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10 HAKOMAGAZINE Gli Italiani e gli Indiani

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Gli Italiani e gliIndiani

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HAKOMAGAZINESommarioSommarioSommarioSommarioSommario

3 Editoriale 5 Alle Sorgenti del Mississippi 9 Carlo Gentile15 Cristobal Colon, a Sailor’s

Dream17 Carletto gli indiani e i Figli

della Vedova20 Un medico nel Sudovest24 Gli hopi e un freudiano29 Le città d’oro di Cibole e i

sogni di un francescano31 Esteban, lo schiavo moro33 Souvenir d’«autore»36 Mantegazza e il mito euro-

peo della coca37 Chipiloc, Luogo Dove

l’Acqua Scorre39 Incontri ravvicinati con

l’«altro»

Posso assumere metà dei lavora-tori, perchè uccidano l'altrametà. (Jay Gould, magnate delleferrovie durante lo sciopero del1886)

Gli agenti si presentavano con labandiera americana sulle sogliefangose ed affamate in alcunedelle regioni più miserabilidell'Ungheria, dell'Italia o dellaDanimarca e parlavano deisalari favolosi che si guadagna-vano in America. [...] Quandoarrivavano nei distretti doveerano stati spediti i loro sognidorati si trasformavano inincubi... (John Silver Paper diChicago 10/dicembre/1883)

Trenta giorni di nave a vapore,fino in Merica ghe semo arivati,fino in Merica ghe semo arivati,no abbiam trovato né paglia néfienoabbiano dormito sul nudoterrenocome bestie che va a riposà.(Niella Belbo, Cuneo)

Andremo te la Mericaa catar le mericane,e ste poere taglianele se cogna sbandonar.Vu altri siori cavé i guantie andé te i campi a laorar.(contado di Treviso)

Non vogliamo uomini bianchiqui. I Black Hills appartengonoa me. Se i bianchi cercano diconquistarli io combatterò.(Tatanka Yotanka - Toro Sedutodegli Hunkpapa Lakota)

I vostri giovani uomini non devonosparare su di noi; ogni volta che civedono ci sparano addosso e noispariamo a loro. (Toro Alto deiCheyennes)

Potremo senza combattere lasciarannientare la nostra gente, abban-doneremo la nostra terra che ci hadato il Grande Spirito, le tombedei nostri morti e tutto quello checi è sacro? Mai! Mai! (Tecumsehdegli Shawnee)

“Nella casa di uno stracciaiolo italiano, Jersey Street”, fotografia di Jacob A. Riis in“Come vive l’altra metà”, un libro inchiesta fotografico sugli immigrati europei aNew Jork che ha fatto storia.In copertina: Gli indiani Dello show di Buffali Bill visitano Venezia nel 1890.

Riferimenti iconograficiMarino C., The Remarkacle Carlo Gentile,Nevada City, 1998; Riis J. A., How theOther Half Lives, New York, 1971.Fotografie di Sandra Busatta; CollezioneBottacin, Padova.

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N° 10

Editoriale

«Popolo di navigatori, poeti e santi», gli italiani hanno intrecciatouno stretto legame con le Americhe da quando Colombo, un geno-vese a caccia di ricchezze e schiavi per le sue piantagioni di cannada zucchero delle Canarie, prese un po' troppo larga la volta do marche portava alle Indie. Dopo quella clamorosa scoperta, da partedegli europei dell'America e da parte dei nativi degli Europei, sbar-carono in molti: frati in cerca del martirio per la maggior gloria di Dio,avventurieri, rivoluzionari, soldati, turisti, liberi imprenditori e soprat-tutto un numero incredibile di contadini poveri che fuggivano la mi-seria, la fame, la pellagra e la tassa sul macinato. Fu questa massaanonima di poveri diavoli che, tra le pieghe della conquista, sosten-ne il peso dello scontro con i nativi che cercavano di negare ogniapprodo. Lo scontro fu perciò senza pietà e gli italiani furono giocatisulla frontiera argentina e brasiliana come cuscinetto tra i guaranì ei tehuelche, cavalieri nomadi della pampa, e i latifondi dei ricchisignori del bestiame creoli; lo stesso avvenne nei vigneti della valledi Napa in California.Ma oltre a questa dolente umanità che, egoisticamente indifferentealle culture altre, conquistava le terre "vergini" "creando dal desertoun giardino", la 'Merica sognata e sperata, sono degli altri italianiche intessono indissolubilmente la loro storia con quella degli india-ni: i maestri vetrai di Murano. Oggi, scandalizzati, ci stracciamo levesti per il fatto che Colombo o gli olandesi comprassero terre ericchezze con poche perline di vetro, ma all'epoca la produzione divetro era un'industria tecnologicamente avanzata di beni di lusso,tanto che i re d'Africa sul Golfo di Guinea pagavano in oro o con uncospicuo numero di schiavi, le perle più lavorate delle soffierie ve-neziane, le chevron beads. Per secoli la Repubblica di San Marcoscambiò oro contro vetro e il commercio era così importante cheferree leggi garantivano che i segreti della lavorazione non fosserorivelati. Tuttavia, per far fronte alle richieste del mercato americano,i vetrai di Venezia importarono maestranze boeme e a loro dovette-ro svelarne i segreti. Il vetro era "alta teconologia" allora, ma ancheoggi in Brasile non esistono fabbriche che sfornino lastre di vetro digrandi dimensioni. Dunque non paccottiglia, ma status simbol e madein Italy furono il prezzo dello scambio, perciò perché scandalizzar-ci? Piuttosto riflettiamo sulle radici di questo scambio ineguale eimpariamo dalla nostra storia.

Ritratto di Cristoforo Colombo eseguitoda Lorenzo Lotto sei anni dopo la suamorte e considerato il più probabile persomiglianza.Sotto: Zemì dei taìno di Santo Domingofatto in cotone intrecciato, tessuto e ossacraniche umane (Museo di Antropologiadell’Università di Torino).

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Giacomo Costantino Beltrami, nato a Bergamo nel 1779, giovanissimo raggiunse in Piemonte la Grande Armata di Napoleone.Dopo vari incarichi militari e civili, nel 1808 fu nominato giudice a Macerata nelle Marche. Alla caduta di Napoleone, accusatodi appartenenza alla Carboneria e alla Massoneria, venne esiliato. Dopo un breve ritorno nelle Marche, addolorato per la mortedi un'amica, la Contessa Giulia Spada de' Medici, partì per lunghi viaggi. Raggiunse gli Stati Uniti nel 1823 e si unì allaspedizione del maggiore Taliaferro che partiva da Ft. St. Antony, ora Ft. Snelling, ma dissapori gli fecero abbandonare il gruppoe in quasi assoluta solitudine, risalì il Mississippi scoprendone le sorgenti settentrionali nel lago che chiamò Lago Giulia (ConteaBeltrami, Minnesota). Nel 1824 pubblicò a New Orleans il resoconto della sua scoperta. Trascorse un anno nel Messico trapericoli e avventure varie. Nel 1826 sostò un anno ad Haiti e poi tornò a Londra; di qui si recò a Parigi dove visse quasi cinqueanni. Acquistò infine una villa ad Heidelberg, ma stanco e deluso per i mancati riconoscimenti della sua scoperta, tornò nelleMarche ove aveva palazzo e beni e dove morì "pellegrino solitario" nel 1855.La Collezione Beltrami, costituita dagli oggetti che egli portò dai suoi viaggi, è oggi divisa: parte è custodita presso il Museo diStoria Naturale di Bergamo, parte si trova a Casa Lucchetti a Filottrano (AN). Gli oggetti indiani che essa raccoglie sono daconsiderarsi tra i più antichi e meglio conservati di questa zona e i resoconti di viaggio costituiscono una fonte preziosa diconoscenza. Qui Beltrani è raffigurato durante la sua impresa.

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Glauco Lucchetti*

Un solitario viaggiatore italiano,autodefinitosi «pellegrino», nel 1823esplora in lungo e in largo l’altocorso del Mississippi alla ricercadelle sue sorgenti. Naturalmente hamolti contatti con gli Indiani dellazona e tale esperienza lo induce, aviaggio ultimato, a esprimere un suogiudizio su tali popolazioni. È ungiudizio disinteressato perchéGiacomo Costantino Beltrami,questo è il suo nome, non ha gli scopidei francesi, degli inglesi o degliamericani, ma è affascinato e curioso,desideroso di far conoscere i Selvag-gi ancora misteriosi dandone notiziedirette da uomo colto e moderno.«Mostro i Selvaggi come ho potutoosservarli personalmente. Riassu-mendo tutte le loro qualità fisiche emorali, essi presentano un insieme dicontraddizioni che mettono indifficoltà, credo, il giudizio del piùattento degli osservatori.Esprimono con calore la lorodisperazione verso i morti, ma sonofreddamente distaccati verso iviventi; un padre, un figlio, unosposo arriva nella sua tenda dopo unalunga assenza ed entra senza solleva-re lo sguardo sui parenti; questi sicomportano allo stesso modo nei suoi

riguardi. Da un lato sono molto avarie chiedono sempre qualcosa, mentreda un altro sono completamenteprodighi e offrono e donano tutto agliamici. Sembrano venerare un milionedi Manitù e muoiono senza invocarnee chiamarne uno solo. Alcuni offronosacrifici a degli Dei, altri a deiDiavoli. Si lamentano di non avernulla da mangiare e mangiano in ungiorno quello che potrebbe essere piùche sufficiente per una settimana. Essisono viziosi e saggi, sobri e intempe-ranti. Non dicono mai quello chepensano e non pensano mai quelloche dicono, come tanti altri popoli diogni tempo e di ogni parte del mondo.

Presso di loro la vendetta apparecome un'irresistibile forza passionale,anche se talvolta la moderano. Oggivi danno la mano da amici e domanivi spiano e vi uccidono come nemici.Chiedono sempre ogni cosa e mai viesprimono la minima gratitudine,ottenendola. Vi promettono una cosae non l’avrete mai. Nei loro costumi,abitudini e cerimonie si ritroval'antico ed il moderno di tutti i popoli,ma non assomigliano ad alcunaNazione del mondo».Il Beltrami conclude con pessimismole sue osservazioni poco convintodella possibilità di civilizzazione degliIndiani.«Aggiungerò solamente che ilSelvaggio, finché resterà tale saràsempre il suo padrone e il suo re eporterà ovunque con lui la suaindipendenza, quando divenissecivilizzato, potrebbe divenire il piùvile degli schiavi: il suo cuore per suanatura è il trono della dissimulazionee della malvagità, delle disumanità edella crudeltà. La civilizzazionetroverà grandi ostacoli nella suaanima, riuscendo difficilmente adinserirvi sentimenti come la bontà e labuona fede».Queste ed altre osservazioni com-paiono continuamente nel suo volumescritto in francese, per assicurarne

Nel 1823 un italiano, armato solo di un ombrello distoffa rossa e di grande coraggio, viaggiando nella"terra di nessuno" tra le tribù nemiche dei Chippewae dei Dakota, scopre le sorgenti del Mississippi.

Alle sorgenti del Mississippi

Esploratori

Giacomo Costantino Beltrami in un ritrat-to d’epoca conservato a Casa Lucchetti.

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maggiore diffusione, "La Dècouver-te des sources du Mississippi et dela Rivière Sanglante" (NouvelleOrleans, 1824), dato alle stampedopo aver percorso, primo uomobianco, l’intero corso del fiume dalnord alla foce. Tale volume venne poistampato a Londra nel 1828 in inglesecon il titolo "A Pilgrinage in Europeand America Leading to Discovery ofthe Sources of the Mississippi Riverand the Bloody River...".In una lista di sottoscrizione perl’acquisto del libro tra l’altro si indicache sono in detto contenute Osserva-zioni critico-filosofiche sui Costumi,la Religione, le Cerimonie, le Super-stizioni, le Usanze, le Armi, le Caccie,la Guerra, la Pace, la Divisione [intribù, N. d. A.], l’Origine, etc. dinumerose Nazioni Indiane.Infatti le promesse sono mantenute e,anche se talvolta le notizie vengonocontestate, di queste hanno approfitta-to insigni autori senza mai citare lafonte.I primi contatti con gli indiani ilBeltrami li ha risalendo il fiume inbattello da Fort S. Antony [oggi Ft.Snelling]; di taglia robusta, alto m.1,85, egli è accolto dai nativi con

meraviglia anche perché racconta divenire dalla Luna. Si comportarispettosamente, dignitoso, noninvadente; è anche buon cacciatore equesto non guasta.Stralciando gli infiniti particolari eparagoni, è interessante riassumere ledescrizioni dell'aspetto fisico dei piùimportanti gruppi etnici, dalle qualiemergono anche caratteristichepsicologiche.Una particolare attenzione è riservataalle donne di cui compiange la tristesorte di poco migliore di quella deicani ai quali capita anche, in caso dinecessità, di essere mangiati: «Lafierezza Selvaggia condanna il belsesso al disprezzo ed all’avvilimentotanto quanto noi gli esterniamo stimae rispetto».Dei Saukis [sauk], accampati vicinoal forte ha già avuto modo di apprez-zare il comportamento deciso edignitoso del loro capo GrandeAquila. Li descrive: «i tratti del visosebbene risentano dello stato selvag-gio non sono sgradevoli. Hanno tagliamedia, testa piccola, senza altri capelliche si tolgono dall’infanzia, che unciuffetto all’occipite. Occhi concornea giallastra e pupilla tendente al

rosso. Orecchi grandi carichi diornamenti, naso grosso e schiacciato,la mandibola inferiore più sporgentedi quella superiore. Bocca grande conforte dentatura e labbra rovesciateall'infuori. Il tronco è sviluppato inbasso per il ventre ingrossato. Bracciasottili e gambe molto robuste. Ledonne hanno forme molto attraentifinché sono giovani, ma questi fioriavvizziscono presto. Le povere donnesono le facchine degli uomini chedichiarano diventerebbero disprezza-bili se si abbassassero ad altreincombenze che la caccia e la guerra.Le loro donne hanno molti capelli cheintrecciano con abilità».Il successivo incontro con i Sioux[dakota], più a nord, è più soddisfa-cente. «Hanno viso con lineamentiregolari e naso direi Romano, comeGreco è quello delle donne. Tutti iSioux hanno folti capelli neri comegli occhi. Gli uomini portano i capellilunghi sparsi o in piccole trecce, ledonne li acconciano legandoli con unnastro. Sarebbero anche più attraentidi quelle dei Saukis, se non fosseromolto più sporche».Anche i Cyppewais [chippewa] glifanno grande impressione sia per

Frontale per cavallo decorato con aculei di porcospino secondo le tecniche “a telaio” e “intrecciata”. Gli aculei di porcospinoerano una delle principali fonti di decorazione prima dell’arrivo delle perle di vetro europee.

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l’estensione del loro territorio che peril numero di tribù che non hannoancora reso omaggio al governo degliStati Uniti. Descrive il viso: «con ilnaso schiacciato, le gote prominenti,gli occhi piccoli, le labbra rovesciate.Il loro corpo è più proporzionato erobusto di quello dei sioux, forse peril clima più rigoroso e la vita più duranei loro territori. Le donne sonomigliori di quelle Sioux e potrebberoaddirittura dirsi graziose. Hanno un

bel personale, carnagione soda efresca, il loro colore più chiaro. Laloro bocca e i denti voluttuosi; lamorale più semplice e meno selvag-gia. Le braccia sono sempre nude,ben fatte e arrotondate». Ammiramolto queste donne anche perché neiloro scontri secolari con i siouxnell’accampamento difendono colcoltello fino alla morte i loro figli acui fanno scudo col corpo. «Io fuiprofondamente commosso di trovareanche fra i Selvaggi l’immagine delpiù tenero amore materno».Per tutti questi popoli Beltrami critica,talvolta anche con errate deduzioni, lacrudeltà che deriva dalla vita stessaviolenta e dalle armi primitive che persecoli hanno costretto gli uomini alcombattimento corpo a corpo.Maggior tempo e conoscenza dellelingue indigene avrebbero permesso,forse, al Beltrami qualche approfondi-mento, ma è ammirevole l’approfon-dito quadro panoramico che halasciato.Vedendosi riverito ha voluto saperequello che i Selvaggi pensavano deiBianchi e in risposta gli fu spiegatoche credevano che arrivassero incompagnia di uno spirito. «Nonimporta che siano Dei o Diavoli,venerano tutti, i secondi più dei buoniperché essendo cattivi non potessero

Ft. Antony (Snelling), Minnesota, in undisegno di Catlin circa 10 anni dopo lavisita di BeltramiA p. 6: Borsa ricamata appartenente allacollezione Beltrami.

Ft. Snelling, precedentemente Ft. Antony, Minnesota, il torrione visto dall’interno.

far loro del male».Si può concludere che la sua cultura,la sua esperienza di magistrato lo faconsiderare un buon testimonio. Èstato sfortunato e misconosciuto, maquel periodo è stato il più esaltantedella sua vita.In tarda età, malandato e sofferente acausa di una vita disagiata nei viaggi,si trova anche isolato nella rapidaevoluzione moderna che ancor ogginon si può apprezzare senza porsi ildilemma che possa invece trattarsi diregresso. In tale stato d'animoscriveva nel 1846 ad un amico: «Lenovelle generazioni, tutte irsute ebarbute, sembra ti aduggino e tispaventano, anziché sorriderti erallegrarti. E non v’è sollievo neanchealla campagna fatta orribilmenteinfetta e demoralizzata. Nelle città ealtrove tutto è egoismo e politica.Dove ficcarci? Lascerei quasi ilProgresso per ritornare ai Selvaggi...»In fondo gli erano piaciuti!

*Il Conte Glauco Lucchetti è proprietariodi una parte della collezione Beltrami.

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Una rara fotografia di Carlo Gentile probabilmente dellametà degli anni Settanta.

Il giovane Carlos Montezuma a 8 anni, fotoscattata nel 1874.A p. 10: “Queen Freezy, Victoria, V.I.”A p. 11: “La Chiesa di san xavier pressoTucson”, fotografia di C. Gentile.

