con

movimenti incerti e rapidi battendo il pavimento con colpi pesanti e ripetuti

a pochi centimetri dalla mia testa. Joky emette un rantolo di orrore.

Lentamente, la «Cosa» si alza e comincia a tastare lo spazio vicino alla

cuccetta. Cade sopra una di queste e, tirato su un cuscino, lo spezza in due,

Page 20: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

poi lo lascia cadere e continua a muoversi. A tentoni cerca sul pavimento e

trova la metà del cuscino. Sembra che ci giochi, lo tira su e lo porta fuori

dall'oblò...

Un'onda di aria putrida riempie la cabina. Poi ecco di nuovo quel suono

stridente, e qualcosa entra attraverso l'oblò... qualcosa di bianco, allungato,

pieno di denti. Si curva qua e là raschiando le cuccette, il soffitto ed il

pavimento, producendo il suono di una grande sega in movimento. Due

volte volteggia sopra la mia testa, ed io chiudo gli occhi. Poi se ne va; ora

sembra che sia nella parte opposta alla mia, vicino a Joky. All'improvviso, il

suono stridente diventa più fioco, come se i denti passassero sopra una

sostanza più morbida. Joky emette un breve urlo orribile che diventa un

suono gorgogliante, quasi come un fischio. Apro gli occhi: la punta

dell'enorme lingua si è strettamente attorcigliata intorno a qualcosa che

gocciola, poi si ritira in fretta permettendo alla luce della luna di illuminare

di nuovo la cabina. Mi alzo in piedi e, guardandomi intorno, posso vedere

come un automa lo stato di distruzione della cabina: gli armadietti rotti, le

cuccette a pezzi e qualcos'altro.

«Joky!», grido, tremando da capo a piedi.

Ed ecco quella «Cosa» orribile ancora davanti all'oblò. Mi guardo attorno

in cerca di un'arma. Vendicherò Joky! Ah! Là sotto la lampada, dove giace

spezzato il banco del carpentiere, vi è una piccola accetta. Facendo un balzo

in avanti, l'afferro. È piccola, ma ben affilata. Sento con amore la sua lama

che taglia come quella d'un rasoio. Poi ritorno verso l'oblò: mi fermo da un

lato ed alzo la mia arma. La grande lingua va a tentoni verso quegli avanzi

spaventosi. Riesce a raggiungerli ma, mentre li tocca, gridando «Joky!

Joky!», la colpisco selvaggiamente, e quella massa mostruosa cade sul

ponte contorcendosi come la più odiosa delle anguille. Una enorme quantità

di liquido caldo entra attraverso l'oblò. C'è un suono di acciaio che viene

rotto e un muggito assordante. Sento un suono nelle orecchie che cresce di

intensità. Poi la cabina perde i contorni e precipito improvvisamente in una

grande oscurità.

Estratto dal libro di bordo della nave a vapore Hispaniola

Giugno 24 - Lat. N. Long. W–11 a.m.

Avvistammo un battello a quattro alberi, quattro gradi a babordo, che aveva una

bandiera indicante pericolo. Ci dirigemmo verso di lui, e mandammo una scialuppa

a bordo. Si chiamava Glen Doon e viaggiava da Melbourne a Londra. L'abbiamo

trovato in uno stato terribile: i ponti erano coperti di sangue e di fango, e la cabina

d'acciaio del ponte era sfondata. Aperta la porta, scoprimmo un giovane di circa

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diciannove anni in uno stato di estrema prostrazione e trovammo anche delle parti

del corpo di un ragazzo di circa quattordici anni. C'era una grande quantità di sangue

in quel luogo ed un'enorme massa accartocciata di carne biancastra che pesava circa

mezza tonnellata. Una delle sue parti appariva tagliata completamente con uno

strumento appuntito. Trovammo la porta del castello di prua aperta e scardinata. La

porta era allargata come se qualcosa vi fosse stata fatta entrare a forza. Entrati,

trovammo il castello in una condizione terribile: c'era sangue dappertutto, armadi

rotti, cuccette ridotte a pezzi; ma non c'erano uomini, né avanzi di corpi. Ci

dirigemmo allora a poppa, e ci accorgemmo che il giovane mostrava segni di

recupero. Quando rinvenne, ci disse di chiamarsi Thompson. Ci disse che erano stati

attaccati da un enorme serpente: pensammo che doveva trattarsi di un serpente di

mare. Il giovane era troppo debole per parlare, ma ci disse che c'erano degli uomini

sull'albero maestro. Mandammo qualcuno su, e li trovarono legati all'albero, però

morti. Andammo quindi a poppa, e trovammo la paratia rotta e la porta della cabina

che giaceva in terra sul ponte vicino al boccaporto. Trovammo il corpo del Capitano

giù nell'interponte, ma non c'erano ufficiali. Notammo in mezzo a quelle rovine una

parte dell'affusto di un piccolo cannone. Quindi facemmo ritorno a bordo della

nostra nave.

Mandammo l'Ufficiale in Seconda con sei uomini per portare quella nave in porto.

Thompson è qui con noi, ed ha scritto la sua versione dei fatti. Noi, dopo aver

visto la condizione della nave, pensiamo che la sua storia sia vera.

(Firmato)

William Norton (Capitano)

Tom Briggs (Primo Ufficiale)

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Lamie

«Eccola lì!» urlò il vecchio Nostromo al mio amico Trevor, mentre il

nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'Isola di Nightingale.

Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una

minuscola isoletta a tribordo.

«Eccola lì, signori», ripeté esitante. Middle Islet! Attraccheremo nella

baia fra un momento. Badate bene signori: io non posso affermare che la

nave sia ancora lì e, se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non ho

visto nessuno, quando vi salii sopra la prima volta.»

Il vecchio si rimise la pipa in bocca con aria truce, tirando boccate di

fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con

i cannocchiali.

Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord,

si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste, il tenebroso picco dell'Isola di

Tristano, la più grande del gruppo delle isole Da Cunha mentre, lungo

l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma

caratteristica dell'Isola Inaccessibile.

Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio.

Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle

coste dell'Isola Nightingale.

Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente

sopra le acque cupe.

Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti;

andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che

aveva imbarcato la sua donna.

Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per

le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio

amico aveva invano aspettato il ritorno... del Felice Ritorno, la nave che per

ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di

salute. Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata

data per dispersa da tutti... tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, e

spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più

importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva condotto

ben presto da lui il vecchio Nostromo che ora stava al suo fianco.

Quest'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto

Page 23: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

agli appelli, fornendo alcune informazioni su un relitto di nave, senza alberi,

che portava l'insegna del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che lui

aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana,

piccola baia sul versante sud di Middle Islet.

Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, inquantoché il

Nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma,

senza trovare assolutamente niente sulla nave deserta.

Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché

conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e

probabilmente quel relitto solitario doveva aver eccitato un poco la loro

fantasia, e quindi...

Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il Nostromo si

lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia

personale tesi sull'argomento.

«Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria

poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per

essere un vero relitto.»

«Cosa diavolo intendete dire?» chiesi con noncuranza.

«Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella

nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da un

momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, potete

contarci...»

Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa.

Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi

guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo

intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro.

Trevor si voltò verso il Nostromo, tremando.

«William, è proprio questo il luogo?», domandò, esitante.

Il Nostromo si scostò le lunghe ciocche incatramate dalla fronte,

poggiandosi le mani in testa a mo' di visiera.

«Sissignore, ci siamo proprio!» affermò.

«Sì, ma dov'è la nave? Io non vedo niente...»

«Non preoccupatevi capo: siamo ancora lontani dall'ingresso della baia!

La nave è nell'interno, e tra un po' la vedremo.»

Trevor staccò la mano dalla spalla del vecchio, tremando. Il suo volto si

fece pallidissimo, come in preda ad un collasso. Si appoggiò alla balaustra

per non cadere, poi si voltò.

«Hearnshaw, amico mio, mi sento svenire... io...»

«Coraggio, fatti forza! Prendi un bicchiere di questo Rhum stravecchio, e

ti sentirai un po' meglio. Dài!»

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Diedi gli ordini per far preparare un canotto, in modo da essere pronti a

scendere in mare a tempo debito.

Cinque minuti più tardi, ci addentrammo con la nave in quella stretta

apertura rocciosa, più simile ad un fiordo che ad una baia, scrutando

attentamente in ogni direzione.

L'insenatura, si addentrava profondamente nell'isoletta...

Finalmente, tra le ombre apparve qualcosa, per scomparire quasi subito.

Era senz'altro la poppa di una nave! Lanciai un grido di eccitazione, facendo

cenno a Trevor di fermare.

La scialuppa fu calata in mare, e Trevor, io, una ciurma, ed il vecchio

Nostromo al timone, puntammo verso quell'apertura sulle coste di Middle

Islet.

Superata una larga fascia di alghe puzzolenti che circondava letteralmente

la costa, dopo un po' avanzammo speditamente sulle lisce, nere acque della

profonda baia, costellata di rocce a strapiombo che sembravano piombare

nell'infinito. Superato uno stretto passaggio, ci ritrovammo in una

insenatura perfettamente ovale, dalle acque morte, glaciali.

Le pareti tutt'attorno erano lisce e biancastre, come il condotto di un

immenso pozzo. E, alla fine di quel pozzo, trovammo la poppa di una nave

con la bianca insegna Felice Ritorno.

Guardai Trevor. Era pallidissimo, e sudava come una bestia. Mastro

William ci fece accostare alla fiancata del relitto, e Trevor ed io ci

arrampicammo penosamente a bordo. Il Nostromo ci seguì, ormeggiando la

fune della scialuppa. Con un'agilità straordinaria per un uomo della sua età,

balzò a sua volta sul relitto, facendoci strada.

Mentre camminavamo cautamente, i nostri passi risuonavano sul ponte

con un lugubre rumore, dandoci un senso quasi insopportabile di cupa

desolazione.

Le nostre voci procuravano un'eco a dir poco spaventosa, e rimbalzavano

sul budello di roccia, per cui fummo costretti anche a parlare sottovoce,

come in chiesa, o come in un cimitero...

Allora cominciai a capire le sibilline parole del Nostromo circa la strana

aria che tirava a bordo di quel relitto.

Mastro William sembrò indovinare i miei pensieri.

«Dannazione! Guardate come è pulita ed ordinata. Non mi sembra

naturale. Sembra quasi che sia stata lavata da poco: altro che naufragio! E

ne ho visti di naufragi, io!»

Riprendemmo ad avanzare, seguendolo.

Benché non ci fossero più né gli alberi né le scialuppe, il resto della nave

era in perfetto ordine. Il ponte era pulito, le funi annodate nelle bitte, i rotoli

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di cordami al loro posto preciso, e perfino il barile dell'acqua dolce era

pieno.

Anche Trevor si rese conto della estrema stranezza di tutto ciò, e

cominciò di nuovo a tremare, sull'orlo di una crisi.

«Amico mio, hai visto? Questo significa che qualcuno della ciurma è

ancora vivo... È ancora qui, ne sono certo... ma dove... dove... dove

potrebbe essere?»

«Di sotto?» suggerii, tentando di assumere un certo tono.

I suoi occhi si fissarono nei miei con la forza della disperazione, cercando

un coraggio che certamente non avevo.

In quel momento Mastro William ci chiamò, da davanti all'imboccatura

della scala.

«Signori, se non venite con me, non scendo certo da solo!»

«Forza Trevor, coraggio. Pensa a lei!»

Ci avviammo giù per la scala, scendendo verso i saloni.

Entrammo in quello di destra, rimanendo ancora una volta colpiti

dall'eccessiva pulizia degli ambienti. Nessun segno di abbandono, incuria, o

polvere. Eppure quel relitto si trovava lì da più di sei mesi, come minimo!

«Vedi? Dev'esserci per forza qualcuno!» mormorò il mio amico, sentendo

rinascere le speranze, mentre io pensavo sempre più, con aria cupa, alle

sibilline parole del Nostromo. Mastro William entrò nel salone di sinistra,

nell'ala delle cabine. Con un calcio ne aprì una. Era piena di biancheria

intima.

«Guardate, capo! Questa doveva essere la cabina di vostra moglie, perché

c'è un mucchio di questa roba in giro...»

Trevor guardò William con un'espressione folle, saltandogli al collo e

tentando goffamente di strozzarlo.

«Maledetto... maledetto ladro... come osate profanare le sue cose... Io vi

ammazzo, capite... Nessuno... nessuno può!»

Il Nostromo si liberò con un solo movimento dalla stretta del mio povero

amico, mandandolo lungo disteso sul pavimento, mentre io lo scrutavo

preoccupato, temendo che mettesse mano al coltello che gli pendeva dietro

la schiena.

«Badate a come parlate, signor mio!» disse il vecchio con aria offesa,

livido dalla rabbia. «Io non ho rubato proprio niente, e tantomeno questa

robaccia che porta sfortuna!»

Trevor si rialzò come fosse spinto da una molla, ed entrò nella cabina

urlando il nome della sua donna a più riprese.

Il Nostromo si voltò a guardarmi, facendo segno che il mio amico doveva

essere diventato matto.

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Dopo un poco, Trevor uscì con aria trionfante. In mano aveva uno di quei

calendari da muro, a fogli staccabili.

«Guardate! Leggete la data! Leggetela!»

Guardai il calendario con occhi sbarrati, respirando appena. Il primo

foglio indicava la data di quel giorno.

«Ma non è possibile! Si tratta di un caso, di un errore!»

«No!», urlò Trevor, con voce esultante. «È stato strappato oggi, capisci!

Lei è viva... ed io la troverò!»

Con aria autoritaria, si voltò verso il Nostromo.

«Che data portava questo calendario quando siete venuto qui l'altra

volta... Avanti, parlate, perdio!»

Mastro William lo guardò con stupore.

«È la prima volta in vita mia che vedo questo calendario», affermò

lugubremente. «Dev'essere una nave maledetta.»

«Non dite fesserie! Sono stanco delle vostre fisime! Qui a bordo devono

esserci dei superstiti, è chiaro. Su, forza! Un po' di coraggio! Andiamo a

cercarli.»

E andammo. Cercammo: cercammo per ore e ore. Niente di niente.

Nessun segno di vita, da nessuna parte. Eppure, in ogni dove regnava la più

perfetta pulizia, un contrasto stridente con il disordine selvaggio dei relitti

veri e propri.

Visitando le varie cabine, avvertivo come un'impressione inspiegabile

come un ansito caldo e freddo allo stesso tempo. Finite le nostre ricerche

senza aver trovato niente, ci guardammo in faccia con espressioni di

sgomento e di terrore. Mastro William storse la bocca, con disprezzo.

«È come vi avevo detto io, signore... qui non c'è nessuno.»

Trevor non rispose, immerso in un cupo silenzio.

«Tra poco sarà notte, signore, ed è meglio per noi abbandonare il relitto

prima che calino le tenebre...»

Portammo fuori quasi di peso il povero Trevor - che si fece condurre via

senza emettere una sola parola - calandoci lestamente nella scialuppa

mentre il sole tramontava all'orizzonte. Ben presto fummo di nuovo sulla

nostra nave all'ancora.

Durante la notte, Trevor propose di sbarcare sull'isoletta di Middle Islet,

per cercare le tracce della ciurma del Felice Ritorno, che forse si era

rifugiata sulla terraferma. In caso di esito negativo delle ricerche, allora

avremmo perlustrato anche l'Isola Nightingale e le rocce di Stoltenkoff,

prima di far rotta verso casa, sconfitti.

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Appena spuntò l'alba, ci apprestammo con impazienza allo sbarco. Prima

di sbarcare sull'isoletta, ordinammo a Mastro William di mantenere la

scialuppa nella baia.

Trevor credeva follemente che la ciurma del relitto, il giorno prima,

avesse abbandonato la nave per sbarcare sull'isola, in cerca di erbe,

muschio, o di qualche raro capo di cacciagione... Ricordandomi il mistero

del calendario, mi persuasi anch'io che forse qualche cosa di vero c'era,

dopotutto.

Di nuovo ci addentrammo con la scialuppa in quello stretto budello

avvolto da una luce quasi irreale, tentando di incoraggiarci a vicenda, ed in

parte riuscendoci, merito questo dei forti liquori che tacitamente giravano

sottobanco.

Questa volta fu Trevor a salire per primo sul relitto, e si mise a correre

verso le cabine. Mastro William ed io lo seguimmo senza alcun entusiasmo,

arrestandoci alla vista di Trevor che si era fermato davanti alla cabina di sua

moglie.

Con un sorriso demente, Trevor alzò il pugno, bussando cortesemente alla

porta della cabina, aspettandosi una risposta. Io lo guardai con terrore,

pregando che nessuno rispondesse, come in effetti avvenne, mentre Trevor,

incurante, continuava a bussare, a bussare...

Lo scostai di lì ed aprii io la porta della cabina. Ovviamente non c'era

nessuno ma, con un urlo di trionfo, il mio amico si precipito sul calendario,

sventolandomelo sulla faccia.

Sconcertati, lo guardammo, non credendo ai nostri occhi.

Il giorno prima, portava la data del 27; adesso, ben visibile, portava la

data del 28: era stato strappato ancora una volta!

«Hai visto Hearnshaw? Dev'esserci per forza qualcuno a bordo!»

Scossi la testa, guardandolo con un misto di paura e sospetto.

«Trevor, amico mio... sei sicuro di non averlo strappato tu,

inconsciamente, il calendario... quando lo posasti ieri?»

«Che dici, sei matto? Certo che ne sono sicuro!»

«Ma allora... a che gioco stanno giocando?» sbottai.

«Iddio solo lo sa!», fece Mastro William, segnandosi rapidamente. Mi

voltai verso il vecchio Nostromo, guardandolo sorpreso.

«Anche voi credete che qui sia venuto qualcuno, allora?» gli chiesi.

«Questa è opera dei fantasmi, signore!»

«Tenete la bocca chiusa, William! E guai a voi se mi spaventate la

ciurma, capito?» gridò Trevor.

Gratificandoci di un'occhiata sprezzante, e senza rispondere, Mastro

William ci voltò le spalle, dirigendosi alla scala.

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«Un momento! Dove state andando?» gli urlai dietro.

«Sulla scialuppa, signore. Non ho alcuna intenzione di stare qui ad

aspettare gli spettri, sapete!»

Trevor lo lasciò andare senza tentare di fermarlo, assorto in una specie di

ragionamento deduttivo. Poi:

«È tutto chiaro. Se non vivono a bordo, una ragione ci deve pur essere.

Forse stanno in qualche caverna, chissà...», disse.

«E allora come spieghi il fatto del calendario?»

«Penso che escano solo di notte. Ci dev'essere qualcosa, durante il giorno,

che li tiene lontani. Magari una belva feroce. Sicuramente, si nascondono da

qualche pericolo.»

Scossi la testa, spazientito.

«Che io sia impiccato se ci capisco qualche cosa!»

Sapevo bene che, su quello scoglio brullo, non esistevano belve feroci. E

non c'era posto più sicuro di quella torpida baia e di quella nave arenata,

ancora solida e pulita. Eppure... quel maledetto calendario... era un vero

mistero.

Dopo un altro inutile giro di perlustrazione, rientrammo nella nostra

scialuppa, costeggiando l'isoletta, finché trovammo un approdo abbastanza

sicuro fra le rocce.

Mastro William prese con sé due uomini ed io gli altri due, quindi ci

avviammo ad esplorare ognuno una metà diversa dell'isoletta, mentre

Trevor si arrampicava sulla sommità del picco. Dopo un'ora, ritornammo

tutti vicino alla scialuppa; nessuno aveva trovato la benché minima traccia,

e neppure le fantomatiche caverne di cui avevamo caldeggiato l'esistenza.

Trevor era ancora lassù, sul picco roccioso. Arrancai bestemmiando sulla

strada, per andare ad avvisarlo.

«Trevor! Andiamo! Scendi di lì: si torna alla nave!»

Lui si voltò facendo cenno di avvicinarmi in silenzio.

«Chinati qui! Vedi anche tu quello che vedo io?»

Mi chinai proprio sull'orlo del precipizio, guardando incuriosito nel cupo

budello di roccia che finiva a piombo nella piccola baia delle acque morte.

«E che diavolo c'è da guardare? Io non vedo niente!»

«Non lì, sciocco: più a destra! Proprio sotto al relitto!...»

Guardai nella direzione indicata, aguzzando la vista.

«Ma sì... li vedo... dev'essere un branco di pesci.»

«Come, pesci? Dei pesci dalla forma ovale?»

Guardai ancora meglio, sforzandomi al massimo.

«Effettivamente, sono pesci un po' strani... Pesci Luna, forse, o Pesci

Palla... o magari qualche specie sconosciuta...»

