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Michèle Mazeau e Claire Le Lostec Con la partecipazione di Sandrine Lirondière Disprassia e apprendimento Metodi e strategie per l’intervento a scuola

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Scritto da una neuropsicologa infantile con alle spalle decenni di esperienza con bambini e giovani adulti disprassici e da due ergote-rapeute, Disprassia e apprendimento è una guida completa, dettagliata e innovativa su un disturbo ancora troppo poco conosciuto. Nell’o-biettivo di fare da sintesi e da punto di snodo tra le terapie individuali e l’apprendimento scolastico, infatti, il volume dimostra che il solo intervento di successo, per soggetti con disprassia, è quello che trae forza dalla sinergia tra rieducazione, personalizzazione e prestazioni scolastiche.Diretto a insegnanti, terapisti della riabilitazione, pediatri, neuro-psicologi, operatori clinici, ma anche a genitori, il libro affronta in modo estremamente pratico e utile le dimensioni e i contesti che, per i bambini con disprassia, sono vissuti con difficoltà e fatica — dall’apprendimento della letto-scrittura e del calcolo all’acquisizione delle competenze visuo-spaziali, dalla selezione dei migliori strumenti compensativi e delle più efficaci misure dispensative alle piccole e grandi fatiche della quotidianità — per migliorarne la qualità di vita e accompagnarli in un percorso di crescita e di sviluppo sereno e soddisfacente.

Michèle Mazeau, medico specialista in riabilitazione e neuropsicologa infantile presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Parigi.

Claire Le Lostec, ergoterapeuta e coordinatrice presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Parigi.

Sandrine Lirondière, ergoterapeuta presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Ménilmontant.

Michèle Mazeau e Claire Le LostecCon la partecipazione di Sandrine Lirondière

Disprassiae apprendimentoMetodi e strategieper l’intervento a scuola

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€ 21,00

Pubblicato nella versione originale con il titolo L’enfant dyspraxique et les apprentissages. Coordonner les actions thérapeutiques et scolaires. La presente traduzio-ne è pubblicata con l’autorizzazione delle Edizioni Elsevier.

ELSEVIER

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Scritto da una neuropsicologa infantile con alle spalle decenni di esperienza con bambini e giovani adulti disprassici e da due ergote-rapeute, Disprassia e apprendimento è una guida completa, dettagliata e innovativa su un disturbo ancora troppo poco conosciuto. Nell’o-biettivo di fare da sintesi e da punto di snodo tra le terapie individuali e l’apprendimento scolastico, infatti, il volume dimostra che il solo intervento di successo, per soggetti con disprassia, è quello che trae forza dalla sinergia tra rieducazione, personalizzazione e prestazioni scolastiche.Diretto a insegnanti, terapisti della riabilitazione, pediatri, neuro-psicologi, operatori clinici, ma anche a genitori, il libro affronta in modo estremamente pratico e utile le dimensioni e i contesti che, per i bambini con disprassia, sono vissuti con difficoltà e fatica — dall’apprendimento della letto-scrittura e del calcolo all’acquisizione delle competenze visuo-spaziali, dalla selezione dei migliori strumenti compensativi e delle più efficaci misure dispensative alle piccole e grandi fatiche della quotidianità — per migliorarne la qualità di vita e accompagnarli in un percorso di crescita e di sviluppo sereno e soddisfacente.

Michèle Mazeau, medico specialista in riabilitazione e neuropsicologa infantile presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Parigi.

Claire Le Lostec, ergoterapeuta e coordinatrice presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Parigi.

Sandrine Lirondière, ergoterapeuta presso il Servizio di terapia e di educazione speciale L’ADAPT di Ménilmontant.

Michèle Mazeau e Claire Le LostecCon la partecipazione di Sandrine Lirondière

Disprassiae apprendimentoMetodi e strategieper l’intervento a scuola

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€ 21,00

Pubblicato nella versione originale con il titolo L’enfant dyspraxique et les apprentissages. Coordonner les actions thérapeutiques et scolaires. La presente traduzio-ne è pubblicata con l’autorizzazione delle Edizioni Elsevier.

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I n d i c e

7 Prefazione (Michèle Mazeau)

11 Presentazione all’edizione italiana (Carlo Muzio)

13 CAP. 1 Introduzione

31 CAP. 2 Le premesse a ogni progetto terapeutico

81 CAP. 3 Scrivere

125 CAP. 4 Il computer a scuola

169 CAP. 5 Contare

199 CAP. 6 Leggere

217 CAP. 7 Competenze prassiche visuo-spaziali e scolarità

287 CAP. 8 Vita quotidiana

309 CAP. 9 Conclusione

315 Bibliografia

321 Quaderno a colori

335 Appendice all’edizione italiana Disprassia: disturbo della cordinazione motoria e disturbi

evolutivi del neurosviluppo Strumenti utili e software speciali

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PrefazioneMichèle Mazeau

Scritto sulla soglia della pensione, questo testo rappresenta il tentativo di sintesi della mia esperienza professionale condotta con giovani disprassici, svolta con l’obiettivo di favorire il loro inserimento professionale e sociale, e di alleggerire il peso costante costituito dalla difficoltà stessa.

In qualità di medico di rieducazione e specialista in neuropsicologia infan-tile, ho spesso avuto il privilegio di osservare la mia parola (in pubblicazioni, nell’attività di formazione, nelle riunioni, durante i consulti) ben accolta da psicologi, medici, rieducatori; in questo libro inoltre mi permetterò di parlare anche di ciò che riguarda la scuola.

Quante volte ho sentito dire: «Solo gli insegnanti sono legittimati a parlare di pedagogia», oppure: «Se questo bambino è malato o presenta una difficoltà di apprendimento, è compito della medicina, non della scuola» o ancora: «Quando Tizio entra nella mia classe, non è più un bambino con difficoltà, è un allievo».