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Cesare Marino

Tra i nominativi compresi nel mioschedario biobibliografico dei personag-gi italiani che dai viaggi cabotiani a fineQuattrocento (di cui ricorreranno trabreve i meno controversi cinquecentena-ri) alle ultime missioni gesuitiche pressole tribù dell’Altipiano e delle Pianuresettentrionali della seconda metàdell’Ottocento, ebbero contatti diretti esignificativi con gli Indiani d’America,quello di Carlo Gentile occupa un postodi rilievo sia per l’importanza della sueesperienza professionale che per lasingolarità della sua adozione così“improbabile” del poi famoso CarlosMontezuma. Lo spazio non mi consentedi entrare nei particolari di una storia adir poco straordinaria che presentaancora oggi molti aspetti nebulosi edenigmatici e per la quale rimando a unatrattazione più esauriente nella miamonografia illustrata The RemarkableStory of Carlo Gentile1, di prossimapubblicazione. Nel presente articolo milimiterò invece a riassumere e adaggiornare quanto ebbi modo di riferirea voce con l'ausilio di diapositive in unmio intervento al Convegno annualedegli americanisti europei tenutosi aRoma nel 1991, per fare il punto sulpersonaggio Carlo Gentile, il suocontributo pionieristico alla fotografiadegli indiani canadesi e americani eriproporre quindi l’insolita vicenda

dell'adozione di Wassaja.Della vita di Carlo Gentile in Italia enegli Stati Uniti sappiamo ancorarelativamente poco. Uno strano silenziocirconda il nostro avventuroso eintraprendente protagonista negli annaliitaloamericani, tanto che financheGiovanni Schiavo, pioniere di studistorico-biografici sull’esperienza italianain America non lo nominava nel suoaltrimenti esauriente Four Centuries ofItalian-American History (1952);silenzio anche da parte di Andrew Rolle,che si dimentica di Gentile in TheImmigrant Upraised: Italian Adventu-rers in an Expanding America (1968), ecosì pure da parte di Giuseppe Massaranel suo Viaggiatori italiani in America,1860 - 1970 (1976), tanto per menziona-re alcune tra le fonti più autorevoli.Per i primi indizi su Gentile dobbiamorifarci quindi allo stesso Carlos Monte-zuma, figlio adottivo del nostro elusivoed enigmatico personaggio, che in unanota autobiografica apparsa nel 1888sulla rivista The Red Man descriveva ilsuo benefattore come un «Italiangentleman» che aveva trascorso lamaggior parte della sua vita lontanodalll’Italia. Pietro Becchetti, nei suoi Lafotografia a Roma, dalle origini al 1915(1983) e Fotografi e fotografia in Italia,1839 - 1880 (1978) parla invece di uncerto Gentili, affermando però che,purtroppo «mancano notizie su questofotografo professionista dei primordi»;

una coincidenza di cognomi, o forse unospunto che meriterebbe di essereesplorato in Italia più di quanto io abbiapotuto fare a distanza.Di certo sappiamo che Carlo Gentile eranato a Napoli nel 1835 e che, ventenne,aveva preso il mare diretto prima inSudamerica e poi in California. Il suonominativo appare per la prima voltanelle cronache di San Francisco intornoal 1860 e due anni dopo, con maggiordovizia di particolari, a Victoria, l’attivocentro di scambio sulla costa meridiona-le dell’Isola di Vancouver, nellaColumbia Britannica. Spirito libero conuna passione per l'artistico e carattereintraprendente e avventuroso, Gentiledivenne ben presto il più noto fotografodi Victoria e dell’intera regione,guadagnandosi la stima e l’amiciziadelle autorità coloniali e l'encomio dellastampa locale: «Mr. Gentile che suquesta costa non è secondo a nessunocome artista fotografo» scrivevanell'ottobre del 1865 l’autorevolequotidiano di Victoria The Daily BritishColonist in merito all'attività professio-nale dell'italiano.Durante la sua permanenza a Victoria,Gentile si spinse spesso all’internodell'isola di Vancouver e sulla terrafermaper fotografare i luoghi e le attività dellacorsa all’oro del Fraser River e delCariboo, raccogliendo allo stesso tempoanche un’importante documentazionefotografica sulle diverse tribù indiane

Carlo Gentile

La vita di un fotografo extraordinnaire napoleta-no che divenne padre adottivo di Carlos Montezu-ma, pubblicista indiano e fondatore di Wassaja, ilprimo periodico dei nativi americani.

Fotografi

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HAKOMAGAZINEdella regione: i nootka, i saanich e isonghees dell'isola di Vancouver, ithompson (Ntlkepmx) e i shuswapdell’interno della Columbia Britannica e,forse anche gli haida più a nord (ma unmedicine man completo di gonnellino afrange con amuleti appesi, copricapo ecrepitacolo lignei rituali entrambi aforma di uccello, identificato comehaida dallo stesso Gentile nella didasca-lia stilata sul verso della foto, potrebbeessere invece tlingit secondo la recenteinterpretazione di Allen Wardell nel suobel Tangile Visions: Northwest CoastIndian Shamanism and Its Art, [1996]).Attribuzioni a parte, il gusto dell’esoticodel Nostro, che Allen Thomas hadefinito «selvaggio con la coperta allostile di Gentile» in Photography and theIndian: Concept and Practice on theNorthwest Coast (1982), trasparechiaramente in alcune delle fotografie asoggetto indiano prodotte da Gentile trail 1862 e il 1866 a noi pervenute,immagini pionieristiche che rappresenta-no solo una piccola parte della suaoriginale produzione fotografica. Oltrealle immagini del «selvaggio allo statonaturale» raccolte sul campo (ve ne sonodue esemplari al British Museum diLondra) intese evidentemente da Gentileper il mercato vittoriano affascinatodall'esotismo del primitivo, vi sonoanche delle cartes de visite di personag-gi indiani in vestito europeo, dignitosa-mente ritratti nello stesso studiofotografico dell’italiano; famose, adesempio, quelle del capo songheeesKing Freeze e della sua consorte la cuisingolare visita allo studio di Gentilefece notizia e venne riportata, con tonivelatamente sarcastici, sul Colonist del 2febbraio 1864:«Cartes de Visite reali. Sua maestà reFreeze I e la sua reale consorte la reginadegli Shonghish, hanno visitato ieri lacittà e hanno onorato Mr. Gentile,Photographic Artist of Fort St. posandoper un ritratto. Le loro maestà hannomostrato di gradire moltissimo le lorocopie [ecc].»In quattro anni di intenso lavoro aVictoria e nelle regioni limitrofe Gentileriuscì ad ammassare un’eccezionaleraccolta fotografica di cui intendevaservirsi per la pubblicazione di ungrosso volume riccamente illustratosulla Costa Nordovest.Questo suo progetto non venne mai

realizzato (per le ragioni di cui sotto),ma un album di cui si conserva copia aOttawa presso i National Archives ofCanada contiene un'ottantina diimmagini scattate da Gentile; ce ne sonopoi un altro centinaio (tra cui alcunecopie delle precedenti ) nei BritishColumbia Archives and Records Servicedi Victoria. Insieme, le due raccoltetutt'ora inedite costituiscono una ricca eoriginalissima documentazione visualesul periodo formativo della ColumbiaBritannica.Con l’approssimarsi della fine delcapitolo canadese della sua già avventu-rosa esistenza, nel settembre 1866Gentile si imbarcò a Victoria alla voltadi Olympia, capitale del vicino territoriodi Washington, prima tappa di unprogrammato viaggio di ritorno inEuropa; ma come già accennato, lapubblicazione del suo libro non dovevaessere. Lo smarrimento (o il furto?) dellascatola contenente le sue preziose cartesde visite e le sue stereoscopie poco dopola partenza da Victoria costrinsero infattiGentile a rinunciare al viaggio e arivedere i suoi piani, ristabilendosi perqualche tempo a San Francisco.Per una singolarecoincidenza (o perdisegno divino, comescriverà più di qualcuno),la perdita della «squaredeal box» con le lastrefotografiche avvenne lostesso anno e forse anchelo stesso mese in cui, apiù di mille chilometri didistanza, in un accampa-mento yavapai sulleSuperstition Mountainsdell'Arizona, aveva visto inatali il piccolo Wassaja.Senza voler entraretroppo nel metafisico, sipotrebbe azzardare quindil’ipotesi che la nascita diWassaja ebbe un qualcheeffetto "cosmico" suCarlo Gentile che, spintoda un irrefrenabiledesiderio di avventura,dal richiamo degli indiani(e forse anche dello stessoWassaja, il cui nome inyavapai significa appunto«Il Segnale», o «Segna-lando»), sul finire degli

anni 1860 si mise nuovamente inviaggio alla volta del Sudovest attratto,come dichiarò poi egli stesso in un’inter-vista al Chicago Daily Tribune, dal«meraviglioso territorio dell'Arizona[dove] gli Apache, che non hannomodificato la loro aborigena condizioneselvaggia, forniscono a chiunque invena di avventure indiane quante ne puòsopportare, e anche di più».Spostandosi dalla California all’Arizonacon il suo «carrozzone fotografico»trainato da cavalli, il suo laboratorioambulante con le attrezzature fotografi-che, i prodotti chimici, i misurini, levaschette, le scorte d'acqua e chissà chealtro, nel Sudovest Gentile fotografò gliindiani del medio e basso corso delfiume Colorado tra cui i cocopa, gliyuma (o quechan), i walapai e i mohave;e poi, dopo essersi trasferito prima aTucson (detta la «Napoli del deserto»per via dell'architettura barocca) e poi aPrescott, anche i papago, i pima, imaricopa e gli yavapai (questi ultimi,pur non essendo di lingua athabaskameridionale come gli apache, notiall'epoca come mohave - apache, osemplicemente - incorrettamente -

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N° 10apache, da cui la confusione sull'esattaidentità tribale di Carlos Montezuma).Affascinato dalla bellezza esotica eselvaggia del paesaggio, oltre che sugliindiani Gentile puntò l’obiettivo dellasua camera-oscura anche sulle anticherovine preistoriche, come ad esempio lafamosa Casa Grande e il MontezumaCastle, e sulle suggestive vecchie chiesedelle missioni cattoliche spagnole di SanXavier del Bac e Tumacacori, di cui cisono pervenuti alcuni esemplari. Dellenumerose fotografie a soggetto indianoe paesaggistico scattate da Gentile nellabassa California e in Arizona tra il 1868circa e il 1872 (quasi trecento secondo lemie stime) ne sono state individuate atutt'oggi circa un centinaio, anch'essecome quelle canadesi, per lo più inedite:una cinquantina di stampe albuminateconservate in un album presso laLibrary of Congress di Washington e unegual numero di interessantissime«lastre per lanterna magica dipinte amano», diapositive su vetro colorate amano comprese nella raccolta fotografi-ca dei National AnthropologicalArchives.La fotografia, gli indiani e forse anche,inconsciamente, lo stesso Wassaja, nonerano comunque le sole ragioni cheavevano spinto l'avventuroso CarloGentile nei deserti del Sudovest; c’eranoanche i mitici giacimenti d’oro ed’argento (come quelli immortalati daFrank Dobie nel suo classico ApacheGold and Yaqui Silver [1939]) cheregolarmente riaccendevano la febbredei pionieri bianchi. E fu proprio nelcorso di una famosa spedizione allaricerca di una favolosa miniera «sperdu-ta» (e mai localizzata), capeggiata nel1871 dallo stesso governatore dell'Ari-zona A. P. K. Safford, amico personaledel nostro, che Carlo Gentile, fotografoextra-ordinnaire e cercatore d'oroimprovvisato, finì coll'incrociare ilproprio destino con quello del piccoloWassaja.Nel Sudovest la servitù indiana era unapratica ancora diffusa presso i coloniamericani e messicani che si servivanodi donne e bambini indiani per i lavoripiù umili, ed erano soprattutto i bellicosiindiani pima a compiere periodicherazzie nei villaggi degli yavapai e degliapache allo scopo di catturare nuoviprigionieri da vendere o barattare agliAnglos e ai messicani. In uno di questi

raids notturni in uncampo yavapai i Pimafecero prigionierinumerosi bambini tra cuiWassaja e le due sorelle:«Io sono un apache[leggi yavapai] purosan-gue, - precisava moltianni dopo lo stessoMontezuma ricordandole circostanze della suacattura e della suaadozione da parte diGentile - nato attorno al1866 [...] da qualcheparte presso i Four Peaks,nel territorio dell'Arizona[...] Per cinque anni iovissi in uno stato molto primitivo colmio popolo - una banda di circacentocinquanta anime. [...] Io fuicatturato dai pima nel mese di ottobredel 1871 su un altopiano chiamato IronPeak, circa dieci o dodici miglia anordovest della grande miniera SilverKing [...] su questo elevato altopiano ilnostro accampamento fu razziato versomezzanotte. Vennero uccise circa trentao più persone e furono presi prigioniericirca sedici o diciotto bambini. [...]Dopo essere rimasto per una settimanacon questi pima, essi mi portarono via acavallo per vendermi o barattarmi.Fui venduto per trenta dollari a Mr.Carlo Gentile, nato a Napoli, in Italia, ela transazione avvenne a Adamsville,Arizona, (ora in rovina) alcune migliasotto Florence. Mr. Gentile era colà percercare l’oro e per fotografare e quandotornò nell'est, mi portò con sé».«Il mio nome indiano - spiegava poi ildottore - è Wassaja, che [come giàricordato] significa “Segnalando” (o "IlSegnale"); il cognome me lo diede ilsignor Gentile, dalle rovine preistorichedi Montezuma vicino ad Adamsville,mentre Carlos è dal suo stesso nome[più la "s" spagnola, trovandosi inArizona]».Possiamo avanzare solo delle ipotesisulle motivazioni che spinsero Gentile ariscattare il piccolo Wassaja dalle manidei tre guerrieri pima, ma sembra certoche l’italiano sapesse già che i pimaavevano tentato inutilmente di barattareWassaja per un cavallo e che eranointenzionati a uccidere il bambinoqualora non avessero trovato a chivenderlo. Anna Shaw, una donna pima

che conosceva bene la storia di CarlosMontezuma, scrisse in seguito nella suaautobiografia A Pima Past (1974) cheGentile era stato mosso «compassione,forse mista a uno strano presagio delCielo»: compassione e mano divina,insomma. Che Gentile non fosse allaricerca di un giovane apprendista, etanto meno di un servitore indiano, lodimostrano gli avvenimenti successivi:dopo aver sottoposto il piccolo yavapaia una buona lavata nella fontana delvillaggio, Gentile se lo portò con sé nellavicina cittadina di Florence per farlobattezzare e adottarlo quindi legalmentecome suo figlio: «egli mi adottòlegalmente e si prese cura di me come sefossi suo» confermerà in seguito lostesso Montezuma. Del riscatto diMontezuma si conservano presso i giàricordati National Archives, alcuneimmagini indirette, un ritratto fotografi-co di uno dei guerrieri pima che loavevano catturato, una foto di gruppocon il piccolo Montezuma dopo ilriscatto insieme alle due sorelline(acquistate a loro volta come inservientida un amico di Gentile) e una vedutapanoramica del villaggio di Adamsville.Gentile e Montezuma, seppur incapacidi comunicare verbalmente, si affiataro-no subito e incuranti dei pericoli simisero a girovagare per il Sudovest,visitando prima il Gran Canyon, doveGentile cercò senza successo disperimentare con la fotografia a colori, epoi i villaggi pueblo del New Mexico.Era l’inizio di una nuova vita per CarlosMontezuma, di un importante periodoformativo che avrebbe influenzatoprofondamente la sua personalità e le

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HAKOMAGAZINEsue scelte ideologiche: dall’esempio diCarlo Gentile il giovane Montezumaapprese i valori della perseveranza, dellacostanza e della tenacia, ma anche lacoscienza di stampo vittoriano che soloattraverso l’acculturazione, motivata daun desiderio genuino di inserirsi nelmondo dei bianchi mantenendodignitosamente la propria identità«indiana», sarebbe stato possibile aiNative Americans eludere il propriodestino di vanishing race. Fondamentalepoi la conversione alla fede cristiana el'istruzione scolastica per l’avanzamentodegli indiani «dalla selvaggità allaciviltà» un tema ricorrente negli scritti(alle volte intrinsecamente contradditto-ri) del famoso dottore e attivista indiano.Lasciato il Sudovest, nel 1872 Gentile eMontezuma si spostarono a Chicago perunirsi brevemente a un Wild West Showche Ned Buntline (alias Edward Z. C.Judson) aveva creato appositamente peril già famoso William «Buffalo Bill»Cody e il suo partner Texas Jack (J. B.Omohundro). Alla troupe degli Scoutsof the Prairie, che malgrado le critichedella stampa riscosse subito un enormesuccesso di pubblico, si unì anchel’attraente ballerina milanese GiuseppinaMorlacchi, nella parte dell'esotica«fanciulla indiana» Dove Eye (Occhio diColomba); anticipando le moderne soapopera la Morlacchi si innamoreràrealmente del pittoresco Texas Jack,preferendolo a un altro personaggiostorico del West, il famoso pistoleroWild Bill Hitcock... Gentile, dal cantosuo, fece da fotografo ufficiale per lacompagnia teatrale, e forse anche dacomparsa, mentre il piccolo Montezu-ma, all’epoca l’unico vero indiano delgruppo, si esibì sul palcoscenico conarco e frecce e costume a frange di pelledi daino nellaparte diAzteca, il figliodi Cochise!(Noto perinciso che dellabreve parentesiteatrale diGentile eMontezuma,dettata daesigenzeeconomichedopo il lungoviaggio nel

Sudovest, non si trova traccia né negliscritti autobiografici dello stesso BuffaloBill né nella lacunosa biografia CarlosMontezuma [1982] a cura di PeterIverson).Terminato il sodalizio con Buffalo Bill& Co., Gentile e Monty (il vezzeggiati-vo usato da Gentile) continuarono aviaggiare insieme lungo le East Coast,dalla Florida a Boston, soffermandosiper qualche tempo a New York. QuiCarlos fece finalmente la conoscenza colsistema scolatico americano, mentreGentile si dedicò alla gestione del suonuovo studio fotografico e alla prepara-zione di un nuovo viaggio in Europainsieme a Montezuma:«Monty - scriveva un anonimo giornali-sta della Chicago Tribune - sa giocare acarte, scacchi e dama con una notevoleabilità ed è veramente svelto nel calcolomentale... egli è unico tra gli Indiani. [...]È fiero come un leone, e può trascinareper terra un ragazzo di tredici anni dimedia stazza, perciò non si fa metteresotto. Il suo vocabolario è più vasto diquello di un fanciullo della sua età. Mr.Gentile vuole mandarlo a scuola didanza il prossimo inverno poi egli finiràla sua educazione in Europa, probabil-mente in Italia poiché mostra disposizio-ne per la musica [ecc.]».Ancora una volta, invece, il Destinovolle fare saltare anche questo viaggio;un incendio, pare, che distrusse granparte della sua raccolta fotografica,costrinse Gentile e Montezuma alasciare New York e a fare ritorno aChicago. Nel 1878 Gentile, assillato danuovi problemi economici e sempretroppo preso dal suo lavoro, decise diaffidare Carlos, ormai dodicenne, a duepastori protestanti che si presero buonacura del giovane. Dotato di eccezionali

doti intellettuali, motivato dall’esempiodel padre adottivo e dalla volontà dieccellere come indiano nel mondo deibianchi, dopo aver conseguito ilBachelor of Science in chimica,Montezuma poté accedere al ChicagoMedical College diventando nel 1889uno dei primi indiani d'Americaconseguire la laurea in medicina.Gentile continuò a vivere per diversianni a Chicago dedicandosi allafotografia ritrattistica e commerciale, maseguendo sempre con attenzione labrillante carriera del «suo» Montezuma.Con il passare degli anni, entrambi sisentiranno progressivamente attrattidalle rispettive radici etniche: Montezu-ma, dopo aver lavorato per l’IndianService ne diventerà un acceso critico,unendosi prima ai circoli del nuovomovimento «panindiano» (per usare iltermine coniato da Hazel Hertzberg), madistaccandosene poi per portare avantida solo, tramite il suo polemicissimoperiodico Wassaja: Freedom’s Signal forthe Indians (1916 - 1922) la sua lotta perl’emancipazione degli indiani e l’aboli-zione del Bureau of Indian Affairs.Gentile, invece, dopo aver fondato larivista specializzata The PhotographicEye (1884 - 1893), lanciò una serie diiniziative editoriali dirette alla comunitàitalo-americana di Chicago, prima conL’Italia (nel 1886, insieme a OscarDurante), poi con Il Messaggiere Italo-Americano (nel 1888, insieme aGiuseppe Ronga), e infine con LaColonia (nel 1889, da solo), chepurtroppo non ebbero fortuna. Adifferenza di Montezuma, la cui carrierapur non facile fu contraddistinta da unaserie di successi personali e da unasolida affermazione professionale, perGentile i vecchi successi della suapionieristica attività fotografica vennerorimpiazzati dai ripetuti fallimenti deisuoi giornali e dalla dura e impietosaconcorrenza di un sempre più foltonumero di fotografi professionisti.Nel 1893, malato e fortemente indebita-to, Carlo Gentile ricevette a Chicagoun’ultima visita da parte di Montezumache si prodigò inutilmente nel tentativodi risollevare le sorti del suo sfortunatobenefattore. Nell’ottobre dello stessoanno, mentre Montezuma si trovava aCarlisle, in Pennsylvania, come medicodella famosa Indian Industrial Schooldel capitano Richard H. Pratt, Gentile