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Trevor continuava a guardare, orribilmente affascinato.

«Quei pesci hanno dei visi strani... come dei volti umani, di annegati...

con le gote gonfie e gli occhi biancastri...»

«Ma piantala con queste scempiaggini! Forse sono proprio quei pesci, la

causa di tutto. Forse sono dei piccoli squali, chissà! È per questo i naufraghi

devono aver abbandonato le vicinanze della nave, tornando solo ogni volta

possibile!»

Sapevo di mentire spudoratamente, ma il mio amico, ridotto allo stremo,

volle crederci, approvando entusiasticamente.

«Sì, è vero, dev'essere così... Qualche pericolo li tiene lontani, e loro

tornano solo di notte.... e lei mette a posto il calendario, pensando a me: a

me, capisci?»

Guardai ancora nel precipizio, ma gli strani pesci non c'erano più e

cominciai a dubitare di averli visti.

«Andiamo Earnshaw, torniamo a bordo. Voglio prendere delle armi per

massacrare tutti quei pesci mostruosi!»

Un'ora più tardi, salimmo di nuovo sul relitto, armati di fucili di

precisione, fiocine d'osso, e tridenti acuminati. Io e Trevor impugnavamo

due grossi revolver, per sicurezza. Per tutto il giorno i marinai montarono la

guardia al relitto, girando in ronde armate fino ai denti per tutta la nave,

esplorando ogni minimo pertugio con aria cupa.

Finalmente, mentre il sole stava calando, scoppiarono dei clamori, e

Mastro William venne a comunicarci, con aria contrariata, che la ciurma si

rifiutava di restare sul relitto di notte, minacciando l'ammutinamento in caso

di ordini contrari.

«Dovete capirli; sono uomini coraggiosi, che non hanno mai

indietreggiato davanti ai pirati o ai selvaggi... ma combattere contro i

fantasmi... beh, è tutt'altra cosa.»

Trevor, con disprezzo, lasciò liberi gli uomini di tornare sulla nave,

affermando che lui invece avrebbe passato la notte sul Felice Ritorno, ad

ogni costo.

Naturalmente io, in nome della nostra vecchia amicizia, non me la sentii

di abbandonarlo, per cui decisi di restare con lui. Presi un paio di coperte,

un po' di gallette e di carne fredda, e scesi con lui nel salone.

Dopo aver detto a Mastro William di ritornare a prenderci il mattino

dopo, al primo spuntar dell'alba, rimasi sul ponte a guardare la scialuppa che

si allontanava, cominciando già a pentirmi amaramente della mia decisione.

Il tempo cominciò a passare, lento, mentre entrambi camminavamo in

lungo e in largo, parlando futilmente degli argomenti più disparati, tanto per

distrarci.

Page 30: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

Un silenzio terrificante, innaturale, riempiva ogni angolo del relitto;

tendevo ansiosamente le orecchie, nella speranza di sentire almeno il

risuonare delle onde, ma anche il mare taceva. Trevor fece cadere

malaccortamente per terra la sua pistola, che esplose un colpo secco.

L'eco dello sparo si ingigantì tra le rocce che ci circondavano,

trasformandosi in un sordo, agghiacciante boato.

Con i nervi tesi allo spasimo, avvertii un lontano ansito bestiale, giù nel

profondo, in risposta a quello sparo.

Una nebbia fittissima circondò pian piano il relitto.

Cercando di tirarci su il morale, consumammo il nostro frugale pasto

freddo, annaffiandolo con un bel po' di Cognac che mi ero portato nella

fiaschetta metallica da tasca.

Trevor cominciò a guardarsi attorno con una strana luce negli occhi,

cominciando finalmente a realizzare la situazione poco invidiabile in cui ci

eravamo cacciati.

Consultai a fatica il mio orologio: era mezzanotte.

Tirammo a sorte per stabilire i turni di guardia, ed a me toccò il secondo.

Mi avvolsi nelle coperte, tremando, osservando Trevor che si installava su

una sedia, impugnando saldamente il suo revolver. Poi crollai di botto,

addormentandomi. Mi ritrovai subito immerso in un sogno, un sogno

talmente nitido, lucido e preciso, da rasentare la realtà.

Nel sogno vidi Trevor che balzava in piedi, attirato da una voce

dolcissima che lo invocava con parole d'amore.

Dalla porta del salone, vidi avanzare un volto angelico, due occhi di

fiamma, ed un corpo celestiale, avvolto da una vaporosa vestaglia

trasparente, che sembrava tessuta nelle onde. Un Angelo del Signore!

mormorai sgomento, nel sogno, accorgendomi di quanto fosse sbagliata la

mia impressione, e riconoscendo con terrore il volto lussurioso e maligno

della moglie di Trevor che, ahimè, avevo purtroppo ben conosciuta, prima

del suo matrimonio col mio povero amico.

Trevor gettò la rivoltella per terra, obbedendo ad un preciso richiamo, e si

alzò, buttandosi fremente tra le braccia della donna, che si chiusero sul suo

corpo.

I due s'incamminarono insieme, lentamente, svanendo nella nebbia, ed il

mio sogno continuò così senza di loro.

Dopo un intervallo di tempo indefinibile, fui svegliato in maniera brusca

da un urlo terrificante, come quello di un maiale sgozzato; uno di quegli urli

che non si dimenticano! Ghiacciato dalla paura, trassi il capo fuori dalle

coperte, puntando verso il buio la canna della mia rivoltella. Niente! Il solito

glaciale silenzio di sempre.

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Mi voltai verso l'angolo in cui avevo lasciato Trevor di guardia, e mi

accorsi con sgomento che non c'era più. Balzai allora in piedi, col cuore che

mi batteva forte, avanzando. Il suo revolver giaceva lontano per terra in un

angolo del salone. Allora... forse... non era stato un sogno. Un sogno?

Alla fioca luce lunare che pioveva dal lucernario scheggiato, chiamai più

volte, con voce disperata, il mio amico.

Nessuna risposta... solo un'eco spaventosa, che risuonò a lungo nei

corridoi delle cabine, dove forse...

Corsi lungo la scala, e sbucai sul ponte, continuando ad urlare. Nelle

tenebre, l'eco assumeva un aspetto orrendo. Mi chinai sul parapetto per

guardare se per caso Trevor non fosse caduto in mare, in preda alla sua

follia.

Un'ondata di freddo, nero orrore, mi attanagliò il cuore. A pelo d'acqua

affioravano una ventina di volti... volti pallidi, esangui, spaventosamente

tristi. Quei volti fremevano, ondeggiando sul mare, bisbigliando una strana

nenia dolorosa che mi penetrò nel cervello come un tarlo.

Non so come riuscii a sottrarmi all'orrido fascino di quelle povere

creature, a metà strada fra dei cadaveri d'annegati e delle translucide mante

giganti, e mi gettai indietro, sul ponte, urlando con tutte le mie forze.

Corsi lungo il ponte fino a farmi male, non osando rientrare nel cupo

abisso dei saloni di sotto, e non osando gettare un altro sguardo a quelle

strane, orride creature. Mi misi a sparare contro le ombre che turbinavano

nella nebbia, piangendo disperatamente, e mormorando tutte le preghiere

che mi avevano insegnato da piccolo e che da allora non avevo recitato più.

Poi i proiettili finirono, e scagliai il revolver nel vuoto, in preda

all'impotenza ed alla disperazione.

Un chiarore all'orizzonte mi fece urlare dalla felicità. Il giorno stava

spuntando! I primi timidi raggi del sole scesero a bucare la nebbia, che ben

presto si diradò, mentre io, con i nervi tesi allo spasimo, mi guardavo

intorno freneticamente, tenendomi pronto al peggio.

In lontananza, risuonò l'inconfondibile rumore dei remi. La scialuppa! La

scialuppa! Ero salvo! Mastro William si accostò a prua, urtando la fiancata

destra.

«Siamo qui, signori! Da questa parte!»

Urlando, mi tuffai letteralmente nella scialuppa, urtando contro qualcosa

di ferroso e rompendomi una gamba.

«Cosa diavolo...» cominciò a dire il Nostromo, guardandomi stupito.

«Andiamo via! Andiamo via di qui! Svelti, svelti!»

«Ma come... e il signor Trevor! Dove si è cacciato?»

«Trevor è morto! Morto! Allontaniamoci, presto! Presto!»

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I marinai remarono forte, contagiati dal mio terrore. Io mi tastai la gamba

sanguinante, straziata come da un artiglio... Nel momento in cui la scialuppa

passò sotto la poppa del relitto, alzai lo sguardo automaticamente, come nel

sogno.

Affacciata alla balaustra, una donna incantevole mi fissava con i suoi

occhi di ghiaccio, lanciandomi un muto richiamo. I suoi seni erano duri e

spinosi, e la sua bocca colava sangue; tese le braccia verso di me, ed io urlai

con tutte le mie forze, perché le sue braccia erano due artigli mostruosi.

Prima di svenire, riuscii ancora a sentire la voce possente di Mastro

William, che, bestemmiando, urlava ai suoi uomini che piangevano

terrorizzati: «VOGA! VOGA! VOGA! VOGA....»

Page 33: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

Il mare

«Zitto!» disse il mio amico scienziato, mentre entravo nel suo laboratorio.

Avevo appena aperto la bocca per parlare ma, dopo la sua richiesta, rimasi

in silenzio.

Stava seduto davanti al suo strumento, e questo emetteva un messaggio in

maniera curiosa ed irregolare, fermandosi pochi secondi per poi continuare

con un ritmo furioso.

Accadde durante una pausa un po' più lunga del solito che, sentendomi un

po' impaziente, mi arrischiai a rivolgermi a lui.

«Qualcosa d'importante?» gli chiesi.

«Per amor del cielo, sta' zitto!» mi rispose a voce alta e tesa.

Lo guardai. Sono abituato ad essere trattato da lui in maniera alquanto

brusca quando è completamente assorbito in qualche esperimento

particolare; ma ora cominciava ad essere un po' troppo, e così glielo dissi.

Stava scrivendo e, invece di rispondere, spinse verso di me parecchi fogli

pieni di una scrittura rada, pronunciando una sola, secca parola: «Leggi!»

Con un misto di rabbia e di curiosità, presi il primo foglio e lo scorsi con

gli occhi. Dopo poche righe, la mia attenzione venne attirata e rimase

avvinta da un morboso interesse. Stavo leggendo un messaggio scritto da

qualcuno che si trovava in tremendo pericolo. Lo riferirò parola per parola:

John, stiamo affondando. Mi chiedo se veramente sei in grado di comprendere

quello che sento in questo momento, tu che sei seduto confortevolmente nel tuo

laboratorio mentre io, che sto in acqua, sono già virtualmente morto. Stiamo

affondando! A poco a poco, e crudelmente. Mio Dio! Devo farmi forza e

comportarmi da uomo! Non ho bisogno di dirvi che sono nella stanza dell'operatore

radio. Tutti gli altri sono sul ponte o son morti a causa di quell'elemento che sta

sfasciando e facendo a pezzi la nostra nave.

Non so dove siamo e non c'è nessuno a cui chiederlo. L'ultimo degli ufficiali è

annegato quasi un'ora fa, e il vascello è adesso solo poco più di una piccola diga per

il mare impazzito.

Un’ora fa sono salito l’ultima volta sul ponte. Mio Dio! La vista era terminata ed

era passato mezzogiorno, ma il cielo era del colore del fango. Capisci? Fango grigio.

Enormi falde di nuvole pendono dal cielo. Non nuvole come quelle che ho sempre

visto prima, ma una mostruosa cappa ammuffita. Sembrano solide, eccetto là dove il

vento fortissimo rompe l'orlo più basso, rendendole simili a tanti tentacoli che

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turbinano selvaggiamente sopra di noi, quasi fossero le antenne di qualche enorme

orrore.

Uno spettacolo come questo è difficile a descriversi ai vivi; sebbene i morti del

mare lo conoscano anche senza bisogno delle mie parole. È uno spettacolo tale che

non è permesso a nessuno di vederlo e continuare a vivere. Solo ai condannati ed ai

morti, è dato di vedere una tale scena; una delle orge infernali del mare, una delle

mostruose gioie maligne contro i viventi, o meglio, contro i vivi nella morte, contro

coloro che stanno per morire! Io non ho il diritto di raccontartelo. Parlarne a dei

viventi significa iniziare gli innocenti ad uno dei misteri infernali; è come il parlare

di cose sporche a dei bambini. Eppure non mi importa. Esporrò in tutta la sua odiosa

chiarezza come il mare uccida. I viventi non condannati sapranno alcune delle cose

che la morte ha finora tenute ben nascoste. La morte non conosce l'esistenza di

questo piccolo strumento sotto le mie mani che mi unisce ancora ai vivi, altrimenti si

sarebbe affrettata a farmi tacere.

Ascoltami, John! Ho imparato cose mai immaginate durante il tempo di questa

breve attesa. Adesso so perché noi siamo spaventati dal buio. Non avrei mai

immaginato tali segreti del mare e della morte stessa (che sono un'unica cosa).

Ascolta! Ah, dimenticavo che tu non puoi sentire! Ma io si! È il mare! Zitto! Il

mare sta ridendo come se l'Inferno ridesse attraverso la bocca di un asino. Sta

prendendosi gioco di noi. Posso sentire la sua voce echeggiare come un tuono

satanico in mezzo al fango sopra noi. Mi sta chiamando. Mi chiama ed io devo

andare. Il mare chiama!

Oh Dio, esisti davvero? Puoi fermarti lassù e guardare tranquillamente ciò che ho

visto proprio ora? No! Tu non sei Dio! Tu sei debole, e più piccolo di questa fetida

cosa che hai creato durante la tua gagliarda giovinezza. Dio! È ciò che mi circonda

adesso. Ed io sono uno dei suoi figli.

Sei là, John? Perché non rispondi? Ascolta! lo nego Dio perché c'è qualcosa più

forte di lui. Il mio Dio è qui, vicino a me, attorno a me, e sarà anche sopra di me. Tu

sai ciò che significa: è senza pietà. Il mare ora è l'unico Dio che esiste! Questa è una

delle cose che ho imparato.

Ascolta! Sta ancora ridendo. È Dio, non il mare!

Mi ha chiamato ed io sono salito sul ponte. È tutto terribile! L'acqua arriva alla

cintura ed è dappertutto. Ha inondato la nave. Solamente il castello di prua, il ponte

e la poppa emergono dalla bestiale e puzzolente Cosa, come tre isole nel mezzo

della spuma urlante. A volte cavalloni giganteschi assalgono la nave da ambedue i

fianchi. Formano dei momentanei archi sopra il vascello, archi curvi di acqua scura,

alti cinquanta piedi, e protesi verso il cielo odioso. Poi discendono con un ruggito.

Pensa a questo! Ma tu non puoi farlo.

C'è come un senso di peccato simile ad un'infezione nell'aria: è ciò che esala dalla

Cosa. Coloro che rimangono sui rottami di legno spezzato o di ferro, fanno cose

orribili. E la Cosa ad insegnare tutto questo. Più tardi ho sentito il suo fetido fiato

che mi dava dei consigli, ma sono fuggito e sono venuto qui per implorare la morte.

Sul castello di prua ho visto una madre ed il suo bambino che si aggrappavano ad

una ringhiera. Un enorme maroso si è sollevato sopra di loro per poi discendere

come una montagna di acqua salata. Quando è passato, erano ancora là. La Cosa si

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stava divertendo con loro eppure, al tempo stesso, aveva divelto le mani del

bambino dalla ringhiera, ed ora il piccolo si aggrappava spasmodicamente al braccio

della madre. Ho visto poi un altro maroso scagliarsi verso prua e librarsi sopra di

loro. Quindi la madre si è abbassata ed ha morso le mani del suo bambino come una

belva. Temeva che quel piccolo peso fosse più di quanto potesse sostenere. Anche

dal mio posto ho udito gli urli del bambino. E mi ha raggiunto una risata malvagia

che mi ha confermato ancora una volta come Dio non sia altro che quella Cosa. Poi

l'enorme maroso si è abbattuto sopra quei due. Mi è sembrato che la Cosa emettesse

come un muggito mentre saltava. Ruggiva su di loro ribollendo e ringhiando; poi si

è sollevata e, quando è svanita, là era rimasta solo una persona: la madre. Mi

sembrava di vedere del sangue oltre all'acqua sulla sua faccia, ma la distanza era

troppo grande per poterne essere sicuro. Ho guardato da un'altra parte. Vicino a me

ho assistito ad un'altra scena simile: una ragazza giovane e bella (la sua anima era

infangata dal fiato della Cosa) lottava col suo fidanzato per rifugiarsi vicino alla sala

delle mappe. Lui la allontanava ma lei gli si riavvicinava. Ho visto la sua mano

toccarsi la testa dove una specie di cappello stava ancora in bilico. La ragazza allora

ha colpito l'uomo che ha cominciato ad urlare ed è caduto lontano, sottovento.

Allora lei ha riso mostrando tutti i denti.

Questo è stato tutto. Mi sono voltato da un'altra parte.

Laggiù, sopra la Cosa, ho visto degli sprazzi di luce, orribili, ma suggestivi sotto

la cresta delle onde. Non li avevo mai visti prima. Ho visto un marinaio un vero lupo

di mare, strappato via dalla nave. Uno degli immensi marosi io ha ghermito e quelle

cose erano denti. La Cosa aveva dei denti: li ho uditi cozzare, ed ho udito l'urlo

dell'uomo che non aveva un suono più forte del ronzio di una zanzara in mezzo a

tutte quelle risate: ma è stata una cosa terribile.

È stato peggio della morte.

La nave stava rollando in maniera strana con una specie di ondeggiamento che

dava la nausea.

Penso di essermi addormentato. No, adesso mi ricordo. Ho battuto la testa quando

la nave rollava così stranamente. Una gamba si è ripiegata sotto di me e penso che si

sia rotta, ma non importa.

Ho pregato. Dio. Dio... Che cosa c'è? Mi sento più calmo adesso, più rassegnato.

Penso di essere impazzito. Che cosa stavo dicendo? Non riesco a ricordarlo. Era

qualcosa... qualcosa che aveva a che fare con Dio. Io... io credo di essere stato

blasfemo. Cerca di perdonarmi. Tu sai, mio Dio, che non ero in me. Tu lo sai che

sono molto debole. Ma, quando il momento arriverà, siimi vicino! Io ho peccato: ma

tu sei misericordioso.

Sei là, John? Sono vicino alla fine adesso. Avrei tanto da dire, ma tutto mi si

allontana. Che cos'era quello che ho detto? Mi rimangio tutto. Ero pazzo... e Dio lo

sa. Egli è misericordioso, e adesso sento poco dolore. Ho solo voglia di dormire.

Mi chiedo se tu sei là, John. Forse, dopotutto, nessuno ha udito le cose che ho

detto. I vivi non le dovrebbero sapere. Se tu sei là, John, tu dovrai dirle come è

andata, ma forse e meglio di no... Ascolta! C'è un suono tuonante di acqua sopra di

noi. Penso che due montagne d'acqua si siano scontrate in cima al ponte e che

abbiano allagato il battello. Adesso accadrà presto... e c'erano ancora tante cose che

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dovevo dirti! Posso udire come delle voci nel vento. Cantano. È come un lungo

canto funebre.

Penso di aver dormito di nuovo. Prego umilmente Dio che tutto succeda presto!

Tu non le dirai niente, niente di ciò che posso aver detto, non è vero, John? Voglio

dire, le cose che non avrei dovuto dire. Che cosa ho detto? La confusione si accresce

dentro la mia testa. Mi chiedo se veramente tu mi senta. Potrei star parlando

solamente a quel fortissimo rombo che sento fuori. Eppure mi è di conforto

continuare, e non voglio pensare che tu non possa sentire quello che dico. Ascolta

ancora! Una montagna di acqua salata ha ripulito il battello. La nave si è inclinata su

un fianco... Ora si è rialzata. La fine è molto vicina...

Sei là, John? Sei ancora là? Sta venendo il mare, sta venendo a prendermi. Sta

precipitandosi giù per la scaletta del boccaporto! E... è come un enorme zampillo!

Mio Dio! Sto affogando! lo... sto...aff...!

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La bestia orribile

In cima alle colline, alla periferia di una città della costa orientale, c'è una

grande cisterna di ferro da cui si rifornisce un gruppo isolato di villette. La

cima della cisterna è stata cementata e, tutto intorno, sono state messe delle

ringhiere, il che l'ha fatta diventare una splendida «vista» per quei cittadini

che avessero scelto di fare una passeggiata fin lassù. Era così diventata assai

popolare, fino a che non accaddero gli eventi strani e terribili che mi

accingo a narrare.