Quante volte ho sognato che il giovane in questione potesse essere allo stesso tempo un bambino affetto da disprassia e un allievo, così come egli è nello stesso tempo un figlio, un fratello, un amico. Quante volte ho sostenuto che insegnanti e neuropsicologi debbano lavorare insieme, condividendo le stesse parole, i medesimi concetti, le stesse attività formative, non perché facciano le stesse cose, ma perché un linguaggio comune possa alimentare un progetto sfaccettato costruito a più voci. Quante volte mi sono battuta affinché questi disturbi dell’apprendimento vengano considerati nell’intersezione tra medicina

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e pedagogia, tra ciò che è terapeutico e ciò che è scolastico, dal momento che riguardando tanto una sfera quanto l’altra; poiché ogni professionista dispone di saperi e di sguardi differenti, occorre metterli insieme affinché si possano produrre reali passi avanti.

Per fortuna, nel lavoro sul campo, per questo o quel bambino, in questa o quella classe «normale» o speciale, più volte si sono potute attivare collabo-razioni informali, divoratrici di tempo e di energia ma ricche e incoraggianti. Queste persone, molte di loro sono rimaste anonime nella mia rievocazione (la maestra del piccolo U. che ha accettato, con tanto calore e intelligenza, la sfida di insegnare a leggere a questo giovane con agnosia visiva; la psicologa scolastica che ha permesso mille piccole azioni in grado di cambiare la vita di un altro bambino; la direttrice di una scuola dell’infanzia che sapeva, con così grande tatto e persuasione, rendere possibile l’impossibile), mi hanno insegna-to, passo dopo passo, in un difficile affiancamento, in che modo tessere insieme rieducazione, personalizzazione e studio scolastico, e come ciascun filo, preso da solo, per quanto sembri pertinente, non faccia che tracciare solo la strada della disillusione per questi bambini — capaci se motivati dagli apprendimenti e dall’esperienza scolastica — e per i loro genitori.

Questo è il motivo per cui — forte di un’esperienza sul campo di quasi trentacinque anni, svolta con bambini scolarizzati e con numerosi incontri con gli insegnanti, forte di un lavoro d’équipe con il Servizio di terapia e educazione speciale ADAPT di Parigi che mi ha consentito di arricchirmi, come per osmosi, delle riflessioni di ergoterapeuti, psicomotricisti, ortofonisti e psicologi clinici — ho voluto esaminare qui, insieme a loro, il modo in cui concretamente, giorno per giorno, si può (si deve?) tenere conto insieme del deficit e delle necessità di acquisizione scolastica di questi bambini, mescolando senza distinzione ciò che emerge in certi momenti dalla relazione individuale con i rieducatori e ciò che, in altri momenti, emerge dalla situazione scolastica.

Questo saggio, dunque, non poteva fare a meno dell’esperienza sul campo dei rieducatori, vero punto di snodo tra le terapie individuali e l’apprendimen-to scolastico. La partecipazione di Claire Le Lostec e di Sandrine Lirondière permette proprio questo approccio allo stesso tempo efficace e realistico. Ergoterapeute di formazione, ci consentono di usufruire degli insegnamenti accumulati giorno per giorno ma soprattutto del punto di vista acquisito, che consente loro di giudicare, con il passare degli anni, l’appropriatezza delle diverse strategie.

Questa scrittura a tre riflette la nostra volontà di restare sempre vicine al quotidiano, al concreto, al tangibile. In effetti, se dopo una trentina d’anni abbiamo fatto rapidi progressi nella conoscenza teorica delle patologie dis-,

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Prefazione 9

ci sembra che le proposte terapeutiche restino ancora spesso incerte, inadatte e qualche volta perfino dannose, tanto è vero che in questo ambito l’inferno per i giovani disprassici può essere lastricato di buone intenzioni, nutrite di abitudini e di pseudo buon senso…

Pertanto, questo libro non è destinato (unicamente) ai rieducatori: sia-mo consapevoli che ogni rieducazione, educazione, rimedio e adattamento al mondo, per quanto ben pensati e messi in atto, sono inutili se non trovano la loro applicazione naturale a scuola, se il bambino non può goderne i benefici legittimamente attesi in termini di riuscita scolastica e di autostima. Altrimenti, lo si inganna e gli si sottrae il tempo dell’infanzia già così compromessa… Auspichiamo che anche medici (pediatri, neuropediatri, medici specializzati in rieducazione, pedopsichiatri), psicologi clinici e neuropsicologi trovino in questo lavoro risorse per ancorare i loro saperi sul terreno del quotidiano.

Non si tratta nemmeno di un testo destinato specificamente agli inse-gnanti: non abbiamo in effetti alcuna particolare legittimità nel campo della pedagogia, se non per il nostro interesse di lunga data per questa disciplina che conserva legami stretti con «l’educazione terapeutica», che include tutta la rieducazione con i bambini. Tuttavia, ci auguriamo che esso possa interessare molti professionisti coinvolti nell’educazione e nell’apprendimento di questi sorprendenti bambini (gli insegnanti, di sicuro, e in particolare gli insegnanti specializzati, ma anche i medici e gli psicologi scolastici, gli educatori, gli in-segnanti di sostegno, i loro formatori).

Infine, questo lavoro può essere considerato un testo di rieducazione.Lontano dal prestigio di libri accademici — di cui abbiamo tanto bisogno

per cercare di comprendere il funzionamento cognitivo di questi giovani — abbiamo realizzato un’opera pratica, concreta, legata alle piccole cose che, nel quotidiano, fanno o disfano la vita di queste persone, un libro che si interessa dei molteplici problemi, banali, ripetitivi, che affaticano le giornate.

In questo senso, speriamo, anche i genitori potranno trovarvi una traccia per sostenere i loro bambini negli sforzi per apprendere e diventare grandi, a dispetto delle differenze.

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Presentazione all’edizione italianaCarlo Muzio

Nel nostro Paese la conoscenza della disprassia evolutiva e delle conse-guenze che questo disturbo può determinare sull’acquisizione dei processi di apprendimento e, più in generale, sullo sviluppo della persona con disprassia è ancora piuttosto limitata, specie fra i clinici dell’età evolutiva: sono ancora relativamente rare le diagnosi specifiche, nonostante la diffusione del problema.