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N° 10poneva fine allesue amarezzetogliendosi lavita. Dell’episo-dio non siconoscono iparticolari, ma incerti carteggiinediti di CarlosMontezuma(messi cortese-mente a miadisposizione dalsignor LeonSummit diMerrick, NewYork) sono staterinvenute alcunelettere dellavedova diGentile indirizza-te proprio aMontezuma,relative al tragicotrapasso e allarichiesta di aiutoper la famiglia indifficoltà:«Chicago, 27ottobre 1893.Dr. Carlos MontezumaCaro signore,ci siamo riuniti oggi; il funerale avràluogo domani. Sarà il Press Club cheprovvederà per questo. Lo shock è statoterribile, e io non ho fatto in tempo avederlo - egli era già morto, io nonriesco a capacitarmene! Un tale brav’uo-mo. [...] Ho ricevuto i vostri duetelegrammi, grazie per la vostragentilezza. Io non so come siano messi isuoi affari, ma credo che siano disastrosie al momento ci ha lasciati senza nulla, enon so da chi andare. Ma se potestesoccorrerci subito, ve ne saremmo moltoobbligati. Questo povero piccolo bimbo,così giovane e già orfano! Con rispetto,la vostraMrs. C. Gentile».Montezuma inviò subito degli aiutieconomici alla povera vedova, e per unostrano gioco del destino il dottore finìegli stesso per prendersi cura perqualche tempo di un altro figlio adottivodi Gentile, il poor little boy della letteradi cui sopra! Ma anche su questorisvolto singolare della saga Gentile-Montezuma, la documentazione restatuttora incerta, e come rivelano in merito

alla parentesi teatrale dei nostri protago-nisti, nulla rivelano a tale riguardo lefonti a stampa sul famoso dottore.Ho già sottolineato nella mia biografia diCarlo Gentile, di cui ho depositato copiapresso il Center for Migration Studies diStaten Island, che la tragica fine di CarloGentile non fa certo giustizia alla suavera natura, al suo talento e al suocontributo pionieristico alla fotografia,ma riflette piuttosto il dramma e ladisperazione di un epilogo dettato da undestino avverso. Gentile merita senzadubbio di essere ricordato non solo negliannali della fotografia e dell'immigrazio-ne italiana in America, ma anche inquelli delle Indian-White relations, perla sua adozione di Montezuma, cherisentì profondamente della scomparsadel padre adottivo, come confidò eglistesso alcuni anni dopo in una sua lettera(inedita) al reverendo George W.Ingalls: «Mr. G. [entile] è morto. Èmorto poco dopo la Fiera Mondiale.Pover’uomo! Io ho fatto tutto ciò che hopotuto per lui ed egli ha lasciato il suounico bimbo nelle mie mani. Così,vedete, sono rimasto solo!».Al contrario di Carlo Gentile, che non

BibliografiaRoyal Cartes de Visite. The Daily BritishColonist, 2/2/1864; Photographic Views., TheDaily British Colonist, 27/10/1865; Montezu-ma: Gentile's Little Indian protege., TheChicago Daily Tribune, 21/3/1875; BecchettiP., Fotografi e fotografia in Italia, 1839-1880,Roma 1978; Becchetti p., La fotografia aRoma, dalle origini al 1915, Roma 1983;Dobie F. J., Apache Gold and Yaqui Silver,Boston 1939; Gentile C., The Eye (Thephotographic eye and the Eye), Chicago 1884-1893; Gentile C., Durante O., L'Italia, Chicago1886; Gentile C., Ronga G., Il MessaggiereItalo-Americano, Chicago 1888-1892; Genti-le C., La colonia, Chicago 1889-1892; IversonP., Carlos Montezuma and the Changing Worldof American Indians, Albuquerque 1982;Marino C., The Remarcable Story of CarloGentile, dattiloscritto 1995; Massara G., Viag-giatori italiani in America, 1860-1970, Roma1976; Montezuma C., From an Apache Campto a Chicago Medical College: The Story ofCarlos Montezuma's Life as Told by Himself.,2 pts. The Red Man, Carlisle 1888; Montezu-ma C., Letter to Prof. William Holmes, Smith-sonian Institution 1905; Montezuma C.,Wassaja: Freedom's Signal for the Indians,Chicago 1916-1922; Montezuma C., Abolishthe Indian Bureau, The American Indian Ma-gazine, 1919; Humbert N., Italians in Chicago,1880-1930: A Study in Ethnic Mobility, NewYork 1970; Rolle A., The Immigrant Upraised:Italian Adventures in an Expanding America,Norman 1968; Schiavo G., Four Centuries ofItalian-American History, New York 1952;Shaw A. Moore, A Pima Past, Tucson 1974;Thomas A., Photography and the Indian:Concept and Practice on the Northwest Coast,BC.Studies 52 (winter) 1982; Wardwell A.,Tangible Visions: Northwest Coast IndianShamanism and Its Art, New York 1996.Questo articolo comparirà negli atti del Con-vegno di Torino "Gli Indiani e l'Italia" 1996,presso Edizioni dell'Orso, via Rattazzi 47, AL

poté rivedere più il suo paese natio eriposa invece nel Mount Hope Cemeterydi Chicago, Carlos Montezuma,ammalatosi di tubercolosi, volle finire isuoi giorni nella sua terra d'origine:Wassaja si spense infatti nel gennaio1923 in una capanna di frasche, unwickiup simile a quello in cui era nato,nella riserva yavapai di Fort McDowell,in Arizona, dopo essersi rifiutato di farsiricoverare in un sanatorio. Per unastranissima coincidenza, sia Gentile cheMontezuma, all'epoca della morte,avevano entrambi all'incirca cinquantot-to anni di età.

“Uno dei probabili catturatori di Montezuma - Guerriero Pima”, foto-grafia di C. Gentile.A p. 12: Le rovine della Missione di Tumacacori, foto di C. Gentile.

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Cristoforo Colombo di Sebastiano del Piombo, in realtà del navigatore genovese non è notonessun ritratto eseguito in vita; quello del Lotto fu eseguito solo sei anni dopo la sua morteed è considerato probabilmente abbastanza somigliante, gli altri sono solo di fantasia. Pro-babilmente il riutratto di Sebastiano del Piombo è quello di un nobiluomo italiano e la scrit-ta in cima al ritratto fu un’aggiunta posteriore.

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N° 10

Your song, drone carrier of the road,when sleep is a red eye of the stars,

splashes against your face and the ship's bow,"history will eat what's left of my heart;

I, the shell of what I sold."Its melody's your destiny, plundering the globe.

The Island-Caribs chronicled how you sawthe New World through medieval spectacles.

You claimed avarice wasn't the map, only discovery:your Admiral's wheel conjured a holy glow.

Yet you circulated the rumor Spanish captainsencountered mythical beings and headless creatures,

while St. Augustine hinted Adam's descendantsand Noah's sons produced montrous races of men,

but your four voyages created those mental griffins.Even with countless storms charting the waves,

the Taino gave you an anchor to the sea's bottom.Forever shouting the Holy Ghost's at the helmrather than the flag of Queen Isabella's sails,

you humored frigate-birds navigating hills of water.The world learned you enslaved Indians like trapped

fish,fed their flesh to hunting dogs as a Spanish joke.

Colonists joined in after you raised the first ax.You can't hide behind Aristotile's theory that some

men are born slaves, don't need much of a push.Sure the court fools bullyragged your quests

but you swore your travels were in Far Eastern waters,before a new haven, terrestrial paradise, on

a bulge of earth up the Orinoco River.Such fantasy veiled your slave marauding conquests.

You were the one who ignored the lost hours,boasting scripture prophesied the world's end.

Briefly, your eyes were gold nuggets on your entreprise.When your prayers failed to blot-out your sea-logged

liesthe inner devil split the mast of your yellow-leafed

years.Now landlocked in a Genoa home, you're a fading picture.

If battered and smaller than one of God's lice,you quit mooning over the Great Khan's empire,

and the viceroy, Francisco de Bobadilla, who chainedyour brothers and yourself to the shrunken adventure.

Though you stayed blind to horizon, compass, ship,mutineer, plague, bird, dolphin, one dream's moorage,

sailors with amputated ears and noses insured youmemory.

So the wind mothballs your journey, calls earththe dark heart of the sea, giving you the slip.

La tua canzone, infecondo portatore dell’infetta viaquando il sonno è un occhio rosso delle stelle,spruzza contro il tuo volto e la prora,"la storia divorerà ciò che è rimasto del mio cuore,io, l’involucro di ciò che vendetti".La sua melodia è il tuo destino, saccheggiare il globo.I Caribi isolani registrarono come vedestiil Nuovo Mondo attraverso occhiali medioevali.Tu reclamasti che l’ingordigia non fu la mappa, solo scoperta;il tuo timone di Ammiraglio evocò un sacro bagliore.Ora spargesti la voce che capitani spagnolis’imbatterono in esseri mitici e creature acefale,mentre S. Agostino insinuava che la progenie d’Adamoe i figli di Noé produssero mostruose razze d'uomini,ma furono i tuoi quattro viaggi a creare quei grifoni mentali.Perfino con innumeri tempeste a disegnar l’onde sulla carta,i Taìno ti diedero l’ancoraggio sul fondo del mare.Sempre gridando lo Spirito Santo è al timonepiù che sullo stendardo delle vele d’Isabella regina,assecondasti le aquile di mare navigando ondose colline.Il mondo seppe che catturasti schiavi indiani come pesciin trappola,nutristi mastini delle loro carni come scherzo spagnolo.I coloni si unirono a te dopo che alzasti la prima mannaia.Non puoi nasconderti dietro la teoria d’Aristotileche certi uomini sono creati schiavi, non hai bisogno di spintaCerto che gli sciocchi cortigiani schernirono le tue ricerchema tu giurasti che viaggiasti sui mari dell’Oriente Estremo,di fronte a un nuovo celestiale eden paradisiacosu un bubbone di terra su per l’Orinoco.Tale fantasia velò le tue conquiste razziatrici di schiavi.Fosti quello che ignorò le ore perdute,vantando che le scritture predivano la fine del mondo.In breve, i tuoi occhi erano pepite d’oro sulla tua impresa.quando le preghiere non riuscirono a oscurare il fasciame bugiardo,il demone interiore spaccò l’albero maestro dei tuoi annigialli d’autunno.Ora arenato in una casa genovese, sei un’immagine scolorita.Se battuto e inferiore a uno dei pidocchi di Dio,cessi di fantasticare sull’impero del Gran Khane il viceré, Francisco de Bobadilla, che incatenòi tuoi fratelli e te alla rattrappita avventura.Benché stessi cieco all’orizzonte, alla bussola, alla nave,all’ammutinato, alla peste, all’uccello, al delfino,all’ormeggio di un sogno,marinai dagli orecchi e i nasi mozzi ti assicurarono lamemoria.Così il vento serba in disarmo il tuo viaggio, chiama terral’oscuro cuore del mare, eludendoti l’approdo.

Cristóbal Colón, (Christopher Columbus) a Sailor's DreamCristòbal Colòn (Cristoforo Colombo) il sogno di un marinaio

Duane Niatum, Salish Klallam

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Sopra: Le forre e i valloni del campo di battaglia di Little Big Horn visti dal Custer's Hill (la collina di Custer), sullo sfondo i pioppi tremuli checosteggiano il fiume oltre il quale vi era l'accampamento dei Lakota e dei Cheyenne ostili. In primo piano le tombe dei cavalleggeri là dove furonotrovati e, marcata da una targa nera, quella di Custer. Secondo le testimonianze delle guide crow il "generale" non fu colpito qui, ma durante laprima carica sul greto del fiume e fu poi portato qui dai soldati; contrariamente alla leggenda il suo cadavere fu mutilato nei genitali e nelleorecchie. Il campo di battaglia si trova all'interno del territorio crow nelle pendici occidentali delle Black Hills, all'epoca rivendicate dai Lakotache tentavano da circa trent'anni di impadronirsene insieme all'ultima mandria di bisonti; non c'è da stupirsi dunque se i Crow fecero le guide perla cavalleria.Oggi il territorio resta nel cuore della riserva crow a poche miglia da Crow Agency, la sede del Consiglio tribale.Sotto a destra: Pittografia lakota che rappresenta i cavalleggeri del 7° caduti.A fianco: Carlo Rudio poco dopo la promozione a tenente del 7° Cavalleria, nel 1875. (Little Big Horn Battlefield, Montana).A p. 18: Sitting Bull (Tatanka Yotanka) , il famoso Toro Seduto degli Hunkpapa Lakota fotografato da David F. Barry nel 1885. Il capo nonpartecipò alla battaglia di Little Big Horn in quanto vi erano presenti due suoi nipoti cui non poteva togliere il diritto di farsi onore.

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N° 10

Sandra Busatta

«I di Rudio non sono soldati di ventura.Per la Libertà sempre! Mercenari didespoti stranieri mai!». Chi pronuncia-va queste impegnative parole eral’allora ventritreenne conte CarloCamillo di Rudio, bellunese di originee, in quel dicembre del 1855, esule aLondra come cospiratore e combattentestagionato. La bella biografia di CesareMarino Dal Piave al Little Bighorn,edita da Tarantola, riassume nelsottotitolo la straordinaria storia delconte, «da cospiratore mazziniano ecomplice di Orsini a ufficiale nel 7°cavalleria del generale Custer». Il chevarrebbe a dire da combattente per lalibertà dell’Italia e in generale dellenazionalità oppresse a conculcatoredella libertà di quegli ultimi resistentitribali schiacciati dall’avanzata del«Destino Manifesto» americano. Unaben strana e controversa carriera peruno che aveva cominciato da cadettodel Collegio militare di San Luca aMilano, uccidendo a quindici anni,insieme al fratello, uno dei croati autoridello stupro e dell’assassinio di duedonne italiane. Dopo un tale battesimodel sangue troviamo questo montanaropiccolo, bruno e nervoso, un po’dappertutto: con Pier Fortunato Calvi,con Garibaldi, con Mazzini e poi conOrsini, inseguito dalle polizie di mezza

Europa, infine preso, graziato a un passodalla ghigliottina a causa degli intrighi didue regine e internato nell’infamecarcere della Cayenna, quello resofamoso dal film Papillon. E come l’eroedel film, anche il nostro Rudio riuscì aevadere avventurosamente, dimostrandonon solo un’inesauribile inventiva, maanche una tempra fisica straordinaria. Seil suo temperamento era simile alla suatempra non sorprende che spesso si siafatto dei nemici, nonsolo per l’opera didisinformazione dellepolizie segrete e degliinfiltrati, ma anche perla sua imprudenza e ilclima un po’ cialtronee dilettantesco deicospiratori di profes-sione rifugiati sottol’ala protettrice dellaregina Vittoria.L’estrema indigenzadi Rudio costringe gliemigrati mazziniani eil Maestro in personaa fare una colletta pertoglierselo di torno edè così che egli sbarcaa New York , armatodi una raccomanda-zione scritta diMazzini, che lodescrive «coraggioso,

attivo, risoluto e simpatizzante dellaCausa dell’Emancipazione». Si arruolacome «sostituto» di un danarosocoscritto americano nella guerra diSecessione, ma non nel 39° reggimentodi New York, la cosiddetta GaribaldiGuard, bensì nel 79° Volontari Highlan-ders di New York come soldatosemplice, riuscendo infine, tramite le suepotenti raccomandazioni nelle file degliestremisti repubblicani, a ottenere un

Carletto, gli indiani e i Figli della Vedova

Carlo Camillo di Rudio, bellunese, cospiratore ecombattente sotto molte bandiere.

Garibaldini e Massoni

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HAKOMAGAZINEbrevetto di sottotenente del 2° USCT,un’unità di neri emancipati di stanza inFlorida con mansioni di polizia militare,per proteggere gli ex schiavi dalla rabbiadei vigilantes sudisti furiosi per lasconfitta. Un’attività che svolgeràancora come ufficiale del 7° cavalleria, ilmitico reggimento agli ordini delfamosissimo e controverso “generale”George Armstrong Custer, dove fuassegnato nel 1869 e in cui restò finoalla pensione.Carlo di Rudio non era il solo italianonelle file dell’esercito americano: lapratica di comprarsi un sostituto cheandasse a morire al proprio postonell’esercito nordista per la discretasomma di 1.000 dollari durante laGuerra Civile aveva attirato masse didisperati da mezza Europa, oltreall’automatica concessione dellacittadinanza all’atto di arruolamento;forse per questo altri italiani si arruolaro-no, oltre alle ragioni ideali; alcuni tra ipiù importanti capitalisti americani, tracui il Barone Predatore e banchierePierpoint Morgan, salvarono la pellegrazie ai sostituti. Solo nel 7° cavalleriadurante la campagna contro i Sioux e iCheyenne che portò al disastro di LittleBig Horn nel 1876, c’erano il famosotrombettiere Giovanni Martini, giovanerecluta, salvatosi solo perché Custer lomandò a chiedere rinforzi, il capo dellabanda del reggimento Felice Vinatieri el’altro musicista Frank Lombardi, einfine Giovanni DeVoto e GiovanniCasella. Il nostro Rudio non era certo ilsolo rivoluzionario arruolato tra inordisti: il comandante della piazza diSt. Louis dopo la guerra era il generaleWeydemeyer, ex ufficiale prussianocommilitone di Engels, veterano deimoti del 1848 e buon amico e corrispon-dente di Marx.L’orgogliosa affermazione che i diRudio non fanno i mercenari, pronun-ciata in occasione del rifiuto a combatte-re nella guerra di Crimea, può suonarealquanto fessa nel contesto delle guerreindiane se non viene letta in modo piùampio. Se solo consideriamo unpersonaggio di ben altra fama, l’Eroe deiDue Mondi Giuseppe Garibaldi, chevanta un monumento a WashingtonSquare, New York, e a cui il PresidenteLincoln offrì il posto di generale didivisione dell’esercito nordista, eglipreferì abbandonare l’amico Meucci a

fare candele, per trafficare in braccianticinesi sulle due sponde del Pacifico.D’altronde anche il garibaldino France-sco Anzani e il mazziniano FilippoCaronti, un nemico del nostro Rudio, sidistinsero in Argentina come combatten-ti contro gli indiani. Un motivo per cuiRudio e altri rivoluzionari finirono perandare a combattere gli indiani senzavederne la contraddizione, è che essierano combattenti nati e in questo essitrovavano un punto di incontro con iguerrieri rossi. Non è forse vero che,secondo lo storico Dunlay, furonosoprattutto gli scout indiani ad aggancia-re il nemico, che sfuggiva ai regolari congrande abilità e che furono degli apacheche distrussero la resistenza di Geroni-mo e degli altri capi ribelli? Gli indiani,contrariamente agli italiani rivoluzionarie agli americani, non avevano alcunaidea di «nazionalità» finché non glielainsegnò il governo. Di fronte allaprospettiva di «femminilizzarsi» nelleriserve, molti indiani si arruolarononell’esercito un minuto dopo essersiarresi: così fecero molti cheyenne, tracui Piccolo Lupo, uno dei due autoridella disperata marcia ben descritta in unfilm di Ford, e lo stesso mitico Cavallo

