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GYÖRGY LIGETI, ÉTUDE N. 15 WHITE ON WHITE (1995)

Pietro Dossena

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With White on White I begin a third book of études; the piece is diatonic (almost exclusively white keys) and yet not tonal.

György Ligeti

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Indice 1. Le Études pour piano nell’arco della produzione ligetiana

p. 4

2. Analisi di White on White (1995)

p. 5

2.1. Prima parte

p. 5

2.2. Seconda parte

p. 13

3. Conclusioni riguardo a White on White

p. 19

4. White on White e gli Studi del III libro: l’ultimo Ligeti, tra canoni e inseguimenti

p. 20

Appendice

p. 22

Bibliografia

p. 24

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1. Le Études pour piano nell’arco della produzione ligetiana1 Dopo la composizione degli undici pezzi (ancora debitori dell’influenza di Bartók e Stravinsky) intitolati Musica ricercata nel 1950-53, trascorsero quasi 25 anni prima che Ligeti si dedicasse di nuovo al pianoforte, fatta eccezione per le Trois Bagatelles pour un pianiste del 1961. Nel 1976, mentre stava ancora scrivendo l’opera Le Grand Macabre (1974-77), compose tre pezzi per due pianoforti – Monument, Selbstportrait, Bewegung – che segnano una nuova strada nella sua personalissima ricerca e gettano le basi della produzione successiva. Il secondo dei tre pezzi («Autoritratto con Reich e Riley (e Chopin sullo sfondo)») è dichiaratamente ispirato alla musica dei minimalisti americani, che affascina Ligeti per l’importanza accordata al parametro ritmico. Bewegung è invece una passacaglia, forma che ritornerà in due pezzi per clavicembalo degli anni immediatamente seguenti (Hungarian rock e Passacaglia ungherese, entrambi del 1978), nei quali si approfondiscono le possibilità contrappuntistiche consentite dalla coesistenza di ripetizione e invenzione. Interessante, nell’ottica degli sviluppi futuri, è il processo algoritmico sperimentato in Monument, le cui regole compositive (a differenza di ciò che accade in pezzi seriali come Structures Ia di Pierre Boulez) restano in secondo piano, nascoste sotto a complesse stratificazioni della scrittura, come nei disegni di Maurits Cornelis Escher. L’inizio degli anni ’80 coincise con un periodo di difficoltà creativa. Ligeti si trovò a fare i conti con una commissione impegnativa (un Concerto per pianoforte e orchestra che venne ultimato solo nel 1988) e con la crisi dell’avanguardia musicale, ormai diventata il nuovo establishment. Determinato a non diventare uno stanco ripetitore di se stesso e, insieme, a non seguire la corrente del postmoderno (orientata al recupero di forme e stilemi risalenti a un secolo prima), nel 1982 realizzò quella che a un ascolto distratto può sembrare un’opera citazionista e tradizionalista: il Trio per corno, violino e pianoforte. Si tratta infatti di un omaggio a Brahms e al linguaggio romantico, dove però compaiono elementi del tutto personali e legati alle scoperte più recenti: l’utilizzo degli armonici naturali del corno crea effetti lievemente deformanti e stranianti, dati dalla sovrapposizione di diversi sistemi di intonazione e accordatura (tecnica già praticata in pezzi quali Ramifications del 1968-69); l’organizzazione ritmica risente a tratti dell’influenza di musiche popolari extraeuropee (come quella caraibica), studiate da Ligeti proprio al principio degli anni ’80. Le Études per pianoforte sono state composte a partire dal 1985. Il primo libro (6 Studi) è precisamente del 1985; il secondo (8 Studi) è stato terminato nel 1994; il terzo, iniziato nel 1995 con White on White, conta 4 Studi, di cui l’ultimo risale al 2001.2 Le altre composizioni principali degli anni 1985-1994 sono il Concerto per pianoforte e orchestra già citato, i Nonsense Madrigals per coro a cappella a 6 voci (1988-93), il Concerto per violino (1989-93) e la Sonata per viola sola (1991-94). In questi pezzi si ritrovano alcune delle idee attorno a cui ruota l’immaginario dell’ultimo Ligeti: diversi temperamenti in lieve contrasto tra loro (Concerto per vn.); rivisitazioni di forme del passato (concerto, sonata, madrigale; il secondo movimento del Concerto per vn. si intitola significativamente Aria, Hoquetus, Choral); armonia né tonale né atonale, in cui trova posto un diatonismo di ascendenza popolare mitteleuropea (Concerto per vn.); poliritmia e processi ripetitivi (Concerto per pf.). Ma sono proprio gli Studi per pianoforte il territorio di confluenza di molte suggestioni di provenienza diversa: la poliritmia delle tribù dell’Africa centrale, Claude Debussy, Bill Evans, Conlon Nancarrow, la geometria frattale di Benoît Mandelbrot, Thelonious Monk, le illusioni ottiche di M. C. Escher… questi elementi e altri ancora interagiscono e, mescolandosi in reazioni chimiche provocate dall’autore, si trasformano in oggetti multiformi, tutti accomunati però da un artigianato riconoscibile e personalissimo. 1 Il seguente paragrafo è stato redatto tenendo presente soprattutto l’interpretazione critica di Paul Griffiths, autore della voce Ligeti, György (Sándor) del The New Grove Dictionary of Music and Musicians, seconda edizione, a cura di Stanley Sadie e John Tyrrell, Londra: Macmillan, 2001. 2 Secondo quanto afferma Karol Beffa in un programma di sala (concerto del 23-5-2003 alla Cité de la musique, Parigi), Ligeti dichiarava di avere ancora idee sufficienti per scrivere almeno altri 3 Studi.

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Passando in rapida rassegna gli Studi dei primi due libri, li possiamo dividere in varie categorie, seguendo la classificazione proposta dal compositore e musicologo Karol Beffa: abbiamo quindi uno Studio quasi interamente costruito attorno al procedimento tecnico che gli dona il titolo (Touches bloquées), degli Studi lenti dalle sonorità iridescenti (Cordes à vide, Arc-en-ciel, En suspens), altri essenzialmente ritmici e coreografici (Fanfare, Fém), altri ancora che magnificano un processo declinandone tutte le varianti (Désordre, Der Zauberlehrling), alcuni che, giocando sulle illusioni acustiche, danno la sensazione di una salita o di una discesa ininterrotta (Vertige, L’escalier du diable, Colonne infinie), alcuni che creano effetti sorprendenti mediante la sovrapposizione di più strati ritmici (Automne à Varsovie, Galamb borong, Entrelacs). 2. Analisi di White on White (1995) Il colore dei tasti del pianoforte ha spesso rappresentato uno stimolo creativo per i compositori. Il primo esempio in tal senso è probabilmente lo Studio op. 10 n. 5 di Chopin, dove la m.d. suona esclusivamente tasti neri. Le differenze cromatiche tra bianchi e neri corrispondono del resto a una precisa divisione della scala in due sottoinsiemi, l’uno diatonico (tasti bianchi), l’altro pentatonico (tasti neri). Giochi di opposizione tra tasti bianchi e neri si ritrovano ad esempio negli Studi di Debussy (cfr. il n. 1), così come in alcuni Studi dello stesso Ligeti: il caso più emblematico è forse Désordre, in cui le due mani si muovono su tasti di colore diverso, realizzando così una bipartizione tra due livelli non solo acustici, ma anche spaziali, poiché i tasti neri sono collocati più in alto e in avanti rispetto ai bianchi. In White on White, tuttavia, all’idea di ‘nero su bianco’ si sostituisce quella di ‘bianco su bianco’, sporcato lievemente solo nel finale: la coraggiosa scelta di Ligeti è infatti quella di servirsi solo dei tasti bianchi. È possibile scrivere musica oggi utilizzando solo la scala di do maggiore? 2.1. Prima parte Lo Studio White on White si articola in due grandi parti. La prima è un «Andante con tenerezza» molto dolce e spoglio, tutto omoritmico, a valori costanti di minime. Si tratta di un canone in cui l’antecedente (eseguito dalla mano destra) è costituito da note singole o bicordi; il conseguente (affidato alla m.s.) ripete l’antecedente all’ottava inferiore, partendo a una minima di distanza, cioè insieme alla seconda nota dell’antecedente. Il canone è rigoroso, sia dal punto di vista delle altezze (infatti il conseguente non varia mai le altezze dell’antecedente), sia da quello ritmico (infatti le durate costanti delle note/bicordi dell’antecedente sono preservate nel conseguente). Solo alla fine dell’Andante le durate vengono modificate, ma si tratta semplicemente di un rallentando scritto, in cui viene mantenuta la sincronia di antecedente e conseguente, senza sfasamenti ritmici. La forma dell’Andante è chiaramente tripartita, di tipo A A’ A: le prime 40 minime costituiscono una prima sezione A, a cui fa seguito una variazione di A che chiamiamo A’, pure formata da 40 minime; infine, ritorna A, con una piccola variante rappresentata dal rallentando scritto. Analizziamo ora la sezione A. Sezione A Consideriamo dapprima la sola voce superiore dell’antecedente (es. 1), che del resto risulta in evidenza all’ascolto perché è la più acuta. Nonostante Ligeti avverta che le linee tratteggiate sono meramente orientative, non stanghette di battuta vere e proprie, possiamo però servircene per suddividere questa sezione A in varie sottosezioni: abbiamo quindi 5 sottosezioni, ognuna delle quali è composta da 8 note/bicordi. Tale suddivisione ha una motivazione musicale, infatti le sottosezioni 1 e 3 presentano il medesimo profilo melodico, costituito da un’alternanza di moti intervallari discendenti e ascendenti. Le sottosezioni 2 e 4 invece non presentano particolari