Paradossalmente la «curiosità» del pubblico non specialista, genitori, insegnanti, terapisti è, invece, aumentata rapidamente negli ultimi anni. Quando abbiamo fondato l’AIDEE (Associazione Italiana Disprassia Età Evolutiva) nel 2008 avevamo l’impressione di trovarci tra un piccolo gruppo di «carbonari». Lo sviluppo dell’associazione e, più recentemente, la pubblicazione del volume Il bambino disprassico (Erickson, 2014), hanno contribuito in modo significa-tivo a diffondere la conoscenza dell’esistenza di un problema che è alla base di diverse e significative difficoltà nello sviluppo neuropsicologico del bambino, ma che spesso restava senza nome. Testimonianza di questo interesse sono i siti e i blog nati negli ultimi anni sulla disprassia.

Per questo motivo, quando la dott.ssa Marisa Bono ci ha presentato il volume di M. Mazeau, è emersa l’urgenza della traduzione al fine di condivi-dere e diffondere, anche in Italia, le buone pratiche cliniche e soprattutto la necessaria integrazione fra il processo riabilitativo e gli interventi educativi.

La ricchezza dell’esperienza clinica degli autori permette di fare il ne-cessario salto in avanti dalla diagnosi, e dall’individuazione delle specifiche

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difficoltà, alle proposte operative. Questo volume è un primo manuale pratico che fornisce un linguaggio comune ai genitori, ai terapisti e agli insegnanti per facilitare la comprensione delle difficoltà prassiche ed esecutive e proporre una guida alle buone pratiche necessarie per aiutare lo sviluppo delle prassie e delle funzioni adattive.

Come viene descritto dalle stesse autrici, con notevole modestia, que-sto libro potrebbe essere definito «un’opera pratica […] legata alle piccole cose che […] fanno o disfano la vita di queste persone», ma la grandezza del testo è proprio in questa capacità di collegare le informazioni sullo sviluppo neuropsicologico dei soggetti con disprassia alle strategie quotidiane utili per compensare e superare le specifiche difficoltà. Anche per questa ragione, oltre che per esigenze editoriali, si è deciso di mantenere integralmente gli esempi pratici relativi all’esperienza francese con i necessari riferimenti alla legisla-zione scolastica francese e alle figure cliniche riabilitative d’oltralpe. Dove è stato possibile sono stati comunque inseriti riferimenti alla situazione italiana cercando di evidenziare il parallelismo funzionale fra i diversi operatori.

Nel testo sono presenti anche inserimenti illustrativi per chiarire i principa-li aspetti clinici e nell’appendice all’edizione italiana abbiamo inserito casi clinici esemplificativi e un’integrazione sulla legislazione scolastica relativa ai BES.

La nostra speranza è che questo testo serva da stimolo e guida per af-frontare la disprassia e i disturbi del neurosviluppo in un’ottica in cui siano posti al centro dell’intervento lo sviluppo e le caratteristiche funzionali del bambino nei suoi punti di forza e di debolezza, piuttosto che le «etichette» diagnostiche o i «metodi».

Dalla nostra esperienza e dal confronto con il contesto francese emerge la necessità, di fronte a un bambino con difficoltà di sviluppo, di cercare di sviluppare una doppia diagnosi: accanto alla necessaria diagnosi clinica è indispensabile infatti definire una vera diagnosi funzionale, capace di descri-vere le competenze e i bisogni del bambino nel suo ambiente e nei sistemi di relazione, al fine di progettare un percorso riabilitativo e rieducativo efficace.

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Le premesse a ogni progetto terapeutico

Le qualità oggettive ( fisiche e intellettuali) degli uomini possono essere differenti, questo non riguarda gli uomini nella loro essenza.

Essi non sono né diseguali né differenti, essi sono incomparabili. A. Pichot, Opinions

Concepire un progetto terapeutico, con le numerose e concrete implica-zioni nell’attività di ogni giorno — al di là della necessità di una diagnosi certa e approfondita —, presuppone l’avere in mente di continuo tre concetti che sono alla base di tutte le misure prese per quel preciso bambino:• le procedure utilizzate nella rieducazione costituiscono gli insegnamenti espli-

citi relativi alle aree nelle quali il bambino è in grande difficoltà; i contenuti e i metodi impiegati durante le sedute da una parte, i risultati limitati dall’altra parte, devono sempre tener conto di questa realtà;

• il progetto terapeutico non può consistere in una serie di progetti «locali» o parziali (per quanto ben concepiti), giustapposti tra loro; il che tuttavia è quanto accade il più delle volte;

• l’elemento unificatore e determinante dell’insieme delle azioni proposte rispetto alla problematica dei «disturbi specifici dell’apprendimento» (DSA) è il successo scolastico. In effetti, il progetto scolastico, e i bisogni ad esso connessi (in termini di contenuto e di vincoli temporali), motivano la scelta della strategia terapeutica; si tratta di un aspetto che spesso rimane to-

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talmente sconosciuto o, se compreso, finisce per risultare ininfluente rispetto alle proposte terapeutiche.

Il processo che guida gli insegnamenti e la rieducazione

Gli ultimi trent’anni hanno messo in evidenza, nel campo della neuropsicologia, alcuni processi legati all’apprendimento. Questi ultimi (inclusa la rieducazione, che fa parte integrante degli insegnamenti proposti al bambino) possono essere impliciti o espliciti, controllati oppure automatici: a seconda dei casi, pur partendo dalle medesime condizioni (accesso al sapere, livello di performance raggiungibile), le performance possono perfino non migliorare.

Apprendimenti impliciti versus espliciti

Nei bambini bisogna distinguere:• da una parte, gli apprendimenti su base innata, che si fondano su alcune

funzioni selezionate dall’evoluzione e geneticamente programmate;• dall’altra, gli apprendimenti neurologicamente «acquisiti», di tipo culturale,

la cui acquisizione è basata del tutto sull’insegnamento esplicito degli adulti nei confronti dei bambini.

I processi cognitivi implicati nei due casi non sono gli stessi.