Pazzo, che si arruolò contro CapoGiuseppe, anche se non fece a tempo acombatterlo, finendo vittima di unacongiura messa in moto da NuvolaRossa e altri capi. L’unica strada che siapriva a un giovane tribale per accedereagli onori sociali e alla fama era laguerra, perciò quello che contava perl’onore di un uomo era essere guerriero,una ragione che spinge ancora oggi gliindiani nell’esercito americano inpercentuale superiore a quella delle altreetnie. L’ironia della storia ha voluto chemolti di essi abbiano servito in Vietnamnella Cavalleria dell’aria, erede del 7°cavalleria, immortalata sulle note dellacavalcata delle Valchirie in ApocalypseNow.Ma c’era un’altra, più profonda ragioneper cui Rudio combattè gli indiani,senza vedere la contraddizione tra il suoeccellente comportamento a favoredell’emancipazione degli schiavi neri edella protezione dei loro diritti contro ilKu Klux Klan, e la sua funzione dimercenario di un despota straniero interra indiana. Il nostro Carletto era unFiglio della Vedova, cioè un massone,come Garibaldi, Mazzini e gran partedei suoi protettori. Tra i più interessanti

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N° 10ricordiamo HoraceGreeley, un anglo-irlandese prototipo delself made man, proprieta-rio e redattore capo delfamoso New York HeraldTribune, una figura diprimo piano del panora-ma nazionale, repubblica-no radicale, antischiavistaintransigente, cheinneggiava alla distribu-zione ai poveri delle terredemaniali, al suffragiouniversale e ai sindacati.Assertore e propagandistadell’espansione all’Ovest,gli è attribuita la famosafrase «Va’ all’Ovest,ragazzo» che mise inmoto milioni di aspiranticoloni. Altro protettoreera il generale Oliver OtisHoward, detto il «genera-le pregante» per la suareligiosità, che diresse ilFreedmen’s Bureau per gli ex schiavi efondò a Washington la famosa HowardUniversity per studenti di colore tuttoraoperante; nel settore occidentaleconcluse un accordo con l’apachechiricahua Cochise e combattè CapoGiuseppe dei Nasi Forati costringendoload arrendersi.La Fratellanza ebbe certo il suo pesosulle idee degli artefici della Rivoluzioneamericana e della conquista del West.Basta guardare la data di fondazionedegli imponenti Templi che adornano lavia principale delle cittadine del Westper rendersene conto. Non dimentichia-mo che i firmatari della Dichiarazione diindipendenza, tranne due, erano Fratellie così lo erano gli «eroi» di Alamo nellaguerra contro il Messico; il Fratello KitCarson (quello vero, non quello di TexWiller), mentre Rudio combatteva per inordisti, distruggeva il modo di vitadegli apache mescalero e dei navajo e licostringeva alla resa. Come dice benePaolo Alatri la Fretellanza del LiberiMuratori ha due anime in conflitto,quella democratico-rivoluzionaria equella moderata-conservatrice; esse sipossono vedere incarnate nel ParrocoCombattente, il pastore metodista ecolonnello dei Volontari del ColoradoJohn M. Chivington, nordista, fondatoredella prima Loggia tra gli indiani

Mappa del campo dibattaglia di Little Big Horn.

Wyandot in Kansas e famigerato autoredell'attacco al campo cheyenne diPentola Nera immortalato da "SoldatoBlu".Non dimentichiamo poi che il Ku KluxKlan, contro cui Rudio fece operazionidi polizia militare, trae origine anch'essoda Logge della Fratellanza sudista. Lademocrazia, come afferma amaramentelo storico Francis Jennings, significaparità tra i bianchi: come la Herrenvolksudafricana essa è la democrazia delpopolo dei signori, dei maschi dellacasta superiore. Come dovevanoscoprire a loro spese le donne, gli exschiavi neri e gli indiani più o meno“civilizzati”, il diritto alla felicità istituitodai Padri Fondatori, non valeva per tutti.Così non stupisce, in fondo, cherivoluzionari come Rudio e razzisticome Custer si trovassero dalla stessaparte contro gli indiani, che lo stessoEngels poneva negli stadi più primitividell’umanità, influenzato dagli scritti delpadre dell’antropologia americana, ilFratello Lewis Henry Morgan, fondato-re dell’associazione para-massonicadell’Ordine degli Irochesi.Il fascino della Libera Muratoria attrasseanche alcuni indiani progressisti e cosìvediamo, per esempio, l’irochesemohawk Fratello Joseph Brant, combat-tere con gli inglesi contro il Fratello

George Washington. L’irochese senecaFratello colonnello Ely S. Parker,avvocato, ingegnere, amico di L. H.Morgan, Gran Capo delle Sei NazioniIrochesi, aiutante di campo del generalee futuro Presidente Fratello Ulysses S.Grant, estensore della dichiarazione diresa del Fratello generale Lee, Commis-sario agli Affari Indiani e sostenitoredella cosiddetta «politica di pace» eorganizzatore del viaggio a Washingtone New York di Nuvola Rossa e altri capisioux, finanziere e poliziotto a NewYork, si era iscritto fin dal 1847 nellaLoggia Batavia Numero 88, diventòCavaliere Templare dell’Arco Reale delTempio Massonico e salì fino ai gradipiù alti. Anche l’indiano Parker, comel’italiano Rudio, divenne cittadinoamericano arruolandosi, con la protezio-ne dei Figli della Vedova.

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Flavia Busatta

Nato il 23 ottobre 1892 a Mantova, ilprof. Amedeo dalla Volta conseguì lalaurea in Medicina presso l’Università diFirenze nel 1919 con una tesi sulla"Psicologia e Psichiatria dei prigionieridi guerra", una condizione umana che luistesso aveva sperimentato dopo Caporet-to. Subito dopo la laurea entrò comeAssistente nell’Istituto di MedicinaLegale presso l’Università di Padova, poicontinuò la carriera in questa specializza-zione all’Università di Catania e in quelladi Genova, dove portò a termine la suaopera Trattato di Medicina Legale. AGenova nel 1938 fu rimosso dall’inse-gnamento a causa delle leggi razzialifasciste e in seguito, durante la guerra,sfuggì alla deportazione restandonascosto a San Silvestro di Curtatone,per la seconda volta sperimentando unaforzata “reclusione”. Durante questoperiodo si dedicò agli studi di psicologiatanto che, finita la guerra e reintegratocon voto unanime nella sua cattedra diMedicina Legale all’Università diGenova, preferì il passaggio a quella diPsicologia. È in questo periodo che egliebbe frequenti rapporti con padre A.Gemelli.Tra il 1945 e il 1947 Dalla Volta fufellow alla Rockefeller Fundation negliStati Uniti e in seguito, grazie a unFulbright, trascorse in Arizona, presso la

facoltà di Antropologia dell’Universitàdi Tucson, alcuni mesi tra il maggio e ilsettembre 1953.In questo periodo trascorso nel sudovestprese vita la collezione Dalla Volta Finzicostituita da alcune kachintihü (bambolekachina), da ceramiche, plaques, dipinti,disegni, oltre che da note, appunti e test,presi su campo, ma mai rielaboratisistematicamente. L’uso del disegno peril professor Dalla Volta costituiva unametodica fondamentale per poterstudiare «la rappresentazione dell’uni-verso infantile» a proposito della«genesi del concetto di spazio infinito» ela collezione di quadri, disegni e oggettiera uno strumento per dare sistematicitàe spessore ad una ricerca che dovevastudiare la genesi nella mente infantiledella struttura dell’universo presso unapopolazione che aveva una cosmogoniae un geografia tradizionali ben diverseda quelle in uso in Europa.Durante il suo soggiorno in Arizona eglisi servì della collaborazione di HernestHaury e di Harold S. Colton, autore diuna pietra miliare per lo studio degliindiani hopi, il famoso Hopi KachinaDolls (1949).Benché il lavoro di Dalla Volta in queimesi vertesse sugli Hopi, restano alcunesue note riguardo anche altre nazioniindiane della zona come i papago, inavajo e gli yaqui dei quali collezionòalcuni dipinti, e sulla azione missionaria

dei mormoni che, come scoprì constupore, consideravano gli indiani unatribù dispersa di Israele!In tutte le lettere alla famiglia, traspareuna grande partecipazione umana perquella che a lui sembrava la reclusionesemivolontaria delle riserve indiane:«Tucson 13/5/1953. L’impressione chesi ha della visita delle prime riserveindiane, nove miglia a sud di Tucson, èpiuttosto triste. Si entra da una largacancellata di ferro con la scritta “IndianReservation”. Non è però una prigione,se mai una prigione volontaria. I cancellinon si chiudono mai e gli indiani sonoliberi di entrare e uscire, anzi moltivanno giornalmente a lavorare incittà...», per l’assimilazione quasi forzatadelle scuole del BIA e per il degradoculturale e sociale che l’assimilazionestessa sembrava comportare.«Conflitti nell’assimilazione. Mi hadetto il direttore dell’ufficio ricercheetniche W. H. Kelly di Tucson chel’assimilazione con i bianchi haripercussioni preoccupanti sui ragazziindiani. Il fenomeno avrebbe il suoprimo principio nelle scuole. Ovunque,anche nelle riserve si sono stabilitescuole per indiani. Esse sono tenute dabianchi...Sorge un desiderio di evaderedalla vita tradizionale che dà luogo aintimi conflitti nei rapporti familiari etende a creare un distacco e unaribellione ai genitori...»

Nel 1953 un medico italiano si reca tra gli indianihopi per cercare di scoprire la «rappresentazionedell'universo infantile».

Un medico nel Sudovest

Biografie

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N° 10Sempre nelle lettere si può cogliere ilsenso di disagio e di frustrazione cheDalla Volta provava a causa dellamancanza di informazioni su quelli cheerano i suoi soggetti di studio e per laconsolidata diffidenza dei medesimi neiconfronti dei bahana (gli uominibianchi), un’ostilità umana che sisommava a quella terribile del deserto:«Rimangono però da vincere, ed èparticolarmente duro nelleprime settimane, ledifficoltà innumerevolidella vita nella zonadesertica dove non si puòavere il minimo aiutoperché gli indiani loriterrebbero servile. Nenasce un sentimento disconforto che pochiriescono a superare...»Erano quelli gli anni in cuisi svolsero i famosi HopiHearings che dovevanoriproporre le tradizioniantiche in modo militantedopo secoli di silenzio eimprovvise rivolte. Inparticolare la città diOraibi, dove Dalla Voltapose il suo quartiergenerale, aveva vistol’ultima scissione-migrazione agli inizi delNovecento, quando ilgruppo dei progressisti oamichevoli, guidato da Lolomai, capodel Bear Clan (clan dell’Orso) e dellacittà di Oraibi cacciò con una collutta-zione il gruppo degli ostili, guidato daLomahongyoma dello Spider Clan (clandel Ragno). Gli sconfitti, secondo latradizione precolombiana degli hopi,crearono le città di Hotevilla, sede delleader Yukeoma del Clan Kokop (Clandell’Agave) il più aggressivo dei clanhopi, e Bakabi.Di fronte alla irriconciliabile rottura, chenon si è ancora sanata, il governo USAinviò la cavalleria e le guide navajo,tradizionali nemici degli hopi, aprendere i bambini da inviare forzata-mente alla boarding school di KeamsCanyon ove i piccoli erano costretti atagliarsi i capelli, a parlare solo inglese ea vestire uniformi da college di tipomilitare.Un altro precedente che sicuramentedanneggiò Dalla Volta nell’ottenere la

fiducia dei sacerdoti hopi fu il malaugu-rato precedente del reverendo mennoni-ta Heinrich Voth, il cui nome è unanime-mente vituperato dagli hopi come coluiche, carpendo la buona fede e l’amiciziadi alcuni capi religiosi, spezzò il segretocerimoniale ricreando gli altari dellekiva e i rituali nei sui scritti, nellefotografie e attraverso la collezione cheoggi è uno dei pezzi forti del Field

Museum di Chicago.La scarsa collaborazione degli hopi e deigruppi pueblo in genere e la loroossessione per la segretezza non puòessere capita se prima non si comprendecome si articolano politicamente leineguaglianze sociali tra i pueblo:«I rapporti tra i pueblo e le loro divinitàsono un affare esclusivamente maschile.Più propriamente questa è la conoscenzache gli anziani, organizzati in associazio-ni esoteriche note come kiva, controlla-no. Quando un giovane cerca laconoscenza [esoterica, N.d.T.] e il poteremagico per cacciare con successo, perandare in guerra, per curare, ottenere lapioggia o semplicemente per otteneredelle benedizioni, egli o il suo sponsordà dei doni ai preti di una particolarekiva in cambio di ciò che chiede. Laconoscenza ottenuta grazie ai doni èsempre scambiata con lentezza e duranteun gran numero di anni. Questo

massimalizza la dipendenza dei giovanidagli anziani, degli aspiranti daglispecialisti rituali e perpetua l’inegua-glianza materiale su cui è basato ilcalcolo della quantità/qualità dei doni.Senza il segreto, il valore della cono-scenza nel calcolo svanisce»1.Poiché nessuno possiede tutta laconoscenza esoterica, il fazionalismo e ilconflitto sono endemici e ogni particola-

re mito delle origini assicura alla kiva oal clan una posizione gerarchica nellacomunità che ne garantisce anche dirittimateriali, come il comando nel pueblo ola proprietà delle terre. Questa inegua-glianza materiale, assicurata e perpetuatadal segreto rituale, è la vera chiave percapire l’ostilità dei Pueblo nei confrontisia dei “curiosi” che delle modifiche allecondizioni materiali di vita.«L’introduzione dei mulini tra gli Hopisarà devastante per la posizionefemminile nella vita cerimoniale dalmomento che il principale compitofemminile consiste nel macinare il maisin tutti i momenti drammatici della vita,compresa l’iniziazione. Di fatti, ogniinnovazione che mini il sistema discambio del cibo è esiziale per lacondizione femminile. I cacciatori diMishongnovi stanno già lamentandosiperché le ragazze non danno nulla incambio dei conigli che essi catturano;

“I Mud Head Kachina dileggiano i danzatori entrati nella kiva. Il Sacerdote peotesta”, scuola diFred Kabotie, Oraibi, Terza Mesa, Collezione Dalla Volta Finzi.

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HAKOMAGAZINEperciò a Mishongnovi e altrove le cacciecon le fanciulle stanno scomparendo.Qualunque siano le cause le societàfemminili hopi stanno collassando. [...]Quando il cotone e le altre fibre naturalicominciarono a venir sostituite da fibrecommerciali, si sfaldò il rituale dellaraccolta e le teorie animistiche furonominate alla radice. Ad esempio CottonWoman cessò di essere invocata nellepreghiere. Ogni sistema di irrigazioneche sia indipendente dalla pioggia, saràfatale al prestigio dei kachina. «Perchédovremmo tenere delle danze kachina,se basta aprire una chiusa?»2 .In una lettera del 5 luglio 1953 DallaVolta scrisse:«Un tentativo di farmi avvicinare iprincipali sacerdoti, perché io potessiparlare di alcuni argomenti che miinteressavano, non riuscì. Per vincere ladiffidenza probabilmente bisognavasostare più a lungo. […] Ho potuto peròavere informazioni sufficienti da iniziatidi grado minore che tra l’altro, perquanto con difficoltà, mi hanno deluci-dato la loro concezione dell’universo,alla quale i giovani non vengono iniziatiprima del diciottesimo, diciannovesimoanno…».Poiché in realtà i bambini maschi hopicominciano il cursus iniziatico tra ilsettimo e il decimo anno, resta il dubbiose gli informatori mentissero a bellaposta o se erano così estranei al cerimo-niale da sbagliare completamente neldare informazioni.Rientrato in Italia Dalla Volta portò consé gli oggetti acquistati o ottenuti inregalo e nel 1953 espose parte dei dipintie degli oggetti all’Università Cattolica diMilano su iniziativa di Padre Gemelli.Alcuni degli oggetti esposti oggi sonoda considerare dispersi.La collezione, ereditata dall’ing. Finzialla morte del prof. Dalla Volta nel 1985,è composta da 17 kachintihü (bambolekachina), 17 dipinti di kachina eseguitida studenti-artisti hopi, una plaque dellaTerza Mesa per la farina di mais rituale,un sonaglio di zucca cerimoniale, duevasi di ceramica e un pettine; vi sonoanche disegni e test eseguiti dai bambinihopi, e alcuni disegni di bambini navajoe papago, ma l’intero gruppo dei disegniyaqui è scomparso.Questa collezione, integrata da alcunidisegni di bambini hopi che Dalla Voltaregalò all'ospedale Gaslini di Genova e

da oggetti della collezione Dinz Rialtodel Museo delle Culture ExtraeuropeeDinz Rialto di Rimini è stata presentataal pubblico a Padova col titolo "GliIndiani hopi e un freudiano" (27/3 - 13/41997).La collezione di kachina raccolte daDalla Volta è di particolare interessesiano esse espresse come bambole ocome dipinti.Il culto dei kachina affonda le sue radicinel passato preistorico, figure riconosci-bili come kachina sono identificabili neipetroglifi che punteggiano la regione ecompaiono fin dal XIV secolo nellepitture delle kiva del villaggio hopi diAwatowi, del villaggio pueblo di Kaua(New Mexico) sulla ceramica hopi diSikyatki e in altre rovine hopi.Il termine kachina viene fatto derivare

dalle parole hopi kachi (vita o spirito) ena (padre) e significherebbe “padrespirituale”, ma molti hopi lo fannoderivare anche da kâchi, cioè “colui chesta seduto”, ovvero colui che ascolta lerichieste del popolo.I kachina sono entità soprannaturali chepossono portare la pioggia, controllare iltempo, favorire la fertilità dei campi edegli esseri umani, specie delle donne,aiutare gli abitanti nelle loro attivitàquotidiane, punire i trasgressori dellalegge religiosa e perciò anche di quellacivile e in genere, attraverso il diverti-mento cui molti kachina sono preposti,predispongono lo spirito degli hopiverso la «purezza d’animo», un attributofondamentale al benessere collettivo. Ikachina non sono però delle divinità,anche se alcuni di essi come ad esempio

Interno di una kiva (ricostruzione)A p. 23: Hania (Kachina Orso) appare solo nella Terza Mesa ed è oggi pocorappresentato; Collezione Dalla Volta Finzi.