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analogie: si possono notare solo alcuni frammenti in moto contrario, ma questo dato sembra poco significativo. La sottosezione 5 consiste in un moto melodico ondulato molto semplice, formato dai due frammenti 1/x (inversione del frammento melodico discendente x della sottosezione 1) e x. La struttura di A è quindi la seguente: a b a’ c d, dove d è una sorta di espansione della seconda metà di a.

Osserviamo ora la sezione nella sua interezza, senza limitarci alla voce superiore. Ligeti prescrive di sollevare e subito riabbassare il pedale di risonanza in corrispondenza di ogni minima: l’ovvia conseguenza è che non c’è silenzio né sovrapposizione tra due accordi successivi. L’antecedente è caratterizzato dalla continua alternanza di bicordo e nota singola. Esprimendo questa semplice constatazione in termini di densità verticale (o armonica), ogni bicordo si può rappresentare con il numero 2, ogni nota singola col numero 1. Poiché si è detto che il pedale di risonanza viene usato in modo ‘pulito’, la densità armonica in ogni istante è data semplicemente dalla somma delle note suonate in quell’istante dalle due mani. Dato che il conseguente segue l’antecedente ad una minima di distanza, se l’antecedente eseguisse sempre alternativamente 2 note e 1 nota, la densità complessiva sarebbe costante e pari a 2 + 1 = 1 + 2 = 3. In realtà, Ligeti introduce delle piccole deroghe a questa elementare regola: nella sottosezione b l’antecedente inanella una sequenza di tre 1 consecutivi, a cui seguono due 2. Per la prima volta quindi si ottiene una densità totale pari a 2 o a 4 (es. 2). Di conseguenza, la sottosezione a’ presenta una densità invertita – tra antecedente e conseguente – rispetto a quella di a. In d c’è un’altra deroga alla successione ‘1-2-1-2-…’, infatti nell’antecedente ci sono due 1 successivi. In questo modo si ripristina la situazione dell’antecedente di a, dove ogni minima di numero ordinale dispari ha densità 2. L’inizio della sezione A’ ricalca infatti quello di A.

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È noto come numerosi compositori del Novecento – basti un nome per tutti: Pierre Boulez – si siano frequentemente rivolti al mondo della scienza per trarne concetti o suggestioni utilizzabili nella propria musica. Ligeti non si è certo sottratto a questa diffusa tendenza, ma il suo atteggiamento indipendente e antidogmatico lo ha portato a una ricerca autonoma, che si è focalizzata soprattutto sulla geometria frattale di Mandelbrot e sulle teorie relative al passaggio dall’ordine al caos e viceversa. Negli ultimi decenni, questi campi di ricerca hanno dato risultati eccellenti grazie all’utilizzo dei calcolatori, in grado di eseguire in poco tempo i numerosissimi calcoli richiesti dagli algoritmi ricorsivi che caratterizzano la teoria del caos. Le procedure dell’informatica hanno quindi rappresentato un’importante fonte di ispirazione per Ligeti. Infatti, i primi due libri delle Études per pianoforte sono un ottimo esempio delle potenzialità musicali insite nei procedimenti generativi e ricorsivi ispirati alla teoria del caos e ai frattali. Ligeti stesso scrive che «essi [gli Studi] partono sempre da un’idea di base semplice e conducono dalla semplicità alla complessità estrema. Si comportano come organismi in crescita».3 È quindi possibile cercare di definire l’algoritmo (o gli algoritmi) che sta alla base di ogni Studio e che ne determina il piano costruttivo. Nel suo studio approfondito György Ligeti: “Études pour piano, premier livre” – Le fonti e i procedimenti compositivi, Alessandra Morresi tenta infatti (con successo) di ‘smontare i meccanismi’ degli Studi per mostrarne le regole e le griglie compositive nascoste. Tuttavia, trattandosi di opere d’arte, l’applicazione di un ipotetico algoritmo non è mai pedissequa e meccanica, ma al contrario duttile e passibile di innumerevoli modifiche e aggiustamenti, determinati da ragioni puramente musicali. Ligeti chiarisce così il proprio atteggiamento nei confronti dei progetti e delle regole compositive: «compongo con dei piani generali, ma, nel corso della composizione, se sento (in maniera totalmente soggettiva) che devo deviare, mi lascio deviare, posso deviare. Non voglio essere inibito dalle regole che io stesso ho fissato, queste non sono altro che dei mezzi per stabilire una certa unità».4 Se si considera la struttura ritmica (o meglio, l’articolazione poliritmica) degli Studi del primo libro, è generalmente possibile determinare con precisione quale sia la griglia metrica ‘sotterranea’, di cui l’autore si è servito durante la composizione. Questa struttura è totalmente indipendente dalle suddivisioni di battuta, e si basa sul principio dell’hemiolia allargata,5 già intuito 3 GYÖRGY LIGETI, libretto del CD Works for Piano: Études, Musica ricercata (Pierre-Laurent Aimard: piano), Sony Classical SK62308, p. 27 (trad. it. di Alessandra Morresi; cfr. Appendice). 4 PIERRE MICHEL, György Ligeti: compositeur d’aujourd’hui, Paris: Minerve, 19952, p. 187 (trad. it. di Alessandra Morresi). 5 «Nella notazione mensurale il termine hemiolia (emi=mezzo; olos=intero) indicava la sostituzione di tre minimae al posto di due minimae puntate; in termini moderni è utilizzato per definire l’ambivalenza della battuta di sei tempi suddivisibile in tre valori binari, o in due ternari: due diverse progressioni aritmetiche si organizzano così in base al minimo comune multiplo esistente tra i valori da esse previsti (il sei non è altro che il minimo comune multiplo tra il