Apprendimenti legati alla specie

I bambini nascono «dotati» di diverse «cassette degli attrezzi» (per la socializzazione e la comunicazione, per la coordinazione motoria, per il lin-guaggio orale, ecc.), che consentono loro di sviluppare determinate funzioni (il linguaggio, il movimento e la manipolazione fine, l’oculomotricità). Questo avviene, a condizione che possano disporre del libero gioco dei sistemi senso-motori e delle interazioni (spontanee e implicite, il più delle volte non organiz-zate deliberatamente) con l’ambiente e con gli adulti. Questi apprendimenti sono fondati su reti neuronali e su competenze sicuramente immature ma già presenti in germe nei neonati (competenze precoci).

Per manifestare piacere o dolore, per spostarsi strisciando, poi a quattro zampe, infine camminando in piedi, per sviluppare la capacità di orientare e fissare lo sguardo, per comprendere e poi sviluppare un linguaggio comunica-zionale, per utilizzare la presa pollice-indice, i bambini non hanno bisogno né di un insegnamento esplicito né di una dimostrazione. I tempi (la maturazione) e

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le interazioni (spontanee) con l’ambiente (fisico, affettivo, sociale) permettono di informare i sistemi adatti e contribuiscono al loro sviluppo progressivo a spirale (lo sviluppo di ogni funzione, in interdipendenza con le altre, consente interazioni sempre più complesse e sofisticate con l’ambiente).

Secondo gli studiosi, lo sviluppo del bambino procede seguendo una di queste tre modalità:• un modello che prevede «programmi» innati che maturano (innatisti);• un modello a tappe, dove ogni tappa dello sviluppo fa da base per la successiva

(costruttivisti);• un modello che deriva dall’interazione tra molteplici sistemi indipendenti

ma simultaneamente implicati (biologici, sensoriali, motori, cognitivi, am-bientali), che finiscono automaticamente e spontaneamente per sfociare in stadi stabili più o meno successivi (autoorganizzazione nelle teorie dei sistemi dinamici).

Le competenze di specie sono riconoscibili perché danno vita a perfor-mance (senso-motorie e/o cognitive) che si sviluppano seguendo un ritmo prevedibile, in tutte le culture, sotto tutte le latitudini. La cronologia di tali acquisizioni costituisce un punto di riferimento affidabile1 per seguire lo svi-luppo di tutti i bambini.

Il loro raggiungimento selettivo, la loro atipicità o anomalia di sviluppo danno luogo ai «disturbi cognitivi specifici» che possono riguardare le diverse funzioni: linguaggio (disfasia), coordinazione gestuale complessa (DCM), trattamenti spaziali (disfunzioni visuo-spaziali), attenzione, funzione d’inibi-zione e di strategia (sindrome disesecutiva), identificazione sensoriale (agnosie visive), ecc. (Mazeau, 2005).

Apprendimenti legati a un insegnamento culturale

Altri apprendimenti, invece, dipendono del tutto dall’educazione fornita. Non si potrebbero mai generare senza l’intervento volontario, cosciente e sistematico degli adulti. I bambini devono ricevere un insegnamento esplicito dagli adulti. Tale tipo di apprendimento è reso possibile dal nostro equipaggia-mento di base, selezionato dall’evoluzione; non è però semplicemente inscritto nel nostro patrimonio: è necessario uno sforzo intenzionale e cosciente, spesso associato a un esercizio progressivo, affinché:• nuove reti si costituiscano (alcuni parlano di «riciclaggio neuronale»; De-

haene, 2007);

1 Si tratta evidentemente di fasce d’età (media ± 1) nel corso delle quali queste capacità si manifestano.

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• queste nuove attitudini si sviluppino per poi automatizzarsi.

In effetti, questi apprendimenti hanno bisogno che gli «strumenti», di cui è inizialmente dotato il bambino, siano riorientati (dall’insegnamento e dall’esercizio) verso la creazione ex novo di reti originali che producano nuove performance: la lettura (Dehaene, 2007) e la scrittura, il calcolo, la trasmis-sione e l’accumulazione del sapere scolastico, la realizzazione di atti motori «culturalmente appresi» (prassi), ecc.

Queste capacità innate sono rese possibili dalle sorprendenti capacità d’apprendimento di cui sono dotati gli esseri umani, sistematicamente sfrut-tate dall’educazione e dalla scuola, e costituiscono il fondamento della varietà delle culture.

Il mancato accesso a questo tipo di sapere (deficitario oppure qualita-tivamente anormale) caratterizza il gruppo dei «disturbi specifici dell’ap-prendimento» (DSA), e cioè la dislessia, la disortografia, la discalculia, la disgrafia e la disprassia. La stessa denominazione di questi disturbi, ovvero «disturbi del neurosviluppo», riflette la forza del legame che unisce queste patologie e la scolarità.

Apprendimento motorio

Per quanto concerne le azioni2 (insieme intenzionale di movimenti coordinati nel tempo e nello spazio per realizzare un atto motorio finalizzato), e tutte le capacità senso-motorie e cognitive, alcune derivano da meccanismi

2 Nel linguaggio comune, ma spesso anche nella letteratura scientifica, i termini relativi all’organizza-zione della funzione motoria sono spesso sovrapposti oppure usati come sinonimi. Solo di recente la loro definizione è stata precisata meglio, grazie anche allo sviluppo delle neuroscienze che hanno permesso una visione nuova del sistema motorio e dei suoi rapporti con i sistemi percettivi e cognitivi (il circuito azione-percezione-cognizione). Proponiamo alcune definizioni sintetiche.

Gesto: tratto espressivo dell’uomo, lo distingue dagli altri primati nei quali l’arto superiore è sempre coinvolto in ruolo di strumento. I tratti fondamentali dei gesti coinvolgono la mano e la bocca e fun-gono da prerequisiti nello sviluppo del linguaggio.

Movimento: consegue all’attivazione di un limitato distretto muscolare che produce lo spostamento di una o più articolazioni nello spazio (ad esempio, il movimento di flessione indotto dalla stimolazione elettrica della corteccia motoria primaria).

Atto motorio: comprende più movimenti semplici, eseguiti in modo fluido, sinergico, finalizzati a uno scopo preciso, e può coinvolgere diverse articolazioni. Un atto motorio può essere considerato segmento di un’azione. Ad esempio, l’azione di scrivere può essere scomposta nell’afferrare la penna, impugnarla, regolare la prensione e la pressione sul foglio, eseguire la sequenza di movimenti per tracciare un grafema.