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N° 10Masa’u possono essere impersonate dakachina, ma solo degli intermediari tragli esseri umani e gli dei.I kachina sono in concreto degliimpersonificatori di esseri soprannatura-li, degli uomini cerimonialmenteincaricati di ciò in base alla loroaffiliazione clanica; quando indossano lamaschera e gli attributi del kachinal’impersonatore si identifica con essodando forma materiale a delle entitàimmateriali. I Kachina sono impersonatiesclusivamente da uomini anche se sitratta di Kachina femminili; le donnepartecipano al rituale provvedendo alcibo, custodendo e nutrendo le mascherewôye (cioè dei Kachina riconosciutiantenati del clan) e controllando laperfezione della cerimonia.«Il culto kachina non è quello che disolito si chiama totemismo né, a rigore,adorazione degli antenati, perché in unsistema matrilineare gli antenati maschinon sono i genitori o antenati deimembri viventi del clan. Sono semplice-mente antichi membri di esso; le lorosorelle sono alla lettera gli antenati deidevoti»3.Le cerimonie kachina si svolgono tranovembre quando essi appaiono allacerimonia del Nuovo Fuoco oWüwütcimti e luglio quando al Niman

Kachina gli spiriti ritornano alle lorocase sui San Francisco Peaks. Durantequeste cerimonie e soprattutto al Nimangli impersonatori fanno regali aibambini: archi e frecce in miniatura aimaschietti e bambole kachina okachintihü per le bambine e le donnenubili, solo raramente alle donneanziane.I kachintihü sono intagliati dagli uominihopi per insegnare alle bambine, chesono escluse dall’iniziazione cerimonia-le nelle kiva, tranne che nelle tre societàfemminili, le caratteristiche di ciascunkachina; queste bambole non sono deigiocattoli, ma neppure degli oggettireligiosi veri e propri, anche se sonotrattate con rispetto: esse sono in uncerto modo dei “sussidiari” religiosi.Delle 34 raffigurazioni kachina dellacollezione Dalla Volta Finzi (17 statuettee 17 dipinti), ben 14 quadri rappresenta-no solo teste o maschere di kachina, laparte più importante e sacra, quella cheviene conservata e “nutrita” cerimonial-mente. La tradizione di dipingerekachina in modo profano fu iniziata daJ. W. Fewkes che per primo chiese a treinformatori hopi dei disegni al fine diidentificare i vari spiriti.«Quando un hopi disegna una figura ointaglia un’immagine di una divinità,bambola o idolo, egli presta la massimacura alla rappresentazione della testa. Isimboli sulla testa sono caratteristici e lasua dimensione è in genere sproporzio-nata rispetto a quella delle altre parti.Quando questi stessi dei sono imperso-nati dagli uomini questi stessi simbolisono in genere dipinti sulle maschere osugli elmetti».4

Sono facilmente identificabili alcuni deikachina dei disegni, come Aya (KachinaCrepitacolo), Ewiro (Kachina Guerrie-ra), Chakwaina, Chakwaima Yuadta(Madre Chakwaina), alcuni Sosoyok’t, oOrchi e le seguenti kachintihü: Kwahu

(Kachina Aquila), Nataska Kachina(Orco Nero), Wolf Kachina, TalavaiKachina (Kachina dell’Alba o KachinaSilenziosa), Angak’china (Kachinadai Capelli Lunghi) e Hahai-Wuuti(Kachina Madre). Quest’ultima ècaratterizzata dalla forma piatta(puchtihü) ed è il primo kachina cheviene donato al neonato per essereappeso sulla culla; esso è anche dato alleaquile in cattività ed è sepolto con loroin uno speciale cimitero.Altri sono meno facilmente identificabiliper varie ragioni tra le quali il fatto che ikachina sono forse più di 500 e ilnumero cresce per la continua introdu-zione di nuovi “spiriti”, che vi sono dellevarianti nella rappresentazione dellostesso kachina tra le varie Mesa, perchétalvolta la loro vita è effimera o perchél’autore non voleva infrangere unsegreto cerimoniale con in bianco. Findall’inizio infatti la rappresentazioneprofana dei kachina vide crescerel’accusa di stregoneria, un’accusa chetutt’oggi conserva il suo peso, visto cheil governo americano riconosce il dirittoe la giustizia tribali nelle riserve.Sempre alla rappresentazione delledanze kachina appartengono i dipintidella scuola di Fred Kabotie e diLoloma.La Collezione Dalla Volta Finzi vantaanche un disegno di Kabotie stesso: unostudio per un acquerello, che rappresen-ta una delle cerimonie estive al di fuoridel ciclo delle danze kachina, la Leleñti,o Cerimonia del Flauto.

note1 Gutierrez R. A., Pueblo Indian Religion, diParson E. C., Bison Book, 1996, pp. X - XI.2 Parson E. C., Pueblo Indian Religion, BisonBook, 1996, v. II, pp. 1130 - 1143.3 Fewkes J. W., An Interpretation of KachinaWorship, Jour. Am. Folklore, v. 14, 1091.4 Fewkes J. W., Hopi Kachina, Dover, 1985,p. 15.

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Sandra Busatta

«E’ possibile nell’epoca attuale che unricercatore - senza disporre di mezzispeciali né partecipando ad unaspedizione organizzata vera e propria -eseguisca proficuamente per un periododi tempo limitato ricerche psicologichesu popolazioni primitive?» si chiedeAmedeo Dalla Volta nella Premessa delsuo libro inedito sugli hopi dell’Arizonasettentrionale, Stati Uniti, di cui cirestano gli appunti di otto capitoli e chenon fu mai terminato. Egli afferma checiò è alquanto difficile, perché lepopolazioni «primitive» moderne sonopoche e difficili da raggiungere, etuttavia annuncia: «Le mie recentiricerche eseguite nei villaggi degliHopi... hanno dimostrato questapossibilità». Malgrado questi indiani sitrovino nel cuore dell’America epossano essere raggiunti comodamentein aereo, come egli ci fa osservare, unmezzo che offre grandi possibilità al«ricercatore che si proponga di studiaresul campo problemi di psicologiaetnica», le difficoltà non mancano.Nonostante i suoi problemi, Dalla Voltaprova simpatia per gli indiani findall’inizio del suo soggiorno, quandopuò osservare a Flagstaff gli indianiinurbati e i «turisti domenicali» navajo ehopi, provenienti dalle riserve, per lo piùvestiti all’occidentale, anche se sipossono incontrare «pittoreschi gruppiin costume, con magnifici scialli ecollane». «Queste famiglie si recano in

genere nei cinematografi, dinanzi aiquali fanno lunghe file». Egli è impres-sionato dalle grosse automobili stipate dibambini, sempremolto più numerosidegli adulti eosserva: «Si ha cosìuna prova dell’in-cremento demogra-fico che caratteriz-za da alcuni annigli indiani e che èandato di paripasso con ilriconoscimento deiloro diritti».Tra gli hopi DallaVolta si rende contoche le categorieinterpretativefreudiane nonvalgono: «L’ansiadi queste popola-zioni continuamen-te assillate dalbisogno alimenta-re» e l’ossessioneper la pioggia nonpossono essereinterpretate secondoi canoni dellaVienna borghese.«Non vi è pratica-mente danza in cuiil motivo dellapioggia non siaffacci, dominantee assillante»,

dichiara nel quarto capitolo del suomanoscritto. «Queste danze sono unriflesso potente di un’ansia primordiale

Gli Hopi e un freudiano

Fames, l'antica compagna degli Hopi, smentiscel'universalità delle teorie freudiane.

Psicologia

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N° 10e generalizzata che le nostrepopolazioni, almeno in alcuni stratisociali, troppo nutrite e occupatedalle più svariate incombenze,sembrano di regola ignorare». Leteorie sulla repressione sessuale nonfunzionano : «Vi è un periodoinfantile di sexual play, vi è libertàprematrimoniale e nel matrimonio ilpadre si comporta con i figli che lamoglie frequentemente ha avuto nelperiodo di libertà sessuale, in mododel tutto analogo a quello con cui sicomporta con i suoi. Per quanto ilpadre sia un parente riconosciuto delbambino, il fratello della madre èinvestito di autorità e di disciplinanei riguardi dei nipoti» (terzocapitolo). È assurdo perciò, se nededuce, parlare di complesso di Edipo,di Elettra e di tutti i miti freudiani chepossono scaturire da una societàpatriarcale europea. «Sarebbe vanoparlare dello sviluppo nel bambino diuna curiosità sessuale; essa nonavrebbe ragione d’essere. Bambini ebambine della più giovane età si vedonofacilmente nudi nei Pueblo Hopi. ... Inqueste condizioni i bambini fanno anchei loro giochi, Non solo i piccoli bambinimostrano comunemente i loro organigenitali, ma entro le case anche igenitori non hanno riguardo alcuno amostrarsi più o meno ignudi. Perquanto si riferisce ai rapporti sessuali,l’apprendistato è quanto di più facile sipossa immaginare. La scena primariadegli psicoanalisti è uno spettacolotroppo usuale per impressionare ilbambino. Non solo scene del generevengono viste nell’ambiente familiare,ma altresì pubblicamente in formarappresentativa nelle danze sacre, nellequali alle esecuzioni ieratiche deiKachina si alternano spettacoli dipagliacci che simulano spesso con lapiù palmare evidenza la copulazione».Tra questi clown vi sono i popolarissimiMudhead kachinas o Teste di fango, lecui esecuzioni «hanno carattere profanoe spesso peccaminoso». Le scene e idialoghi salaci dei clown coinvolgono ilpubblico, che ride e risponde allebattute. «La libertà sessuale di questescene colpisce l’osservatore bianco inquanto il pubblico che compartecipacon trasporto a queste scene comprendebambini di ogni età, fanciulle, ragazze espose». A volte bastoni di legno a

zigzag che rappresentano il fulminesono usati simbolicamente comemembri virili e «il verismo di questescene è veramente impressionante» ; «avolte il clown è afferrato da altripagliacci e si hanno scene clamorosecon castrazioni punitive», con membrifittizi giganteschi, contesi e riappiccicatidai clown che se ne sono impadroniti.È l’ansia per timore della siccità, quindi,non per la repressione sessuale, checaratterizza il temperamento hopi.Quest’ansia è una risposta a un pericoloestremo anticipato, una minaccia cuil’individuo è incapace di rispondere,quella di «rimanere senza mezzi disussistenza». «E’ un’ansia di situazioneche potrà cessare soltanto se le divinitàvorranno concedere la pioggia. [...] Inquesto l’ansietà degli Hopi è unarisposta aggiustativa, di natura preva-lentemente emotiva, che essi danno ailoro conflitti». L’ansia per la pioggia,che scandisce tutto il calendariocerimoniale resta immutata anche inepoca attuale e «lascia per lo studiosouna delle impressioni più profonde dellepercezioni emotive delle popolazioni diquesta terra desertica», cui «fa riscontroun cielo di un azzurro d’incanto, in cuile nubi sono soltanto fugaci apparizio-ni». Il timore che l’aridità non facciaspuntare il mais mantiene negli Hopi«uno stato di protratta tensione che sialterna con l’ansia». La pioggia diventa«sintesi ed equivalente di ogni necessitàvitale»: un richiamo che rivela allopsicologo della dinamica dei comporta-menti che l’esasperazione del bisognoalimentare è la motivazione prevalentedelle cerimonia.

L’attività dei clown e di kachina sessualicome Mastop intriga molto Dalla Volta,che dedica loro buona parte del quintocapitolo del suo manoscritto: «Danzesacre e spettacoli di pagliacci nell’inter-pretazione psicanalitica». I clownspesso aiutano i danzatori, sgombranoloro il terreno e i kachina «seri», cheperaltro sono muti o al massimolanciano versi incomprensibili in lingua«divina», ignorano i lazzi e i dileggi deiclown. «L’austerità del comportamentodei danzatori, lo scopo sociale della lorofunzione [...] costituiscono elementi cheinducono a considerare questi perso-naggi come rappresentanti del supere-go. Le danze stesse con i loro movimentiritmici potrebbero costituire per ladottrina freudiana un simbolo dell’atti-vità sessuale. L’intero corpo deldanzatore che si muove sarebbe simbolofallico. Notiamo inoltre la ricchezza dioggetti interpretabili come simboli fallicinel mascheramento e nell’acconciatu-ra : appendici oculari, nasali e oralidelle maschere, sonagli, bastoni, archi efrecce. Inoltre nelle maschere possonoessere dipinti simboli fallici comevengono usati dagli Hopi. Per quantoriguarda l’interpretazione dellerappresentazioni dei clown che sialternano alle danze si potrebbeammettere che gli atti di significatosessuale, che sono finzioni, siano privatedella loro carica affettiva e dei rapportioggettuali». Dato che molti clownfingono di copulare con altri clowntravestiti da donna, secondo Dalla Volta,occorrerebbe tenere presente il significa-to del travestimento, che, da un punto divista psicanalitico, presupporrebbe

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HAKOMAGAZINEun’identificazione con la madre erappresenterebbe simbolicamente anchel’attuazione dell’evirazione. La finzionedegli atti sessuali dei clown «indichereb-be non un’assenza di repressione, comepotrebbe sembrare a prima vista, ma untentativo di negare, di reprimere una

manifestazione reale della sessualità». Ilcomportamento dei clown quindi puòessere interpretato come simbolo degliimpulsi dell’id e come tentativo dinegare questi impulsi attraverso lafinzione e l’isolamento. Le rappresenta-zione dei kachina Mastop nella cerimo-nia del Soyal è differente da quella deiclown, in quanto essi fingono lacopulazione con donne vere. Dalla Voltacita Titiev: «Continuano ad agire inquesto modo finché non abbiano avuto“rapporto” con tutte o la maggioranzadelle donne che sono fra gli spettatori»;nonostante i tratti comici questo èconsiderato un rito di fertilità serio cui sisottopongono donne di tutte le età, dalleinfanti alle nonne. Dalla Volta mostra ilcontrasto tra i clown che vengonobastonati per i loro “abbracci”, mentre iMastop, che pretendono di fecondareanche le madri e le sorelle, non sonoevitati, il che mostra il carattere preva-lentemente pubblico del rito, privo discelta dell’oggetto sessuale, che riguardadonne in età riproduttiva e non. Ilsignificato può essere non solo di naturasessuale, perciò, ma anche etico-inibitoria, collegata alle consultazioni trai Mastop dopo esibizioni di incontenibi-le desiderio. La finzione dell’attosessuale, invece, «potrebbe indicare la

relativa rinuncia»: un significato chevale anche per i clown e che spieghereb-be la riluttanza delle donne ad accettare iloro abbracci. Egli conclude l’analisiconsiderando i riti finali del Soyalintorno alla kiva, una stanza cerimonialesotterranea che può identificarsi con i

genitali femminili, come la rappresenta-zione simbolica dell’atto sessuale: «Ilmotivo della parodia che gli impersona-tori Mastop fanno dei celebranti Soyalipotrebbe ricercarsi in una rivalità frapersone che rappresentano in modidiversamente simbolici la stessafinzione».Nel capitolo sesto egli passa a conside-rare le bambole kachina o kachintihü,«una manifestazione veramentenotevole della scultura in legno fra gliHopi». Le bambole kachina, pur nonessendo giocattoli né immagini di culto,sono «forme ridotte di danzatori cheimpersonificano gli spiriti» e, per le loroqualità estetiche, sono oggetti chesuscitano l’interesse infantile. In questosenso Dalla Volta pensa che possanocorrispondere a svariate categorie digiocattoli dei bambini italiani. In talmodo il significato delle bambolekachina per lui non esula dal terreno incui si inseriscono le interpretazionifreudiane delle nostre bambole, anche segli hopi le considerano solo oggettiadatti all’insegnamento religioso dellebambine. Secondo Freud il gioco dellabambina con le bambole nel periodofallico serve all’identificazione con lamadre allo scopo di sostituire lapassività con l’attività. Essa fa da madre

e la bambola è lei stessa e solo con ilmanifestarsi del desiderio del membro ilbambino-bambola diventa un bambinoavuto dal padre, da quel momento in poila più forte meta del desiderio femmini-le. Per Klein la bambola può avereparecchi significati; talvolta corrispondea un pene, talvolta a un bambino rubatoalla madre, talvolta alla bambina stessa.Dalla Volta da parte sua afferma che, perinterpretare da un punto di vistapsicanalitico le bambole kachina, sidovrebbe considerare, oltre il simboli-smo religioso, anche quello sessuale. Sipotrebbe parlare di superdeterminazione«in quanto queste bambole comegiocattoli sarebbero simboli sessuali,come oggetti di culto simboli del divietodella sessualità. Alla stregua di questosecondo significato potrebbero ancheinterpretarsi le caratteristiche terrifichedi alcune bambole kachina». I simbolisessuali, come i simboli onirici, rappre-senterebbero fissazioni dello sviluppoculturale a un dato livello e questolivello, per le bambole kachina,potrebbe accordarsi alla mentalitàinfantile. Da un punto di vista psicanali-tico, dunque, si potrebbero distinguerein esse due significati: «uno relativo alleintenzioni coscienti e inconsce degliadulti che le hanno concepite e scolpitee uno relativo alla mentalità dei bambiniin quanto le utilizzano nei loro giochi.Sia negli adulti che nei bambini ognisingola parte della bambola non ha unsolo significato, ma vari relativi aglistati consci, preconsci ed inconsci». Nelcapitolo settimo Dalla Volta critica leteorie freudiane sul totemismo, inquanto basate su assunti già privi difondamento ai suoi tempi e rileva: «Nonvi sono evidentemente elementi nell’or-dinamento sociale totemico degli Hopiche possono concordarsi con la teoriadi Freud, che d’altra parte, insieme adaltre teorie esplicative, ricapitolate daFreud stesso, sono generalmenteconsiderate inaccettabili dagli antropo-logi».Nel capitolo quarto Dalla Volta avevagià fatto delle interessanti considerazionisulle difficoltà di un freudiano cheanalizza una cultura non europea,richiamandosi anche ai commenti diMalinowski sul fatto che il complesso diEdipo non è universale: «QualoraFreud si fosse trovato a svolgere la suaattività di ricerca fra popolazioni le cui

Sonaglio e crepitacolo costituito da una zucca e da un bastone seghettato il cui ru-more ricorda la pioggia.A p.24 e 25: mais indigeno e il piki, il pane hopi.