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e sviluppato dal compositore americano Conlon Nancarrow nei suoi cinquanta Studies for Player Piano: i valori ritmici rapidi e isocroni – che costituiscono il continuum ritmico di riferimento – sono organizzati in due o più strutture metriche sovrapposte e differenti. Per esempio, ci può essere una compresenza di due strutture, formate rispettivamente da moduli di k e h valori isocroni; i moduli metrici sono segnalati da accenti (o motivi melodici) che cadono in punti regolari, cioè, appunto, ogni k o h valori del continuum. Se i due moduli iniziano contemporaneamente, gli accenti si sfasano gradualmente e si rincontrano periodicamente, in corrispondenza del minimo comune multiplo di k e h. Questa semplice idea di reciproci slittamenti metrici (definibili con una sola parola, décalage) si ritrova in tutti gli Studi del primo libro, ma, come si è detto, la sua applicazione non è mai automatica e a-problematica. Infatti, ad esempio, Automne à Varsovie si fonda su una complessa struttura che sovrappone ben quattro moduli di accentazione (ogni 3, 4, 5 o 7 sedicesimi), però la regolarità dei moduli viene meno nei momenti di massima tensione, in cui le durate vengono compresse e, di conseguenza, le linee melodiche si sfilacciano e si frantumano progressivamente. È evidente che l’analista, che si rivolge al testo nella sua formulazione definitiva, si trova di fronte a grandi difficoltà, difatti la versione finale non lascia trasparire i processi mediante i quali l’autore ha ritoccato e mascherato la ‘struttura profonda’ di partenza. La consultazione degli abbozzi (avant-texte) si rivelerebbe quindi particolarmente proficua nel caso di un compositore come Ligeti, che parte dichiaratamente da un’idea generativa e poi ne trasgredisce alcune regole, nel corso della composizione, lasciandosi guidare dalla propria sensibilità musicale. Viceversa, l’osservazione del solo testo definitivo costringe a un’astrazione che cerchi di individuare l’algoritmo ‘perfettamente funzionante’, non ancora ‘manomesso’ dal compositore: per far questo è necessario riconoscere ed espungere gli elementi di irregolarità deliberata, che possono trarre in inganno. Ci si può anche chiedere se abbia senso tentare di ricostruire un algoritmo compositivo che non può che restare una semplice ipotesi, in mancanza di un confronto coi manoscritti dell’autore (che peraltro esistono e sono conservati presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea). La risposta è affermativa, infatti algoritmi del genere, per quanto ipotetici e limitati, consentono di raggiungere una buona comprensione dei meccanismi compositivi e, in un senso più lato, delle idee estetiche ad essi sottese. Ora torniamo alla sezione A per cercare di individuarne le regole costruttive principali, o, il che è lo stesso, un ipotetico algoritmo. Ecco alcune di queste regole, suddivise approssimativamente secondo la loro afferenza principale all’ambito delle altezze, delle durate o delle dinamiche:

altezze durate dinamiche solo tasti bianchi (scala diatonica) solo minime «sempre p»

canone all’ottava inferiore tra m.d. e m.s.

il conseguente del canone parte a una minima di distanza dall’antecedente

«cantabile espressivo»

ogni mano può eseguire al massimo due note simultaneamente

«sempre molto legato», pedale cambiato ad ogni minima (di conseguenza, non c’è silenzio né sovrapposizione tra due accordi successivi)

due ed il tre); con hemiolia allargata il compositore intende la dilatazione del concetto di hemiolia di tre volte due e due volte tre a qualunque relazione di durata, come cinque contro tre, sette contro cinque, o ancora sette su cinque su tre» (ALESSANDRA MORRESI, György Ligeti: “Études pour piano, premier livre” – Le fonti e i procedimenti compositivi, Torino: EDT, 2002, p. 149).

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in ogni mano, è preferibile alternare nota singola e bicordo6 (di conseguenza, densità armonica tendenzialmente costante e pari a 3)

agogica: «Andante con tenerezza»

evitare assolutamente i raddoppi

è preferibile evitare bicordi o accordi di 4 note. Nel caso di bicordi, gli unici accettati sono di seconda maggiore o nona maggiore.

evitare assolutamente le triadi maggiori o minori

Dovrebbe essere chiaro che questo insieme di regole è stato semplicemente ricavato osservando il testo definitivo,7 quindi è da considerarsi un’approssimazione e un’ipotesi. Comunque la sua utilità si noterà soprattutto durante l’analisi della sezione seguente A’. Sezione A’ Le regole compositive che contraddistinguono la sezione A’ sono ancora le stesse di A, come si può facilmente evincere da un rapido esame della partitura. Tuttavia, dato che questa seconda sezione è una variazione della prima, bisogna metterla in relazione con quella, per stabilire quali variazioni siano messe in atto. Si veda quindi l’es. 3, in cui ho riportato l’antecedente di A e tutto A’, incolonnandoli in modo da mostrarne facilmente le somiglianze e le differenze. Gli accordi sono numerati ogni cinque unità.

6 Si tenga sempre presente che Ligeti tiene in grande considerazione la comodità ‘ergonomica’ dell’esecuzione della propria musica pianistica: la conformazione della mano suggerisce determinate soluzioni piuttosto che altre (cfr. Appendice). 7 Ad esempio, la ‘regola dei bicordi’ è stata ricavata dalla constatazione che in A ci sono solo tre bicordi, di cui due – identici – di nona maggiore, uno di seconda maggiore.

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La melodia superiore di A’ si discosta da quella superiore di A in soli quattro punti, segnati con un ovale. Nella tabella seguente ho classificato in varie tipologie le variazioni degli accordi di A’ rispetto a quelli di A: ogni riga si riferisce a un accordo. Le colonne di sinistra rappresentano variazioni ‘deboli’, frutto di una scelta obbligata,8 necessaria per non trasgredire le regole fondamentali dell’algoritmo. Man mano che ci si sposta verso le colonne di destra, invece, le variazioni si fanno più ‘forti’, cioè dipendono più da una volontà di modificare A che da un necessario ritocco delle altezze. La categoria che si trova nella terza colonna, che ho situato al centro, è di statuto diverso da quello delle altre, infatti ha un significato legato allo sviluppo successivo del pezzo,9 e riguarda solo l’ultimo accordo di A’.

8 È evidente che nessuna di queste scelte è completamente obbligata, infatti esiste sempre un ventaglio di possibilità tra cui scegliere: la soluzione del problema non è unica. Qui entra in gioco la musicalità del compositore, il quale, a differenza di un computer, non sceglie a caso tra le soluzioni possibili, ma sceglie quella che più lo soddisfa. 9 Cioè al futuro, non al presente.

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variazioni ‘deboli’ rispetto ad A ----------------------> variazioni ‘forti’ rispetto ad A

variazione ‘necessaria’, per evitare un

raddoppio

variazione ‘necessaria’,

per evitare che si formi una

triade (magg. o min.) o un

bicordo indesiderato10

variazione ‘consigliabile’ per ricollegarsi all’inizio di A

senza modificarlo

variazione ‘deliberata’

ma che produce una

densità armonica pari a

3

variazione ‘deliberata’

1 x

2 x 3 x

4

5 6

7 x 8

9 x

10 x 11 x

12 x 13

14

15 x 16 x

17 18 x

19 20 x

21 x

22 x 23 x

24 x 25 x

26 x

27 x 28 x

29 x 30 x

10 Ogni bicordo indesiderato viene sempre evitato aggiungendo una nota (vedi la tabella e l’es. 3). In questo modo, oltre a scongiurare il bicordo in questione, si ottiene anche una densità complessiva pari a 3, che, secondo il nostro ipotetico ‘algoritmo ricostruito’, è sempre auspicabile.

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31 x

32 x11 33

34

35 x 36 x

37 x 38 x

39 x

40 x

La tabella mostra che 30 dei 40 accordi di A’ sono diversi da quelli di A. Curiosamente, le variazioni ‘deboli’ (o ‘necessarie’) e quelle ‘forti’ (o ‘deliberate’) si equivalgono numericamente (sono rispettivamente 15 e 14). Tuttavia vanno rilevate due peculiarità della sezione A’: prima di tutto, come si è detto, la melodia superiore è quasi identica a quella di A. È interessante notare che le modifiche di questa melodia (che avvengono agli accordi n. 1, 2, 24 e 40) coincidono con variazioni ‘necessarie’ per evitare un raddoppio (accordi 1, 2 e 24) e con la variazione ‘consigliabile’ dell’accordo 40. Ciò significa che il mantenimento della melodia superiore di A (che potremmo definire un vero e proprio tema) è considerato una priorità assoluta, a cui venir meno solo dove non è possibile fare altrimenti. In secondo luogo, ben 11 variazioni ‘deliberate’ su 14 procurano (ove non ci sarebbe stata a meno di variare il corrispondente accordo di A) o mantengono (ove ci sarebbe stata anche mantenendo invariato il corrispondente accordo di A) una densità di 3 note, che si può definire ‘auspicabile’. Nell’es. 4 riporto la densità armonica della sezione A’.