Azione: è quanto deriva dalla capacità di programmare intere sequenze di atti motori, coordinandone i singoli obiettivi in atti più complessi, caratterizzati da uno scopo finale comune (come la scrittura,

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«obbligati» selezionati dall’evoluzione, mentre altre dipendono strettamente da un insegnamento o da un esercizio specifico, funzione del particolare ambiente culturale nel quale il soggetto cresce e poi evolve.

Lo sviluppo delle coordinazioni selezionate dall’evoluzione segue un ritmo scandito cronologicamente e altamente prevedibile, conosciuto con l’espressione «sviluppo psicomotorio»: il controllo della testa; strisciare; stare seduti e a quattro zampe; la presa tra pollice e indice; la posizione eretta; camminare; l’equilibrio statico; l’equilibrio dinamico (i salti); ricevere oggetti in movimento (la palla), ecc. Si tratta di uno sviluppo che integra sia la coor-dinazione oculomotoria sia quella oculomanuale, che determinano una simile evoluzione e la rendono possibile. Classicamente, un ritardo (o una anomalia qualitativa) in questo tipo di sviluppo è designato con l’espressione, sempre molto adoperata, di «ritardo psicomotorio o DCM».

Altre azioni, al contrario, per così dire «facoltative» rispetto all’evo-luzione, sono tuttavia indispensabili in una comunità; il loro insegnamento progressivo da parte degli adulti contribuisce a inscrivere il bambino nel suo ambiente sociale e culturale.

per l’appunto). Una determinata azione può costituire una specifica prassia (ad esempio, scrivere è la prassia della scrittura).

Prassia: funzione cognitiva adattativa che si sviluppa attraverso l’interazione e l’integrazione di più reti neurali che fanno parte dei sistemi neuroevolutivi (sistema cognitivo, percettivo, motorio e affettivo-relazionale) (ndc).

Esempi di gesti culturali (e loro variabilità in funzione dell’epoca e del luogo) e di prassie

• Salutarsi (facendo un saluto con la mano, unendo le due mani e inclinando il tronco, dando un bacio, abbassando gli occhi, facendo la riverenza) (è un esempio di gesto culturale).

• Mangiare (con delle bacchette, con una forchetta, un coltello, le dita) (è un esempio di prassia).

• Abbigliarsi (con un sari, i jeans, un reggiseno, delle calze, una cravatta, dei lacci, una cerniera lampo, dei bottoni, delle fibbie) (è un esempio di gesto culturale).

• Scrivere (con un calamaio, un pennello, una piuma, una stilografica, dall’alto in basso o da destra a sinistra) (è un esempio di prassia).

• Guidare una vettura (o una carrozza, un asino sellato, un risciò, un carro a vela).• Cambiare una ruota (o ferrare un cavallo), utilizzare un trapano (un bastone,

una selce, un laser, un mouse, un rotolo di scotch).• Suonare la tromba (o l’arpa, il violino, la batteria, la viola da gamba, l’armonica).

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Scrivere

La scrittura è un insieme di segni la cui primaria caratteristica è il differire da un sistema a un altro. Anche all’interno di uno stesso sistema,

può accadere che il medesimo segno vari ancora sensibilmente a seconda dello stile di un’epoca o di un accadimento storico.

Dove hanno origine dunque queste costanti variazioni nel tracciare un segno scritto?

Nei supporti e negli strumenti: i tratti acuti cuneiformi impressi dal calamo sull’argilla in Mesopotamia non somigliano affatto ai tratti rapidi

lasciati da un pennello cinese sulla seta o sulla carta.In questo fiorire di scritture e di segni, possiamo scorgere una costante: la

volontà di trasmettere un messaggio.

A. Zali e A. Berthier, L’aventure des écritures

Il «ritardo»1 grafico — la disgrafia — è certamente «il» segno più precoce e più ricorrente delle patologie disprassiche. Alcuni ne hanno quindi tratto (a torto) la conclusione che la disgrafia poteva essere un «indicatore» della disprassia, riducendo così la diagnosi al sintomo. Il risultato è che spesso le rieducazioni si concentrano solo su questo sintomo (si veda capitolo 2):

1 Questo termine, molto utilizzato, è in realtà poco adatto, poiché di fatto non si tratta di un vero e proprio «ritardo» (un semplice scarto temporale), ma di un’impossibilità nello sviluppo di una capacità, rispetto a criteri sia cronologici che qualitativi.

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grafomotricità (psicomotricità), rieducazione grafica (ergoterapia o terapia occupazionale), grafoterapia (psicologia), ecc. La disgrafia può essere il segno di numerose patologie, neurologiche e/o psicodinamiche (si veda figura 1.1), e può addirittura manifestarsi al di fuori di una patologia propriamente detta. Essa è dunque solo uno degli elementi del puzzle, che il medico deve raccogliere per ottenere tutti i dati.

Recuperiamo in breve alcune nozioni cliniche:• i disturbi neuromotori (tra cui le patologie del cervelletto, anche lievi) sono

la causa neurologica più frequente di disgrafia;• le disgrafie non derivano necessariamente da una disprassia, mentre non c’è

disprassia senza disgrafia;• i disturbi visuo-spaziali isolati (senza disprassia) non sono accompagnati

necessariamente da disgrafia;• anche altri disturbi dis- generano problemi nella scrittura:

– disturbi dell’attenzione e delle funzioni esecutive (le lettere sono mal for-mate e il gesto grafico fluido è troppo rapido con comparsa di ripetizioni e reiterazioni continue);

– disturbi visuo-pratto-gnosici (si tratta spesso di grave disgrafia con man-canza d’attenzione alla traccia grafica) (Mazeau, 2005, pp. 75-99);

– disturbi del linguaggio (disfasia, dislessia); possono essere accompagnati da disturbi grafici la cui natura e intensità (e dunque i rimedi) sono molto differenti.