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N° 10caratteristichesociali efamiliari fosserostate corrispon-denti a quelledegli Hopi, lapsicologiadinamica chechiamanopsicoanalisi nonavrebbe potutosvolgersi nétanto menoconsolidarsinella sua formaattuale». Anchegli indianipossono soffriredi sindromineurotiche, ma leosservazioni suee di altri studiosidimostrano cheesse non silegano di normaa motivi sessuali.«La loro ansiaprimordiale, dicaratteregenerale, èconnessa, comegià si è rilevato,al bisognoalimentare».Sindromineurotiche piùindividualizzatesono determinate dal contatto con laciviltà angloamericana e si possonoriscontrare «con particolare imponenza»negli hopi e negli altri indiani urbanizza-ti. Dalla Volta dichiara la sua posizionecritica nei confronti della psicoanalisi,intesa come psicologia dinamica e laritiene uno strumento di ricerca «basatosu una ipotesi applicabile entro unlimitato raggio culturale». Consideratala cultura hopi egli propone, in analogiacon la teoria psicanalitica, di «fondareuna psicologia dinamica basata,anziché sul bisogno sessuale, su quelloalimentare» e per efficacia dimostrativacerca di applicarla al capitolo basale deicomportamenti sessuali infantili.Nell’ipotesi psicanalitica viene presup-posta l’esistenza nell’essere umano diuna funzione di carattere generale,diretta a ottenere piacere da alcune zonedel corpo, la libido, espressione dinami-

ca dell’eros, costituita da diversecomponenti che tendono a fondersi inuna unità, anche se incompleta: attivitàalimentari, escretorie, genitali vere eproprie a cui la psicanalisi associatendenze aggressive, espressionidinamiche dell’istinto di morte. A questaunificazione Dalla Volta propone disostituire un’analoga unificazione in cui,«in luogo della libido, manifestazionedinamica della vita sessuale, verrebbeposta la fames, manifestazione dinamicadella vita alimentare. In un’ipotesisiffatta, i bisogni alimentari e il lorosoddisfacimento, con una seriazione piùlogica dell’alchimia freudiana, potreb-bero essere unificati con i bisogniescretori e sessuali e con il loro soddi-sfacimento». In questo modo il bisognopiù elementare, quello alimentare, cheprovoca tanta ansia negli hopi, assume-rebbe il suo primato effettivo; il periodo

dell’allattamento e la fase orale freudia-na diverrebbero gli esponenti di un’etàdell’oro, che potrebbe collegarsi con ilmito hopi dell’origine sotterraneadell’umanità. Il ricordo dell’età dell’orodel nutrimento materno illimitatodiverrebbe penoso con lo svezzamento,di fronte agli scarsi mezzi offerti daigenitori. Il ricordo viene represso e ilbambino, che solo a età più matura èiniziato ai misteri religiosi, apprendeattraverso l’insegnamento e l’esempiofamiliare il lavoro agricolo e l’arte dellacaccia, finché raggiunge il periodoultimo «in cui egli è costretto a procac-ciarsi con il suo lavoro gli alimenti. Ilricordo dell’età dell’oro, rievocatodall’iniziazione religiosa, non sarebbepiù penoso ma diverrebbe stimoloall’azione che, particolarmente nellacaccia si rafforzerebbe con attitudiniaggressive [...] La funzione sessualementre si svolgono i periodi descritti sisvilupperebbe gradualmente, la libidosexualis non sarebbe che una sottospe-cie della fames. In un primo tempo ilcomportamento sessuale si manifeste-rebbe nel sexual play, che avvierebbegradualmente all’attività normale,diretta alla procreazione. Un vero eproprio primato genitale sarebbetuttavia difficile a riconoscere. Sidovrebbe ammettere piuttosto tempora-nei sopravventi della sessualità quandoè meno impellente il bisogno alimenta-re». Questa riproposizione che DallaVolta fa dei passi della sessualitàinfantile pecca di maschilismo, comed’altra parte è maschilista la propostateorica di Freud; la donna hopi noncoltiva e non caccia, anche se possiedela casa, i campi e i magazzini del clan,aiuta a seminare, e gestisce la trasforma-zione dei prodotti agricoli e venatori incibo. Come si può giustificare, quindi,con questa teoria, lo sviluppo dellasessualità infantile femminile? DallaVolta non ne parla; egli comunqueritiene che su questa strada si possasviluppare una dottrina come lapsicanalisi, anche se, dichiara, non è sua«intenzione costruire una dottrinasiffatta né, tanto meno, una parodiadella dottrina di Freud». Egli vuole solosegnalare questa possibilità: «unapsicologia dinamica, basata sull’istintodella nutrizione, potrebbe essereapplicabile, come ipotesi di ricerca, adalcuni gruppi etnici».

Manichino vestito in costuma da sposa. La cintura bianca con lefrange dai tipici nodi, simbolo della poiggia è il dono nunzialespeciale dello sposo, che la tesse nella kiva del suo clan.

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Gruppo di kachinaChakwaina, il kachina guerriero degli zuni, ripreso dagli hopi, con i caratteristici capelli crespi.

Il pueblo di Zuni in una fotografia di Ben Wittick.

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N° 10

Claudio Ceotto

Costa dell'isola di Santo Domingo, annodi grazia 1531. In una cornice di piantesconosciute dopo poco meno dicinquant’anni dall'arrivo di CristoforoColombo, sbarca nel Nuovo Mondoquello che si dimostrerà uno stranoesempio di francescano, Marco daNizza; la sua figura, molto discussa,passerà alla storia non tanto per la suaopera evangelizzatrice, quanto comecolonizzatore ed esploratore di nuoveterre.Dopo il suo arrivo prosegue per il Perù,l'anno successivo è presente all’incontrotra Francisco Pizzarro e l’Inca Atahual-pa; Marco compila un suo memoriale,purtroppo andato perduto, sull'anticastoria del Perù.Nel 1536 approda nella Nuova Spagna(oggi Messico) e in nome del ViceréAntonio de Mendoza parte alla scopertadi nuovi territori.È il 20 novembre 1538. Marco da Nizzariceve a Tonalà, Nuova Galizia,l’«istruzione» di Antonio de Mendoza,documento che consentiva al nostroesploratore di avanzare in nuovi territoriin gran parte sconosciuti.«Partii dalla villa di San Miguel ...venerdì 7 marzo 1539 portando comecompagno il padre Fra Onorato e conme il Negro Esteban di Dorantes e certi

Indios, liberati e comprati dal signorviceré per questa occasione».Nell’intento iniziale la missione di FraMarco doveva portare il francescano acontrollare l’opera di governo diFrancisco Vasquez de Coronado e ilrapporto che intercorreva tra gli spagnolie gli indigeni del luogo.Il suo percorso iniziale fu salutato dagliabitanti indigeni con doni di cibo, rose ecase di frasche fatte per lui là dove nonesistevano altri tipi di abitazione.Arrivato a Petatean si ferma tre giorniper riparare e lì è costretto a lasciare FraOnorato che nel frattempo si è ammala-to; riparte dopo il riposo e ancora è fattooggetto di grandi apprezzamenti.«E viaggiavano con me il detto negroEsteban di Dorantes, alcuni degli indiosliberati e molta gente della terra, e mifacevano dovunque arrivassi grandiricevimenti e mi davano il loro cibobenché scarso... perché gli indios diquella contrada si preoccupavanomaggiormente di nascondersi che diseminare per timore dei cristiani dellavilla di San Miguel, che erano solitispingersi fin li per far loro guerra eridurli in schiavitù».Marco prosegue il suo viaggio sotto imigliori auspici e dopo essere passatoattraverso il deserto entra in contatto conpopolazioni che non conoscono icristiani.

«Questi mi fecero grandi accoglienze,mi diedero molto cibo e cercavano ditoccarmi gli abiti e mi chiamavanoSayota, il che, nella loro lingua,significa “uomo del cielo”».Scopre, facendo uso di interpreti, cheoltre la pianura esistono popolazioniriunite in grandi città dove la genteindossa abiti di cotone e conosce l'orotanto da ornarsene il collo e le orecchie.Si fa strada dentro di lui la possibilità ditrovarsi di fronte al regno di Cibola edelle Sette Città. Mito possente, comeafferma Bartolomé de Las Casas,l’immaginario collettivo spagnoloricordava quei sette vescovi sfuggitiall'invasione araba che dal Portogalloandando verso ovest fondarono suun'isola sette città. Leggenda che si puòanche connettere con le Sette Caverneda cui sarebbero uscite le sette tribùnahua e la realtà della confederazionezuni formata da sette pueblo.Manda Esteban a nord dicendogli difermarsi se avesse incontrato una terragrande e ricca e di avvisare tornandoindietro o mandando qualche indio.Un indio ritorna col messaggio diEsteban.«Egli affermò e disse che in questaprima provincia vi sono sette città moltograndi; tutte sotto un signore e congrandi case di pietra ... di due, tre pianie quella del signore di quattro ... e nelle

Le città d'oro di Cibola e i sogni diun francescano

Marco da Nizza, un francescano sayota, abbaglia-to dal mito dell'Eldorado causa la prima entrataspagnola nel Sudovest.

Testimonianze di viaggio

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facciate delle case principali moltilavori di pietre turchesi delle quali disseesservene in abbondanza».Il viaggio prosegue sulla strada giàpercorsa da Esteban; Marco da Nizzariceve altri messaggeri che gli indicanoin Cibola la prima città che avrebbeincontrato, la prima delle sette e gliparlano di altri regni chiamati Marata,Acus e Totanteac. Gli indigeni continua-no a trattarlo bene.«E mi portavano ammalati da curare ecercavano di toccarmi l’abito e io me neandavo citando loro il Vangelo».Il frate prosegue, nella sua relazione, ilsuo inseguimento di Esteban e continua,come continue sono le notizie positiveche gli vengono trasmesse durante il suocammino, continua a prendere possessodelle terre evangelizzate in nome di

Santa Madre Chiesa e di Sua Maestàpiantando due croci.La ricostruzione del viaggio, nonostantela relazione precisa assume ad un certopunto il senso di un sogno, Marco arrivalentamente a Cibola, ma non vi entracome scacciato dai cattivi auspici (lamorte per mano indiana di Esteban), mala descrive come vista dall'alto facendonotare cose difficili da appurare eparagonandola (... la popolazione èmaggiore di quella di Città del Messi-co…) alle città conosciute in quel tempoe considerate grandi. Impossibilitato aentrare torna indietro per raggiungereFrancisco Vasquez de Coronado inNuova Galizia, ma prima si ferma aprendere possesso di «una grande vallericca d'oro», le solite due croci, e allafine ritorna a Compostela, la capitale

della Nuova Galizia, dove incontra ilGovernatore; qui si ferma e attendeordini.Riproverà un’altra volta a raggiungereCibola insieme a Coronado, ma laspedizione sarà disatrosa e il frate siammalerà di un morbo che lo accompa-gnerà fino alla morte.La fusione del disegno politico e delloscopo religioso creano un'immagineutopica anche se ancorata alla realtàlocale. Per Marco da Nizza trovarenuove genti da evangelizzare significavaproprio la realizzazione di quella utopiafrancescana di una chiesa millenaristicanel Nuovo Mondo.Il nostro frate sayota, nato a Nizza nelDucato di Savoia, dopo le sue tormenta-te e splendide avventure alla ricerca diun sogno, morirà e verrà sepolto nelConvento di Città del Messico nel 1558.

Kachina Saiyatasha o Sacerdote della Pioggia del Nord o Corno Lungodegli zuni.A p. 31: Ritratto di fantasia di Esteban.

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La prima entrada spagnola nel mondo pueblo si può far risalire alla sfortunata spedizione di Pamfilo deNarvaez che nel 1528 aveva tentato di conquistare la Florìda. Il naufragio sulla costa del Texas, pressoGalverston, lasciò quattro sopravvissuti: Alvar Nuñez Cabeza de Vaca, Andres Dorantes de Carronca,Alonzo de Castillo y Maldonado ed Esteban, un moro di razza nera schiavo di Carronca. Nel loro viaggio pertornare nella Nuova Spagna (Messico) essi furono catturati da indigeni ostili da cui fuggirono solo per esserecatturati da altri nativi. In questo girovagare essi spesero alcuni anni attraversando il Texas, il Rio Grande delNorte e il Chihuahua finché, allo stremo, giunsero a San Miguel de Culiacan il 1° aprile 1536. Essi erano statilontani dalla civiltà spagnola per ben otto anni perciò, narrando le loro avventure, fecero sì che l'immaginazio-ne sopraffacesse il buon senso gonfiando parecchio le loro storie. Essi descrissero grandi villaggi ricchi dimetalli preziosi che divennero ben presto le miracolose Sette Città d'Oro di Cibola, l'Eldorado del NordAmerica che baluginava nel lontano settentrione oltre le sabbie infuocate del deserto del Sonora e i densicumuli di polvere sollevati da milioni di capi di bestiame bovino chiamati cibolos (bisonte). Questo sognoinfiammò gli animi: per quante disastrose spedizioni si fossero lanciate ce n'erano a sufficienza di fortunateper spronare gli arditi e gli avidi. Questi racconti furono l'occasione per il Viceré Don Antonio de Mendosa pernominare un capo spedizione che verificasse il mito: fra Marco da Nizza che, col comando, si guadagnò

anche l'odio e l'invidia dei soldati mercenari che doveva guidare.Come compagno egli volle Esteban, il sopravvissuto schiavo moro di Azamore checomprò da Carronca, «per il servizio di Dio e il bene del popolo». Questo gruppopartì da Culiacan nel marzo del 1539 e per la Settimana Santa essi erano giunti aVacapa. Qui il frate si fermò, si dice irritato dalla condotta del moro che stava sfug-gendogli di mano e cominciava a farsi una corte di fanciulle indigene. Per risolverela questione Fra Marco decise di inviare Esteban in avanscoperta con delle indica-zioni precise. Il moro doveva rispedire indietro una croce: se non vi era nulla diimportante la croce doveva essere grande un palmo, se vi era qualcosa, dovevaessere grande due palmi e se, infine, vi erano ricchezze paragonabili a quelle dellaNuova Spagna, la croce doveva essere davvero imponente.Quattro giorni dopo la partenza un servo indio tornò indietro dal frate portando unacroce grande quanto lui e narrando, allo stupefatto religioso, dell'incredibile e ric-chissimo mondo che avevano scoperto, un mondo ricco di oro e turchese.

L'arrivo di Esteban a "Cibola" così viene immaginato da Ralph E. Twitchell ora agli Spanish Archives of NewMexico: «Egli portava una zucca decorata con due campanelle e piume, una rossa e una bianca, mandavamessaggeri di fronte a sé che mostrassero la zucca come simbolo di autorità. Egli era accudito da un grannumero di belle fanciulle che aveva aggregato [rapito?, N. d. T] durante il viaggio, ostentava gioielli di turchesee gli indigeni che erano con lui lo credevano talmente potente da non temere nulla finché fossero rimasti sottola sua protezione». Tuttavia quando il gruppo giunse al villaggio zuni di Hawikuh, una delle Sette Città diCibola, gli fu vietato l'ingresso. A questo punto non ci sono più chiare notizie di ciò che accadde perché gli zunifecero in modo che si perdesse ogni traccia di Esteban, ma leggende indiane raccontano che egli offese gliZuni ancora prima di giungere al pueblo inviando loro lo "scettro" fatto con la zucca e le penne rossa e bianca.Gli Zuni gli inviarono a dire che sapevano che uomo fosse e che non si provasse ad entrare in città, ol'avrebbero ucciso. Esteban peggiorò la situazione chiedendo doni e donne, come tributo, e minacciando gliZuni con l'affermazione di essere solo l'avanguardia di una più grande spedizione militare. Udito ciò i capi zunidecisero di ucciderlo e di farlo a pezzi cosicché non potesse riferire ai soldati e non ne restasse traccia.Alcune leggende affermano che fu mangiato per impadronirsi del suo potere.Così il primo uomo bianco che i Pueblo videro fu un nero: Esteban. Ancora oggi nel Pueblo di Jemez unadanza raffigura due personaggi, uno porta un teschio bianco in testa e una corda da saio alla vita, è FraMarco da Nizza, l'altro invece ha in testa una pelle di pecora, che rappresenta i capelli crespi, e la faccia tintadi nero, ha anche un tamburo che batte mentre il frate avanza danzando.Alcuni pensano anche che Chakwaina, il kachina guerriero zuni presente anche tra gli Hopi, sia uno spiritosincretistico che ha incorporato anche delle caratteristiche di Esteban come i capelli crespi e il grande potereguerriero. Chakwaina, tuttavia, è una gigantessa guerriera zuni, il cui cuore risiede nel sonaglio magico cheessa tiene in mano.

Esteban, lo schiavo moro

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Sopra a sinistra: Statuetta della Colle-zione Bottacin, Padova, in cui sono rico-noscibili le commistioni tra il dio Quet-zalcoatl e la Vergine di Guadalupe.Sopra a destra: Nicolò Bottacin, in unafoto conservata presso l’archivio dellaCollezione Bottacin a Padova.A fianco: Massimiliano d’Asburgo, im-peratore del Messico.

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N° 10

Mario Sartor

Ci sono, nei nostri musei concepiti comedepositi di materiali pregiati, o comescantinati di crosta e rottami, di libriammuffiti e cornici sgangherate, doveanche la luce elettrica è negata o pocoefficace, inattesi incontri, che fannobeato l'investigatore - storico, numisma-tico, bibliofilo o mercante che sia.Ci sono anche stanze-casseforti blindatedove il cancro del rame corrodecomunque le monete, e dove, gelosa-mente, si custodiscono in vetrine di nocecimeli massimilianei e vasi «aztequi».È un’emozione da provare.Ma è una storia vecchia di secoli. Iromani si fecero eseguire copie di operegreche classiche ed ellenistiche nelmomento in cui cominciarono adapprezzare la cultura greca, che tantopreoccupava Catone. Si tratta indubbia-mente di una svolta culturale elitaria,destinata in molti casi a diventare unamoda alquanto generalizzata, addiritturastucchevole, che abbracciava non solol'imitazione delle opere d'arte, ma ancheil costume, la lingua, il tratto dellaconversazione; «Grecia capta...». Mal'imitazione era finalizzata; vi era unaidentificazione più vasta, la ricerca diuna sofisticazione del gusto che tocca ilvertice del circolo degli Scipioni edinteressa d'altra parte anche le notecaustiche ed amene della commedia.Verre da parte sua saccheggiava laSicilia, ed è un peccato che i Siculi non

abbiano pensato a rifilargli qualchepatacca.Il nostro Rinascimento vide e stravideper l'antichità classica, e per le rarità daWunderkammer, stanco evidentementedell'epoca che stava superando e cheabbiamo, non a caso, chiamato Medioe-vo. Ma, fin qui, siamo nell'ambito diproiezioni culturali, di fascini intellettua-li esercitati e subìti all'interno di con-giunture storiche e artistiche singolari, incui l'osmosi prima ancora che sceltadecisa, determina già un futuro orienta-mento.La chinoiserie provoca l'interesse difasce sempre più larghe di fruitori delsuperfluo, fino a divenire sinonimoquasi di ogni esotismo orientaleggiante,investendo dal secolo scorso ai nostrigiorni generazioni su generazioni diammaliati e spesso disinformatiacquirenti, collezionisti, amatori edestimatori.La Collezione Bertarelli, al CastelloSforzesco di Milano, ad esempio, hacustodito con cura un lacerto che apparedescritto nella scheda di pertinenzacome un foglio di codice precolombia-no, ma che si è rivelato essere un falsopalese, costituito da un foglio di libroincollato su pelle di porco. Si trattanient'altro che di un foglio strappatodalla riproduzione del Códice Colombi-no pubblicato in Antiguidades Mexica-nas a Messico nel 1892. L’ignaroamatore di esotismi acquistò la rarità perbuona e, come tale, entrò nella Collezio-

ne Bertarelli.Fu così che anche Massimilianod’Asburgo, prima e dopo la lungacrociera - che ebbe più contornidiplomatici e culturali che quelli diun'esercitazione militare - compiuta tra il1857 e il 1859 con la nave da guerra"Novara" intorno al mondo, visitò conuna curiosità in gran parte genuina varielocalità di notevole interesse archeologi-co. Lo testimoniano abbondantemente lenotevoli collezioni del VölkerkundeMuseum di Vienna, quella di Miramaree il tempo dedicato alle visite e alleosservazioni, come si evince dai suoiDiari, e dai doni che fece ai suoi amici1.E fu così che - sulla scia di altri ascen-denti della Casa d’Asburgo, quando nel1864 divenne imperatore del Messico -si diede a raccogliere un'abbondantequantità di anticaglie messicane cheerano destinate a rendere pingui gliallestendi musei, cui, ahimé, non potécontribuire più di tanto, stroncato dallaraffica di Queretaro nel 18672.Ma la mole di ciò che si può visitare aVienna è indicativa delle buoneintenzioni; un po’ meno della qualità.Christian Feest osservava che lacollezione messicana di Massimiliano alVölkerkunde Museum raccoglie in totale187 pezzi (più altri 4 al KunsthistorischeMuseum), di cui 24 sono sculture inpietra di grandi dimensioni, 101 sonooggetti in pietra di dimensioni piùpiccole, due oggetti coloniali di metalloe 60 ceramiche. Queste ultime, -

Souvenir d'«autore»

La collezione Bottacin al Museo Civico di Pa-dova comprende alcuni dei doni inviati dall'im-peratore del Messico all'amico.