Da queste considerazioni deriva che l’intento di Ligeti durante la scrittura della prima parte dello Studio sia quello di strutturare un organismo molto omogeneo, in cui la sezione A ritorna identica per due volte, separate da una sezione A’ che coniuga la volontà di variazione e il desiderio di rendere tale variazione quasi impercettibile, poco appariscente. Il risultato è così un blocco di musica estremamente compatto e monotono, privo di qualsiasi direzionalità se non quella data dai suadenti movimenti melodici, che disegnano morbide curve elegantemente espressive.

11 Qui Ligeti potrebbe tenere solo il do5 alla m.d., invece decide (deliberatamente) di utilizzare comunque due note (si4 e do5), per una densità totale pari a 4.

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Sezione A (ripresa) La ripresa di A, che pone fine all’Andante, è letterale ad eccezione della conclusione, che, come si è visto, non è altro che un rallentando scritto. Qui Ligeti – forse ricordando la teoria del ‘valore aggiunto’ formalizzata da Olivier Messiaen nel trattato Technique de mon langage musical (1944) e attuata in molte sue composizioni12 – aggiunge al valore costante di minima un valore di durata crescente: quantificando in sedicesimi il valore aggiunto, otteniamo la serie numerica 1, 2, 3, 4, 6, 8, 16, 24,13 che a tratti si avvicina alla serie di Fibonacci Fi+2 = Fi+1 + Fi.14 2.2. Seconda parte La seconda parte dello Studio si contrappone nettamente alla prima sotto vari aspetti, di cui il più evidente è senza dubbio l’indicazione di agogica «Vivacissimo con brio». Per comodità ho numerato a partire da 1 le ‘battute’ delimitate da stanghette tratteggiate, per un totale di 33. Dal punto di vista delle dinamiche, il passaggio subitaneo dal ff iniziale al pp di batt. 21 assume evidentemente una rilevanza anche formale. Da quel punto in poi, infatti, la dinamica resta pp, diminuisce ancora (fino al pppp) in corrispondenza della discesa delle batt. 28-30 e si attesta infine sul pp dell’accordo conclusivo. L’osservazione dei rapporti armonici conferma la nettezza di questa bipartizione strutturale. Tutta la sezione in ff presenta infatti un unico trattamento delle simultaneità verticali, particolarmente ingegnoso. La regola generale, valida senza deroghe in questa sezione, si può esprimere così: utilizzando solo i tasti bianchi, ogni mano può suonare una o (meno frequentemente) due note, in modo che gli accordi risultanti siano sempre costituiti da note di nome contiguo nella scala. In altre parole, ogni accordo è sempre formato da note riordinabili in una sequenza senza ‘buchi’ nell’ambito della scala diatonica; le ripetizioni di note sono ammesse. Ad esempio, si può avere un accordo composto dalle note mi, fa (m.s.), sol, la (m.d.), disposte in qualunque modo eseguibile da un pianista senza arpeggiare; è possibile anche una situazione del tipo mi, fa (m.s.), fa, sol (m.d.), o ancora do, do (m.s.), re, re (m.d.), e via dicendo. A partire dal pp, si verifica invece una continua alternanza di diversi sistemi di organizzazione delle armonie: accanto a quello appena considerato (che chiameremo sistema armonico 1), ce ne sono altri due. Il sistema armonico 2 presenta accordi (da 2 a 6 suoni)15 le cui note hanno nomi ordinabili per intervalli di quinte consecutive: ad esempio, do, sol, re, la. Il sistema 1 presenta ora una maggiore elasticità nel numero totale delle note simultanee ammesse, che variano da 2 a 6.16 Compare anche un nuovo sistema 3, che è una sorta di sistema ibrido tra 1 e 2, infatti i suoi aggregati armonici non sono altro che accordi appartenenti al sistema 2, ai quali è stata aggiunta una nota contigua a una qualsiasi delle altre. In due luoghi17 si ha una triade (rispettivamente minore e maggiore): per evitare di introdurre un nuovo sistema armonico valido in soli due casi, ho deciso di includere queste triadi nel sistema 3. Dato che a partire dalla batt. 24 la texture diventa più complessa (infatti la m.s. introduce degli accordi tenuti), devo dichiarare esplicitamente alcune scelte da me effettuate all’atto dell’esame degli aggregati verticali: ho considerato l’accordo fa0 – sol1 (batt. 25) come se durasse 8 crome, l’accordo mi0 – fa1 (batt. 29) 12 Un esempio particolarmente chiaro dell’utilizzo del valore aggiunto si trova nel sesto movimento del Quatuor pour la fin du temps (1940-41), intitolato Danse de la fureur, pour les sept trompettes. 13 Nel caso dell’ultimo accordo non consideriamo la corona, che per definizione indica un prolungamento della durata effettuato a discrezione dell’interprete, e quindi non quantificabile in modo preciso. 14 Quest’ultima è infatti una formula ricorsiva, e, data la passione di Ligeti per gli algoritmi ricorsivi, è facile prevedere la sua predilezione per i numeri di Fibonacci. 15 I 6 suoni si verificano alla sesta croma della batt. 25. Si noti che proprio in quel punto compare il primo tasto nero del brano. 16 L’unico accordo di 6 suoni si verifica sull’ottava croma della batt. 25. 17 Precisamente al terzo e al sesto ottavo della batt. 28.

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come se durasse tre crome, l’accordo fa3 – si3 – do4 – mi4 (batt. 30) come se durasse 24 crome. Inoltre, dal momento in cui compaiono i tasti neri – la sesta croma della batt. 25 – ho considerato gli accordi senza distinguere tra note naturali e alterate, ma semplicemente badando al loro nome. Pertanto, ad esempio, l’accordo sul secondo ottavo della batt. 29 è per me composto dalle note di nome la, mi e si, cioè non distinguo tra sib e si naturale e non considero il b che altera il la (e quindi questo accordo appartiene al sistema 2). Infine, è evidente che i rari punti (batt. 30) in cui non si ha armonia bensì monodia non appartengono a nessun sistema armonico.18 Nell’es. 5 ho rappresentato la situazione armonica di tutto il Vivacissimo. I numeri sull’asse delle ascisse sono le crome, mentre i tre livelli sull’asse delle ordinate rappresentano i vari sistemi armonici.

crome 1 → 327

328 329 330 331 332 333 334 335 336 337 338 339 340 341 342 343 344

1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 sist.

arm.