Ricordiamo alcune caratteristiche della disgrafia su base disprattica:• lentezza nella scrittura, con impossibilità di velocizzare, sintomo di mancata

automatizzazione della scrittura (il gesto rimane sotto il controllo attenzionale cosciente, il che limita la velocizzazione);

• fluttuazione della performance (si veda tabella 1.2); il bambino realizza la stessa lettera in modi diversi, a seconda del contesto grafico e dei momenti, mette in pratica modi diversi di indovinare e di sbagliare (soprattutto se è un bambino piccolo; più tardi, con l’esperienza, fisserà la forma grafica più confacente);

• scarsa strutturazione delle lettere, realizzate per «tratti» che non costituiscono dei sotto-elementi naturali della lettera (asta, cerchio, legame);

• scrittura di lettere «legate» meno efficace rispetto alle lettere «slegate»; si nota un netto aggravamento del disturbo nel corsivo o negli esercizi in inglese (migliore realizzazione con le lettere bastone e con lo stampatello).

Nessuno di questi segni preso in maniera isolata è sufficiente a fare una diagnosi (si veda tabella 1.1). Questo significa che in presenza di un disturbo o

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di un ritardo nelle competenze grafiche verificato e significativo (cioè attestato almeno da un test di misurazione standardizzato), inizialmente è necessaria una diagnosi differenziale (Mazeau, 2008a).

Una volta che la disprassia è stata confermata, resta complesso decidere in che modo prendere in carico il disturbo di disgrafia: innanzitutto bisogna essere consapevoli del duplice significato del termine «scrivere» e del ruolo della scrittura manuale negli insegnamenti scolastici. Successivamente, è ne-cessario stabilire quali sono le diverse funzioni dello scritto, per determinare per ogni bambino quali siano le condizioni di scrittura problematiche, di che natura siano e di che intensità. Infine, occorre stabilire in quali condizioni il computer può costituire un aiuto efficace a scuola.

Il duplice significato di «scrivere»

Con il termine «scrittura» si designa, di volta in volta:• il gesto grafomotorio (e dunque la prassia corrispondente), ovvero il «disegnare

le lettere». «Scrivere bene» in questa accezione significa scrivere con grazia, in maniera leggibile e gradevole da un punto di vista estetico (lettere ben formate, presentazione conforme agli standard culturali). Ci si complimenta con i bambini che realizzano dei «bei quaderni», graziosi da guardare. Chi realizza delle belle lettere e ottiene una bella pagina (aspetto visivo e artistico) realizza la calligrafia o, se si tratta di stampa, una buona composizione (scelta di font, carattere in minuscolo, maiuscolo, colore, impaginazione);

• l’attività cognitiva (elaborazione del pensiero) associata a un’attività linguistica (produzione di un testo); si tratta di tradurre un pensiero in parole e frasi ben formate linguisticamente, la cui traccia duratura consente la trasmissione a distanza (geografica o cronologica). In questa accezione, affermare che un testo è «ben scritto» significa che è scritto in una lingua chiara e/o che traduce nel miglior modo possibile il pensiero dell’autore, le sue emozioni, le sue opinioni ed esperienze.

Il contenuto (il pensiero) contribuisce alla qualità del testo insieme alle scelte linguistiche. Si parla di un «bel testo» quando autore e lettore possono con-dividere il contenuto linguistico, le idee e le emozioni. Chi produce un testo è un autore (o un poeta).

Quando si fa riferimento alla scrittura, bisogna dunque sempre precisare chiaramente se si parla:

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• della forma superficiale, la scrittura manuale, la calligrafia, cioè il gesto grafo-motorio, la prassi, che consiste, con il supporto di uno strumento di scrittura, nel tracciare delle lettere;

• del contenuto, dell’aspetto linguistico e semantico di uno scritto, della tra-smissione del pensiero con l’aiuto di simboli arbitrari ma convenzionali la cui traccia è durevole (è proprio questa persistenza della traccia che distingue la lingua scritta dalla lingua orale).

Il contenuto (la base) di ciò che è scritto è in effetti del tutto indipendente dalla forma superficiale, ovvero dalla maniera in cui sono realizzate le lettere. Che cosa importa del modo in cui il premio Nobel per la letteratura ha mate-rialmente scritto il suo testo: con un pennarello, una stilografica, un gesso, in inglese, con scrittura continua o slegata o in maiuscolo stampatello, in lettere latine o cirillico, al computer, utilizzando o meno il correttore ortografico, o perfino dettando a un assistente?

Per evitare ogni confusione, definiamo quindi la forma superficiale (ov-vero l’atto di tracciare le lettere a mano) come scrittura manuale. L’attività intellettuale e linguistica che conduce a produrre un testo è designata con l’espressione produzione di testi.

Alcuni, ad esempio Lurçat (Lurçat, 2007), ipotizzano un legame obbliga-torio tra il gesto grafomotorio e l’attività linguistica collegata alla produzione di scritti, dal momento che il primo è concepito come un facilitatore della seconda, sia nella fase di apprendimento della scrittura che successivamente nelle attività di pianificazione del testo e di produzione di scritti. Questa idea ha inoltre influenzato alcuni metodi d’insegnamento nell’ambito della scuola primaria. È possibile, in effetti, che nel bambino sano la realizzazione del gesto grafomotorio associato alla lettura di grafemi corrispondenti contribuisca, per la moltiplicazione degli stimoli coerenti e convergenti (kinestesici, propriocettivi, visivi e fonologici), a facilitare l’integrazione e l’automatizzazione del legame orale/scritto. La questione si pone in maniera molto diversa nei bambini colpiti da disprassia, poiché è molto poco probabile che i loro gesti — mal coordinati e mal controllati — restituiscano loro informazioni coerenti con quelle fornite dai sistemi visivo, percettivo e fonologico.

Al contrario, si può essere certi del fatto che la realizzazione gestuale imperfetta del bambino disprassico:

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• da una parte, va a impoverire le informazioni visive e fonologiche che, isola-tamente, avrebbero potuto essere delle informazioni affidabili;

• d’altra parte, finisce per consumare le sue migliori risorse attenzionali, a discapito delle informazioni visive e fonologiche.