Una sera tardi, tre signore e due uomini avevano salito il sentiero che

portava alla cisterna. Avevano cenato ed avevano pensato che una

passeggiata fino alla cisterna sarebbe stata piacevole nel fresco della sera.

Avendo raggiunto il luogo, ossia la superficie cementata, stavano per

attraversarla, quando una delle signore inciampò e quasi cadde sopra un

oggetto che giaceva vicino alla ringhiera dalla parte della città.

Uno dei signori accese un fiammifero, e scoprì che c'era il corpo di un

vecchio signore corpulento, che giaceva apparentemente senza vita in

atteggiamento contorto. Pieni di orrore, i due uomini portarono via le

signore verso quelle case vicine già prima menzionate. Poi, in compagnia di

un poliziotto che passava di lì, ritornarono in fretta alla cisterna.

Con l'aiuto della lanterna del poliziotto, constatarono il macabro fatto, e

cioè che l'uomo era stato strangolato. In più era senza orologio e senza

portafoglio. Il poliziotto però lo identificò come il vecchio proprietario di un

mulino in pensione, che viveva poco lontano in un posto chiamato Revenge

End.

A questo punto, alla piccola compagnia si aggiunse uno straniero, che si

presentò come il Dottor Tointon, il quale informò gli altri che viveva in una

delle ville vicine, e che era venuto in fretta appena aveva saputo che era

successo qualcosa.

Silenziosamente, i due uomini ed il poliziotto fecero un semicerchio,

mentre il dottore con mani leste ed abili esaminava brevemente il morto.

«È morto solo mezz'ora fa», disse, quando ebbe finito. Poi si voltò verso i

due uomini.

«Ditemi com'è accaduto. Tutto ciò che sapete.»

E quelli raccontarono quel poco che sapevano.

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«Che cosa straordinaria!» disse il dottore. «E voi non avete visto

nessuno?»

«Non un'anima, dottore!»

Il medico si voltò verso il poliziotto.

«Dobbiamo portarlo a casa», disse. «Avete chiamato una ambulanza?»

«Sì, signore», disse il poliziotto. «Ho avvertito il collega che sorveglia la

zona più bassa e lui ha provveduto subito.»

Il dottore chiacchierò con i due uomini e ricordò loro che avrebbero

dovuto apparire all'inchiesta.

«È un delitto?» chiese il più giovane a voce bassa.

«Be'», disse il dottore, «certamente ne ha tutta l'apparenza.»

In quel momento arrivò l'ambulanza.

A questo punto io venni direttamente a contatto con la storia perché il

vecchio signor Marchmount, il proprietario del mulino in pensione, era il

padre della mia fidanzata, ed io ero a casa sua quando l'ambulanza arrivò

col suo triste carico.

Il Dottor Tointon l'aveva accompagnata con il poliziotto, e dette l'ordine

di portare su il corpo, mentre io davo la triste notizia alla mia fidanzata.

Prima di andar via, il dottore mi fece un breve resoconto della storia così

come lui ne era venuto a conoscenza. Gli chiesi se lui aveva qualche teoria

sul come e perché fosse stato commesso quell'omicidio. Egli disse soltanto

che mancavano l'orologio con la catena e così pure il portafoglio. E poi,

senza dubbio, l'uomo era stato strangolato, ma con che cosa non era riuscito

a capirlo.

Questo fu tutto quello che il dottore poté dirmi.

Il giorno dopo, c'era un lungo articolo sul Northern Daily Telephone su

quello «scioccante delitto». L'articolo finiva, lo ricordo, col dire che la gente

avrebbe visto tipi assai pericolosi, e aggiunse che si credeva che la polizia

avesse già trovato una traccia.

Durante il pomeriggio, andai su alla cisterna. C'era una grande folla di

gente che si era fermata nella strada che passa lì vicino, a curiosare, e se ne

stava ad una certa distanza perché la cisterna era sorvegliata da un poliziotto

messo di guardia in cima alle scale il quale, quando seppe della mia

parentela con il morto, mi permise di dare un'occhiata in giro.

Lo ringraziai, ed esaminai tutta la cisterna con molta attenzione; cercai

pure col bastone, infilandolo nei fori della serratura, per vedere se la

cisterna fosse piena o no, e se ci fosse abbastanza spazio per nascondere

qualcuno.

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Ritirato il bastone, vidi che l'acqua quasi raggiungeva il coperchio:

mancavano solo pochi centimetri, e il coperchio era chiuso saldamente.

Lasciai subito perdere una vaga teoria alla quale avevo pensato, e cioè che

ci fosse la possibilità di nascondersi nella cisterna e saltare poi fuori per

attaccare chi non se lo aspettava. Era stato evidentemente un delitto brutale

fatto per appropriarsi del portafoglio e dell'orologio d'oro di mio suocero.

Notai un'altra cosa prima di lasciare la cima. Me ne accorsi mentre

guardavo oltre la ringhiera verso il pezzo di terreno non coltivato che la

circondava. In quel momento non ci feci caso e non gli detti importanza

alcuna. Il fatto era che il pezzo di terreno circostante era molle, fangoso e

completamente liscio. Era possibile che ci fosse una dispersione di acqua

dalla cisterna che produceva quel bagnato. Almeno così sembrava.

«Non c'è molto da vedere, signore», disse il poliziotto, mentre mi

preparavo a scendere gli scalini che mi separavano dalla strada.

«No», risposi. «Non sembra che ci sia niente di importante.»

E così andai via e mi recai a far visita al dottore. Fortunatamente era in

casa, ed allora gli parlai subito del risultato delle mie investigazioni. Poi gli

chiesi se pensava davvero che la polizia avesse un'idea dei criminali.

Scosse la testa.

«No», rispose. «Sono stato su questa mattina per dare un'occhiata, e da

allora mi sono messo a pensare. Ci sono due o tre punti che mi sconcertano;

punti che la polizia credo non abbia neppure notato.»

Per quanto tentassi di farlo parlare, non mi disse nulla di definito.

«Aspettate!» fu tutto quello che riuscì a dirmi.

Ed invece non ebbi molto da aspettare prima che qualche altra cosa

accadesse, un fatto che aggiunse una nota di mistero e di terrore alla

faccenda.

Nei due giorni seguenti la mia visita al dottore, mi occupai di preparare il

funerale del padre della mia fidanzata e, proprio la mattina delle esequie, si

sparse la notizia della morte del poliziotto che era a guardia della cisterna.

Dal mio posto nella processione, vidi l'annuncio a larghe lettere sui grandi

manifesti locali che parlavano del fatto, mentre i giornalai gridavano in

continuazione:

Il terrore della cisterna.

Poliziotto strangolato.

Così, non appena il funerale finì, potei comprare il giornale per avere i

dettagli. Alla fine, quando lessi il resoconto, vidi che il dottore che lo aveva

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esaminato altri non era che Tointon, per cui andai dritto a casa sua onde

avere tutti i particolari che poteva darmi.

«Avete letto il resoconto del giornale?» mi chiese, quando lo incontrai.

«Sì», risposi.

«Bene. Vedete», mi disse, «che avevo ragione nel dire che la polizia non

aveva trovato nulla. Sono stato lassù tutta la mattina, e mi è costato un po' di

fatica ottenere il permesso di fare qualche ricerca per conto mio. E, se l'ho

ottenuto, lo devo all’influenza dell'Ispettore Slago con il quale ho lavorato

qualche volta per delle investigazioni. Adesso hanno messo un sergente e

due poliziotti a far la guardia alla cisterna ed a tenere lontane le persone.»

«Allora avete fatto un po' di indagini?»

«Un po', in effetti», mi rispose.

«Ma adesso, siete giunto a qualche conclusione?»

«Non ancora!»

«Ditemi quello che è veramente accaduto», insistei. «I giornali non erano

ben chiari. Sono perplesso circa il momento in cui fu trovato ucciso il

poliziotto. Chi lo ha trovato?»

«Finora sono stato capace di sapere dall'Ispettore Slago solo questo che

sto per dirle. La polizia aveva incaricato uno dei loro uomini di far la

guardia fino alle due a.m., quando un altro uomo doveva dargli il cambio.

Un minuto o due prima delle due, il cambio arrivò nello stesso momento

dell'Ispettore Slago che andava a fare un'ispezione. Si incontrarono nella

strada sotto la cisterna, e stavano avanzando su per la stradina che porta al

passaggio, quando sentirono, proveniente dalla cima della cisterna, un grido

improvviso. Il grido terminò in una specie di gorgoglio, ed entrambi

sentirono qualcosa cadere con un forte tonfo.

All'istante i due uomini si precipitarono su per il passaggio che, come

sapete, è recintato da un'alta ringhiera di ferro appuntito. Mentre correvano,

potevano udire il rumore di passi affrettati sulla cima di cemento della

cisterna e, proprio mentre l'Ispettore raggiungeva l'inizio dei gradini, udì un

ultimo gemito. Proveniva dalla parte destra della ringhiera da una forma

raggomitolata, qualcosa ormai inerte e senza vita. Corsero verso quel punto

e videro il corpo del poliziotto che era stato di guardia. Un esame affrettato

dimostrò che era stato strangolato.

L'Ispettore fischiò, e sul posto apparve subito un altro poliziotto, che

venne mandato a chiamarmi. Nel frattempo, la polizia iniziò a cercare in

ogni posto ma senza ottenere alcun risultato. La cosa straordinaria era che

l'assassino doveva essere ancora sulla cisterna quando gli altri salivano le

scale.»

«Deve essere stato molto lesto a scappare», borbottai io.

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Il dottore fu d'accordo con me.

«Aspettate un po'», mi disse, «non ho ancora finito. Quando arrivai, trovai

che era troppo tardi per fare qualcosa, perché il collo del pover'uomo era

stato letteralmente schiacciato. Chiunque l'avesse ucciso doveva avere una

forza enorme.»

«Avete trovato qualcosa?» domandai all'Ispettore.

«No», disse lui, e continuò a raccontarmi tutto quello che sapeva, finendo

col dirmi che, chiunque fosse l'assassino, era riuscito a scappare.

«Ma», gli dissi io, «avrebbe dovuto passarvi davanti o saltare sopra la

ringhiera. Non c'è altra strada.»

«Infatti questo è quello che ha fatto», rispose Slago con un po' di stizza.

«La ringhiera non è molto alta.»

«Su questa melma, Ispettore», gli dissi, «deve aver lasciato qualche

traccia con cui potremmo rintracciarlo.»

«Volete dire il fango intorno alla cisterna, dottore?» lo interruppi io.

«Sì», disse il Dottor Tointon. «Allora anche voi l'avete notato a quanto

sembra. Bene! Prendemmo la lampada del poliziotto e cercammo

attentamente tutto intorno alla cisterna, ma tutta la superficie del terreno

fangoso era liscia e non si vedeva alcuna orma.»

Il dottore non disse altro.

«E come ha fatto allora l'assassino a scappare?»

Il Dottor Tointon scosse la testa.

«C'è qualcosa, mio caro signore, di cui ancora non voglio parlare, sebbene

credo di avere una certa idea.»

«Che cosa?» quasi gridai dallo stupore.

«Sì», mi rispose, scuotendo la testa pensosamente. «Domani forse potrò

dirvi qualcosa.»

E si alzò in piedi.

«E perché non adesso?» gli chiesi, morendo dalla curiosità.

«No», disse. «Quello che penso non è una cosa ancora del tutto definita.»

Dicendo questo, tirò fuori l'orologio.

«Dovete scusarmi ora. C'è un paziente che mi aspetta.»

Non mi rimase altro che prendere il cappello, ed egli mi accompagnò alla

porta e l'aprì.

«Domani», disse, e mi rassicurò con un movimento della testa mentre ci

salutavamo con una stretta di mano. «Non lo dimenticherete. Vero?»

«Certamente no!» risposi, ed egli richiuse la porta alle mie spalle.

La mattina seguente ricevetti un suo biglietto che mi chiedeva di

rimandare la visita alla notte, poiché doveva assentarsi da casa per quasi

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tutta la giornata. Indicò le 9,30 di sera come l'ora giusta in cui potevo andare

da lui. Mi avrebbe aspettato fino alle dieci. Non più tardi.

Naturalmente, essendo pieno di curiosità, mi irritai nel dover aspettare

tutto il giorno dato che volevo andare a trovarlo al più presto senza

disturbarlo troppo. Ma, dopo quel biglietto, non c'era nient'altro da fare che

aspettare.

Durante la mattinata tornai alla cisterna, ma il sergente di guardia mi

rifiutò l'accesso. Per la strada giù sotto, c'era una gran folla, e c'era gente

anche nel sentiero che portava all'inferriata. Tutte quelle persone, come me,

erano venute su con l'intenzione di vedere il posto preciso dove avevano

avuto luogo i delitti, ma i poliziotti non facevano passare nessuno.

Mi sentivo alquanto irritato dal rifiuto che avevo avuto dal poliziotto di

farmi andare vicino alla cisterna, per cui m'incamminai sul sentiero che ad

un certo punto voltava a destra. Qui trovai un'apertura nella parete e mi ci

infilai trascurando un cartello che minacciava i trasgressori. Attraversai un

pezzo di terra incolta e finalmente arrivai alla vasta cintura di fango che

circondava la cisterna. Allora, girando intorno a quella terra melmosa,

arrivai dalla parte della cisterna che fronteggiava la città. Sotto di me c'era

una grande muraglia che mi nascondeva agli occhi delle persone che erano

sulla strada. Fra me e la cisterna c'erano circa venti metri di terra liscia

coperta di fango. Cominciai ad esaminarla con attenzione.

Come aveva detto il dottore, non c'era alcun segno di orme di nessun

genere. La mia perplessità diventava sempre più grande. Credo di aver

pensato dentro di me che sia il dottore che la polizia avessero fatto un

errore, cioè che forse non avevano visto ciò che era ovvio, il che succede

abbastanza spesso. Mentre mi voltavo per andarmene, una piccola striscia di

acqua cominciò ad uscire da un tubo proprio sotto l'orlo della cima della

cisterna. Era chiaramente acqua che straripava. Non c'era dubbio che la

cisterna fosse piena fino all'orlo. Come aveva fatto l'assassino ad andar via

senza lasciare nessuna traccia?

Ritornai indietro attraverso l'apertura e rientrai ne1 sentiero. E proprio

allora, mentre saltavo sulla strada, mi venne un'idea che poteva essere la

soluzione del mistero. Mi affrettai ad andare a trovare Dufirst, il guardiano

della cisterna, che abitava in una casetta non lontano da lì. Arrivai e bussai.

L'uomo aprì la porta e mi salutò affabilmente.

«Che bestiaccia!» pensai. Poi, a voce alta, dissi: «Sentite Dufirst, vorrei

qualche particolare sulla cisterna. So che voi, meglio di tutti, potete dirmi

ciò che voglio sapere.»

L'espressione affabile sparì dal suo viso.

«Che cosa volete sapere?» mi chiese sgarbatamente.

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«Vorrei sapere se c'è nessun luogo attorno alla cisterna dove si può

nascondere un uomo.»

L'uomo mi guardò male. «No», mi rispose in fretta.

«Siete sicuro?» gli chiesi.

«Sono sicurissimo», mi disse imbronciato.

«C'è un'altra cosa che vorrei sapere», continuai. «Con che materiale è

stata costruita la cisterna?»

«Col cemento», rispose.

«E i fianchi, quanto sono spessi?»

«Circa un mezzo pollice di ferro.»

«Ancora una cosa», dissi tirando fuori di tasca mezza corona (a quella

vista la sua faccia s'illuminò). «Quali sono le misure interne della cisterna?»

e gli detti la moneta.

Esitò un po', poi, mettendosi la moneta in tasca, disse: «Ritorno fra un

minuto. Ho la pianta della cisterna al piano superiore. Sedetevi ed

aspettate.»

«Bene», risposi e mi misi a sedere. Poi, mentre pensavo, vidi un vecchio

boccale di bronzo nella parte opposta della stanza. Era su una mensola in

alto, ma in un minuto attraversai la stanza e lo presi in mano, perché questi

oggetti mi piacciono moltissimo.

«Com'è bello!», bisbigliai, mentre lo tenevo per il manico. «Gli offrirò

cinque corone se me lo vende.» Adesso il boccale era tra le mie mani. «Che

sciocco!» pensai. «Lo usa per metterci dentro degli oggetti vari.»

Lo portai vicino alla finestra e là, nella piena luce, ci guardai dentro e

quasi lo lasciai cadere a terra perché, a pochi centimetri dai miei occhi,

riposavano il vecchio orologio d'oro e la catena che erano appartenuti al mio

suocero assassinato. Per un momento mi sentii svenire, poi capii.

«Che delinquente!» dissi. «Ecco chi è l'assassino!»

Posai il boccale sulla tavola e corsi alla porta. L'aprii e, guardando fuori,

vidi l'Ispettore Slago che camminava con un altro poliziotto. Avevano

appena oltrepassato la casa e stavano recandosi alla cisterna.

Non mi misi a gridare per non farmi sentire dall'uomo al piano superiore.

Corsi invece dietro l'Ispettore e l'afferrai per la manica.

«Venga qua, Ispettore», gli dissi ansimando. «Ho trovato l'assassino.»

Voltandosi verso di me e quasi gridando mi chiese:

«Che cosa?!»

«È qui», gli dissi. «È il guardiano della cisterna. Ha ancora l'orologio e la

catena: li ho trovati in un boccale.»

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A queste parole l'ispettore si voltò e si mise a correre verso la casetta. Io e

il poliziotto lo seguimmo. Sempre correndo, entrammo in casa, ed io

mostrai il boccale all'Ispettore che lo prese e ci guardò dentro.

Poi si voltò verso di me:

«Potete identificare questi oggetti?» mi chiese con una nota di eccitazione

nella voce.

«Certamente che posso!» risposi. «Il signor Marchmount doveva

diventare mio suocero. Posso giurare che questo orologio era il suo.»

In quel momento si udì il suono di passi che scendevano le scale e, pochi

minuti dopo, entrò da una stanza interna il piccolo guardiano della cisterna

dalla barba nera. Aveva in mano un rotolo di carta: la mappa di cui aveva

parlato. Poi vide l'Ispettore che teneva in mano l'orologio dell'uomo

assassinato e la sua faccia divenne pallida. Emise un lieve gemito e con gli

occhi cercò il luogo dove il boccale era collocato normalmente. Poi guardò

noi tre, fece un passo indietro e un salto verso la porta dalla quale era

entrato. Ma noi fummo più svelti di lui e in un minuto fu ammanettato dai

poliziotti.

L'Ispettore lo avvertì che qualunque cosa avesse detto sarebbe stata usata

contro di lui, ma non ce n'era bisogno perché l'uomo non disse una parola.

«Come l'avete trovato?» mi chiese l'Ispettore prendendo l'orologio con la

catena. «Che cosa vi ha fatto sospettare?»

Spiegai quello che era successo e l'Ispettore disse che era una

combinazione veramente fortunata; poi, guardando il prigioniero, aggiunse

che non avrebbe mai pensato che potesse essere lui l'assassino. Quindi, se

ne andarono via.

Quella notte non mancai all'appuntamento col dottore. Mi aveva detto

infatti che avrebbe potuto dirmi qualcosa; ma, al contrario, pensavo che

potevo io dire qualcosa a lui. Anzi più di qualcosa. Avevo risolto il

problema in una semplice mattinata. Mi fregavo le mani dalla contentezza e

mi chiedevo che cosa avrebbe detto il dottore sentendo le mie notizie. Lo

attesi fino alle dieci e trenta, ma lui non tornò a casa, ed allora dovetti

andarmene senza vederlo.

La mattina dopo andai ancora a casa sua. Vi trovai la sua governante la

quale mi mostrò un telegramma che aveva appena ricevuto da un amico che

abitava sulla costa. Diceva che il dottore si era ammalato gravemente, che

aveva perso conoscenza, e che era stato costretto a letto.

Le resi il telegramma ed uscii da quella casa. Mi dispiaceva per il dottore,

ma ancor più perché non avevo potuto dargli personalmente le notizie del

mio successo come detective dilettante.

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Dopo molte settimane, il dottor Tointon ritornò. Nel frattempo, il

guardiano della cisterna aveva subìto il processo ed era stato condannato per

l'assassinio del signor Marchmount. In Tribunale si era difeso dicendo che

aveva trovato il vecchio signore già morto e che gli aveva preso soltanto

l'orologio e il portafoglio da sotto il corpo in un momento di tentazione. Ma

la sua dichiarazione non lo aiutò affatto e, quando incontrai il dottore il

giorno del suo ritorno, mancavano solo tre giorni alla sua impiccagione.