345 346 347 348 349 350 351 352 353 354 355 356 357 358 359 360 361 362 363

1 1 1 1 1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2

18 Nel grafico seguente saranno indicati col valore 0.

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364 365 366 367 368 369 370 371 372 373 374 375 376 377 378 379 380 381 382 1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 3 3 3

383 384 385 386 387 388 389 390 391 392 393 394 395 396 397 398 399 400 401

1 1 1 1 1 1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 3 3

402 403 404 405 406 407 408 409 410 411 412 413 414 415 416 417 418 419 420

1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2

422 423 424 425 426 427 428 429 430 431 432 433 434 435 436 437 438 439 440

2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 3 3 3 3 3

441 442 443 444 445 446 447 448 449 450 451 452 453 454 455 456 457 458 459

1 1 1 1 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 3 3

460 461 462 463 464 465 466 467 468 469 470 471 472 473 474 475 476 477 → 520

521 → 528

2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2

Dal grafico risulta con chiarezza la gestione armonica globale del Vivacissimo: dopo la lunga sezione iniziale con armonie appartenenti al sistema 1, la comparsa improvvisa del pp coincide con l’affermazione del nuovo sistema 2, che inizialmente è inframmezzato da brevi ritorni del sistema 1 e da sporadiche apparizioni di un ulteriore sistema 3, ma che infine si afferma come unico e incontrastato sistema armonico. La medesima sensazione di ‘rottura del meccanismo’ dinamico (passaggio dal ff al pp) e armonico (sostituzione del sistema 1 col sistema 2) trova anche una conferma a livello della texture. Infatti, a partire dalla croma numero 378 (batt. 24), la m.s. interrompe il flusso continuo di crome con lunghi bicordi nel registro basso, tenuti anche grazie all’ausilio del pedale, che fino a quel punto era stato usato con parsimonia (alla batt. 1 la prescrizione è «quasi senza ped.»). Alla fine della batt. 30 anche la m.d. esegue un accordo, mentre la m.s. ripete una semplice figurazione melodica a mo’ di coda: seguendo una logica quasi teatrale, il ‘personaggio’ della m.d. ha ormai accettato e fatto propria l’azione di disturbo rappresentata appunto dagli accordi della m.s.. I tempi sono quindi maturi per la riappacificazione finale, in cui l’accordo conclusivo è eseguito da entrambe le mani. Un vero e proprio coup de théâtre si verifica alla croma 390 (batt. 25), dove per la prima volta viene suonato un tasto nero: le risonanze di un sib (croma 390) e di un fa# (croma 391) spiccano nel panorama acustico, fino ad allora dominato esclusivamente da tasti (e suoni) bianchi. La comparsa

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di un nuovo colore dei tasti utilizzati provoca un senso di sorpresa acustica: i tasti neri19 si insinuano nel tessuto musicale come macchioline che rovinano il perfetto biancore precedente. Ma la pacificazione finale riguarda anche l’elemento ‘cromatico’: i tasti neri e quelli bianchi, assegnati rispettivamente a m.d. e m.s., ‘collaborano’ nella formazione dell’ultimo accordo, che sigilla l’intera composizione con una sonorità quasi di campana. Il trattamento del parametro ritmico negli Studi per pianoforte è fortemente debitore delle ricerche svolte dall’etnomusicologo Simha Arom sulla musica popolare delle regioni centroafricane. Ligeti e Arom si incontrarono in modo del tutto fortuito nel 1984 – ma Ligeti conosceva già alcuni studi di Arom – e in seguito intrattennero una fitta corrispondenza, relativa appunto alla ritmica africana.20 La strutturazione delle durate nelle musiche tradizionali africane è caratterizzata dalla periodicità, cioè dalla ripetizione periodica degli eventi ritmici. Ogni periodo presenta quindi un ostinato ritmico, provvisto o no di variazioni, che viene definito ‘figura ritmica’ e può essere sezionato in più cellule costitutive, ognuna delle quali è un evento ritmico più piccolo, caratterizzato da un ‘contrassegno’. Un contrassegno è ciò che distingue alcuni dei suoni di una figura ritmica dagli altri e, per questo, permette di delimitare le cellule in cui la figura viene segmentata. I contrassegni fungono quindi da indicatori o ‘marchi’, e possono essere di tre tipi: cambio di intensità (accento), cambio di timbro e cambio di durata. La struttura metrica, che come vedremo è tipicamente in contrasto con quella ritmica, consta di una suddivisione del periodo in un numero pari di pulsazioni isocrone, e in un’ulteriore suddivisione della pulsazione in 2, 3, 4 o – più raramente – 5 parti uguali. La durata minima risultante da questa operazione di suddivisioni successive (paragonabili alle prolationes dell’Ars nova, peraltro conosciute e studiate da Arom e Ligeti) è appunto il valore operazionale minimo, in rapporto a cui tutte le durate sono multiple.21 Ciò che più colpisce e affascina gli ascoltatori occidentali, quando scoprono sonorità come quelle della tribù dei Banda-Linda o di altre tribù centroafricane, è sicuramente la grande complessità ritmica, davvero notevole se si considera che si tratta di un repertorio tramandato oralmente. La caratteristica principale di questa musica è infatti il conflitto permanente tra la struttura metrica del periodo (simmetrica, dato il numero pari di pulsazioni) e gli eventi ritmici che in esso si producono, che sono molto spesso strutturati in modo asimmetrico (cioè la figura ritmica non è divisibile in due parti uguali) e contrametrico (cioè i contrassegni che caratterizzano le cellule sono in contrattempo rispetto alle pulsazioni). Un caso particolare di asimmetria, che Arom definisce ‘regolare’, è proprio l’hemiolia, in cui una stessa cellula ritmica viene ripetuta (all’interno di un periodo) un numero di volte differente per un’unità dal numero delle pulsazioni. Con procedimenti del genere si verifica un décalage tra metro e ritmo nell’ambito di un solo periodo. Ma questo livello di complessità è a sua volta integrato in un livello superiore, ovvero la poliritmia vera e propria: essa consiste nella sovrapposizione di periodi di durate diverse,22 legate tra loro da rapporti semplici (2:1, 3:1, ma anche 3:2, 4:3 e così via). A questo punto risulteranno chiare le analogie tra queste strutture ritmiche africane, gli esperimenti pionieristici di Nancarrow e gli Studi di Ligeti. Tuttavia, esistono sottili differenze tra

19 La m.d. – senza contare l’ultimo accordo – suona un solo tasto nero (il fa# già citato), mentre le m.s. ne suona 13, di cui ben 8 sono sib. 20 Le principali pubblicazioni di Arom sono: Polyphonies et polyrythmies instrumentales d’Afrique Centrale: structure et méthodologie, 2 voll., Paris: SELAF, 1985; Su alcune impreviste parentele fra polifonie medievali e africane, trad. it. G. Morelli, in Polifonie: procedimenti, tassonomie e forme: una riflessione a più voci, a cura di M. Agamennone, Venezia: Il Cardo, 1996, pp. 163-179 (ediz. orig. Une parenté inattendue: polyphonies médiévales et polyphonies africaines, in Polyphonies de tradition orale. Histoire et traditions vivantes, Actes du colloque de Royaumont 1990, a cura di C. Meyer – M. Huglo – M. Pérès, Paris: Éditions Créaphis, 1993, pp. 133-148). 21 Per le informazioni relative alla musica africana e alle sue analogie con l’Ars nova si consulti anche A. MORRESI, op. cit., pp. 10-22. 22 Naturalmente, è anche molto diffusa la sovrapposizione di due periodi di uguale durata, che però presentano figure ritmiche diverse.