Collezioni museali

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HAKOMAGAZINEannotava lo studioso austriaco - adeccezione di cinque pezzi, sono delleimitazioni; ma forse questa non è laparola adatta per definirle, perché essepossono venire considerate esempi diuna fiorente arte popolare il cui scopoera quello di entusiasmare un pubblicodi viaggiatori non esperti in fatto d'arte alpunto tale da spingerli ad acquistareoggetti “antichi”, di basso prezzo, maritenuti di grande valore3.Indubbiamente, la nostra proiezioneculturale di uomini del XX secolo, ci faconsiderare tali oggetti come prodotti diuna «fiorente arte popolare», nonsconosciuta a Gemelli Careri sul finiredel XVII secolo4, ed incentivatasicuramente da quei coloni, ex conqui-statori, encomenderos, proprietari diminiere ed altro che sollecitarono i lorosudditi indios a produrre oggetti secondole loro tradizioni per essere inviati inEuropa già sul finire del XVI secolo perstupire col mostruoso, il diverso,l’esotico, i parenti e gli amici rimasti inpatria.Già a quell’epoca il mercato delleanticaglie autentiche era entrato in crisiper le distruzioni operate dai religiosinell'opera di evangelizzazione e dai laicinella furia iconoclasta che accomunòbuona parte del mondo occidentale nelXVI secolo.Senza dubbio, a fianco di un’esigenza diriprodurre ciò che era andato distruttoper mano dei conquistatori, per darecontinuità alle proprie tradizionireligiose e culturali, gli indigenitrovavano allora delle motivazioniestrinseche, supportate da fattorieconomici, che li spinsero, con alternefortune, a nutrire un consumo interno(dimostrato peraltro dai testi sacri e bendocumentato)5, in via di riaffermazioneanche se apparentemente sgominato, peruna risorgente idolatria; ed un consumoesterno, i cui destinatari rimaseroimprovvidamente all’oscuro dellaprogressiva operazione di sincretismoreligioso e di eclettismo di forme cui siadeguavano gli indios.Il quartiere di Tlatelolco che videinsediarsi una valida scuola, centro dielaborazione culturale forse tra i piùcomplessi della Nuova Spagna perl’opera dei francescani e le attenzioni dialcuni tra i più illuminati viceré6, futeatro anche di questa produzione e diun fiorente mercato dell'imitazione fino

alle soglie del 1860, giusto appunto glianni a ridosso della presenza di Massi-miliano in Messico7.L’imperatore, i cui interessi spaziavanodalla botanica alla entomologia, dall'artedel giardino all’archeologia classica edall’egittiologia, non disdegnò neppure,quando si insediò in Messico, dioccuparsi amatorialmente delle antichitàmessicane. Diversa indubbiamente ladimensione del suo reale sguardo, più daimprenditore che ordina che da espertoche scava, da quello di Teobert Malerche, partito con lui per l'impresamessicana, diveniva uno dei primimassimi esperti europei nel settoredell'archeologia mesoamericana; diversaancora dalla dimensione di quel padreDominik Bilimek, cappellano militarepoi al servizio diretto dell’imperatore,che in due anni di permanenza messica-na raccoglieva una cospicua collezionedi antichità autentiche, per quantodecontestualizzate rispetto a luoghi e

strati di scavo8.Senza entrare nel merito della collezionedi Vienna, peraltro ben studiata edocumentata, si vogliono qui prenderein considerazione alcuni pezzi, appena15, appartenenti alla sezione Bottacindel Museo Civico di Padova.Nicola Bottacin, che tanto impulso diedeal Museo patavino, aveva conosciutoMassimiliano d’Asburgo in Trieste,dove risiedette negli anni della maturità,borghese ricco e rispettato, appassionatod’arte e, come Massimiliano, di botanicae di giardinaggio. La consuetudine conl'amico arciduca fece sì che questi,ormai imperatore, si ricordasse di lui nel1866, inviandogli i pezzi che costitui-scono il fondo “precolombiano”dell’attuale Museo Civico. Il dono,documentato da due lettere, unadell’imperatore, datata in Messico, 18giugno 18669, che gli annuncia laprossima partenza della cassa con glioggetti, l’altra del consigliere dilegazione Radonetz, datata in Vienna,18 giugno 1868, che gli annuncia laspedizione degli oggetti per corriere10. Aquelle date, e dal 1865, il Bottacin avevalegato in dono alla città di Padova tuttele sue raccolte; automaticamente neentrava a far parte anche quella dioggetti messicani, assieme ad alcunicimeli, una decorazione dell'Ordinedella Guadalupa concessagli daMassimiliano, alcuni oggetti personali diquesti ed altro ancora, di valore affettivoe d'interesse documentario più cheveniale11. Al «Messico fatale», comeviene definito in una pagina scritta per lecelebrazioni funebri del Bottacin (1876),si lega la vicenda di tutta la piccolacollezione massimilianea; ed appena uncenno va agli oggetti, definiti dall’orato-re «idoli e vasi degli Aztequi», direcente scoperti nel Messico, con unaconsiderazione che pertanto prescinda,logicamente dato il contesto, da qualsiasivalutazione critica, e che neppurelontanamente si pone il problemadell’autenticità12.Il primo a considerare scientificamentegli oggetti «archeologici» messicani fu ilCallegari, uno dei primi serii americani-sti italiani; nel 1907 scriveva, sia purecon qualche approssimazione, che su talioggetti pendeva il dubbio che si trattassedi imitazioni di manufatti aztechiprovenienti dai laboratori di Tlatelolco,particolarmente fiorenti, secondo la sua

Statuetta della Collezione Bottacin, Pa-dova, con elementi della rappresentazio-ne di Quetzalcoatl, del colibrì e con ladoppia V simbolo femminile.

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N° 10opinione, nel periodo 1860 - 187013.L’opinione del Callegari è tanto piùinteressante quando si consideri losviluppo degli studi in Italia a quelledate e le numerose incertezze che, ingenerale, avvolgevano i prodotti artisticiamericani. La lingua stessa con cui lostudioso scriveva il breve opuscoletto incui considerava gli oggetti, ovvero iltedesco, e la stessa scarsissima circola-zione della pubblicazione (appena 50copie) rendevano ardua l’informazioneche passava sotto silenzio fino ai nostrigiorni, anche nell'intermezzo del Ferrariche, riconsiderando la piccola raccoltanel 1963, la dava per autentica14. Lararità di oggetti di tale natura in ambienticosì fuori delle rotte più battute e di piùnormali approdi, come poteva esserel’ambiente patavino, faceva sì chevenissero tenuti gelosamente perautentici, o che, quantomeno, non sisollevasse su di essi il problemadell’autenticità. Tuttavia, ad un’analisiun po’ più attenta, che ci è stata consen-tita grazie alla disponibilità del conserva-tore del Museo Bottacin, appaionoevidenti tutte le sovrapposizioni culturaliche individuano quei pezzi come degliinteressantissimi falsi; non si puòneppure parlare di imitazioni; ed iltermine stesso falso risulta inadeguato.Si tratta, in sostanza, di una rielaborazio-ne di temi indigeni, mescolati a capric-cio dell'«artista», o certamente secondouna logica degli accostamenti chesfugge ai criteri ed alle ragioni culturalidelle forme e degli ornamenti rinvenibilinegli originali. Ma, di più, si tratta, in

qualche caso, di una sintesi di trattiiconologici indigeni e di forme europee,com'è evidente, per esempio in due tra leterrecotte più grandi, due vasi caraffed'ispirazione francese, XIX secolo,ornati con serpenti giustapposti suifianchi e maschera di divinità, forseQuetzalcóatl, al di sotto del beccuccio.In un altro caso, la sintesi è ancora piùformidabile, in quanto parrebbe trattarsidi una commistione tra la iconografia diuna divinità indigena - dato il soggetto,con tutta probabilità, ancora il dioQuetzalcóatl - e quella della Vergine diGuadalupe, con il suo ampio mantosplendente, secondo quei tratti ormaiclassici che l’hanno resa celebre, dallasua apparizione a Juan Diego nel 1531ai giorni nostri, e da allora estremamentepopolare in tutta l’America latina15.Viene quasi il sospetto - peraltro fondatonon solo su un’osservazione empirica,ma anche su studi etnoantropologici -che si sia ricercata di proposito unacommistione formale per illustrare unasovrapposizione di ruoli religiosi.Senza entrare nella descrizione detta-gliata di ciascun prodotto fittile, paretuttavia opportuno, proprio per leimplicazioni culturali che si dovrannotrarre, segnalare tra le altre una piccolastatuetta raffigurante una donnaaccoccolata, seduta sulle calcagna, conle punte dei piedi divaricate versol’esterno, in una posizione del tuttoanomala rispetto alla consuetudinariaseguita dagli indigeni. L’acconciaturaalta ed elaborata l’avvicina ad un’altrastatuina che rappresenta pure una donna

seduta in modo analogo e che, per idettagli ornamentali e i tratti che nedisegnano il volto, ricorda la dea delmais. Ancor più complessa e in certomodo strana, ma interessantissima,appare la statuetta raffigurante chiara-mente una divinità, in cui si assommanotuttavia gli elementi noti della rappresen-tazione di Quetzalcóatl con quellidell’uccello colibrì (huitzil, in nahuatl; eva ricordato che il dio patrocinatoredegli Aztechi e delle altre tribù chichi-meche era Huitzilopochtli), che losovrasta, quasi un elmo, ed infine con ilsegno del femminile - una doppiagrande V, al di sotto dei cerchi concen-trici.Sicuramente più fedeli ad una sensibilitàfigurativa indigena nell’ambito di unatradizione culturale degli altipianimessicani, fino a far sorgere il dubbioche si tratti di pezzi autentici, non certodi rilevante valore, ma di sicuro interessearcheologico, sono due oggetti raffigu-ranti rispettivamente una rana accovac-ciata, compatta nella forma, grigio-scuranella patina che la ricopre, che richiamanumerosi altri autentici, di dimensioni emateriali diversi, rinvenuti in alcunelocalità dell’altopiano, da Mexico aTenayuca, ad altre località ancora, bendocumentate nella presenza al “MuseoNacional de Antropologia e Historia” diCittà del Messico. Infine, uno dei pezzipiù grandi che, se precolombiano nonfosse, ne ha tuttavia alcuni elementiconnotativi ben chiari. Si tratta di unvaso tetrapode, con maschere in rilievoche si alternano a disegni realizzatiapparentemente per impressione di unostampo.Benché il parere di una esperta lo dia perautentico16, non va dimenticato chefrequentemente, ieri come oggi, gliindigeni si servirono di stampi trovatiaccidentalmente o in scavi di loroiniziativa per le loro falsificazioni. L’areadi provenienza di queste curiose edapocrife elaborazioni (tali sono, in ognicaso, nella stragrande maggioranza)probabilmente è quella canonica, giàindividuata per larga parte dellaproduzione ottocentesca. L’area, per cosìdire, di ispirazione culturale, e partantoformale ed iconografica, sarebbe daindividuarsi tra lo Stato di Guerrero e

Batrace, Collezione bottacin, Padova.

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noteQuesto articolo è apparso completo negli"Atti della Giornata di Studi: L'America-nistica Italiana e le Collezioni precolom-biane in Italia." Verona 20 aprile 1991,a cura di M. Sartor, Padova 1993.1 M. Marzari, Il giro del mondo della fre-gata "Novara", in "Massimiliano da Tri-este al Messico", Catalogo della Mostra,luglio 1986, a cura di L. Ruaro Loseri,Trieste 1986, e L. Crusvar, Sogni impe-riali e lontani orizzonti. Tracce esotichenelle collezioni di Massimiliano, ibidem.2 F. Valsecchi, Massimiliano d'Asburgo,cento anni dopo, Milano 1987 e B.Hamann, Sissi, Milano 1983.3 C. F. Feest, Massimiliano, Miramar e ilMessico nelle collezioni del Museo Etno-grafico di Vienna, da "Massimiliano daTrieste al Messico", Catalogo della Mo-stra op. cit.4 G. F. Gemelli Careri, Giro del mondo,Napoli 1699, vol V.5 M. Sartor, Introduzione al Libro diChilám Balám di Chumayel, Padova1989.6 D. Robertson, Mexican ManuscriptPainting of early Colonial Period, TheMetropolitan Schools, New Haven 1959;G. Tovar de Teresa, La ciudad de Mexicoy la utopia de los Mendoza, Mexico 1987.7 Cfr. L. Batres, Antiguidades mexicanas

Morelos, forse anche in Toluca o inMezcala17, più precisamente; in ognicaso, nell’ambito più vasto di quell’areadegli altipiani che fu la più proficua edomogenea in fatti culturali tardoprecolombiani e coloniali18. Rimane aquesto punto una considerazione finale.Qual è il valore di questi prodotti, unavolta tolto quello, scontato, di cimelimassimilianei?Indipendentemente da altri fattori,affettivi e cronachistici per cui siinseriscono all'interno di un Museod’una città universitaria, suscitandoperaltro fino ad oggi scarsa eco, e cheancora continua ad ignorare per la suagran parte ciò che può significare ilmondo ricchissimo dell’Americanistica,il valore forse più grande lo assumonodal punto di vista della storia delcollezionismo e puntano l’accento sullepersonalità stesse non solo del mittente,Massimiliano, ma anche del destinata-rio, il Bottacin; e, in generale, sottolinea-no come nel corso dei secoli, dallecollezioni borgiane di Roma a quellemedicee di Firenze, con quelle interme-die, cospiane, bolognesi ed alcune altre,vi sia stata una continuità ora sotterra-nea, ora emergente di accostamentoammirato, se non di conoscenza, al

mondo esotico d’oltre Atlantico, che sirisveglia a tratti da un letargo perprendere le ambigue strade che portano

falsificadas. Falsificacion y falsificado-res, Mexico 1967 (pp. 7, 24).8 C. F. Feest, Massimiliano.., op. cit. ; A.Romano, Presentazione a C. L. Ragghianti,L. Ragghianti Collobi Museo Nazionaledi Antropologia, Milano 1970.9 Cfr. Copia dell'Inventario degli oggettid'arte, di numismatica, ecc e dellemoìbiglia esistente nel museo Bottacin, atutto il 15 settembre 1876. Compilato daL. Rizzoli, Conservatore del suddetto Mu-seo, Padova, Museo Civico, ogg. n. 39c.10 Lettera di Radonetz, cit. in G. V. Callegari,Die Maximilianische Sammlung in MuseumBottacin, Padova 1907.11 Copia dell'inventario, op. cit.12 Discorso letto sulla bara dal signor An-gelo Sacchetti, in A. Carcassonne, Cenniintorno alla vita di Nicola Bottacin, Tri-este 1877.13 Cfr. G. V. Callegari, op. cit.14 A. Ferrari, Un'amicizia oltre la morte.Massimiliano d'Austria e Nicola Botta-cin., "Le Venezie e l'Austria", anno II, n.3 (1963).15 Cfr. J. Lafaye, Quetzalcoátl y Guada-lupe, (1974), Mexico 1985.16 Opinione della prof. Durdica Ségota,docente di Storia dell'Arte messicana,presso la Universidad Nacional Autónomade Mexico.17 Interessanti le osservazioni condotte daBernal e Gendrop a proposito di que-st'area. Cfr. I. Bernal, L'arte precolom-biana dell'America Centrale, Firenze1971.18 Devo essere grato per la loro cortesia eper i loro preziosi suggerimenti in propo-sito a Durdica Ségota e Maria Areti Hersdell'Instituto de Investigaciones Estéticasdell'Universidad Nacional Autónoma diMessico.

oggi, con lo stesso aereo, verso laKankún dei ricchi villeggianti e deipataccari e gli approdi un po’ piùscomodi ma culturalmente affascinantidei molti siti archeologici noti agliaddetti ai lavori.

Divinità femminile azteca, VoelkerkundeMuseum, Vienna.

Vaso tripode a brocca a forma di anima-le fantastico, Collezione Bottacin, Padova.

A p. 37: Monumento alla regia Nave Ita-lia con una pietra portata dal MonteGrappa.

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N° 10

Chiara Berti e Irene Delfino

«Iddio è stato ingiusto perché ha fattol’uomo incapace di poter viveresempre coqueando. Preferisco unavita di dieci anni con la coca ad unadi secoli senza coca».Il continente americano con le sueinnumerevoli specie animali evegetali, sconosciute in Europa,esercitò un notevole fascino sugliscienziati e gli intellettuali positivistidell’Ottocento. Emulo di VonHumbolt che agli inizi del secoloesplorò il bacino delle Amazzoni,dell’Orinoco e del Rio Negro sia dalpunto di vista naturalistico cheetnografico, Paolo Mantegazza,spirito avventuroso tanto che diciot-tenne partecipò alle Cinque Giornatedi Milano, conseguita la laurea inmedicina a Pavia, anche per motivi disalute, inizia una serie di viaggi che loporteranno a stabilirsi a Salta (Argen-tina) dopo aver visitato i paesi delQuadrato de Oro. Mantegazza facevaparte del cenacolo positivista italiano,tra cui spiccavano Carlo Erba,Giovanni Polli, Raffaele Valieri, e vaconsiderato uno dei pionieri italianied europei della moderna psico-farmacopea, ovvero di quella brancadella medicina che studia l’usomedico e antropologico delle droghe.Benché Mantegazza si interessasse atutte le sostanze psicoattive, che tentòdi classificare in modo scientifico,

precedendo di sessant’anni la famosaclassificazione di Lewis Lewin inPhantastica, il suo nome è legatoalla coca grazie a un suo scritto,pubblicato dopo il suo ritorno inItalia, intitolato Sulle virtù igieniche emedicinali della coca e sugli alimentinervosi in generale (1859). Que-st’opera segue La fisiologia delpiacere, pubblicato a Parigi nel 1854e indica il preciso orientamento

filosofico degli studi di Mantegazza:quello positivista edonistico. Divenu-to professore ordinario di Patologiagenerale a Pavia, dove crea il primolaboratorio italiano di questa speciali-tà, lo studioso diventa senatore delRegno d’Italia. In questo periodo gliinteressi antropologici si fannosempre più forti tanto che, divenutoper i suoi scritti professore di Antro-pologia a Firenze, fonda col Zanetti il

Mantegazza e il mito europeo della coca

Dai circoli positivisti all'edonismo del superuomo.