Infine, disponiamo, da almeno cinquant’anni, dell’esperienza con bam-bini che, non essendo in grado di realizzare alcun gesto (bambini tetraplegici, bambini che soffrono di atrofia muscolare spinale infantile – SMA) imparano a leggere (e in seguito a scrivere, con l’aiuto di un materiale personalizzato) con facilità, spesso anche precocemente, benché non abbiano mai potuto tracciare alcuna lettera né realizzato alcun gesto simile.

I risultati, conseguiti tra questi bambini SMA, hanno dimostrato l’efficacia del ragionamento ipotetico-deduttivo, pur privo della possibilità di ricorrere alla manipolazione. […] [L’insieme degli studi] ha messo in evidenza in que-sti bambini una superiorità nello sviluppo delle cognizioni spaziali rispetto al resto della popolazione della stessa età. ( Jouinot et al., 2008)

In qualsiasi adulto, la maniera più comune, facile, semplice e corrente di creare concretamente uno scritto è realizzarlo con la grafia a mano. A oggi, sempre più persone realizzano i loro scritti direttamente al computer, ma se ne avessero bisogno sono in grado di scrivere anche a mano: il computer è per loro un’alternativa che hanno adottato, che risponde a determinati bisogni ma che non rimette in discussione l’utilità, la semplicità e l’efficacia della scrittura manuale.

La scrittura a mano non avviene «spontaneamente» né per una semplice esposizione allo scritto in sé. Essa è frutto di un insegnamento particolare che comincia all’inizio dell’esperienza scolastica e termina, normalmente, con l’automatizzazione del gesto.

Il ruolo della scrittura nell’apprendimento

La scrittura manuale è una prassi complessa

La scrittura manuale ha bisogno di un insegnamento preciso, intenzionale e sistematizzato da parte di un adulto nei confronti di un bambino, insegna-mento senza il quale tale abilità non si può sviluppare: si tratta infatti di una vera e propria prassi.

Questo apprendimento dipende da un allenamento progressivo e in-tensivo, spesso iniziato al secondo anno della scuola dell'infanzia, e in modo

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sistematico e per più settimane già nell’ultima classe; prosegue per tutto il primo anno di scuola primaria e spesso ancora al secondo anno.

Questi esercizi continui e regolari, che continuano in media per tre anni consecutivi, sono necessari affinché i bambini acquisiscano una gestualità fluida e precisa. Devono essere in grado di realizzare sequenze rapide e perfette, dal segno preciso e rigoroso, devono essere capaci di produrre i dettagli pertinenti e significativi del disegno di ogni lettera (tali da permettere di distinguere la a dalla d, la n dalla b, la l dalla p, la e dalla c, la k dalla b, ecc.). I bambini in genere, a seconda della loro abilità, cominciano ad automatizzare (in parte) la scrittura a mano nel corso del secondo o terzo anno della scuola primaria o all’inizio del quarto (successivamente, la scrittura subisce un’ultima trasformazione nel corso dell’adolescenza, si personalizza e rispecchia lo stile di ognuno).

Il tratto grafico dunque può essere prodotto in maniera routinaria e real-mente senza controllo attenzionale solo a partire dal secondo o terzo anno della primaria, liberando così risorse cognitive indispensabili per svolgere attività di alto livello.

Perché imparare a scrivere a mano?

Contrariamente alla lettura, alla matematica e alle conoscenze curricolari, la scrittura a mano è l’unico apprendimento scolastico a non essere insegnato di per sé: non gode quindi della stessa posizione delle altre materie. L’insegna-mento della scrittura a mano non è finalizzato ad apprendere a scrivere bene, in modo chiaro, poiché i programmi scolastici non includono la calligrafia.

Il motivo per cui è necessario un lungo esercizio nella scrittura a mano delle lettere consiste unicamente nel raggiungere un automatismo nella rea-lizzazione grafomotoria, che è in definitiva il presupposto per una scrittura utile ed efficace.

In effetti, la scrittura manuale è insegnata esclusivamente perché è uno strumento (per prendere appunti, produrre testi, disporre di una memoria esterna) e non può ricoprire questo ruolo se non è perfettamente padroneggiata e automatizzata (così da non richiedere risorse attenzionali indispensabili). La scrittura manuale, una volta automatizzata, non è in effetti che un supporto per realizzare compiti di alto livello che consentono l’apprendimento.

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Competenze prassiche visuo-spaziali e scolarità

Ma guardiamoci bene dal sottovalutare l’unica cosa sulla quale possiamo agire personalmente e che risale alla notte

dei tempi pedagogici: la solitudine e il senso di vergogna del ragazzo che non capisce, perso in un mondo in cui gli altri capiscono.

D. Pennac, Diario di scuola

Le difficoltà di un bambino disprassico si ripercuotono su tutti gli appren-dimenti e, a scuola, riguardano tutte le materie dal momento che interessano competenze trasversali (lettura, scrittura, ortografia). Di seguito, ci occupe-remo delle possibili ripercussioni in un ambito dove le competenze prassiche visuo-spaziali sono particolarmente sollecitate: la geometria. In un secondo momento, affronteremo le conseguenze in materie fondamentali quali lette-ratura, grammatica, matematica, storia e scienze. Proveremo così a mettere in luce gli aspetti visivi, prassici e spaziali presenti nelle diverse discipline e spesso in parte sconosciuti.

Dopo aver evidenziato gli elementi che disturbano, in modo nascosto, l’apprendimento dei bambini, proporremo un’analisi dei differenti materiali didattici. Benché sia necessario e indispensabile che l’insieme dei materiali sia studiato dal punto di vista dei problemi visuo-spaziali dei bambini, qui trattia-mo, a titolo d’esempio, solo i materiali più comuni, quali ad esempio mappe, schemi, grafici, disegni, oggetti geometrici, fotografie, immagini, tabelle. Un

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simile approccio analitico va in realtà generalizzato e utilizzato ogni qual volta sia necessario.

È proprio a partire da questi strumenti di analisi che, nel presente studio, presentiamo le nostre indicazioni riguardo agli aiuti da mettere in campo e i modelli concreti.

Per favorire la scolarità dei bambini disprassici è indispensabile adattare i diversi materiali didattici, che altrimenti non potrebbero essere utilizzati per via dei loro specifici deficit (prassici e visuo-spaziali). L’obiettivo è permettere a questi bambini un apprendimento scolastico che si svolga nello stesso lasso di tempo dei propri compagni (si veda capitolo 1), ma con materiali didattici accessibili (per lo studio, le verifiche e gli esami).