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questi tre sistemi di organizzazione ritmica. In Nancarrow l’attenzione è focalizzata soprattutto sulla compresenza di diverse velocità metronomiche, comunque sincronizzabili mediante l’introduzione di una ‘pulsazione-fantasma’ rapidissima (equivalente al valore operazionale minimo), pari al minimo comune multiplo delle velocità. Nella musica africana, l’interesse risiede specificamente nel continuo attrito tra gli eventi ritmici e una pulsazione metrica che resta generalmente sottintesa, implicita,23 mentre i valori operazionali minimi strutturano la griglia di riferimento in cui collocare i contrassegni. Negli Studi di Ligeti, invece, il valore operazionale minimo diviene un elemento musicale esplicito e tangibile: un continuum inesorabile, abbastanza rapido da essere percepito come un flusso, ma abbastanza lento da essere eseguibile da un pianista (e non da un pianoforte meccanico come nel caso di Nancarrow). Nella seconda parte di White on White, la scrittura presenta vari tipi di notazione per indicare i contrassegni. Alle batt. 1-2, le crome in evidenza presentano una stanghetta aggiuntiva; alle batt. 2-21 sono segnate da una stanghetta aggiuntiva e da un accento di dinamica sfz; dal pp di batt. 21 alla batt. 24 ritorna la sola stanghetta aggiuntiva. I valori del continuum sono divisi in raggruppamenti di numero variabile (da 2 a 10 note per la m.d., da 2 a 17 per la m.s.), che presentano sempre i contrassegni in posizioni prevedibili: precisamente, alle batt. 1-21, i contrassegni si trovano in prima posizione, o in prima e seconda posizione;24 dalla batt. 21 alla 24, solo in prima posizione.25 Dalla batt. 24 alla fine, però, scompaiono i contrassegni visti finora e restano solo i raggruppamenti. Si può quindi ipotizzare che i raggruppamenti svolgano la funzione di contrassegni, dato che pongono comunque in evidenza la nota che si trova in prima posizione. Se le posizioni in cui cadono i contrassegni all’interno di ogni raggruppamento sono prevedibili e regolari, ciò che è imprevedibile è però la durata dei raggruppamenti. Infatti, a differenza della musica africana, non si verifica nessuna periodicità ritmica percepibile od osservabile, neppure se si considerano le due mani separatamente. Dato che non sembrano esserci moduli regolari, non ha senso cercare situazioni di hemiolia tra le due mani. La situazione generale è quella di una complessa griglia di contrassegni, i quali – lo ripeto ancora – non formano archi ritmico-melodici dotati di una propria periodicità (al limite modificabile, ma pur sempre esistente): essi restano al contrario dei singoli punti sonori in evidenza, che rimbalzano da una parte all’altra della tastiera, come palline di un flipper. La passione per la geografia non ha mai abbandonato Ligeti, come lui stesso racconta in alcune conversazioni con Eckhard Roelcke avvenute nel 2001-2: «Dalla seconda elementare fino all’inizio del ginnasio ebbi una vera mania per la geografia, che mi è rimasta ancor oggi. Assorbii un numero impressionante di dati e di immagini. Tuttora tengo due atlanti accanto al letto, e mi piace sfogliarli immaginandomi i Paesi e le regioni».26 La medesima curiosità per la diversità geografica e culturale ha portato Ligeti ad avvicinarsi a tradizioni musicali diverse da quella europea: oltre che dalla musica africana, il suo interesse è stato attratto dalla musica semi-commerciale caraibica e latinoamericana. Il ritmo del Vivacissimo ricorda proprio quest’ultimo genere di musica: sopra a un substrato incessante di valori rapidissimi (che nella musica latinoamericana resta sottinteso, mentre in Ligeti viene mostrato),27 si rincorrono accenti sempre cangianti, che ingannano e stimolano la percezione, disattendendo le nostre continue aspettative di moduli ritmico-metrici regolari composti tipicamente da 4 o 8 note. Il ruolo che nella musica

23 Come conferma lo stesso Ligeti (cfr. Appendice), tale pulsazione è generalmente danzata, non suonata. 24 L’unica eccezione è la croma 11 della m.d., che si trova in terza posizione. 25 Anche qui c’è un’eccezione: la croma 328 (la prima in pp), che non presenta né accento né stanghetta aggiuntiva. 26 GYÖRGY LIGETI – GCKHARD ROELKE, Lei sogna a colori?, trad. it. Alessandro Peroni, Padova: Alet, 2004, p. 28 (ediz. orig. Traumen Sie in Farbe? – György Ligeti in Gesprach mit Eckhard Roelcke, Wien: Paul Zsolnay, 2003). 27 Questa presenza ossessiva del continuum nella quasi totalità degli Studi di Ligeti è senza dubbio un ‘marchio di fabbrica’ dell’autore, che lo rende riconoscibile, ma rischia di diventare una maniera, espressione di un ‘ligetismo’ che sembra temere la discontinuità e il silenzio più di ogni cosa. La prima parte di White on White non è altro che un continuum iper-rallentato, il cui incedere uniforme non lascia posto a istanti di silenzio (scongiurati anche grazie all’uso del pedale di risonanza). Persino il brusco passaggio dalla prima alla seconda parte deve avvenire senza indugi: «attacca subito»!

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latinoamericana viene svolto dalle sincopi (cioè da eventi ritmici contrametrici), nello Studio viene affidato ai raggruppamenti (e naturalmente ai contrassegni ad essi collegati). Si può quindi leggere tutto il Vivacissimo come una perpetua variazione della regolarità ‘quadrata’ del 4 + 4 + 4 + … In questo modo l’organizzazione ritmica risulta molto più comprensibile e, al tempo stesso, l’esperienza di ascolto viene come liberata: non più alla ricerca di complesse strutture nascoste di tipo hemiolico, l’orecchio si può abbandonare al piacere della ‘rincorsa’ di accenti28 spostati rispetto alla prevedibile – ma mai esplicitata – quadratura. Un interessante esempio di come si possa dare l’impressione di una certa regolarità, nella successione degli accenti, è dato dalla presenza di un notevole numero di contrassegni simultanei ad entrambe le mani. Precisamente, su un totale di 147 contrassegni nel continuum eseguito dalla m.d. e di 126 in quello della m.s.,29 ben 76 sono comuni alle due mani. La coincidenza di accenti svolge una funzione rassicurante dal punto di vista percettivo, poiché annulla ogni sfasamento e si comporta come una sorta di ‘reset temporaneo’, come un punto di appoggio e di riferimento. Gli ultimi parametri da analizzare sono i movimenti melodici e gli spostamenti di registro. Dopo un esordio nel registro centrale, viene raggiunto il limite grave all’inizio di batt. 7, da cui si risale gradualmente fino a toccare l’estremo acuto alla batt. 18. Dopo una momentanea stabilizzazione nel registro medio-acuto in corrispondenza col pp di batt. 21, inizia una lunga discesa, in cui i bicordi ‘profondi’ sembrano risucchiare il continuum verso il basso, fino al tasto più grave del pianoforte (batt. 30). Ma, subito dopo il raggiungimento del nadir, la m.d. suona un accordo nel registro medio, mentre la m.s. si spegne iterando una formula di 4 note. L’accordo finale vede le due mani distanziate, in modo che l’accordo della m.d. sembri una risonanza acuta ‘scordata’ (di un semitono) dell’accordo della m.s.. Dal punto di vista melodico, va sottolineato come le note che presentano contrassegni non formino quasi mai delle melodie chiaramente identificabili, cosa che invece avveniva in molti Studi dei primi due libri. Solo in alcuni punti (ad es. le batt. 7-8), dove la direzionalità di registro si fa più evidente, è possibile individuare dei movimenti melodici su più larga scala, formati ‘congiungendo’ gli estremi melodici superiori (m.d.) o inferiori (m.s.) di ogni raggruppamento, che peraltro non sono necessariamente contrassegnati. I particolari sistemi armonici scelti da Ligeti lo inducono a muovere le parti frequentemente per moto retto. All’interno di ogni raggruppamento, i movimenti melodici sono quasi sempre discendenti (soprattutto alla m.d.), simili a piccole cascate di note che si sovrappongono e si rinnovano continuamente. Caratteristici della scrittura ligetiana sono inoltre i procedimenti di generazione melodica di tipo ricorsivo, in cui un modulo melodico viene riproposto con una piccola variazione, poi variato nuovamente, in una catena di trasformazioni dove ogni output viene reinserito nel processo come nuovo input: ad esempio, si osservino in proposito le batt. 21-segg. della m.d.. Un’importante fonte di ispirazione per la condotta dei movimenti melodici è la computer graphics basata sui frattali, in cui la microstruttura si riflette nella macrostruttura (si veda a titolo di curiosità l’es. 6, un mio disegno in cui tento di tradurre in termini visivi la struttura del libro di Italo Calvino Palomar).

28 Per comodità, a volte chiamo semplicemente ‘accenti’ i contrassegni. 29 In questo conteggio ho considerato come contrassegni anche la croma 328 e le crome in prima posizione di tutti i raggruppamenti del continuum dalla batt. 24 alla fine. Ho escluso dal computo tutti gli accordi tenuti (batt. 24-segg.) e il sib alla m.s. di batt. 25.