Dopo pochi minuti di conversazione col dottore, gli chiesi se sapeva che

ero stato io a trovare l'uomo che aveva ucciso il vecchio signor Marchmount

ed il poliziotto. Il dottore invece di rispondermi si voltò e mi guardò fisso.

«Sì», gli dissi facendo dei segni di assenso con la testa. «È stato quel

piccolo bruto del guardiano della cisterna. E sarà impiccato fra tre giorni.»

«Che cosa?» esclamò il dottore con voce costernata. «Il piccolo Dufirst?»

«Sì, proprio lui!» risposi, alquanto confuso dal tono della sua voce.

«Impiccato!» riprese a dire il dottore. «Ma quell'uomo è innocente come

lo siete voi!»

Rimasi di stucco.

«Che volete dire?» gli chiesi. «L'orologio e la catena sono stati trovati in

suo possesso. Ed al processo lo hanno trovato colpevole.»

«Che mancanza di buon senso, che cecità!» disse il dottore.

Poi voltandosi verso di me continuò: Perché non me lo avete scritto?

«Eravate malato, e poi pensavo che lo avreste letto sui giornali.»

«Non ho visto un giornale da quando mi sono ammalato», rispose

bruscamente. «Avete fatto un bel pasticcio! Ditemi ciò che è successo.»

Gli raccontai l'accaduto e lui mi ascoltò con attenzione.

Quando finii di parlare mi chiese:« E fra tre giorni sarà impiccato?»

Gli risposi che era vero.

Si tolse il cappello e si asciugò la faccia e la fronte.

«Sarà una cosa difficilissima salvarlo», disse lentamente. «Solo tre giorni,

mio Dio!»

Ad un tratto mi guardò e improvvisamente mi fece una domanda sciocca.

«Ci sono stati ancora degli assassinii lassù mentre ero malato?» ed indicò

la cisterna con la mano.

«No», gli risposi. «Certamente no. Come potevano aver luogo quando

l'assassino era in prigione?»

Il dottore scosse la testa.

«Inoltre», continuai, «nessuno va più lassù adesso, almeno non di notte,

cioè quando venivano commessi i delitti.»

«Infatti, infatti…» fu la risposta, come se quello che avevo detto

coincidesse con quello che aveva in mente lui.

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Voltatosi verso di me, continuò:

«Ascoltatemi bene! Stasera, verso le dieci, venite a casa mia: credo di

potervi provare che chi ha ucciso Marchmount e il poliziotto non è il

piccolo Dufirst.»

Lo guardai fisso.

«È così!» disse.

Si voltò e cominciò ad andar via.

«Verrò», gli gridai dietro.

All'ora fissata andai dal Dottor Tointon. Lui stesso mi aprì la porta

facendomi passare nello studio dove con mia sorpresa trovai l'Ispettore

Slago. Questi appariva alquanto turbato e, una volta, quando Tointon aveva

lasciato la stanza per un minuto, si piegò verso di me.

«Sembra che lui ritenga», disse con un bisbiglio rauco, facendo un cenno

verso la porta per la quale era uscito il dottore, «che noi abbiamo fatto un

errore, e che abbiamo preso l'uomo sbagliato.»

«Troverà che è lui che si sbaglia.»

L'Ispettore sembrava pieno di dubbi, e stava per dirmi qualche altra cosa,

quando ritornò il dottore.

«Adesso ci prepareremo», disse il Dottor Tointon. «Qua, prendete

questi!» e mi dette un paio di guanti di gomma da infilare.

«Voi, Ispettore, avete tacchi di gomma.»

«Sì, signore, li metto sempre la notte.»

Il dottore andò in un angolo e tornò con un fucile a doppia canna che

cominciò a caricare. Appena finito, si voltò verso l'Ispettore.

«Avete un poliziotto, fuori?»

«Sì, signore», rispose Slago.

«Allora andiamo!»

Ci alzammo, lo seguimmo nell'ingresso scuro, poi uscimmo attraverso la

porta nella strada silenziosa. Qui trovammo un poliziotto in borghese che ci

aspettava appoggiato ad un muro. L'Ispettore fischiò piano, e quello si fece

avanti e salutò. Il dottore si voltò e cominciò a salire verso la cisterna.

Sebbene la notte fosse abbastanza calda, io mi misi a tremare. C'era un

senso di pericolo nell'aria che dava ai nervi.

Personalmente, non sapevo quello che sarebbe successo. Raggiungemmo

la parte bassa del passaggio. Lì il dottore si fermò e cominciò a dare ordini.

«Avete una lanterna, Ispettore?»

«Sì, signore.»

«E il vostro uomo ne ha una?»

«Sì, signore.»

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«Bene», disse e, rivolto al poliziotto in borghese: «Adesso vorrei che voi

deste la vostra lampada al mio amico per il momento», aggiunse.

Il poliziotto in borghese mi passò la lanterna ed aspettò altri ordini.

«Adesso», disse il Dottor Tointon voltandosi verso di me, «voglio che voi

e l'Ispettore prendiate posto nell'angolo a sinistra della cima della cisterna, e

teniate le lanterne pronte. Ricordate bene che non ci devono essere rumori,

o tutto sarà rovinato.» Poi batté su una spalla del poliziotto in borghese e

disse: «Voi, venite con me!»

Quando raggiungemmo la cisterna, io e l'Ispettore prendemmo posizione,

mentre il dottore col poliziotto andavano verso l'angolo a destra. Dopo un

po' il dottore lasciò il poliziotto che si appoggiò negligentemente alla

ringhiera che girava attorno alla cisterna, e venne a sedere in mezzo a noi

due.

«Avete messo il poliziotto proprio dove fu ucciso l'altro nostro collega»,

bisbigliò l'Ispettore.

«Sì», rispose il dottor Tointon. «Adesso ascoltatemi, e poi non ci dovrà

esser più alcun suono o rumore. È questione di vita o di morte!»

Le sue maniere erano molto solenni.

«Quando io dirò "Pronti", dirigete nel miglior modo possibile la luce delle

lanterne sul poliziotto. Avete capito?»

«Sì», rispondemmo allo stesso tempo, e poi nessuno parlò più.

Il dottore si stese a pancia in giù fra noi due, la bocca del fucile rivolta

sulla destra là dove era fermo il poliziotto. Così ci accingemmo ad aspettare.

Passò mezz'ora, un'ora, e un lontano suono di campane ci raggiunse dalla

valle, poi il silenzio ricominciò.

Ancora due volte il suono delle campane lontane ci disse che le ore

passavano, e la posizione d'immobilità che avevo adottato mi procurava dei

crampi dolorosi.

All'improvviso, dal punto opposto della cisterna, sentimmo una specie di

rumore molto lieve, quasi soffocato, come se qualcosa strisciasse per terra.

Sentii un brivido di freddo che mi fece tremare; cercai invano di intravedere

qualcosa nell'oscurità, finché gli occhi cominciarono a farmi male per il

grande sforzo. Non riuscivo a vedere assolutamente nulla. Potevo appena

distinguere la figura del poliziotto appoggiata alla ringhiera, che sembrava

non essersi mosso dalla sua posizione iniziale.

Quello strano suono strisciante e soffocante continuò. Poi si udì un

leggero tintinnio di ferro come se qualcuno avesse dato un calcio contro il

lucchetto che assicurava la botola di ferro del tombino. Certo non poteva

essere il poliziotto perché era lontano, e poi sembrava che stesse fermo al

suo posto. Vidi il Dottor Tointon alzare la testa e guardare con attenzione.

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Poi si mise il calcio del fucile sulla spalla. Io preparai la lanterna: mi sentivo

fremere di paura e d'impazienza. Che cosa sarebbe accaduto? Venne ancora

un altro tintinnìo; poi, all'improvviso, ogni suono cessò.

Io ascoltavo quasi ansando. Vicino alla cisterna, il poliziotto, che fino ad

allora era stato fermo, fece un movimento come se qualcosa lo avesse

toccato. Nello stesso istante vidi che il calcio del fucile del dottore era stato

sollevato di parecchi centimetri. Dal canto mio afferrai la lanterna con forza

e respirai profondamente.

«Ora», urlò il dottore.

Diressi la luce della lanterna sulla cisterna e così pure fece l'Ispettore. Ho

una sensazione confusa di qualcosa di color marrone attorcigliata alla

ringhiera a un mezzo metro di distanza alla destra del poliziotto. Allora il

fucile del dottore sparò una, poi due volte, e la cosa sparì dalla vista

sull'orlo della cisterna. Nello stesso istante il poliziotto cadde a terra

scivolando lungo la ringhiera sulla cima della cisterna.

«Santo cielo!» urlò l'ispettore. «L'avete ucciso!»

Il dottore era già accanto all'uomo steso per terra e gli stava allentando in

fretta i vestiti.

«Sta bene», disse. «È solo svenuto. Lo sforzo è stato terribile. È stato

coraggioso a rimanere. Quella cosa gli è stata vicino per più di un minuto.»

Dall'oscurità sotto di noi venne il rumore di qualcosa che frusciava, che si

dibatteva. Mi avvicinai verso l'orlo della cisterna e diressi la luce della

lanterna in basso: lì vidi una cosa gialla che si contorceva come un'anguilla

o un serpente, solo che era piatta come un nastro. Si stava attorcigliando in

nodi e non aveva la testa che era stata completamente distrutta dallo sparo.

«Adesso starà bene», udii che diceva Tointon al poliziotto e dopo poco

era vicino a me. Mi indicò quella cosa orribile e disse: «Questo è

l'assassino!»

Qualche sera dopo, io e l'ispettore eravamo seduti nello studio del dottore.

«Anche adesso, dottore», gli dissi, «non vedo come avete fatto ad arrivare

alla soluzione.»

L’Ispettore annuì silenziosamente con la testa.

«Non è stato molto difficile», rispose il Dottor Tointon. «Se

sfortunatamente non mi fossi ammalato mentre ero lontano, avrei chiarito

questa faccenda un paio di mesi fa. Ho delle facoltà notevoli per osservare

le cose e, in ambedue i casi, mi sono trovato sul luogo del delitto. Ma

soltanto dopo la seconda morte mi feci l'opinione che l'assassinio non

poteva essere stato commesso da mano umana. Il fatto che non c'erano orme

nel fango ne era la prova conclusiva e, avendo orientato i miei pensieri in

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quella direzione, aprii bene gli occhi per cercare altri dettagli che fino ad

allora non erano sembrati conclusivi. Prima di tutto, entrambi gli uomini

erano stati trovati morti nello stesso luogo, e cioè il punto dove si trova il

tubo di scarico.»

«Veniva fuori dalla cisterna?» gli chiesi.

«Sì», rispose il dottore, «e poi, sulla ringhiera vicino al luogo dei delitti,

trovai delle tracce di melma; in più c'era un'altra cosa che nessuno sembrava

aver notato, e cioè, che il colletto del poliziotto era bagnato, come pure

quello del signor Marchmount. Come ultima osservazione notai la forma dei

segni sul collo delle vittime, e la tremenda forza usata mi indicarono la

specie di cosa che dovevo cercare. Il resto non fu altro che frutto di

deduzione.

«Naturalmente, le mie idee non erano del tutto chiare ma, anche prima di

vedere quell'orribile cosa, avrei potuto dirvi che si trattava di una bestia del

tipo di un'anguilla o di un serpente, ed avrei anche potuto descrivervi

abbastanza bene la sua misura.

«Mentre stavo ragionando così, ebbi l'occasione di avvicinare il piccolo

Dufirst. Da lui seppi che, mentre si supponeva che la cisterna fosse ripulita

ogni anno, la realtà era invece che non era stata toccata da anni.»

«E che accadrà ora a Dufirst?» chiesi al dottore.

«Penso che gli sarà accordato il perdono», disse seccamente il dottore.

«Naturalmente rubò quelle cose; ma credo che abbia ricevuto una buona

punizione per il suo crimine.»

«E il serpente, dottore?» gli chiesi. «Che specie era?»

Tointon scosse la testa: «Non saprei dirlo», mi spiegò. «Non ho visto mai

niente di simile. Dev'essere una di quelle cose anomale che ogni tanto fanno

stupire il mondo della scienza. Era una bestia che si era sviluppata con

alcune caratteristiche umane ma, sfortunatamente, lo sparo l'ha quasi

distrutta... specialmente la testa. Da quello che è rimasto, purtroppo non si

può capire molto.»

Assentii. «È una cosa strana e spaventosa!» dissi. «Qualcosa che dà da

pensare.»

Il dottore fu d'accordo. «Certamente dovrebbe servire come lezione per

insegnare la necessità della pulizia.»

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Dio, Dio, perché non mi aiuti?

Dally, Whitlaw ed io, stavamo discutendo della stupefacente nonché

recente esplosione che era avvenuta vicino a Berlino. Ci meravigliavamo

pensando al periodo di oscurità che ne era seguito e che aveva fatto tanto

eccitare la stampa con le più svariate teorie.

I giornali avevano ottenuto l'informazione che le autorità del Ministero

della Guerra si erano messe a fare esperimenti con un nuovo esplosivo

inventato da un certo chimico chiamato Baumoff, ed infatti si parlava

costantemente del nuovo esplosivo di Baumoff.

Noi ci trovavamo al Club, e il quarto uomo alla nostra tavola era John

Stafford, che era medico di professione, ma apparteneva in segreto

all'Intelligence Department. Una volta o due, mentre parlavamo, avevo

guardato Stafford, desiderando fargli una domanda: infatti lui aveva

conosciuto Baumoff.

Ma ero riuscito a tacere; sapevo infatti che, se avessi chiesto qualcosa

all'improvviso, Stafford (che è un buon amico ma testardo come un mulo se

si tratta del suo codice di silenzio) mi avrebbe detto sicuramente che non era

un argomento che poteva trattare.

Oh! Conosco bene il comportamento dei muli. Una volta che avesse detto

questo, potevamo star certi che non ci avrebbe mai detto un'altra parola

sull'argomento, anche se avessimo vissuto molto a lungo. Perciò fui

soddisfatto di notare che sembrava un po' inquieto, come se fosse sul punto

di dir qualcosa: il che mi fece capire che i giornali dicevano cose del tutto

confuse - in un modo o nell'altro - riguardo al suo amico Baumoff.

All'improvviso cominciò a parlare:

«Che stupide, perfide sciocchezze!» disse Stafford con calore. «Vi dico

che è una malvagità unire il nome di Baumoff ad invenzioni di guerra ed a

simili orrori. Lui era il seguace di Cristo più intensamente poetico ed

ardente che abbia mai conosciuto: ed è proprio la brutale ironia delle

circostanze che ha tentato di usare i prodotti del suo genio a scopo di

distruzione.

Ma vi accorgerete che non saranno capaci di usarli, malgrado si siano

impadroniti della sua formula. Come esplosivo è inusabile. E', come dire,

troppo instabile: non c'è modo di controllarlo.

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Ne so più io, forse, di qualsiasi altra persona al mondo; perché ero il più

grande amico di Baumoff e, quando morì, persi il miglior compagno che un

uomo abbia mai potuto avere. Io non ho bisogno di farne un segreto con voi,

amici: "lavoravo" a Berlino ed avevo avuto l'ordine di fare la conoscenza di

Baumoff. Il Governo lo teneva d'occhio perché era un chimico sperimentale,

lo sapete, e troppo bravo per essere ignorato. Riuscii a conoscerlo e

diventammo grandi amici; dal canto mio, scoprii che non avrebbe mai

messo a disposizione la sua capacità per nuove invenzioni di guerra. Così,

vedete, amici miei, io potei godere della sua amicizia e vivere con la

coscienza in pace: qualcosa che i nostri compagni non sempre possono fare.

Oh! Non posso fare a meno di ammettere che il nostro è un mestiere brutto,

vile e traditore: ma necessario! Proprio come il fatto che qualcuno deve pur

fare il boia. Ci sono tanti lavori sporchi da fare per mandare avanti la

Macchina Sociale!

Credo che Baumoff fosse il più entusiastico ed intelligente credente in

Cristo che sia possibile incontrare. Seppi che stava compilando un trattato

contenente le più straordinarie e convincenti prove circa le cose più

inesplicabili che riguardavano la vita e la morte di Cristo. Quando lo

conobbi, concentrava particolarmente la sua attenzione nel cercare di

dimostrare che l'Oscurità della Croce, fra la sesta e la nona ora, era stata

una cosa reale, che possedeva un enorme significato. Egli intendeva, in un

sol colpo, annullare completamente tutte le teorie riguardanti quella

opportuna tempesta o le teorie che trattavano la stessa cosa più o meno

insufficientemente, e che erano state ogni tanto ideate per spiegare

l'accaduto come se si fosse trattato di una cosa di nessun significato

particolare.

Baumoff aveva un avversario, un professore di fisica ateo chiamato

Hautch che, usando l'elemento prodigioso della vita e morte di Cristo come

il fulcro con cui attaccare le teorie di Baumoff, lo criticava sempre, sia nelle

conferenze che nei suoi scritti. In particolare, dimostrava una completa

mancanza di fede circa la teoria di Baumoff che l'Oscurità della Croce fosse

qualcosa di più che il buio di un'ora o due, ingigantito fino a farlo diventare

una completa mancanza di luce dalla poca conoscenza delle lingue orientali.

Una sera, qualche tempo dopo che la nostra amicizia era diventata molto

stretta, andai da Baumoff e lo trovai preda di una grande indignazione a

causa di un articolo del Professore che lo attaccava brutalmente, usando la

teoria del significato dell’“Oscurità” come bersaglio.

Povero Baumoff! L'attacco era indubbiamente molto intelligente: era

quello di una persona logica, bene istruita e bene equilibrata. Ma Baumoff

Page 52: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

era qualcosa di più: era un genio! Questa è una parola che non si può usare

con tutti, ma era sua per diritto!

Mi parlò della sua teoria, e mi disse di volermi mostrare subito un piccolo

esperimento che dimostrava la sua idea. Mentre parlava, mi raccontò alcune

cose che mi interessarono moltissimo. Prima mi ricordò il fatto

fondamentale che la luce è convogliata negli occhi per mezzo di un mezzo

indefinibile chiamato Etere. Poi andò avanti e mi fece notare che per un

aspetto che più si avvicina al principio, la luce era una vibrazione dell'Etere,

con una certa quantità definita di onde per secondo, che possedeva la

potenza di produrre sulla nostra retina quella sensazione che noi chiamiamo

luce.

Assentii a queste parole, conoscendo naturalmente - come tutti -

un'asserzione così nota. Da questo punto, egli continuò con rapidi passi e mi

disse che un ineffabile e vago, ma purtuttavia misurabile oscuramento

dell'atmosfera (più grande o più piccolo a seconda della forza della

personalità dell'individuo), veniva sempre a verificarsi nella immediata

vicinanza degli esseri mortali durante i periodi di grande tensione.

Passo per passo, Baumoff mi mostrò come la sua ricerca lo aveva

condotto alla conclusione che questo strano oscuramento (in genere un

milione di volte troppo debole per poter apparire all'occhio umano) poteva

esser prodotto solo da qualcosa che aveva il potere di disturbare ed

interrompere temporaneamente, oppure rompere, la vibrazione della luce. In

altre parole, c'era un disturbo nell'Etere nelle vicinanze immediate di una

persona che soffriva, e questo aveva qualche effetto sulla vibrazione della

luce, interrompendola e producendo un'oscurità diffusa, come spiegato

prima.

«Sì?» dissi io, quando finì di parlare, e lui mi guardò come se si

aspettasse che fossi giunto ad una sicura deduzione attraverso le sue parole.

«Continua.»

«Bene», mi rispose, «non vedi? La lieve oscurità intorno alla persona che

soffre è più o meno intensa a seconda della personalità dell'uomo sofferente.

Non lo capisci?»

«Oh!» mormorai, con un piccolo sussulto di stupore e comprensione.

«Capisco quello che vuoi dire. Tu vuoi dire che l'agonia di una persona

dalla personalità comune può produrre un fievole disturbo dell'Etere con un

fievole oscuramento come conseguenza, mentre l'agonia di Cristo, vista la

sua enorme personalità, avrebbe prodotto un fortissimo disturbo dell'Etere e

perciò ne sarebbe seguita una vibrazione della luce. E questa sarebbe la vera

spiegazione dell'Oscurità della Croce; ed il fatto che una tale, straordinaria,

ed all'apparenza non naturale ed incredibile oscurità, sia stata narrata, non

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diminuisce la grandezza di Cristo. Ma è una prova ancora più meravigliosa

ed infallibile della sua potenza come Dio. È così? Dimmelo!»