Viaggiatori e scienziati

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HAKOMAGAZINEprimo Museo di Antropologia e laSocietà Antropologica Italiana.Insieme al dottor Felice Finzifonda anche, nel 1870 l’archiviodi Antropologia ed Etnologia.Muore a S. Terenzio di Lerici, LaSpezia, nel 1910.Come abbiamo detto, malgradogli interessi eclettici, il nome diMantegazza resta indissolubil-mente legato all’uso della coca,che egli aveva visto e personal-mente sperimentato in SudAmerica.«L'indiano porta seco nellachuspa (borsa per le foglie dicoca) una certa quantità di fogliedi coca e saluta con essa il dì chenasce e il sole che tramonta.…».La decisione di sperimentare su disé la droga gli fa descrivere ilpiacevole torpore, il desiderio dipiù vasti orizzonti, la voglia dicorrere e di gustare l’istante senzasprecare le energie acquisite («enoi accoccolati in noi»), ilgodimento di una forza interioreche non richiede di essere espres-sa, ma che apprezza la coscienzadi sé, finché dosi più alte condu-cono a un delirio estremo. Mondointeriore e mondo esterno siscindono irrimediabilmente ementre il primo prende il soprav-vento, non svanisce la coscienzadi sé, anzi, si rafforza, si arricchisce.La fantasmagoria ha inizio.Trasportato da questa fantasmagoriaMantegazza fu così convincente neisuoi scritti da trascinare un’interagenerazione di intellettuali europei.Nel suo scritto Uber Coca (SullaCoca) del 1884 Sigmund Freudinaugura la grande stagione medicadella coca, o meglio del suo derivatochimico, la cocaina e paga il suodebito a Mantegazza avvalorandone,tramite autosservazioni, le analisi e leconclusioni.«Il Mantegazza è un entusiasticoelogiatore della coca e adduce leprove delle sue molteplici applicazio-ni terapeutiche in casi clinici docu-mentati. Le sue relazioni hannodestato grande interesse, ma hannoottenuto scarso credito. Eppure nelMantegazza ho trovato tali e tanteosservazioni esatte che sono dispostoad accreditare anche quelle dichiara-

zioni che non ebbi l’occasione diverificare».Dopo una decina d’anni Freud“rinnegherà” le sue teorie, pubblican-do nel 1887 Beiträge Über dieAnwendung des cocain (Cocainoma-nia e cocainofobia), dove cerca dinegare gli effetti di tossicodipendenzae di stabilire un collegamento tra“siringa-ago” e “penetrazione-sensodi colpa”. La sua speranza di avertrovato la panacea per tutti i malicrollò, anche se il padre della psicana-lisi in privato rimase un cocainomanecome testimonia lo scritto del 1895Sogno sulle iniezioni di Irma.Un altro aspetto che Mantegazzasottolinea è quello edonistico:«La natura umana è fatta in modoche in ogni tempo e in ogni paese, dalgodere un piacere si passa facilmentead abusarne; e ciò avviene anche perla coca. Il vizio di coquear è anzi unodei più tenaci e invincibili che si

conoscano. Il coquero incorreggibileha sempre in bocca il suo acullico[bolo, N. d. A.] e solo si può vederlosenza di esso quando mangia. Spessodorme colla coca in bocca. Eglidimentica i propri doveri, la propriafamiglia e spesso toglie ai bisogniimperiosi della vita il tempo e ildenaro per dedicarsi in tutto e pertutto alla sua passione. Se la fortunanon lo ha fatto ricco, non lavora chequanto basta per comperarsi la fogliaprediletta, e ritirandosi nella solitudi-ne dei boschi e dei monti, vi rimaneper più giorni in preda al delirio chelo inebria di felicità».Non c’è dubbio che se la presentazio-ne della coca come l’elisir dellafelicità si rifà, in certo modo, ai mitidei conquistadores sulla “fontanadell’eterna giovinezza”, la suadescrizione del coquero è debitricedel positivismo lombrosiano circal’abbrutimento dei primitivi, il lorovizioso comportamento e la loroproverbiale pigrizia. «Il coquero siriconosce subito perché rassomiglia aun ruminante o a una scimmia che hanascosto nelle gote il frutto dell'orto».Non sorse il dubbio allo scienziatoMantegazza che l’uso della coca daparte degli indios fosse una necessitàvisti i bestiali ritmi di sfruttamento neicampi e nelle miniere, dove i turni didiciotto ore lasciavano l’operaio cosìstremato che egli neppure usciva dallegallerie. Fin dai tempi della conquistal’ostilità delle autorità religiosecattoliche, infatti, era stata messa insordina dalla necessità di pagare infoglie di coca il salario degli indigeni,pena l’esaurimento della forza lavoro.Quanto al vagare dell’indio nelleselve e le sierras, esso non è dovutocerto al “piacere”, ma piuttosto allanecessità di procurarsi frutta e tubericon cui sopravvivere.Le teorie del darwinismo socialelombrosiano, che bollano come vizioindigeno lo sfruttamento, consentonoall’intellettuale europeo di far usodella droga per scopi meramenteedonistici.D’Annunzio, Pitigrilli, i Futuristi,grandi estimatori della polverinabianca, contribuirono ad occultarne ivalori culturali etnici e quelli farma-cologici a favore del mito del supe-ruomo.

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N° 10

Alfredo Sereni

Nel Messico siamo rivatino abiamo trovato ni palia ni fienoabiamo dormito sul proprio terenocome le bestie che va a reposar

Da un canto popolare di Chipilo

Come altri paesi delle Americhe, ancheil Messico, verso la fine del secoloscorso, inaugurò una politica di immi-grazione, volta ad acquistare manod’opera straniera specializzata, chepotesse contribuire allo sforzo del Paesedi mettere a frutto le sue immensedistese di terre fertili. La famosa leggedei terrenos baldios, ossia dei terreniincolti, regalava o cedeva a prezziirrisori la terra a chi si impegnava alavorarla, senza tener conto del fatto chemolte di quelle terre incolte appartene-vano in realtà agli indios.Chipiloc, oggi Chipilo, a 13 km daPuebla, in lingua nahuatl vuol dire“luogo dove l’acqua scorre”. È il nomedel posto che il governo messicanodestinò ai coloni veneti, arrivati dalporto di Veracruz verso la fine di giugnodel 1882.«Il 30 giugno, per la precisione - diceAngel Zago Romani - E anche quelgiorno pioveva a dirotto, come oggi».Siamo a casa sua, seduti davanti a unabottiglia di mezcal fatto in casa, e fuoridiluvia, mentre Angel mi racconta lastoria di quella che è forse l’unicacolonia italiana in Messico ad aver

Chipiloc, Luogo Dove l'Acqua Scorre

Emigrazione

Un pezzo di Veneto nel Messico centrale.

conservato cultura, lingua e tradizionidella madrepatria. È il 10 maggio,giorno della mamma, e mentre parliamo

in casa si succedono le visite deinumerosi figli di Angel e Dominga. Ilpadre mi presenta a tutti, avverte che pur

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HAKOMAGAZINEessendo italiano non capisco il veneto, etutti si rivolgono a me in spagnolo. Matra di loro parlano un dialetto che mi fapensare di trovarmi nel trevigiano o nelbellunese, piuttosto che nel Messicocentrale. Anche i cognomi delle personeche mi vengono presentate mantengonol’illusione: Galeazzi, Berra, Zanella,Schievenin...La storia di Chipilo è povera di docu-menti. Esiste qualche articolo di giornalesull’arrivo del vapore “Atlantico” nelporto di Veracruz, i contratti del governomessicano con due agenzie di immigra-zione italiane, l’iscrizione su unaautentica pietra del Monte Grappa,mandata via nave da Mussolini, ilresoconto della visita di un ambasciatoreitaliano, alcuni anni dopo l’inizio dellacolonia, e poco altro. Ancora oggi nelvillaggio si conserva come una preziosareliquia una pubblicazione del 1927,intitolata: “Festa italiana delle Colonie diPuebla e Chipilo. Commemorazione del4 novembre. Bollettino dedicato aiseicentomila morti italiani nella granguerra”. Si tratta di una cinquantina dipagine, che contengono il proclama diguerra di Vittorio Emanuele, il bollettinodella vittoria del generale Diaz, undiscorso di Mussolini alla camera ealcuni appunti su Chipilo.Tuttavia, proprio perché è stata traman-data in modo quasi esclusivamenteorale, la storia di Chipilo ha il carattereavvincente di un’epopea, di cui Angelmi racconta i particolari salienti, tra unsorso e l’altro di mezcal. Io, dopo ilprimo assaggio del suo licor mexicàn,sono rimasto senza voce, e mi limito adascoltare, cercando di calmare ilbruciore alla gola con un bicchiere diacqua e limone.La parte più interessante del racconto èsenz’altro quella degli inizi, di quando icoloni, arrivati dall’Italia pieni di sogni edi speranze, si trovarono davanti questeterre rovinate da secoli di abbandono, edovettero rimboccarsi le maniche perriuscire a produrre non la sognataricchezza, ma almeno il necessario persopravvivere.«All’inizio la vita era dura - dice Angel -Molto dura. Se rimasero, fu solo perchénon potevano fare altro. Erano troppopoveri per tornare indietro».Tornare indietro, mi spiega poi, eraimpossibile anche per un’altra ragione.Il vapore ‘Atlantico’, che li aveva portati

in Messico, era talmente malandato cheaffondò subito dopo nel porto diVeracruz, tagliando, anche simbolica-mente, ogni possibilità di ritirata. Unaltro grosso problema era quellolinguistico. Oltre a coltivare le loro terre,i coloni avevano bisogno di lavorarecome braccianti dai latifondisti delluogo, e per quello era necessario parlarelo spagnolo. Il bracciantato creò anche,inizialmente, dei problemi di concorren-za con gli indios della regione, che finoa quel momento erano stati i soli a essereimpiegati in quel lavoro. I rapporti tra icoloni e gli indios tuttavia restaronopacifici, sebbene i primi coltivassero neiconfronti dei nativi un senso di superio-rità, razziale e tecnologica, che duraancora oggi. Gli indios non conosceva-no l’uso del concime, e i loro attrezzi dalavoro erano inferiori, soprattutto ilmachete, molto meno adatto a tagliare ilfieno della falce dei coloni. Inoltre,stando al racconto di Angel, vedevanogli italiani come invasori, e manteneva-no le distanze. I veneti fecero lo stesso, ecosì non ci fu quasi nessuna mescolan-za. I coloni restarono orgogliosamentearroccati nel loro villaggio, ai piedi dellacollina ribattezzata ‘Monte Grappa’,imparentandosi sempre più tra di loro, econservando il loro dialetto, le lorotradizioni, i loro capelli biondi e le lorodonne.«Una volta però hanno rischiato diperderle, le loro donne - interviene lasignora Dominga, moglie di Angel,interrompendo le sue chiacchiere con ifigli in visita dall’altro lato del tavolo -Raccontagli della rivoluzione».Io non riesco ancora a parlare, per viadella gola bruciata, e annuisco indirezione di Angel, per manifestare ilmio interesse ad ascoltare. Lui ingollacon indifferenza un altro sorso diliquore, e parte di nuovo.«È una storia che qui sanno anche ibambini - dice - La storia degli zapati-sti».Continua dicendo che ‘i veci’ nonsapevano nulla di Porfirio Diaz, ildittatore, e meno ancora di Villa, Zapatae Carranza, i rivoluzionari. Lorovolevano soltanto guadagnarsi da viveree stare in pace con tutti. Ma un giornodelle truppe zapatiste (che in seguitoZapata negò essere sue) tentarono diconquistare Chipilo per impadronirsidelle donne dei coloni. La rivolta fu

unanime e violenta. Trincerati sul‘Monte Grappa’, i chipilegni seminaro-no morti e feriti nelle file zapatiste,perdendo, dal canto loro soltanto unuomo, ucciso da un proiettile vagante.Un tal Jacobo Berra, parente dellamoglie di Angel, si distinse tanto nellabattaglia da meritarsi per tutta la vita ilsoprannome di Generale. E siccome letruppe di Carranza erano contro glizapatisti, i chipilegni diventaronocarranzisti, schierandosi per ironia dellasorte proprio contro quelli che combatte-vano per la distribuzione delle terre aicontadini.Comunque, col tempo e con il lavoro leloro terre si sono ingrandite, i loroformaggi sono diventati famosi in tutto ilMessico, e ora che l’allevamento nonrende più molto, a causa del crollo delprezzo del latte, i chipilegni si sonobuttati sulla fabbricazione di mobili.«Noi non ci rassegniamo - dice Angel,con la voce ormai rauca a forza diparlare e di bere - Non siamo come icicios».Cicios è il termine un po’ dispregiativocon cui i chipilegni si riferiscono ainativi. Da quello che ho saputo, Chipiloè uno dei pochi esempi di integrazioneriuscita tra indigeni e coloni. Finital’epoca dei latifondisti, adesso sono gliitaliani a dare lavoro agli indios, moltidei quali hanno persino imparato acomprendere, se non a parlare, il dialettoveneto. Alcuni, sfruttando l’esperienzafatta come operai salariati, hannocominciato a mettere su piccoli alleva-menti in proprio. Tuttavia, le parole diAngel testimoniano una distanza chenon si è mai accorciata.«Noi ci siamo fatti strada - aggiunge,mentre una raffica di vento spinge lapioggia contro il vetro della finestra -«Loro, nonostante tutto, sono semprerimasti peones».o

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N° 10

Patrizia Zelano Sirena*

I materiali esposti nel Museo delleCulture Extraeuropee Dinz Rialto diRimini sono stati finora oggetto di dueprincipali interpretazioni: quella antropo-logica e quella artistica. Ritengo, tuttavia,che oggi si possa aggiungere una nuovalettura degli oggetti che oserei definireetnologica, in quanto essi sono testimo-nianze tangibili di realtà lontane dallanostra, veicoli di concetti difficilmentecomprensivi a noi occidentali. Talireperti indubbiamente divengono mezziausiliari e immediati per la conoscenza ela valorizzazione delle culture definite«diverse». In tal modo questo museo puòtrasformarsi in strumento educativo perl'insegnamento della tolleranza neiconfronti di colui che viene definitol'«altro», della sua memoria storica edella sua cultura: ciò può indurre arivedere criticamente certi nostriatteggiamenti mentali e spiritualiconsolidati e irrigiditi e a porre infruttuosa e utile discussione il modusvivendi dell'uomo occidentale e le sueconvinzioni, anche religiose.Il museo è costituito da tre sezionidedicate, rispettivamente, all'Oceania,all'Africa e all'America precolombiana.La sezione «America precolombiana»comprende circa 600 reperti archeologiciprovenienrti dalle tre Aree archeologi-che-culturali interessate dalla Conquista

spagnola avvenuta nel XVI secolo etutte unite da stessi elementi culturaliancestrali quali, ad esempio, il culto delgiaguaro: l'Area Mesoamericana, l'AreaIntermedia, l'Area Peruviana che contapiù del 50% degli oggetti esposti.Incamminandosi lungo il percorso

espositivo di questa sezione, allestitonella suggestiva cornice di CastelSismondo, ci si imbatte in oggetti chenon devono venire considerati comeartistici, bensì artigianali nel sensonobile del termine, perché l'artigiano,presso i popoli precolombiani siconfigurava come colui che creava ilmezzo di comunicazione tra gli dei el'uomo, una sorta di taumaturgo diorigine popolare.Le forme plastiche, le proporzioni,l'iconografia dei manufatti , per noi cosìlontane ed inusuali, sono fonti eloquentidi informazioni storico culturali. Essesono intrise di valori magico-religiosiche ci conducono in realtà olistiche a noiremote.Anche una semplice visita occasionalein questo Museo può essere, per ilvisitatore un'opportunità per farecomparazioni immediate tra i repertiesposti: per esempio osservando lamaschera funeraria in alabastro prove-niente dalla famosa città templare diTeotihuacan (Messico, 450-750 d. C.;A.P. 377), se pur priva di ornamenti e dimateriali preziosi che solitamentevenivano incastonati nelle cavità oculari,e ponendola a confronto con la figurafittile della Cultura Quimbaya (Colom-bia, 1000-1400 d.C.; A.P. 429), con latesta antropomorfa del Veracruz centrale(Messico, 500-900 d.C.; A.P. 362), conla testina vascolare antropomorfa della

Incontri ravvicinati con l'«altro»

Una introduzione alla sezione «America preco-lombiana» del Museo delle Culture Extra-euro-pee Dinz Rialto.

Musei

Figura femminile, Cultura Nayarit, Mu-seo delle Culture Extraeuropee DinzRialto, Rimini.

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HAKOMAGAZINECultura La Tolita (Ecuador, 500 a.C. -500 d.C.; A.P. 445b) e infine con lafigura antropomorfa «cuchimilco» dellaCultura Chankay (Perù, 100-1450 d.C.;A.P. 506), risulta lampante che , pressole popolazioni di tutta l'Americaprecolombiana, era diffuso l'uso delladeformazione cranica. La deformazioneera ottenuta grazie all'ausilio di mezzimeccanici, quali tavolette di legno,cuscinetti, bende, posizionati e adattatisui crani dei bambini dalla nascita ai treanni e oltre, con risultati tipologicidiversi, come appunto appaiono neireperti presi in esame. Il motivo, ilperché questa operazione venissepraticata non è stato definito concertezza, però, molti studiosi lo identifi-cano come segno tangibile di distinzionesociale.Una sottosezione del settore «Americaprecolombiana» è dedicata a numerosiframmenti di tessuti peruviani, grazie aiquali ci si può addentrare ancora unavolta in un mondo nuovo di immagini edi colori. Percorrendo con lo sguardotutte le teorie iconografiche, si indivi-duano, si estrapolano, si comprendonole figure presenti sui broccati e sugliarazzi. Si realizza quanto anche il tessutofosse oggetto eloquente, carico disimbolismo e di significati, utilizzato sianell'ambito religioso, che sociale ebellico.Come è evidente il Museo offrenumerosi spunti culturali sia per ilprofano che per lo studioso, arricchen-doli entrambi.o

*Collaboratrice scientifica del Museo delleCulture Extraeuropee Dinz Rialto di Rimini

Il ruolo di un Museo deve continuamente confrontarsi con le nuove real-tà sociali e culturali del Paese senza comunque perdere di vista alcunicompiti istituzionali quali la tutela e la conservazione del proprio patri-monio.Al Museo spettano quindi un ruolo che tende sempre più a connotare ilMuseo come un Istituto di ricerca promotore e generatore di Cultura.Al Museo spettano quindi ruoli innovativi che il Museo può perseguirecon altre istituzioni interessate (Università, Biblioteche, Associazioni Cul-turali, ecc...) per contribuire ad una maggiore e migliore crescita cultura-le.In tale senso notevole è il contributo che possono dare i Musei dedicatialle culture extraeuropee. Come nell'esempio specifico europeo taleruolo può essere ricoperto dal Museo "Dinz Rialto" di Rimini per la co-noscenza delle Culture Extracomunitarie, ovvero le culture degli «Altri».Il patrimonio museale del Museo "Dinz Rialto" diviene così un supportostimolante per confrontarsi «Noi» con gli «Altri» per un reciproco arric-chimento.Si devono a questa nuova visione del «ruolo» del Museo le iniziativeche il Museo ha intrapreso in questi ultimi anni, mi riferisco ad esempioal Corso di aggiornamento per insegnanti dal titolo "Noi e gli altri" e ilconcorso letterario "EKS&TRA" rivolto a poeti e scrittori extracomunitari,giunto quest'anno alla terza edizione.Se il nostro Museo, e altri Musei similari, seguiranno queste nuove ten-denze, ritengo che contribuiranno in modo stimolante e determinantealla funzione della società multietnica del terzo millennio per la cui for-mazione tutti siamo chiamati a compartecipare sia a livello individualeed in particolare a livello istituzionale. (Maurizio Biordi, Dirigente dei Mu-sei Comunali di Rimini).

Alla scoperta degli «Altri» attraverso le opere delMuseo delle Culture Extraeuropee "Dinz Rialto" di

Rimini

Urna zapoteca, Museo delle CultureExtraeuropee Dinz Rialto, Rimini.