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es. 6

Un esempio interessante di una situazione del genere si trova alle batt. 24-25, dove alla minuta realizzazione della graduale discesa del continuum si combina il lento movimento dei bicordi gravi alla m.s., che rispecchia gli intervalli melodici del continuum. Quindi, in questo caso, i due livelli della scrittura sono uno l’immagine ingrandita dell’altro. 3. Conclusioni riguardo a White on White White on White è il primo Studio per pianoforte di Ligeti formato da due parti decisamente contrastanti. Ci si deve quindi chiedere se il pezzo si possa considerare unitario e, in caso affermativo, in quali caratteristiche risieda tale unitarietà. A mio parere, oltre all’ovvia uniformità acustica data dall’utilizzo quasi esclusivo dei tasti bianchi, l’idea dominante e unificante è quella di sfasamento. Nella prima parte si tratta di uno sfasamento temporale30 tra le due mani. Nella seconda parte, invece, lo ‘sfasamento’ è di tipo armonico:31 le due mani eseguono note nominalmente contigue (ad es., intervalli di settima, nona, seconda), dando l’impressione di un incessante inseguimento dell’intervallo di ottava (o unisono, quindicesima, ecc.), che sarebbe ‘in fase’ non solo dal punto di vista dei nomi delle note, ma anche sotto il profilo puramente acustico, essendo formato da note le cui frequenze sono l’una l’esatto multiplo dell’altra. Com’era prevedibile, entrambi i tipi di sfasamento non si risolvono nell’agognato ‘raggiungimento’ vicendevole, ma, a partire dal pp di batt. 21, viene conquistata gradualmente una sorta di pacificazione armonica nell’intervallo di quinta (o nella quarta, suo rivolto), che contraddistingue il sistema armonico 2. La quinta e la quarta, infatti, dividono la scala in due parti approssimativamente uguali,32 quindi non si prestano a ‘contrarsi’ verso l’unisono o ad ‘espandersi’ verso l’ottava – cosa che si potrebbe affermare riguardo a intervalli più piccoli o più grandi. Da ciò deriva la sensazione di una relativa staticità,33 non direzionale, suggellata in modo ambiguo dall’accordo conclusivo, che è composto da

30 Si tenga presente che si tratta di un canone all’ottava, quindi lo scarto tra le due mani non è solo temporale, ma anche diastematico. 31 Si potrebbe far rientrare sotto la categoria di ‘sfasamento’ anche il gioco di accenti di cui si è parlato poco sopra. 32 La metà esatta è l’intervallo di quarta eccedente. 33 La staticità assoluta sarebbe data dalla presenza dei soli intervalli di unisono o di ottava.

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note i cui nomi sono a distanza di quinta, ma le cui altezze effettive si sfiorano a distanza di semitono, come un soffice alone sonoro che circonda gli intervalli di quinta sovrapposti e ricorda il lungo ‘inseguimento’ precedente. 4. White on White e gli Studi del III libro: l’ultimo Ligeti, tra canoni e inseguimenti Gli Studi per pianoforte del III libro sono tra le ultime composizioni di Ligeti: il n. 15 è stato composto nel 1995, il 16 nel 1996-97, il 17 nel 1997 e il 18 nel 2001. Negli stessi anni sono stati scritti solo pochi altri brani: al 1996 risalgono due rifacimenti (Pièce éléctronique n. 3; Le Grand Macabre), al 1998-99 l’Hamburgisches Konzert per corno e orchestra da camera (rivisto nel 2003), e al 2000 il pezzo vocale Síppal, dobbal, nádihegedűvel. Come per altri compositori in passato (si pensi ad esempio all’ultimo Beethoven o all’ultimo Liszt), il pianoforte diviene lo strumento privilegiato a cui dedicarsi negli ultimi anni di vita: una sorta di mini-laboratorio sempre a portata di mano, in cui sperimentare nuove soluzioni di linguaggio. L’inedita struttura che abbiamo trovato in White on White compare anche in altri Studi del III libro, e testimonia una nuova linea di ricerca musicale, volta appunto all’esplorazione delle possibilità insite nella giustapposizione di situazioni molto diverse, senza che vi sia una transizione da una all’altra. Lo Studio n. 16 Pour Irina (dedicato alla pianista Irina Kataeva) è infatti costituito da due sezioni nettamente contrastanti, un Andante con espressione e un Allegro, con moto (che si tramuta poi in Più mosso e in Ancora più mosso). La scrittura della parte lenta ricorda da vicino quella dello Studio n. 15 che abbiamo analizzato: un diatonismo modale semplice e quasi dimesso, un contrappunto scarno e monotono ma che disegna curve di insospettabile lirismo e fascinazione. Con un occhio a Bach e l’altro a Debussy, Ligeti si fa portavoce di una tendenza al dépouillement tipicamente francese, così come ‘francesi’ sono le sonorità (e il titolo) di questo Studio. La seconda parte rappresenta l’ennesima manifestazione dell’horror vacui del compositore transilvano e della sua maestria artigianale. À bout de souffle («Fino all’ultimo respiro») non è solo il titolo di un noto film di Jean-Luc Godard del 1959, ma anche il titolo dello Studio n. 17. Stavolta il rapidissimo continuum è un canone all’ottava estremamente ravvicinato (a distanza di una o due crome): un vero inseguimento a perdifiato, interrotto di colpo dagli accordi finali in ppp, enigmatici e dilatati, quasi una scia lasciata nell’aria dal monolitico blocco sonoro che li ha preceduti. L’alternanza (o l’interazione) tra Clocks and Clouds,34 o, più genericamente, tra la frenetica meccanicità esibita e i lenti gesti di magia timbrica e armonica, continua a interessare Ligeti in queste sue ultime opere. Anche la passione per il contrappunto è una costante nella produzione ligetiana: già la raccolta di pezzi pianistici Musica ricercata del 1950-53 si concludeva con una fuga, presentata come «Omaggio a Girolamo Frescobaldi»; il secondo movimento del Requiem (1963-65) è anch’esso una fuga; in tempi più recenti, nuovi stimoli gli sono giunti dalle procedure ritmiche e contrappuntistiche dell’Ars nova, di cui si ritrovano tracce negli stessi Studi per pianoforte. Il canone, emblema del contrappunto, è certamente una tecnica antichissima e testimonia il tentativo da parte di Ligeti di portare a nuova vita elementi della tradizione musicale, senza però scivolare in facili citazionismi di accattivante ‘postmodernità’.35 È singolare come altri compositori contemporanei molto distanti da Ligeti abbiano utilizzato tecniche canoniche in alcune composizioni recenti. Ad esempio, sia Hout (1991) di Louis Andriessen che Sweet Air (1999) di

34 È questo l’emblematico titolo (a sua volta ripreso da un articolo del filosofo Karl Raimund Popper) di un pezzo del 1972-73 per coro femminile di 12 voci e orchestra. 35 Un discorso analogo vale per il parametro armonico: la musica dell’ultimo Ligeti è relativamente consonante, vi si trovano non di rado triadi e accordi tradizionali, ma il contesto armonico non si può certo definire tonale.

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David Lang si basano su ipnotici canoni all’unisono molto rapidi, a più voci, in cui ogni conseguente parte a una sola nota di distanza dall’antecedente: il risultato è simile a un «unisono con ramificazioni», secondo le parole dello stesso Andriessen.36 L’ultimo Studio esistente del III libro è il n. 18, che si intitola appunto Canon. La prima sezione consiste in un canone ritornellato, da eseguirsi la prima volta Vivace poco rubato, la seconda Prestissimo. Le illusioni ottiche che tanto affascinavano il bambino György nello studio oculistico della madre ritornano a nutrire il suo immaginario: una trottola dipinta con disegni a spirale può produrre effetti ottici diversi, a seconda della velocità di rotazione che le viene impressa. La conclusione del pezzo è ancora una volta una spoglia e lenta sequenza accordale, sempre a canone. Le due polarità tra cui oscilla il pensiero musicale dell’ultimo Ligeti sono anche qui separate nettamente, in un’inconciliabile divisione tra ipermotricità vitalistica (ma statica e, in definitiva, vana) e ieratica rêverie di misurato lirismo.