Baumoff si dondolò sulla sedia compiaciuto, battendo il pugno di una

mano nel palmo dell'altra ed assentendo alla mia ricapitolazione. Quanto

amava esser capito! Come il ricercatore desidera sempre essere.

«Ed ora», disse, «ti mostrerò qualcosa.»

Tirò fuori una provetta dal tappo di sughero dal taschino del panciotto, e

vuotò il suo contenuto (che consisteva in un singolo granello grigio-bianco,

circa due volte la grandezza della capocchia di uno spillo ordinario) sul suo

piatto da dolci. Lo frantumò delicatamente con il manico d'avorio di un

coltello finché divenne una polvere e, con una piccolissima quantità di

liquido che io pensavo fosse acqua, lo ridusse ad una pallina di pasta

bianco-grigia. Poi prese il suo stecchino d'oro e lo mise sopra un piccolo

fornello a spirito usato dai chimici, che era stato acceso alla fine del pranzo

come accendisigaro. Tenne quindi lo stecchino d'oro sopra la fiamma fino a

che la punta aurea divenne incandescente.

«Adesso guarda!» disse, e toccò con la punta dello stecchino la

piccolissima palla sul piatto da dolci.

Ne segui un piccolo lampo violetto e, improvvisamente, mi ritrovai a

guardare attraverso una specie di oscurità trasparente che diminuì

gradualmente in una nera opacità. Dapprima pensai che questo doveva

essere un effetto complementare sulla retina causato dal lampo. Ma i minuti

passavano, e noi ci trovavamo ancora in quella straordinaria oscurità.

«Mio Dio, amico mio! Che cosa succede?» domandai alla fine.

Mi spiegò allora che aveva prodotto con mezzi chimici un effetto

esagerato che un poco simulava il disturbo nell'Etere prodotto dalle onde

emanate da ogni persona durante una crisi emotiva o un'agonia. Le onde - o

vibrazioni - emanate da questo esperimento, produssero solo una parziale

simulazione dell'effetto che voleva mostrarmi, solo una temporanea

interruzione delle vibrazioni della luce, con la conseguente oscurità dentro

la quale entrambi sedevamo adesso.

«Quella sostanza», disse Baumoff, «sarebbe un terribile esplosivo se

usato in certe condizioni!»

Lo udii tirare boccate di fumo dalla pipa ma, invece di vedere lo scintillio

rosso della pipa, vidi solo un indistinto riverbero che guizzava e scompariva

in modo fuori del comune.

«Mio Dio», dissi, «quando finirà?» In fondo alla stanza guardai la grande

lampada a kerosene che pareva solo un punto appena brillante che

lampeggiava tremolando in maniera strana, come se la vedessi attraverso

un'immensa quantità di acqua nera e tempestosa.

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«Va bene», disse Baumoff immerso nell'oscurità, «sta per finire: fra

cinque minuti questa perturbazione si calmerà e le onde di luce della

lampada brilleranno normalmente. Ma, mentre stiamo aspettando, è una

cosa grandiosa, non ti pare?»

«Sì», dissi, «è una cosa meravigliosa, ma alquanto soprannaturale.»

«Oh! Ma devo mostrarti qualcosa di più raffinato», continuò. «Aspetta

qualche minuto. L'oscurità sta finendo. Guarda! Puoi vedere la luce della

lampada molto bene. Sembra che sia sommersa in acque che bollono, non è

così? Acque che diventano sempre più chiare e calme.»

Si stava infatti verificando quello che diceva, e noi guardavamo la

lampada in silenzio, finché tutti i segni della perturbazione che

concernevano la luce cessarono. Allora Baumoff si voltò di nuovo verso di

me.

«Adesso», disse, «hai visto gli effetti casuali della semplice combustione

di quel mio materiale. Ti mostrerò ora gli effetti di quella combustione in

quella fornace umana che è il mio corpo; ed allora vedrai una delle più

grandi meraviglie della morte di Cristo riprodotta su scala piccolissima.»

Andò vicino alla mensola del caminetto e tornò con un piccolo bicchiere

da 120 gocce ed un'altra provetta chiusa che conteneva un unico granello

bianco-grigio di sostanza chimica. Tolse il tappo della provetta, scosse il

granello nel bicchiere e, con un bastoncino di vetro, lo schiacciò sul fondo

aggiungendo allo stesso tempo acqua, finché non ne ebbe messo sessanta

gocce.

«Adesso!» disse, alzandolo, e bevve il contenuto. «Aspetteremo

trentacinque minuti», continuò, «poi, mentre procederà il processo di

carbonizzazione, tu sentirai che il mio polso aumenterà, e così anche la

respirazione. Poi tornerà ancora l'oscurità in maniera più strana e misteriosa

accompagnata da fenomeni fisici e psichici, dovuti al fatto che le vibrazioni

che emanerà si mescoleranno con quelle che io posso chiamare vibrazioni-

emotive che emetterò durante le mie pene. Queste saranno enormemente più

intense, e probabilmente tu avrai l'esperienza di una straordinaria nonché

interessante dimostrazione della validità dei miei ragionamenti teorici. Io ne

ho fatto la dimostrazione su di me la settimana scorsa (e mi indicò un dito

fasciato), ed ho letto un rapporto sui risultati al Circolo. I soci sono

entusiasti, e mi hanno promesso la loro cooperazione nella grande

dimostrazione che darò il prossimo Venerdì Santo, cioè fra sette settimane.»

Aveva smesso di fumare, ma continuò a parlare con calma, come era

solito fare, per altri trentacinque minuti. Il Circolo cui alludeva era una

strana associazione di uomini uniti sotto la presidenza dello stesso Baumoff,

che avevano scelto di chiamarsi (cerco di tradurre alla meglio) come "I

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Credenti e I Rivelatori di Cristo". Se mi è permesso dirlo senza pensieri

irriverenti essi erano - almeno molti di loro - uomini che si comportavano

come pazzi quando si trattava di sostenere il Cristo. Credo che vi troverete

d’accordo con me nel pensare che non ho usato un termine non corretto nel

descrivere la maggior parte dei membri di questo strano Circolo che era, a

modo suo, simile ad una di quelle società maniacalmente religiose che sono

state create da alcuni dei nostri cugini d'oltreoceano dalla mente troppo

emotiva.

Baumoff guardò l'orologio, poi mi porse il polso. «Sentimi il polso»,

disse. «Sta battendo più in fretta. Un dato interessante, capisci?»

Io assentii e tirai fuori l'orologio. Avevo notato che la sua respirazione

stava diventando più rapida, e trovai che il polso batteva regolarmente e

forte a 105 battiti. Tre minuti dopo era aumentato a 175, e la sua

respirazione era a 41. Dopo altri tre minuti, trovai il polso che batteva a 203,

ma con un ritmo regolare. Il respiro era arrivato a 49. Aveva, come sapevo, i

polmoni eccellenti ed il cuore forte. I suoi polmoni avevano una grande

capacità e, fino a quel momento, non c'era nessuna dispnea apprezzabile.

Tre minuti dopo, trovai il polso a 227 battiti e il respiro a 54. «Tu hai

molti globuli rossi, Baumoff!» dissi, «ma stai attento a non strafare.»

Mi fece un segno di assenso e sorrise; ma non disse nulla. Tre minuti

dopo, quando gli toccai l'ultima volta il polso, era arrivato a 233, e le due

parti del cuore pompavano quantità non uguali di sangue con ritmo

irregolare. Il respiro si era alzato a 67, diventando poco profondo ed

insufficiente e, in quel momento, la dispnea si rivelava sempre più notevole.

La piccola quantità di sangue arterioso che lasciava il lato sinistro del cuore

produceva uno strano blu-bianco sulla sua faccia.

«Baumoff!» esclamai, cominciando a fare rimostranze; ma lui mi fermò

con un gesto stranamente deciso.

«Va tutto bene!» disse, con voce ansante e con una piccola nota di

impazienza. «Io so sempre quello che faccio. Ricordati che ho preso la

stessa Laurea in Medicina che hai preso tu.»

Era proprio vero. Mi ricordai allora che si era laureato in Medicina a

Londra; e, dopo questa, aveva preso un'altra mezza dozzina di Lauree in

rami scientifici diversi nel suo Paese. La memoria mi rassicurava che lui

non agiva nell'ignoranza di possibili pericoli; cominciò a gridare con una

curiosa voce ansante:

«Oscurità! È il principio. Nota ogni singola cosa. Non preoccuparti di me.

Io sto bene!»

Guardai rapidamente intorno nella stanza. Stava accadendo quello che

aveva predetto, e adesso lo vedevo. Sembrava che ci fosse qualcosa di

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strano nell'oscurità che diventava sempre più fitta. Era una specie di oscurità

bluastra, vaga, ma che ancora non impediva del tutto alla luce di trasparire

nell'atmosfera.

All'improvviso, Baumoff fece qualcosa che mi dette un senso di nausea.

Ritirò il polso dalle mie mani e prese una piccola scatola metallica, una di

quelle dove si sterilizzano gli aghi delle iniezioni. L'aprì e prese quattro

puntine da disegno (se così posso chiamarle) dalla forma strana.

Avevano punte di acciaio lunghe più di due centimetri mentre tutto

intorno alle capocchie, pure di acciaio, sporgevano, volte in giù e parallele

alla punta centrale, molte punte più corte, forse di pochi millimetri.

Si levò quindi le scarpe e, piegandosi, si sfilò i calzini. Vidi che sotto

aveva un paio di calzini di lino.

«Disinfettati», disse guardandomi. «Mi sono preparato i piedi prima che

tu arrivassi. Non c'è bisogno di correre rischi inutilmente.» Mentre parlava

ansimava. Poi prese una di quelle strane punte di acciaio.

«Le ho sterilizzate», disse, e subito, con gesti sicuri, le spinse dentro fino

alla capocchia, nel piede, fra la seconda e la terza diramazione dell'arteria

dorsale.

«In nome di Dio, che cosa stai facendo?» chiesi, quasi alzandomi dalla

sedia.

«Mettiti a sedere!» mi ordinò con tono di voce severo. «Non posso avere

delle interferenze. Voglio solo che tu osservi e prenda nota di tutto. Dovresti

ringraziarmi per questa opportunità, invece di crearmi confusione, dal

momento che sai che farò tutto ciò che devo fare.»

Mentre parlava, aveva spinto giù la seconda punta, fino alla capocchia,

nel piede sinistro, prendendo la stessa precauzione di evitare le arterie. Non

un gemito proveniva da lui; solo la faccia tradiva gli effetti di questo nuovo

dolore.

«Mio caro amico!» disse, osservando il mio turbamento. «Sii saggio. So

quello che faccio. Ci deve essere semplicemente il dolore, e la forma più

semplice per raggiungere questa condizione, è attraverso il dolore fisico.»

Le sue parole erano diventate una serie di suoni spasmodici mentre

ansava, e il sudore gli colava a larghe gocce sulle labbra e sulla fronte. Si

tolse la cintura poi cominciò a passarla sul retro della sedia, allacciandola

davanti alla vita, come se si aspettasse di aver bisogno di un sostegno per

non cadere.

«È una cosa non buona, dissi». Baumoff tentò di scuotere le spalle

palpitanti, il che era, a suo modo, una delle cose più pietose che abbia mai

visto, e mostrava nella sua interezza l'agonia dell'uomo, che non voleva però

esprimerla.

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Adesso si puliva il palmo delle mani con una piccola spugna che

immergeva ogni tanto in una tazza contenente una soluzione. Sapevo quello

che stava per fare e, all'improvviso, lui sussultò, con un tentativo pietoso di

fare un sorriso, ma mi fornì la spiegazione del suo dito fasciato. Aveva

tenuto il dito sopra la fiamma della lampada a spirito durante il suo

precedente esperimento. Adesso, con parole ansanti, mi spiegò che

desiderava imitare il più possibile le condizioni vere della grande scena che

aveva in mente. Mi spiegò molto bene che stavamo per sperimentare

qualcosa di veramente straordinario, così che provai un senso quasi

superstizioso di nervosismo.

«Come vorrei che tu non lo facessi, Baumoff!» gli dissi.

«Non... essere... sciocco!» riuscì a rispondere. Ma le ultime due erano più

gemiti che parole perché, mentre parlava, aveva spinto fino alla capocchia

nel palmo delle mani le due rimanenti punte di acciaio.

Chiuse le mani con una specie di spasmo pieno di determinazione

selvaggia, ed allora vidi una delle punte apparire attraverso il dorso della

sua mano fra i tendini esterni del secondo e terzo dito. Una goccia di sangue

imperlava la cima della punta. Guardai la faccia di Baumoff ed egli mi

restituì con forza lo sguardo.

«Nessuna interferenza», riuscì appena a dire. «Non ho sopportato tutto

questo per niente. So quello che faccio. Guarda... sta accadendo. Prendi nota

di tutto quanto.»

Ritornò ad essere silenzioso, eccetto per il suo doloroso ansimare. Mi resi

conto che non potevo far nulla, e mi guardai intorno per la stanza con una

strana mescolanza di disagio misto ad una reale ed allo stesso tempo

mitigata curiosità.

«Oh!» disse Baumoff dopo un momento di silenzio. «Qualcosa sta per

accadere. Lo sento. Aspetta che abbia la mia... grande dimostrazione. Lo

saprò, e quello stupido Hautch...»

Assentii; ma dubito che egli mi potesse vedere, perché i suoi occhi

sembravano girati in dentro e l'iride era quasi rilassata. Guardai di nuovo

intorno nella stanza: stava cominciando una distinta - sebbene discontinua -

diminuzione dei raggi provenienti dalla lampada, che dava un effetto di luce

e ombra.

L'atmosfera della stanza era senz'altro più scura, pesante, come per un

senso di tristezza. La tinta bluastra era sempre più evidente; ma non c'era

ancora quell'opacità che avevamo sperimentato prima, quando c'era stata la

semplice combustione, se si eccettua quella discontinua e vaga diminuzione

della luce della lampada.

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Baumoff cominciò a parlare di nuovo, emettendo parole mescolate a

rantoli. «Questo mio stratagemma mi dà dolore nel posto giusto.

Associazione giusta di idee e di emozioni, per ottenere risultati migliori. Mi

segui? Bisogna fare le cose uguali per quanto è possibile. Bisogna fissare la

propria attenzione sulla... scena della morte...»

Rantolò dolorosamente per pochi minuti. «Noi dimostriamo la verità del...

dell'oscuramento; ma... ma bisogna tener conto che c'è un effetto psichico

da notare attraverso i risultati del parallelismo delle... condizioni. Potrei

avere la simulazione dell'avvenimento stesso. Prendi nota.» Allora,

all'improvviso, con un'esplosione chiara e spasmodica gridò: «Mio Dio,

Stafford, prendi nota di tutto! Qualcosa sta per accadere. Una cosa

meravigliosa! Promettimi di non curarti di me. Io so quello che faccio.»

Baumoff cessò di parlare con un rantolo, e ci fu solo il suo respiro

affannoso che rompeva la quiete della stanza. Mentre lo guardavo,

frenandomi dal dirgli le molte cose che avevo bisogno di dirgli, mi resi

conto ad un tratto che non riuscivo più a vederlo molto bene; una specie di

ondeggiamento nell'atmosfera fra noi due me lo faceva sembrare in quel

momento irreale. L'intera stanza si era oscurata in maniera palese durante

gli ultimi trenta secondi. Mentre mi guardavo intorno, mi accorsi che c'era

un vortice invisibile e costante in quella straordinaria oscurità blu che

diventava sempre più profonda e che ora sembrava invadere tutto. Quando

guardai la lampada, essa mandava lampi di luce e lampi di colore blu;

l'oscurità seguiva gli uni e gli altri con una rapidità incredibile.

«Mio Dio!» udii Baumoff bisbigliare nella semioscurità, come se parlasse

a se stesso. «Come fece Cristo a sopportare i chiodi?»

Lo guardai con estremo disagio, mentre una pietà piena di irritazione mi

opprimeva, ma sapevo che non serviva a nulla fare delle rimostranze ora. Lo

vedevo vagamente deformato attraverso il tremolio ondeggiante

dell'atmosfera. Era come se lo stessi guardando attraverso le spire di

quell'aria calda; c'erano solo delle meravigliose onde di un colore nero-blu

che formavano degli squarci alla mia vista. Per un momento vidi

chiaramente la sua faccia, piena di un dolore immenso che in qualche modo

mi sembrava più spirituale che fisico e, sopra ogni altra cosa, c'era la sua

espressione di enorme risoluzione e concentrazione, che rendeva il suo viso

livido, madido di sudore e tormentato, ma in qualche modo eroico e

splendido.

E poi, riempiendo la stanza di onde e spruzzi di opacità, la vibrazione di

quella agonia stimolata anormalmente, alla fine ruppe le vibrazioni della

luce. Un mio ultimo, rapido sguardo intorno, mi mostrò l'invisibile etere che

ribolliva e turbinava in un modo tremendo: all'improvviso, la fiamma della

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lampada si perse dentro una straordinaria chiazza di luce che manifestò la

sua posizione per parecchi minuti, brillando e spegnendosi, brillando e

spegnendosi finché, all'improvviso, non vidi né la lucente chiazza di luce,

né tutto il resto. Quindi mi persi in una notte nera ed opaca, attraverso la

quale veniva il forte e penoso respiro di Baumoff.

Passò un minuto intero, ma così lentamente che, se non avessi contato i

respiri di Baumoff, avrei detto che ne erano passati cinque. Poi Baumoff

parlò improvvisamente con una voce che in qualche modo sembrava

curiosamente cambiata, priva di tono.

«Mio Dio», disse nell'oscurità, «quanto deve aver sofferto Cristo.»

Fu durante il silenzio che seguì, che ebbi per la prima volta la percezione

di sentirmi vagamente spaventato; ma questo sentimento era troppo

indefinito e infondato - e dovrei dire quasi a livello subconscio - per poterlo

affrontare. Tre minuti passarono ancora mentre contavo i respiri quasi

disperati che mi raggiungevano attraverso l'oscurità. Poi Baumoff riprese a

parlare con quella insolita voce stranamente alterata:

«Per la Tua Agonia e Sudore di Sangue», mormorò, e lo ripeté due volte.

Era chiaro che aveva fissato tutta la sua attenzione con intensità tremenda,

nel suo stato anormale, sulla scena di morte.

L'effetto che aveva su di me quella intensità era interessante: in certo qual

modo persino straordinario. Alla meglio, analizzai le mie sensazioni ed

emozioni ed il mio stato mentale in generale, rendendomi conto che

Baumoff stava producendo in me uno stato quasi di ipnosi.

Una volta, in parte perché desideravo riprendere il mio livello mentale per

mezzo di una osservazione normale, ed anche perché mi preoccupai

all'improvviso per un cambiamento del suo respiro, chiesi a Baumoff come

stava. La mia voce attraversò in maniera strana quella impenetrabile, nera,

opacità.

Mi rispose: «Zitto, sto portando la Croce!» E allora, sapete, l'effetto di

quelle semplici parole, dette con voce senza tono in quella atmosfera tesa

quasi all'impossibile, fu così potente che, all'improvviso, con gli occhi

spalancati, vidi Baumoff in maniera chiara e vivida che portava la Croce in

una oscurità innaturale. Non la portava come i dipinti mostrano Cristo,

piegata su una spalla, bensì tenuta strettamente nella parte trasversale delle

braccia mentre la parte bassa strisciava sul terreno roccioso. Vidi anche le

venature del legno naturale, dove la corteccia era stata strappata e, sotto la

parte strascinata, c'era un ciuffo di erba che era stata sradicata e poi

trasportata e schiacciata dalle rocce fra l'estremità della croce ed il suolo

sassoso. La vedo anche ora mentre vi parlo. La sua vivezza era

straordinaria; ma era apparsa e sparita come un lampo, ed io ero ancora

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seduto là nell'oscurità, contando meccanicamente i respiri, senza rendermi

conto del fatto che stavo contando.

Mentre sedevo là, mi accorsi tutto ad un tratto del prodigio che Baumoff

aveva ottenuto. Mi trovavo in una oscurità che era una vera e propria

riproduzione del miracolo dell'Oscurità della Croce. In breve Baumoff

aveva, producendo in se stesso una condizione anormale, sviluppato una

Energia di Emozioni che doveva avere nei suoi effetti, quasi un parallelismo

con l'Agonia della Croce. E, facendo così, aveva dimostrato da un punto

completamente nuovo e meraviglioso, l'indiscutibile verità della stupenda

personalità e l'enorme forza spirituale di Cristo. Egli aveva sviluppato e

fatto rivivere la realtà di quella meraviglia del mondo che è il Cristo. E per

tutto questo io non provavo altro che ammirazione, di una specie che quasi

mi stupiva.