36 CARLO BOCCADORO, Musica cœlestis – Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Torino: Einaudi, 1999, p. 169.

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Appendice Riporto qui la presentazione scritta da Ligeti per il libretto del CD Works for Piano: Études, Musica ricercata (Pierre-Laurent Aimard: piano), Sony Classical SK62308.

Études

How did I get the idea of composing highly virtuosic piano études? The initial impetus was, above all, my own inadequate piano technique. The only musical instrument in my childhood home was the gramophone. I devoured music from records. I was not able to convince my parents to let me take piano lessons until I was fourteen years old. Since we didn't own a piano, I went to acquaintances to practice every day. When I was fifteen we finally rented a grand.

I would love to be a fabulous pianist! I know a lot about nuances of attack, phrasing, rubato, formal structure. And I absolutely love to play piano, but only for myself. To develop a clean technique, one must begin practicing before puberty. But I was already hopelessly past this point.

My – fifteen up till now – Études (I want to write more!) are thus the result of my own inability. Cézanne had trouble with perspectives. The apples and pears in his still-lifes seem about to roll away. In his rather clumsy depictions of reality the folds of the tablecloth are made of rigid plaster. But what a wonder Cézanne accomplished with his harmonies of color, with the emotionally charged geometry, with his curves, volumes, and weight displacements! That's what I would like to achieve: the transformation of inadequacy into professionalism.

I lay my ten fingers on the keyboard and imagine music. My fingers copy this mental image as I press the keys, but this copy is very inexact: a feedback emerges between idea and tactile/motor execution. This feedback loop repeats itself many times, enriched by provisional sketches: a mill wheel turns between my inner ear, my fingers and the marks on the paper. The result sounds completely different from my initial conceptions: the anatomical reality of my hands and the configuration of the piano keyboard have transformed my imaginary constructs. In addition, all the details of the resulting music must fit together coherently, the gears must mesh. The criteria are only partly determined in my imagination; to some extent they also lie in the nature of the piano – I have to feel them out with my hand.

For a piece to be well-suited for the piano, tactile concepts are almost as important as acoustical ones; so I call for support upon the four great composers who thought pianistically; Scarlatti, Chopin, Schumann, and Debussy. A Chopinesque melodic twist or accompaniment figure is not just heard; it is also felt as a tactile shape, as a succession of muscular exertions. A well-formed piano work produces physical pleasure.

A rich source of such acoustic/motor pleasures is to be found in the music of many sub-Saharan African cultures. The polyphonic ensemble playing of several musicians on the xylophone – in Uganda, the central Africa Republic, Malawi and other places – as well as the playing of a single performer on a lamellophone (mbira, likembe, or sanza) in Zimbabwe, the Cameroon, and many other regions, led me to search for similar technical possibilities on the piano keys. (I am deeply indebted to the recordings and theoretical writings of Simha Arom, Gerhard Kubik, Hugo Zemp, Vincent Dehoux and a number of other ethnomusicologists.) Two insights were important to me: one was the way of thinking in terms of patterns of motion (independent of European metric notions); the other was the possibility of gleaning illusory melodic/rhythmic configurations – heard, but not played – from the combinations of two or more real voices (analogous to Maurits Escher's “impossible” perspectives).

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In Automne à Varsovie a single pianist, with only two hands, seems to play simultaneously at two, three, sometimes four different speeds. The piece is a sort of a fugue with diminutions and augmentations from 3 to 4 to 5 to 7. My knowledge of the super-fast “elementary pulse” in African musical thinking made the polyrhythm (and “polytempo”) in this étude possible. But I am using only an idea from African notions of movement, not the music itself. In Africa cycles or periods of constantly equal length are supported by a regular beat (which is usually danced, not played). The individual beats can be divided into two, three sometimes even four or five “elementary units” or fast pulses. I employ neither the cyclic form nor the beats, but use rather the elementary pulse as an underlying gridwork. I use the same principle in Désordre for accent shifting, which allows illusory pattern deformations to emerge: the pianist plays at a steady rhythm, but the irregular distribution of accents leads to seemingly chaotic configurations. Another fundamental characteristic of African music was significant to me: the simultaneity of symmetry and asymmetry. The cycles are always structured asymmetrically (e.g. twelve pulses in 7 + 5), although the beat, as conceived by the musician, proceeds in even pulses.

Further influences that enriched me come from the field of geometry (pattern deformation from topology and self-similar forms from fractal geometry), whereby I am indebted to Benoît Mandelbrot and Heinz-Otto Peitgen for vital stimulus.

And then my admiration for Conlon Nancarrow! From his Studies for Player Piano I learned rhythmic and metric complexity. He showed that there were entire worlds of rhythmic-melodic subtleties that lay far beyond the limits that we had recognized in “modern music” until then.

Jazz pianism also played a big role for me, above all the poetry of Thelonious Monk and Bill Evans. The étude Arc-en-ciel is almost a jazz piece.

Yet my Études are neither jazz nor Chopinesque-Debussian music, neither African nor Nancarrow, and certainly not mathematical constructs. I have written of influences and approaches, but what I actually compose is difficult to categorize: it is neither “avant-garde” nor “traditional,” neither tonal nor atonal. And in no way post-modern, as the ironic theatricalizing of the past is quite foreign to me. These are virtuosic piano pieces, études in the pianistic and compositional sense. They proceed from a very simple core idea, and lead from simplicity to great complexity: they behave like growing organisms.

In conclusion, some remarks on the not immediately obvious titles. Fém is the Hungarian word for metal, but it has a “brighter” connotation, as the Hungarian word for light is fény. Galamb borong only sounds Hungarian; this title should be understood in the context of pseudo-Gamelan music, as non-sense Balinese. Coloana infinită is a very tall, columnar sculpture by the great Romanian sculptor Constantin Brancusi (it stands in the city of Târgu-Jiu in the southwestern Carpathians). With White on White I begin a third book of études; the piece is diatonic (almost exclusively white keys) and yet not tonal.

Musica ricercata is a youthful work from Budapest, still deeply influenced by Bartók and Stravinsky. The first piece contains only two tones (along with their octave transpositions); the second, three tones; and so on, so that the eleventh piece (a monotonous fugue) uses all twelve pitches. A severe, almost noble piece, hovering between academic orthodoxy and deep reflection: between gravity and caricature.

György Ligeti

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Bibliografia AA. VV., Ligeti, a cura di Enzo Restagno, Torino: EDT, 1995. SIMHA AROM, Polyphonies et polyrythmies instrumentales d’Afrique Centrale: structure et méthodologie, 2 voll., Paris: SELAF, 1985. SIMHA AROM, Su alcune impreviste parentele fra polifonie medievali e africane, trad. it. G. Morelli, in Polifonie: procedimenti, tassonomie e forme: una riflessione a più voci, a cura di M. Agamennone, Venezia: Il Cardo, 1996, pp. 163-179 (ediz. orig. Une parenté inattendue: polyphonies médiévales et polyphonies africaines, in Polyphonies de tradition orale. Histoire et traditions vivantes, Actes du colloque de Royaumont 1990, a cura di C. Meyer – M. Huglo – M. Pérès, Paris: Éditions Créaphis, 1993, pp. 133-148. KAROL BEFFA, programma di sala del concerto del 23 maggio 2003, Cité de la musique, Parigi. CARLO BOCCADORO, Musica cœlestis – Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi, Torino: Einaudi, 1999. PAUL GRIFFITHS, Ligeti, György (Sándor), in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, seconda edizione, a cura di Stanley Sadie e John Tyrrell, Londra: Macmillan, 2001. GYÖRGY LIGETI – GCKHARD ROELKE, Lei sogna a colori?, trad. it. Alessandro Peroni, Padova: Alet, 2004 (ediz. orig. Traumen Sie in Farbe? – György Ligeti in Gesprach mit Eckhard Roelcke, Wien: Paul Zsolnay, 2003). PIERRE MICHEL, György Ligeti: compositeur d’aujourd’hui, Paris: Minerve, 19952. ALESSANDRA MORRESI, György Ligeti: “Études pour piano, premier livre” – Le fonti e i procedimenti compositivi, Torino: EDT, 2002.