Ma, a questo punto, sentii anche che l'esperimento doveva cessare.

Sentivo il desiderio, stranamente urgente, che Baumoff terminasse proprio

lì, e che non tentasse di rendere parallele anche le condizioni psichiche.

Avevo anche allora, a causa di qualche impulso subconscio, un vago

sentimento di pericolo che potesse venire aperta la porta a qualcosa di

mostruoso anziché acquisire una vera e propria conoscenza.

«Baumoff!» gridai, «Smettila!»

Ma lui non mi rispose e, per qualche minuto, seguì un silenzio senza

interruzione salvo che per il suo respiro affannoso.

All'improvviso Baumoff disse rantolando: «Donna... ecco... tuo... figlio!»

Bisbigliò questo molte volte con la stessa voce conturbante dalla mancanza

di tono con la quale aveva parlato dacché l'oscurità era divenuta completa.

«Baumoff!» ripetei, «Baumoff, smettila!» E, mentre aspettavo la sua

risposta, fui sollevato nel sentire che il suo respiro era meno profondo.

L'abnorme domanda di ossigeno era stata forse soddisfatta, ed il suo cuore

non doveva più reggere un tale onere.

«Baumoff!» ripetei di nuovo. «Baumoff, smettila!»

Mentre parlavo, ebbi all'improvviso l'impressione che la stanza si

muovesse un po'.

Ora avrete già notato che ero diventato conscio di un nervosismo strano e

crescente. Penso che fino a quel momento questa sia la parola che lo

descrive meglio. A quel leggero movimento che sembrò agitare la stanza

completamente buia, mi sentii ad un tratto ancora più nervoso. Provai un

brivido di paura vera e propria, senza però una causa sufficiente della

ragione che la giustificasse; perciò, dopo esser stato seduto pieno di

tensione per qualche lungo minuto, non sentendo altro, decisi di aver

bisogno di farmi forza e di tenere a bada i nervi. Ed allora, proprio mentre

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ero giunto in uno stato di mente più sereno, la stanza fu scossa di nuovo da

un movimento oscillatorio che era strano e perturbante al contempo, e che

non poteva esser negato.

«Dio mio!» bisbigliai. Poi, con un impulso di coraggio, gridai: «Baumoff!

Per l'amor di Dio, smettila!»

Voi non potete aver alcuna idea dello sforzo che mi ci volle per parlare ad

alta voce in quel buio; e, mentre parlavo, il suono della mia voce mi fece

innervosire nuovamente. Essa attraversò la stanza in maniera così cruda e

vuota da farla sembrare, in qualche modo, incredibilmente grande. Mi

chiedo se riusciate a rendervi conto di come mi sentissi male, senza fare un

ulteriore sforzo per spiegarvelo.

Baumoff non rispose mai, ma lo udivo respirare un po' più pienamente,

pur sollevando il torace con dolore per il bisogno di aria. Quindi

l'incredibile scuotimento della stanza cessò, e gli successe un periodo di

calma durante il quale sentii che era mio dovere alzarmi ed andare da lui.

Ma non potei farlo. In un modo o nell'altro non avrei toccato Baumoff per

nessuna ragione al mondo. Eppure, in quel momento, non mi rendevo conto,

- come capisco invece adesso - che avevo paura di toccarlo.

Allora le oscillazioni ricominciarono, e mi sentii i calzoni scivolare sulla

sedia: allungai le gambe, puntellando i piedi sul tappeto per trattenermi in

qualche modo dallo scivolare a terra. Dire che avevo paura non descrive

affatto il mio stato. Ero del tutto atterrito! All'improvviso trovai conforto,

ma in maniera insolita, perché un'idea mi si fissò letteralmente nel cervello

e mi dette una ragione a cui afferrarmi. Era una sola frase: “L'Etere, anima

del ferro e di parecchi elementi”, che Baumoff aveva una volta usato come

testo di una straordinaria conferenza sulle vibrazioni durante i primi tempi

della nostra amicizia. Aveva formulato la teoria che in embrione la materia

era, dal punto di vista dell'aspetto primario, una vibrazione circoscritta che

attraversa un'orbita chiusa. Queste vibrazioni circoscritte erano

eccezionalmente piccole. Ma erano capaci, date certe condizioni, di

combinarsi sotto l'azione di altre vibrazioni, come note fondamentali, in

vibrazioni secondarie con forma e misura determinabili da una quantità di

fattori da stabilire. Queste avrebbero sostenuto la loro nuova forma

fintantoché non fosse accaduto qualcosa per disorganizzare la loro

combinazione o diminuire o cambiare la loro energia: la loro unità era

determinata parzialmente dall'inerzia dell'Etere fermo al di fuori del circuiti

chiusi delle vibrazioni primarie localizzate e non era nient'altro che la

Materia. Uomini, mondi e perfino universi.

E quindi aveva aggiunto una cosa che mi colpì più delle altre. Disse che,

se fosse stato possibile produrre una vibrazione dell'Etere di un'energia

Page 62: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

sufficiente, si sarebbe potuto disorganizzare e confondere le vibrazioni della

materia. Che se avesse avuto una macchina capace di produrre tali

vibrazioni dell'Etere, si sarebbe impegnato a distruggere non solo il mondo,

ma l'intero universo, inclusi il Paradiso e l'Inferno stessi, se pure tali luoghi

fossero esistiti ed avessero avuto una loro esistenza in forma materiale.

Ricordo come lo avessi guardato sbalordito per l'importanza e la portata

della sua immaginazione. Ed ora quella conferenza mi tornò alla memoria

per aiutare il mio coraggio con la sanità del ragionamento. Non era possibile

che la perturbazione dell'Etere che egli aveva prodotto avesse sufficiente

energia da causare qualche disorganizzazione delle vibrazioni della materia

nelle immediate vicinanze, ed avesse così creato tutto intorno alla casa un

terremoto in miniatura, che l'aveva fatta oscillare dolcemente?

Ed allora, mentre questo pensiero mi occupava la mente, un altro ancora

più grande mi balenò nel cervello: «Dio mio!» esclamai forte nell'oscurità

della stanza. Potevo spiegare un altro dei misteri della Croce: la

perturbazione dell'Etere causata dall'agonia di Cristo aveva disorganizzato

le vibrazioni della materia nelle vicinanze della Croce e per questo c'era

stato un piccolo terremoto locale che aveva aperto le tombe e squarciato il

velo, probabilmente distruggendone i sostegni. E, naturalmente, il terremoto

era stato un effetto, non una causa, come i detrattori del Cristo hanno

sempre insistito nel dire.

«Baumoff!» gridai, «Baumoff, tu hai provato un'altra cosa. Baumoff,

Baumoff! Rispondimi. Stai bene?»

Baumoff rispose improvvisamente, in modo chiaro, nell'oscurità; ma non

rispondeva a me:

«Mio Dio! disse. Mio Dio!» La sua voce mi raggiunse come un grido di

vera agonia mentale. Stava soffrendo, in maniera ipnotica ed indotta,

qualche cosa della vera agonia di Cristo stesso.

«Baumoff!» gridai ancora e mi sforzai di alzarmi. Sentii la sua sedia che

sbatteva mentre lui si sedeva e vacillava.

«Baumoff!»

Una scossa di terremoto attraversò il pavimento della stanza, ed udii lo

stridere degli infissi e qualcosa cadere e frantumarsi nel buio. I rantoli di

Baumoff mi facevano male, ma rimasi ritto là, non osando avvicinarmi.

Allora seppi che avevo paura di lui, della sua condizione, o di qualche altra

cosa che non conoscevo. Quanta orribile paura ebbi di lui!

«Bau...» cominciai di nuovo ma, ad un tratto, ebbi perfino paura di

parlargli. E non riuscivo a muovermi. Improvvisamente, egli gridò ad alta

voce con un tono di angoscia incredibile:

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«Eloi, Eloi lama sabachthani!» Ma l'ultima parola uscì dalla sua bocca

con un tono diverso, ed i suoi ipnotici gemiti di dolore, diventarono un urlo

di terrore semplicemente infernale.

E, immediatamente, un'orrida voce piena di scherno urlò nella stanza

dalla sedia di Baumoff: «Eloi, Eloi lama sabachthani!»

Dovete capire che la voce non era affatto quella di Baumoff. Non era una

voce disperata, ma una voce che scherniva in maniera incredibile, bestiale e

mostruosa.

Nel silenzio che seguì, rimasi agghiacciato dalla paura. Sapevo che

Baumoff non rantolava più. La stanza era completamente silenziosa, il

luogo più paurosamente silente di tutto questo mondo. Poi mi voltai per

fuggire, ma inciampai con il piede nell'orlo del tappeto, che era invisibile, e

caddi a testa in giù. Vidi un mare di stelle dopodiché, per molto tempo -

certamente alcune ore - rimasi senza conoscenza.

Quando rinvenni e mi ritrovai nel presente, mi opprimeva un gran mal di

testa che escludeva tutte le altre sensazioni. Ma l'oscurità era sparita. Mi

rotolai su un fianco e, vedendo Baumoff, dimenticai perfino il dolore alla

testa. Era rivolto in avanti verso di me; i suoi occhi erano spalancati ma

opachi. La sua faccia era enormemente gonfia e c'era un non so che di

“animalesco” in lui. Era morto, e la cintura che gli circondava la vita e il

dorso della sedia, lo tratteneva dal cadere in avanti sopra di me. La lingua

gli era uscita da un angolo della bocca. Ricorderò sempre come appariva:

più che un uomo, sembrava una bestia umana dall'espressione bieca.

Mi allontanai da lui, ma non cessai mai di guardarlo fino a che raggiunsi

l'altra parte e la porta che chiusi dietro di me. Allora riacquistai un po' di

equilibrio e rientrai; ma non c'era nulla da fare.

Baumoff era morto di un attacco di cuore, non vi era dubbio. Io non sarei

stato così sciocco da suggerire ad una giuria sana mentalmente che era stato

posseduto da qualche Mostro dello Spazio che scimmiottava il Cristo. Ho

troppo rispetto per il mio carattere di uomo sensato per suggerire seriamente

tale ipotesi. Lo so che può sembrare che parli con scherno, ma che cosa

posso fare se non schernire me stesso ed il mondo quando non oso

ammettere - nemmeno segretamente a me stesso - quali sono i miei

pensieri?

Baumoff morì certamente di un attacco di cuore; quanto al resto, io fui

ipnotizzato a crederci. Però, c'era vicino alla parete opposta un mucchietto

di vetro che era stato una volta un bellissimo vaso veneziano, e che era

caduto a terra da una mensola saldamente fissata alla parete.

Page 64: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

Vi ricorderete che avevo sentito cascare qualcosa quando la stanza aveva

oscillato. Ma allora, la stanza aveva davvero oscillato? Devo smettere di

pensare, perché mi gira la testa.

L'esplosivo di cui parlano i giornali? Sì, è di Baumoff; questo lo fa

sembrare vero, non è così? Essi ebbero l'oscurità a Berlino dopo

l'esplosione: non lo si può negare. Il Governo sa soltanto che le formule di

Baumoff sono capaci di produrre grandi quantità di gas nel più breve tempo

possibile. Certo è un esplosivo ideale. Lo è. Ma sospetto che si dimostrerà

essere un esplosivo, come ho già detto e come è stato provato, un po' troppo

indiscriminante nella sua azione, per fare esultare l'uno o l'altro dei

contendenti.

Forse questo si rivelerà una fortuna, anzi una salvezza, se le teorie di

Baumoff che riguardano la possibilità di disorganizzare la materia sono

vicine alla verità.

Qualche volta ho pensato che ci potesse essere una spiegazione più

normale della cosa orribile che accadde alla fine. A Baumoff può essere

scoppiato un vaso sanguigno nel cervello, a causa dell'enorme pressione

arteriosa che l'esperimento aveva provocato; la voce che udii, lo scherno,

l'orribile espressione e lo sguardo bieco, può darsi che non fossero nulla più

che uno sfogo immediato, un'espressione della naturale obliquità di una

mente sconvolta, che così spesso fa cambiare all'improvviso un lato della

natura umana e produce un'inversione di carattere. Questa inversione è il

complemento del suo stato normale. E, certamente, il povero Baumoff

aveva normalmente una attitudine religiosa che era di reverenza e di lealtà

verso Cristo.

A rinforzare questa spiegazione, ho anche frequentemente osservato che

la voce di una persona che soffre di uno sconvolgimento mentale, spesso

cambia, come per miracolo, ed assume frequentemente una qualità

repellente e disumana. Cerco di pensare che questa spiegazione si adatti a

questo caso. Ma non riuscirò mai a dimenticare quella stanza. Mai!»

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Il Mar dei Sargassi

Quando fu passato un anno, ed ancora non c'erano notizie della nave

Graiken, anche i più ottimisti tra gli amici del mio vecchio compagno,

avevano cessato di sperare. Forse la nave doveva essere affondata in

qualche luogo.

Eppure Ned Barlow, nei suoi nascosti pensieri - io lo sapevo - nutriva

ancora la speranza che la nave facesse ritorno a casa. Povero, caro, vecchio

amico: come comprendevo il suo dolore!

Perché era proprio con la Graiken, che la sua fidanzata era partita quel

grigio giorno di gennaio di dodici mesi prima. Aveva deciso di fare quel

viaggio per ragioni di salute; e da allora - eccetto una lontana segnalazione

riportata dalle Azzorre - non c'erano state notizie da nessuna parte del

misterioso oceano; la nave e tutti quelli che portava, erano completamente

spariti.

Eppure Barlow sperava. Non diceva nulla in realtà ma, a volte, i suoi

pensieri più intimi venivano a galla, e si rivelavano attraverso il flusso delle

sue parole. Così venivo a sapere in un modo indiretto ciò che pensava

veramente.

Il tempo non lo faceva guarire.

Accadde più tardi, che la mia attuale fortuna mi capitasse all'improvviso.

Morì mio zio ed io - fino allora povero - divenni un uomo ricco. In un

attimo, sembra, ero divenuto il proprietario di case, terreni e denaro; anche -

e agli occhi miei era una cosa ancora più importante - di un bello yacht

attrezzato di vele da prua a poppa, registrato per circa duecento tonnellate.

Sembrava quasi incredibile che questo battello fosse mio, ed io volevo

precipitarmi a Falmouth e partire. In tempi passati, quando mio zio era stato

molto gentile, mi aveva invitato ad accompagnarlo per dei viaggi intorno

alla costa o in altri posti, così come gli passava per la mente; eppure mai,

neanche nei momenti più speranzosi, mi era passato per la mente che un

giorno quella nave potesse essere mia.

Ed ora mi affrettavo a prepararmi per un lungo viaggio in mare, perché

per me il mare è ed è sempre stato, un buon compagno.

Eppure, pur con tante prospettive davanti, non ero completamente

soddisfatto, perché volevo che Ned Barlow venisse con me, ed avevo paura

di chiederglielo.

Page 66: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

Avevo la sensazione che, a causa di quella perdita terribile, egli dovesse

odiare completamente il mare; eppure non riuscivo ad essere contento al

pensiero di lasciarlo ed andarmene da solo.

Di recente non era stato bene, ed un viaggio in mare gli avrebbe giovato,

solo che non gli facesse riemergere ricordi tristi.

Alla fine mi decisi a suggerirglielo, e lo feci due giorni prima della data

fissata per la partenza.

«Ned», gli dissi, «tu hai bisogno di un cambiamento.»

«Sì», assentì lui stancamente.

«Vieni con me, vecchio mio», continuai diventando più ardito. «Io mi

metto in viaggio con lo yacht. Sarebbe meraviglioso averti...»

Con mia grande meraviglia si alzò e venne verso di me, pieno di

eccitazione.

«Gli ho dato un dispiacere adesso», pensai. «Sono uno sciocco!»

«Andare a fare un viaggio in mare», disse. «Mio Dio, darei...»

Si fermò subito e rimase fermo in maniera sconcertante davanti a me, con

la faccia tremante di emozione repressa. Stette in silenzio per pochi secondi,

cercando di riprendersi, poi continuò con calma: «Dove andiamo?»

«In qualunque posto», risposi, guardandolo attentamente perché ero

rimasto sorpreso dalle sue maniere.

«Non lo so ancora. In qualche posto nuovo. Sai è bello poter andare

proprio dove ci piace. Io riesco appena a rendermene conto!»

Smisi di parlare perché Ned si era voltato e guardava fuori dalla finestra.

«Verrai, Ned?» quasi gridai, perché avevo paura che rifiutasse.

Fece un passo indietro e mi si avvicinò.

«Verrò!» disse, e nei suoi occhi c'era l'espressione di una singolare

eccitazione che cominciò a farmi pensare a cose strane; ma non dissi nulla,

mi limitai a dirgli quanto mi avesse fatto piacere.

2

Avevamo navigato per due settimane ed eravamo soli nell'Atlantico...

almeno per quanto potevamo vedere. Io mi appoggiavo alla ringhiera di

poppa, guardando in basso la scia che ribolliva: eppure non notavo nulla,

perché ero perso in pensieri alquanto penosi. Si trattava di Ned Barlow. Si

era comportato stranamente, molto stranamente, da quando avevamo

lasciato il porto. Tutto il suo atteggiamento mentale era stato quello di un

uomo pervaso e influenzato dall'eccitazione. Io gli avevo detto che aveva

bisogno di un cambiamento, ed avevo confidato nel fatto che quello

splendido tonico che è la brezza marina, lo avrebbe aiutato a ristorare la sua

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mente ed il suo corpo: ebbene, ecco qui quel pover'uomo che si comportava

in maniera fatta apposta per causarmi dell'ansia circa il suo stato mentale.

Non si era parlato molto dopo aver lasciato la Manica. Quando avevo

l'occasione di parlargli, molte volte non mi dava retta, oppure mi rispondeva

con un monosillabo o due: ma non mi rivolgeva mai la parola.

Inoltre, passava tutto il suo tempo sul ponte fra i marinai e con alcuni

parlava a lungo; ma con me, il suo compagno ed amico, non parlava mai.

Un'altra cosa mi sorprese molto. Barlow dimostrava un grande interesse

per la posizione del battello e della sua rotta: il tutto fatto in un modo che

non lasciava dubbio alcuno sulle sue conoscenze di navigazione.

Una volta tentai di esprimere la mia sorpresa circa le sue vaste

conoscenze e gli chiesi come le aveva acquisite, ma l'unica risposta che

ottenni fu un completo silenzio, e da allora non gli parlai più.

Sapendo questo, si può facilmente comprendere come i miei pensieri,

mentre osservavo la scia dell'acqua, mi disturbassero.

All'improvviso sentii una voce vicino a me.

«Vorrei parlare con lei, Signore.»

Mi voltai di scatto. Era il mio Capitano e, qualcosa nella sua faccia, mi

disse che non tutto andava bene.

«Bene, Jenkins, parla.»

Lui si guardò intorno come se temesse che qualcuno lo ascoltasse: poi mi

si avvicinò di più.

«Qualcuno ha messo in disordine i compassi, Signore», disse piano.

«Che cosa?», domandai in fretta.

«Qualcuno ha interferito, Signore. I magneti sono stati mossi, e quel

qualcuno sapeva quel che faceva.»

«Che cosa vuoi dire?», domandai. «Perché mai qualcuno li dovrebbe

toccare? Che vantaggio ne trarrebbe? Tu devi sbagliarti.»

«No, Signore, non mi sbaglio. Sono stati toccati nelle ultime quarantotto

ore, e da qualcuno che capisce quello che fa.»

Lo guardai. L'uomo era proprio sicuro. Mi sentii perplesso.

«Ma perché lo avrebbe fatto?»

«Questo non lo so, Signore; ma è una cosa seria, ed io voglio sapere

quello che devo fare. Mi pare che ci sia qualcosa che non va. Io darei un

mese di paga per sapere chi è stato: questa è la verità.»

«Bene», dissi, «se sono stati toccati, deve essere stato uno degli ufficiali.

Tu hai detto che la persona che ha fatto questo sapeva quel che faceva.»

Lui negò con la testa. «No, Signore...» cominciò, e poi si fermò

all'improvviso. Il suo sguardo incontrò il mio. Credo che lo stesso pensiero

fosse venuto a tutti e due simultaneamente.

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Mi fece un cenno con la testa. «Ho avuto i primi sospetti da un po' di

tempo, Signore», continuò; «ma vedendo che è...» Non sapeva come

continuare.

Mi staccai dalla ringhiera e mi drizzai. «A chi ti riferisci?» gli chiesi

seccamente.

«Ma a lui, Signore: il signor Ned.»

Avrebbe continuato, ma io lo fermai.

«Non una parola di più, Jenkins!» gridai. «Il signor Ned Barlow è un mio

amico. Tu parli troppo: la prossima volta accuserai me di spostare i

compassi!»

Andai via, lasciando il piccolo Capitano Jenkins senza parole. Avevo

parlato con grande foga e veemenza per metter da parte i miei sospetti.

Tuttavia ero molto perplesso e non sapevo che cosa fare o dire, perciò,

alla fine, non feci nulla.

3

Una mattina presto, circa una settimana dopo, aprii gli occhi tutto ad un

tratto. Giacevo sulla mia cuccetta, ed il giorno cominciava ad entrare

attraverso gli oblò.

Avevo una vaga sensazione che non tutto andasse bene e, sentendomi

così, feci l'atto di afferrare l'orlo della cuccetta per mettermi a sedere, ma

non riuscii a farlo perché i miei polsi erano tenuti fermi da un paio di

manette di acciaio.

Completamente confuso, mi lasciai cadere sui cuscini; poi, mentre

riflettevo assai perplesso, sul ponte sopra la mia testa risuonò uno sparo,

seguito da un secondo e da un suono di voci e di passi. Quindi ci fu un

lungo periodo di silenzio.

Una sola parola mi venne in mente: ammutinamento! Le tempie mi

dolevano un po', ma mi sforzai di mantenermi calmo e di pensare. Poi, ad

un tratto, mi misi a cercare la ragione di tutto quello. Chi era e perché?

Passò forse un'ora durante la quale mi posi centomila domande.

Improvvisamente udii una chiave che girava nella toppa della porta. Dunque

ero stato chiuso dentro! Quando la porta si aprì, il cameriere entrò nella

cabina. Senza guardarmi, andò all'armadietto e cominciò a rimuovere le

armi.

«Qual è il significato di tutto questo, Jones?» gridai drizzandomi su un

gomito. «Che cosa è accaduto?»

Lo stolto non rispose nulla, ma continuò ad andare e venire portando via

le armi dalla mia cabina per metterle in quella vicina cosicché, alla fine,

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cessai di interrogarlo e rimasi silenzioso, ripromettendomi un giorno di

vendicarmi.

Quando ebbe rimosso tutte le armi, il cameriere cominciò a frugare nei

cassetti della tavola, vuotandoli di tutto ciò che poteva essere considerato

un'arma o un attrezzo.

Dopo aver finito il lavoro, sparì, chiudendo a chiave la porta dietro di sé.

Trascorse un po' di tempo e, alla fine, verso le sette, riapparve,

portandomi questa volta un vassoio con la colazione. Dopo averlo posato

sulla tavola, venne verso di me, e cominciò ad aprire le manette che avevo

ai polsi. Poi, per la prima volta, parlò.

«Il Sig. Barlow desidera che le dica, Signore, che lei potrà circolare libero

nella sua cabina appena prometterà di non causare guai. Se vorrà qualcosa,

io ho l'ordine di procurargliela.» E si avviò in fretta verso la porta.

Da parte mia ero rimasto senza parole per la sorpresa e la rabbia.

«Un minuto, Jones! gridai», proprio mentre stava per lasciare la cabina.

«Spiegami gentilmente che cosa vuoi dire. Tu hai detto il Sig. Barlow. È a

lui che devo tutto questo?» Ed indicai i ferri che l'uomo teneva in mano.

«Sono i suoi ordini», mi rispose quello e si voltò di nuovo per lasciare la

cabina.

«Io non capisco», dissi attonito. «Il Sig. Barlow è mio amico, e questo è il

mio yacht! Con quale diritto tu osi prendere ordini da lui? Lasciami uscire!»

Mentre gli urlavo questo ordine, saltai giù dalla cuccetta e mi lanciai

verso la porta, ma il cameriere, invece di tentare di chiuderla, la spalancò e

se ne andò via in fretta permettendomi in tal modo di vedere che due

marinai erano stazionati nel corridoio.

«Andate subito sul ponte», dissi con ira. «Che cosa fate quaggiù?»

«Ci dispiace, Signore, ma ci farebbe un vero piacere se non ci causasse

delle noie. Noi non la lasceremo assolutamente passare. Non faccia degli

sciocchi errori!»

Dapprima esitai, poi andai verso la tavola e mi misi a sedere. Avrei fatto

comunque del mio meglio onde preservare la mia dignità.

Dopo avermi chiesto se poteva lasciare i vassoi, il cameriere mi lasciò con

i miei pensieri Come potete immaginare, questi non erano affatto piacevoli.

Eccomi prigioniero nel mio stesso yacht, ed a causa di un amico che avevo

amato e protetto per molti anni. Oh! Era una cosa troppo incredibile e

pazzesca! Per un po', dopo aver lasciato la tavola, mi misi a camminare per

la cabina; poi, tornato più calmo, mi sedetti di nuovo e tentai di mangiare

qualcosa.

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Mentre facevo colazione, il mio pensiero principale verteva sul motivo

per il quale il mio vecchio amico mi trattava così; poi cominciai a chiedermi

come aveva fatto a impadronirsi dello yacht.

Molte furono le cose che ricordai: la sua familiarità con l'equipaggio - il

che avevo attribuito ad una temporanea forma di pazzia - e l'aver spostato i

compassi (perché ora ero certo che lo avesse fatto lui stesso). Ma perché?

Quello era il grande interrogativo.

Mentre pensavo e ripensavo a tutto questo, mi ritornò in mente un

incidente capitato sei giorni prima. Era successo proprio il giorno in cui il

Capitano mi aveva detto che i compassi erano stati spostati e cambiati.

Barlow, per la prima volta aveva abbandonato il silenzio che covava ed

aveva cominciato a parlarmi, ma in un modo così strano da farmi provare

preoccupazione per la sua sanità mentale, dato che mi aveva raccontato

delle strane storie e di una idea che gli era venuta in mente. Inoltre, con fare

imperioso, esigeva che la rotta dello yacht dovesse esser messa nelle sue

mani.

Era stato molto incoerente, e chiaramente doveva trovarsi in uno stato di

notevole eccitazione mentale. Aveva farneticato di navi abbandonate e

parlato di un vasto mondo di alghe in maniera allucinata. Una volta o due,

durante questo sorprendente e sconnesso discorso, aveva menzionato il

nome della fidanzata, ed allora il ricordo di quel nome mi fornì la prima

idea di quella che poteva forse essere la soluzione dell'intero affare.

Magari avessi incoraggiato le sue strane parole, invece di farlo parlare di

altre cose; ma non lo avevo fatto perché non potevo sopportare di sentirlo

parlare così.

Eppure, con quel poco che ricordavo, cominciai a formarmi una teoria.

Mi sembrava che potesse aver nutrito qualche idea - formatasi Dio solo sa

come - che la sua fidanzata (ancora viva) fosse a bordo di qualche nave

abbandonata nel mezzo di un enorme mondo di alghe, così lo aveva

chiamato lui. Avrebbe potuto spiegarsi meglio se non avessi tentato di

discutere con lui; e così persi tutto il resto.

Eppure, riandando a ritroso, mi sembrava che senza dubbio egli doveva

alludere all'enorme Mar dei Sargassi, quel vasto mare di alghe grande come

l'Europa continentale, nonché cimitero di tanti naufragi nell'Atlantico.

Senza dubbio, se si proponeva di cercarla in quel posto, doveva essere

temporaneamente impazzito. Ed io non potevo far nulla. Ero prigioniero e

non potevo far nulla.

4

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Trascorsero otto giorni di venti forti e variabili ed io ero ancora

prigioniero nella mia cabina. Dagli oblò che si aprivano a poppa e su

ciascun lato - dato che la mia cabina occupava tutta la lunghezza della

poppa - avevo una buona visuale dell'oceano che ci circondava, e che

adesso aveva cominciato ad essere pieno di grandi chiazze galleggianti di

alghe del Golfo. Alcune di esse erano lunghe centinaia e centinaia di metri.

Eppure, sembrava che andassimo avanti verso il centro del Mar dei

Sargassi. Questo potei appurarlo da una carta marina che avevo trovato in

uno dei cassetti, e la rotta l'avevo potuta seguire mediante un compasso

speciale conficcato nel soffitto della cabina.

E così i giorni passavano uno dopo l'altro e, ad un certo punto, ci

trovammo in mezzo a delle alghe così spesse che, in certi momenti, il

battello trovava difficoltà ad avanzare attraverso la superficie del mare che,

intanto, aveva assunto una apparenza curiosa, come se fosse cosparso d'olio,

nonostante il vento fosse ancora molto forte.

Fu più tardi, in quello stesso giorno, che incontrammo un banco di alghe

così grande che dovemmo ruotare il timone e fare il giro intorno a quella

massa. Dopo, dovemmo ripetere la stessa esperienza molte volte; e fu in

questa situazione che ci trovò la notte.

La mattina seguente stavo all'oblò di poppa e potevo vedere, ad una

considerevole distanza, un enorme banco di alghe che sembrava non finisse

mai, che correva parallelo alla nostra fiancata. Sembrava addirittura che, in

certi punti, quella massa si alzasse di qualche metro sopra il livello del mare

circostante.

Mi fermai a guardare per molto tempo, poi mi spostai dall'altra parte, a

babordo. Là trovai che un banco assai simile si allungava anche lungo

questo fianco. Era come se navigassimo in un immenso fiume, le cui basse

rive erano formate da alghe invece che da terra.

E così, quel giorno passò ora dopo ora, con le alghe che crescevano

sempre più e sempre più vicine. Verso sera, qualcosa fu avvistato: si trattava

dello scafo di una nave lontana e scura, senza alberi, con l'intera chiglia

coperta di escrescenze di un verde opaco che presentava chiazze marroni

alla luce del sole morente.

Vidi quella chiglia solitaria dall'oblò a poppa, e quella vista mi creò una

moltitudine di domande e di pensieri.

Senza dubbio dovevamo essere penetrati nella parte centrale e sconosciuta

dell'enorme Mar dei Sargassi, il grande gorgo dell'Atlantico, e quella

doveva essere una nave abbandonata, perduta molto tempo prima per il

mondo dei vivi.

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Proprio mentre il sole tramontava, ne vidi un'altra; questa era più vicina, e

possedeva ancora due alberi che si stagliavano solitari e nudi contro il cielo

scuro. La nave non doveva essere a più di un quarto di miglio dall'estremità

delle alghe. Mentre la sorpassavamo, sporsi il capo fuori dall'oblò per

guardarla. La stavo ancora osservando, quando il tramonto ne offuscò la

visione e, in un momento, la nave sparì dalla vista, perduta nella solitudine

che ci circondava.

Durante tutta quella notte, sedetti vicino all'oblò ed attesi, guardando e

ascoltando: infatti, il mistero tremendo di quell'inumano mondo di alghe mi

attirava.

Dall'aria non proveniva alcun suono; anche il vento produceva un rumore

fievole fra le vele e le attrezzature e, sotto di me, l'acqua oleosa non dava

nessun rumore di onde. Tutto era completamente inumano.

Verso mezzanotte, la luna si alzò a babordo e, da allora fino all'alba, potei

rimirare un mondo spettrale di alghe, senza alcun suono, fantastiche,

silenziose, ed incredibili sotto la luna.

Quattro volte il mio sguardo captò la sagoma di altrettanti scafi che si

ergevano sopra le alghe che ci circondavano, scafi di vascelli perduti in

tempi remoti. Una volta, proprio mentre una strana alba appariva nel cielo,

mi sembrò che un fioco e lungo lamento venisse fluttuando verso di me

attraverso quell'immenso mare di alghe.

Colpì i miei nervi tesi, e mi rassicurai dicendomi che doveva essere il

grido di qualche solitario uccello marino. Eppure, la mia immaginazione mi

spingeva a trovare qualche altra spiegazione, molto meno ovvia.

Il cielo ad oriente cominciò a schiarirsi con l'aurora, e la luce del mattino

aumentò quasi di nascosto sopra quell'enorme oceano di alghe, fino a che

mi sembrò raggiungere con i suoi raggi l'orizzonte grigio. Solitario, intorno

a noi, come una vasta strada d'olio, si stendeva quello strano golfo a forma

di fiume che avevamo navigato.

Ora potei notare che i banchi di alghe erano più vicini, ed un pensiero

sgradevole si impadronì di me. Quella vasta fenditura che ci aveva

permesso di penetrare proprio nel centro del Mar dei Sargassi, avrebbe

potuto chiudersi?

Ciò avrebbe significato che, inevitabilmente, ci sarebbe stata un'altra nave

fra quelle perdute, un altro mistero senza spiegazione di quell'oceano

impenetrabile. Resistei a questo pensiero, e ritornai al presente che mi

circondava.

Senza dubbio il vento doveva essere diminuito, perché ci muovevamo

lentamente, ed inoltre ciò era dimostrato dall'avvicinarsi dei banchi di alghe.

Le ore passavano e, quando il cameriere mi portò la colazione, la misi

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davanti ad un oblò e là la mangiai, perché non volevo perdere nulla di

quegli strani dintorni in cui ci stavamo addentrando senza indugi. E così

passò la mattina.

5

Fu circa un'ora dopo pranzo che osservai come il canale aperto fra i

banchi di alghe si restringesse quasi minuto dopo minuto con una velocità

paurosa. Non potevo fare nulla, eccetto guardare e far congetture.

Spesso lottavo contro questo pensiero con la remota speranza che ci

stessimo avvicinando certamente a qualche parte più stretta che ci avrebbe

consentito di lasciare il golfo che si apriva così lontano fra le alghe.

A mezzogiorno passato, i banchi di alghe si erano avvicinati così tanto,

che qualche massa sporgente scalfiva i fianchi dello yacht mentre passava.

Fu allora, con quella massa sotto la mia faccia, a pochi metri dagli occhi,

che scoprii l'immensa quantità di vita che si muoveva fra gli odiosi banchi.

Moltissimi granchi camminavano in mezzo alle alghe e, una volta,

qualcosa d'indistinto si mosse nel profondo di una vasta estensione di alghe.

Che cosa fosse non posso dirlo sebbene, dopo, mi fosse venuta un'idea; ma,

tutto ciò che vidi, fu qualcosa di scuro e luccicante. Prima che potessi

vederlo meglio, lo avevamo già sorpassato.

Il cameriere mi stava portando il tè quando, dall'alto, venne un suono di

grida e, quasi immediatamente, si udì un lieve sobbalzo. L'uomo depose il

vassoio che stava portando, e mi guardò con un'espressione stupita.

«Che cosa c'è, Jones?» gli chiesi.

«Non so, Signore, credo che siano le alghe,» rispose.

Corsi all'oblò, sporsi la testa e guardai avanti. La poppa sembrava

incagliata in una massa di alghe e, mentre guardavo, questa venne sempre

più avanti verso poppa.

Pochi minuti dopo c'eravamo passati in mezzo, ed ora ci trovavamo

dentro un pezzo di mare che era libero dalle alghe. Qui, sembravamo andare

alla deriva più che navigare poiché la velocità era molto ridotta.

In questo frattempo ci fermammo, con il battello che ondeggiava fra le

alghe ed era tenuto fermo da due piccole ancore calate da prua e da poppa,

sebbene io non mi rendessi conto di questo che più tardi. Mentre

ondeggiavamo, potei vedere davanti a me dal mio oblò una cosa che mi

sorprese.

Là, distante meno di trecento piedi, dentro quel mare tremolante, giaceva

incastrato un vascello. Aveva avuto tre alberi maestri ma, di questi, solo

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l'albero di mezzana era rimasto. Lo guardai forse per un minuto, respirando

appena per il crescente interesse.

Tutto intorno al parapetto, apparentemente ad una altezza di una decina di

piedi, si ergeva una specie di palizzata formata, per quanto ne potessi

capire, da tela, corde e pali. Mentre mi chiedevo l'uso di quelle cose, udii la

voce del mio amico che chiamava di sopra:

«Graiken, olà!» gridava. «Olà, Graiken!»

Udendolo, quasi sussultai. Graiken? Che cosa voleva dire? Guardai fuori

dall'oblò. I raggi del sole che tramontava brillavano di luce rossa sopra la

prua, e mostravano le lettere del nome e del porto: ma erano troppo lontane

perché potessi leggerle.

Corsi verso il tavolo per vedere se ci fosse un binocolo nei cassetti. Ne

trovai uno nel primo che aprii. Corsi di nuovo verso l'oblò, lo raggiunsi, e

me lo portai agli occhi. Sì, lo vidi chiaramente: il suo nome era Graiken, ed

il porto era quello di Londra.

Spostai gli occhi dal nome a quella strana palizzata tutto intorno. C'era del

movimento a poppa e, mentre guardavo, una porzione della palizzata si

mosse, ed apparvero la testa e le spalle di un uomo. Mi misi quasi a gridare

per l'eccitazione provata a quel movimento. Riuscivo a stento a credere a

ciò che vedevo. L'uomo agitò un braccio, ed un saluto indistinto ci

raggiunse attraverso le alghe; poi sparì. Un momento dopo, una dozzina di

persone riempirono l'apertura, e vidi distintamente la faccia e la figura di

una ragazza.

«Aveva ragione, dopotutto!» mi sentii dire ad alta voce, quasi senza

nessuna intonazione, tanto era il mio stupore.

Subito andai alla porta e cominciai a battere con i pugni.

«Fammi uscire, Ned! Fammi uscire! gridai.»

Sentivo che potevo perdonarlo per tutte le offese ricevute. No, in più, ed

in un modo strano, sentivo che ero io che avevo bisogno di chiedergli

perdono. Tutta la mia amarezza era svanita, e volevo solo essere libero per

poter essere di aiuto nel salvataggio.

Ma, sebbene gridassi, non venne nessuno e, alla fine, ritornai all'oblò per

vedere quali fossero gli ulteriori sviluppi di quella vicenda.

Attraverso le alghe vidi ora un uomo portarsi le mani alla bocca per

urlare. La sua voce mi raggiunse sotto forma di un fievole, rauco suono; la

distanza era troppo grande perché qualcuno a bordo dello yacht potesse

distinguere le parole.

Dalla nave naufragata, la mia attenzione fu attratta all'improvviso da una

scena più vicina. Una tavola di legno venne calata giù sulle alghe e, poco

dopo, vidi il mio amico scendere da una corda e saltarci sopra.

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Avevo aperto la bocca per gridare che lo avevo perdonato, e che volevo

esser libero per dare una mano in quel salvataggio incredibile. Non appena

formai le parole, queste mi si gelarono sulle labbra perché, sebbene le alghe

apparissero molto dense, era chiaro che non potevano sopportare un peso

così considerevole, e la tavola con Barlow sopra affondò nelle piante marine

fino a metà del petto.

Lui si voltò, ed afferrò la fune con entrambe le mani; nello stesso istante

emise un alto grido di terrore e cominciò ad arrampicarsi su per la fiancata

dello yacht.

Appena i suoi piedi lasciarono le alghe, io pure emisi un breve grido.

Qualcosa si era attorcigliata intorno alla sua caviglia sinistra, qualcosa

oleosa, morbida, frastagliata. Mentre guardavo, un'altra si alzò dalle alghe e

cercò di afferrargli la gamba, ma non ci riuscì ed iniziò ad agitarsi invano.

Altre vennero fuori protendendosi verso di lui mentre si arrampicava.

Poi vidi delle mani che si sporsero e presero Barlow per le ascelle. Lo

sollevarono con forza e con lui una massa di alghe che conteneva qualcosa

di duro da cui uscivano molte braccia che si contorcevano.

Una mano armata di coltello colpì e, subito dopo, quella cosa odiosa

ricadde fra le alghe.

Per pochi istanti rimasi a guardar in su; poi molte facce apparvero alla

ringhiera e vidi degli uomini che indicavano qualcosa con le braccia e le

mani tese. Ed un coro di voci rauche, piene di terrore e meraviglia, si alzò

sopra di me.

Mi voltai in fretta per guardar giù, nella massa traditrice di quello strano

mondo di alghe. L'intera superficie, fino ad allora silente, era tutta un

movimento ondeggiante, come se la vita fosse spuntata ad un tratto in quella

zona desolata.

Il movimento ondulatorio continuò e, improvvisamente, il mare di alghe

si gonfiò in centinaia di posti formando dei rigonfiamenti in forma di

collinette ondeggianti. Da queste uscirono robusti tentacoli, centinaia e

centinaia, che venivano verso lo yacht.

«I Pesci del Diavolo!», gridò una voce sul ponte. «Piovre! Mio Dio!»

Poi udii la voce del mio amico che urlava: «Tagliate le corde di

ancoraggio!»

Questo deve essere stato fatto subito perché, immediatamente, fra noi ed

il mare di alghe, ci fu uno spazio sempre maggiore di acqua schiumosa.

«Tirate via, ragazzi!» sentii Barlow urlare; nello stesso istante udii il

rumore di qualcosa nell'acqua sul fianco sinistro. Corsi a vedere, e trovai

che una fune era stata portata fino alla parte opposta delle alghe, e che gli

uomini ci stavano liberando in fretta dall'invasione di quegli orrori.

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Mi precipitai a destra e dall'oblò vidi che, come per magia, ci separavano

dal Graiken solo una striscia di alghe e circa cinquanta piedi di acqua

semplice. Sembrava inconcepibile che fosse la copertura di tanto orrore.

Poi la notte calò in fretta, nascondendo tutto, ma su dai ponti cominciò a

venire un suono di martelli in azione che continuò tutta la notte, anche

quando io, stanco per aver vegliato la notte precedente, mi addormentai,

svegliandomi ogni tanto al rumore dei martelli.

6

«La sua colazione, Signore». La voce del cameriere risuonò abbastanza

rispettosa. Mi svegliai di colpo. Di sopra continuava il rumore persistente,

ed allora mi rivolsi al cameriere per una spiegazione.

«Non so esattamente, Signore», fu la sua risposta. «Si tratta di lavori che i

carpentieri fanno ad una delle scialuppe di salvataggio». Ed andò via.

Mangiai la colazione vicino all'oblò destro, guardando la lontana Graiken.

Le alghe erano calme e noi eravamo nel mezzo di un piccolo lago.

Mentre guardavo la nave, notai del movimento sulla sua fiancata, ed

allora afferrai il cannocchiale. Dopo averlo aggiustato, riuscii a vedere che

c'erano parecchie piovre attaccate in posti diversi e i loro tentacoli si

stendevano a forma di stella lungo tutta la parte bassa della fiancata.

Ogni tanto un tentacolo si staccava e si agitava a caso. Questo aveva

attirato la mia attenzione. La vista di quelle creature, unita alla scena

straordinaria della sera precedente, mi dette il modo di indovinare l'uso della

grande barriera intorno alla Graiken. Ovviamente era stata eretta come

protezione contro quegli orrendi abitanti di quello strano mondo di alghe.

Da questi pensieri, passai al problema di raggiungere e salvare

l'equipaggio dell'altra nave. Non riuscivo a pensare in quale modo farlo.

Mentre stavo riflettendo e mangiando, mi colpirono delle voci sul ponte.

Poi Barlow dette un ordine e, quasi subito, ci fu un tonfo nell'acqua a

sinistra.

Misi fuori la testa dall'oblò e guardai. Avevano messo in acqua una delle

scialuppe. Ai bordi della barca era stata aggiunta una parete che finiva in un

tetto. Tutta la costruzione sembrava un canile.

Di sotto, ai due angoli acuti della barca, erano fissate due assi ad un

angolo di trenta gradi. Parevano ben assicurate. Mi resi subito conto della

loro funzione. Avrebbero permesso alla scialuppa di passare sopra il mare di

alghe invece di sprofondarci dentro.

A poppa della barca era fissato un forte anello da catena nel quale era

fissata l'estremità di un rotolo di fune di Manila larga un pollice. Lungo i

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fianchi della barca, e più in alto sopra il bordo e dentro la costruzione,

c'erano i buchi per i remi. Da un lato, sul tetto, c'era una botola. Pensai che

questa idea era molto ingegnosa, e che molto probabilmente sarebbe stata la

soluzione per il salvataggio dell'equipaggio della Graiken.

Dopo pochi minuti, un uomo lanciò giù una scala di corda e scese fino al

tetto della barca. Aprì la botola e si calò nell'interno. Notai che era armato di

un revolver e di una delle corte sciabole dello yacht.

Era chiaro che il mio amico valutava molto bene le difficoltà che

dovevano superare. Dopo pochi secondi, un altro uomo seguì, e poi altri

quattro, armati allo stesso modo. Alla fine scese Barlow.

Vedendolo, mi sporsi quanto più possibile e gli urlai:

«Ned, Ned, vecchio mio!» gridai. «Fammi venire con te!»

Ma non sembrava udirmi. Notai la sua faccia mentre chiudeva la botola

sopra di sé. Aveva una strana espressione rigida che rassomigliava alla

mancanza di vita di un sonnambulo.

«Maledizione!» mormorai, e poi non dissi altro. Ma la mia dignità

soffriva nel supplicarlo davanti all'equipaggio.

Dall'interno della barca udii la voce di Barlow un po' soffocata.

Immediatamente, quattro remi furono infilati nei fori mentre, da fessure

davanti e dietro la costruzione, furono spinti fuori altri due remi con dei

passacavi inchiodati alla parte piatta.

Questi, pensavo, dovevano assolvere al compito di aiutare a far voltare la

barca, mentre quello a prua serviva prima di tutto per premere le alghe sul

davanti onde permetterle di passarci sopra più facilmente.

Un altro ordine soffocato venne dall'interno di quella imbarcazione

dall'aspetto strano e, immediatamente, i quattro remi si immersero e la barca

si mosse verso le alghe, trascinando la fune a poppa mentre veniva mollata

dal ponte sopra di me.

La prua armata di remo entrò nelle alghe. Con una specie di impeto si

rialzò, e l'intera imbarcazione sembrò saltare dall'acqua giù in quella massa

tremolante.

Adesso mi resi conto del perché i remi fossero stati posti così. Infatti nulla

si poteva vedere dalla barca, la cui sola porzione superiore guazzava fra le

alghe.

Mi misi a guardare. C'era la probabilità di vedere uno spettacolo

prodigioso e, dal momento che non potevo aiutare, avrei almeno usato gli

occhi.

Trascorsero cinque minuti durante i quali non accadde nulla mentre la

barca procedeva lentamente verso la nave naufragata. La scialuppa era

Page 78: iPBook ITA 0575 Hodgson William Hope - L'Orrore Del Mare [by CDX]

avanzata per circa venti o trenta metri quando, all'improvviso, un rauco

grido che proveniva dalla Graiken mi colpì le orecchie.

Il mio sguardo si spostò dalla barca alla nave, e vidi che la gente a bordo

aveva spostato un pezzo della barriera da una parte e agitava le braccia

disperatamente per avvertire la scialuppa di tornare indietro. Fra gli altri

potevo vedere la ragazza che aveva captato la mia attenzione la sera prima.

Per un momento rimasi a guardare, poi tornai con gli occhi alla scialuppa.

Tutto era calmo.

La barca aveva percorso un quarto della distanza, ed io cominciavo a

persuadermi che avrebbe terminato il viaggio senza essere attaccata. Poi,

mentre guardavo con ansia, da un punto fra le alghe davanti alla barca,

venne come un'onda tremolante che fece tremare le piante marine in una

maniera strana. Subito dopo, una massa enorme venne fuori attraverso il

groviglio delle alghe, spargendole in tutte le direzioni e quasi capovolgendo

la scialuppa. Innanzi tutto la creatura si era rizzata sulla parte posteriore; a

questo punto ricadde con un forte tonfo e, nello stesso momento, i suoi

mostruosi tentacoli si diressero verso la barca. Afferratala, le si

attorcigliarono intorno in modo orribile. Era chiaro che voleva tentare di

trascinare la barca sott'acqua.

Dalla barca giunse una intesa scarica di colpi di revolver. Ma, sebbene la

bestia si contorcesse, non lasciò la presa. Poi gli spari cessarono, ed io vidi

il lampo della lama delle sciabole. Gli uomini tentavano di tagliare i

tentacoli attraverso i fori dei remi, ma con scarsi risultati.

Tutto ad un tratto, l'enorme creatura sembrò fare uno sforzo per

capovolgere la barca. Vidi la scialuppa quasi sott'acqua inclinarsi su un

fianco e, a questa vista, mi sentii impazzire di rabbia perché volevo aiutarli

e non potevo.

Ritirai la testa dall'oblò e mi guardai intorno. Volevo rompere la porta

della cabina, ma non avevo nulla con cui farlo.

Poi il mio sguardo cadde sulla testata della cuccetta che era messa in una

scanalatura mobile. Era fatta di legno di tek, molto solido e pesante. La tirai

fuori e, con la cima, cercai di sfondare la porta.

I pannelli si ruppero dall'alto in basso, perché sono un uomo abbastanza

forte. Diedi un altro colpo, e spezzai completamente i due battenti della

porta. Posai quindi la testata e mi precipitai fuori. Non c'era nessuno a far la

guardia. Tutti dovevano essere sul ponte a guardare il salvataggio. La stanza

delle armi era alla mia sinistra ed io ne avevo in tasca la chiave.

In un minuto l'aprii e tirai fuori dalla rastrelliera un grande fucile da

elefanti. Afferrai una scatola di cartucce, strappai il coperchio, e mi misi

tutto il contenuto in tasca; poi salii in fretta la scaletta. Il cameriere stava

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fermo lì vicino. Si voltò sentendo i miei passi. La sua faccia era bianca, e

fece un paio di passi verso di me timidamente.

«Essi sono, essi sono...» cominciò, ma non lo lasciai finire.

«Fuori dai piedi!» urlai, poi lo spinsi da parte e corsi avanti.

«Tirate dentro quella fune!» gridai. «Mettetevi in fila per farlo! Che

volete fare? Star qui come delle civette a guardarli affogare?»

Gli uomini avevano bisogno solo di un capo che dicesse loro quel che

c'era da fare e, senza mostrare segni di insubordinazione, afferrarono la

corda che era assicurata alla poppa della nave e la tirarono indietro

attraverso le alghe insieme alla piovra.

La fune tesa aveva raddrizzato la barca, che così poteva navigare bene

sebbene quella bestia schifosa fosse stesa tutto intorno.

«Tirate forte!» urlai. «Qualcuno di voi vada a prendere i coltelli del

dottore: qualunque cosa che tagli!»

«Questo va bene, Signore!» disse il Nostromo che aveva preso da qualche

parte una formidabile lancia a doppia lama per le balene.

La barca, ancora sotto l'impeto dato dal nostro tirare, cozzò contro la

fiancata dello yacht proprio sotto dove aspettavo io col fucile. Il corpo del

mostro si era portato sulla poppa; i suoi due occhi - mostruose orbite del

mare profondo - guardavano orribilmente dietro i tentacoli.

Appoggiati i gomiti sulla ringhiera, presi la mira direttamente sull'occhio

destro. Mentre premevo il grilletto, uno dei suoi tentacoli si staccò dalla

barca e girò vorticosamente verso di me. Ci fu un fortissimo rumore mentre

sparavo direttamente dentro l'enorme occhio e, nello stesso istante, qualcosa

strusciò contro la mia testa.

Da dietro risuonò un grido: «Attento, Signore!» e, davanti agli occhi, mi

lampeggiò la fiamma dell'acciaio e qualcosa di tagliato mi cadde dapprima

sulle spalle e poi sul ponte.

Giù dal basso, l'acqua veniva mossa fino a spumeggiare, e tre o quattro

tentacoli si alzarono in aria per poi finire addosso a noi.

Un tentacolo afferrò il Nostromo alzandolo come un bambino. Due

coltelli brillarono, e l'uomo cadde sul ponte da un'altezza di dodici piedi

insieme ad una porzione tagliata del tentacolo.

Io avevo ricaricato l'arma, e corsi in avanti lungo il ponte per non essere

afferrato dai tentacoli che flagellavano come fruste la ringhiera e

l'impiantito.

Sparai ancora nel corpo del mostro, e poi ancora. Al secondo sparo tutti i

feroci movimenti della creatura cessarono e con un guizzo si inabissò e non

la vedemmo più.

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Un minuto dopo aprimmo la botola del tetto della costruzione e facemmo

uscire gli uomini: il mio amico uscì per ultimo. Erano molto scossi, ma in

buona salute. Mentre Barlow saliva la scaletta, io mi avvicinai a lui e lo

presi per le spalle. Mi sentivo stranamente confuso. Sentivo di non avere

una posizione sicura a bordo del mio yacht. Ma tutto quello che dissi fu:

«Grazie a Dio sei salvo, vecchio mio!» e sentivo proprio quello che

dicevo.

Mi guardò in un modo pieno di dubbio e, perplesso, si passò una mano

sulla fronte.

«Sì», rispose, ma la sua voce non aveva vita eccetto la perplessità che

sembrava possederlo. Per qualche minuto mi guardò come se non mi

vedesse, ed io fui colpito ancora dall'espressione immobile e tesa del suo

viso.

Subito dopo andò via - senza mostrare amicizia o inimicizia - e cominciò

a scendere sul fianco della nave per entrare nella scialuppa.

«Vieni su, Ned!» gridai. «Non va bene: non riuscirai mai in quel modo.

Guarda!» e tesi il braccio indicando.

Invece di guardare si passò ancora la mano sulla fronte con un gesto di

perplessità e dubbio. Poi, con mio grande sollievo, cominciò a risalire

lentamente.

Raggiunto il ponte si fermò per quasi un minuto, senza dire una parola,

voltando le spalle alla nave. Poi, sempre senza dire una parola, camminò

lentamente fino alla parte opposta e poggiò i gomiti sulla ringhiera

guardando indietro la rotta per la quale lo yacht era arrivato.

Da parte mia non dissi nulla e dividevo la mia attenzione fra lui e gli

uomini, lanciando qualche sguardo alle alghe che si muovevano e che

sembrava circondassero la Graiken.

Gli uomini tacevano, ed ogni tanto guardavano Barlow come se

aspettassero nuovi ordini. In quanto a me, sembrava che mi ignorassero.

Passò quasi un quarto d'ora. Poi, all'improvviso, Barlow si drizzò agitando

le braccia gridando:

«Viene! Viene!» Si voltò quindi verso di noi con la sua faccia trasfigurata

e gli occhi che brillavano in maniera quasi maniacale.

Attraversai di corsa il ponte e mi avvicinai a lui. Guardai verso poppa ed

ora vedevo quello che lo aveva eccitato. La barriera di alghe che avevamo

attraversato durante l'ultima parte del viaggio si era divisa, ed ora si poteva

vedere una specie di fiume di acqua oleosa che si allargava e mostrava il

mare. Anche mentre lo guardavo diventava sempre più largo e gli immensi

banchi di alghe sembravano muoversi a causa di qualche spirito invisibile.

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Stavo ancora guardando meravigliato, quando un grido dei marinai giunse

da tribordo. Voltandomi in fretta, vidi che quel movimento divisorio stava

continuando anche nella massa di alghe che giacevano fra noi e la Graiken.

Lentamente le alghe si dividevano come se un invisibile cuneo fosse

inserito 1ì dentro. La corrente di acqua libera dalle piante acquatiche

raggiunse la nave naufragata e passò oltre. Adesso non c'era più nulla che

potesse impedire il salvataggio dell'equipaggio della nave.

7

Fu la voce di Barlow che dette l'ordine di gettare le funi di ancoraggio e

allora, mentre un vento leggero ci era contrario, una barca fu mandata avanti

e lo yacht fu trascinato verso la nave. Una dozzina di uomini stavano pronti

con i fucili sul castello di prua.

Mentre ci avvicinavamo, cominciai a distinguere le facce dell'equipaggio:

degli uomini stranamente brizzolati e dall'aspetto di vecchi. Fra di loro, con

la faccia pallida per l'emozione, c'era la fidanzata del mio amico. Non credo

che potrò mai più rivivere un momento così straordinario.

Guardai Barlow: fissava la fanciulla dalla faccia bianca con una

straordinaria fissità di espressione che non era quella di un uomo sano di

mente.

Pochi minuti dopo, eravamo con le navi fianco a fianco, schiacciando tra

le fiancate di acciaio uno dei mostri dell'oceano che stava ancora attaccato

tenacemente alla Graiken.

Ma non ci feci caso perché mi ero voltato ancora a guardare Ned Barlow

che barcollava lievemente; proprio quando i vascelli si toccarono, si portò le

mani alla testa e cadde a terra come morto.

Gli fu dato del brandy e fu portato nella sua cabina; intanto noi avevamo

vinto e ci eravamo liberati di quell'orribile mondo di alghe prima che

riacquistasse conoscenza.

Durante la sua malattia, seppi dalla sua fidanzata come, durante una

terribile notte di un anno prima, la Graiken fosse rimasta coinvolta in una

fortissima tempesta ed avesse perso gli alberi. Conseguentemente, era

andata alla deriva trascinata dal vento, per poi finire circondata da grandi

banchi mobili di alghe e, alla fine, si era trovata prigioniera dell'immobile

Mar dei Sargassi.

Mi raccontò dei loro tentativi per liberare la nave dalle alghe e degli

attacchi delle piovre. E, a poco a poco, mi raccontò anche altre cose che non

fanno parte di questa storia.

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A mia volta le raccontai del nostro viaggio e dello strano comportamento

del suo fidanzato. Aveva voluto prendere il comando dello yacht ed aveva

parlato tanto di un grande mondo di alghe. Le dissi che io, dal canto mio,

credendolo folle, non gli avevo dato ascolto.

Lui allora aveva agito di testa sua e, se non lo avesse fatto, lei avrebbe

certamente finito i suoi giorni circondata dalle alghe e da quegli orribili

animali delle acque profonde.

La ragazza ascoltò con sempre maggior serietà e, a molte riprese, dovetti

rassicurarla che non nutrivo risentimento alcuno per il suo fidanzato; al

contrario, avevo avuto torto io. Scosse la testa ma sembrò sollevata.

Durante la guarigione di Barlow scoprii, con grande sorpresa, che non si

ricordava più di avermi imprigionato.

Sono convinto, infatti, che per giorni e settimane egli deve aver vissuto in

una specie di sogno, in uno stato di supertensione, durante il quale credo

che fosse in grado di captare delle sensazioni particolari che non potevano

essere afferrate da persone in uno stato di salute normale.

Prima di chiudere c'è un'altra cosa da dire. Il Capitano e i due ufficiali

erano stati rinchiusi nelle loro cabine da Barlow. Il Capitano soffriva per

l'effetto di una ferita causatagli da uno sparo nel braccio ricevuto quando

aveva tentato di opporsi a Barlow, che voleva impadronirsi del comando.

Appena lo liberai giurò di vendicarsi. Ma, essendo Ned amico mio, trovai

il modo di calmare Capitano ed ufficiali e far loro dimenticare i sentimenti

di vendetta. Questi si estinsero e... beh, ma questa è un'altra storia…

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Indice

Gli incubi marini di Hodgson, di Gianni Pilo

Nota bibliografica

L’ORRORE DEL MARE

Il mostro

Lamie

Il mare

La bestia orribile

Dio, Dio, perché non mi aiuti?

Il Mar dei Sargassi

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Tascabili Economici Newton, sezione dei Paperbacks

Pubblicazione settimanale, 29 maggio 1993 Direttore responsabile: G.A. Cibotto

Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 1975 Fotocomposizione: GI Grafica Internazionale, Roma

Stampato per conto della Newton Compton editori s.r.l., Roma presso la Rotolito Lombarda S.p.A., Pioltello (MI)

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Quarta di copertina

HODGSON

L'ORRORE DEL MARE

Il mare vede sorgere dalle sue profondità degli esseri mostruosi e

soprannaturali che non è possibile in alcun modo controllare. Così, i

personaggi cui dà vita Hodgson sono costretti ad affacciarsi ogni volta sul

baratro dell'Ignoto dove la realtà e i simboli si fondono in un insieme

terrorizzante. Hodgson ha visto nel mare il lato occulto e spaventoso che

genera le tenebre e i mostri marini.

William H. Hodgson nacque nell'Essex, in Gran Bretagna, nel 1877. Figlio

di un pastore protestante, s'imbarcò giovanissimo e rimase in mare per otto

anni. Questo periodo influenzò profondamente la sua attività letteraria che

iniziò nel 1906 in Francia dove si era tra-sferito. Tra i suoi libri più famosi

vanno citati The House on the Borderland (da cui trasse ispirazione

Lovecraft per il suo ciclo de I Miti di Cthulhu), The Ghost Pirates, del 1909,

e The Night Land, del 1914. Arruolatosi nell'esercito inglese in occasione

della prima guerra mondiale, morì in combattimento sul suolo francese

nell'aprile del 1918.

Gianni Pilo è nato a Tripoli nel 1939. Scrittore, critico, saggista e

antologista, è uno dei maggiori esperti di Narrativa Fantastica sia a livello

italiano che mondiale. Ha vinto numerosi premi letterari in Italia e all'estero.