Suggeriamo di formalizzare (soprattutto nel piano di studi personalizzato) le modifiche ai materiali didattici ritenute indispensabili per il bambino con disprassia.

Principalmente è l’ergoterapeuta (o il terapista occupazionale) a mettere a disposizione (del fanciullo, degli insegnanti, dei genitori) le sue competen-ze di analisi delle attività e di miglioramento del contesto ambientale, con l’obiettivo di fornire proposte pertinenti per quanto riguarda tali adattamenti (sia dei materiali didattici sia dell’ambiente) e di ottimizzare la partecipazione del bambino.

In effetti, grazie alla sua formazione, l’ergoterapeuta può, nel corso delle visite periodiche e nell’osservazione durante le sessioni individuali di riedu-cazione, analizzare nel dettaglio le difficoltà incontrate dal bambino, la loro origine (gestuale, visiva, spaziale), e tentare differenti adattamenti in funzione dei disturbi ma soprattutto delle capacità di compensazione.

È imprescindibile considerare continuamente al tempo stesso sia il con-testo individuale più favorevole sia la situazione all’interno del gruppo classe.

Si dovrà in un secondo momento lavorare nel convincere i diversi partner (la scuola, la famiglia e il bambino stesso) della necessità di tali adattamenti. Si tratta di costruire un vero partenariato tra l’allievo, l’insegnante, il riedu-catore e la famiglia, affinché l’insieme degli aiuti proposti risponda bene ai bisogni specifici del bambino e al suo progetto personale e scolastico (si veda capitolo 2).

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Competenze prassiche visuo-spaziali e scolarità 219

Alcune competenze trasversali: lettura, scrittura e ortografia

Possiamo isolare tre grandi tipi d’apprendimento trasversali che riguar-dano la scolarizzazione nel suo insieme: la lettura, la scrittura e l’ortografia (si vedano capitoli 3, 4, 5 e 6).

In generale, quel che disturba il bambino disprassico non è la sostanza, ovvero il contenuto didattico di queste materie, ma la forma, cioè il modo in cui vengono presentate e l’approccio utilizzato nell’insegnamento.

Non si tratta dunque di interferire nei programmi e nel metodo didattico degli insegnanti, ma al contrario di cercare di trovare insieme a loro gli adat-tamenti ai materiali didattici (spiegazione di concetti base, attività proposte, svolgimento delle verifiche) per permettere al bambino disprassico di acquisire le stesse nozioni e conseguire gli stessi apprendimenti degli altri bambini della sua classe. Si tratta dunque di un percorso verso la compensazione del deficit.

Lettura

Sul piano visivo la lettura (si veda capitolo 6) è una prassia che attiva una particolare organizzazione delle saccadi oculari (sono queste a permettere di afferrare visivamente la sequenza delle parole scritte), che procedono sul rigo da sinistra verso destra per fare poi ritorno da destra verso sinistra nel salto al rigo successivo con una ampia saccade. Nelle scritture che hanno una lettura da sinistra verso destra la saccade, normalmente perfettamente controllata, si compie a metà del rigo, poco prima della metà di una parola. Nel corso della lettura, i bambini che presentano una disprassia oculare (si veda capitolo 6) tralasciano delle lettere, alcune parole, mostrano un anormale affaticamento visivo (poche righe) e grossi problemi di ricerca visiva (nel testo, sulla pagina, alla lavagna, alla parete).

Dunque è prioritario e indispensabile fornire un rimedio per favorire la loro scolarità, trovare un modo per permettere a questi bambini di accedere alle conoscenze aggirando, per quanto possibile, le attività visive connesse alla lettura.

Quando è possibile, l’adulto può ad esempio leggere al posto del bambino. In classe questo comporta la presenza di una persona dedicata, l’ideale è poter avere a disposizione una figura di supporto (come l’AVS), che si sostituisce al bambino nella lettura, almeno quando è necessario. Nondimeno, nel caso di testi lunghi si presentano comunque dei problemi, poiché il lavoro di lettura è faticoso sia per il lettore che per il bambino. Per questo motivo bisogna comunque preparare il bambino all’uso di un software di lettura vocale, come Speakback®, Pictop® o altri (si veda appendice).

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Vita quotidiana

Sbagli. Dovresti abusarne ancora di più. Bisogna evitare quella trappola, rovinarsi la vita giocando all’handicappato che non è handicappato.Bisogna avere le idee chiare su questo, contare sul fatto che le persone

ti devono dei piccoli servigi, d’altronde è vero che te li devono, e la maggior parte del tempo sono pure contenti di farlo.

E. Carrère, Vite che non sono la mia

I problemi che incontrano i bambini con disprassia a causa del loro deficit non sono limitati all’apprendimento scolastico. Le attività della vita quotidiana (AVQ) — o della vita scolastica — sono fatte di mille gesti, la cui realizzazione rapida e corretta è indispensabile sia in termini di autonomia personale sia di interazioni sociali: salutarsi al mattino quando si arriva a scuola, togliersi il cap-potto, appenderlo all’attaccapanni mentre si chiacchiera sul programma visto in TV o del prossimo compito in classe, sedersi al banco, aprire la cartella e il portapenne, tirare fuori il libro o il raccoglitore giusto, aprire il libro alla pagina esatta, ascoltare l’insegnante e nel frattempo scrivere la data (o la consegna), prendere appunti, sottolineare una certa frase, ecc. Per molti bambini colpiti da disprassia bisogna inoltre aggiungere anche azioni come collegare e accendere il proprio computer, fare le fotocopie durante il cambio dell’ora e recuperarle al momento opportuno. Tutte queste azioni vanno svolte in un lasso di tempo limitato. È possibile che alcuni di loro pratichino anche uno sport, il nuoto ad

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esempio, e debbano svestirsi e rivestirsi velocemente. A mezzogiorno, in mensa, altre prassie verranno sollecitate: prendere un vassoio, servirsi da bere, tagliare la carne, aprire uno yogurt, sbucciare una mela o un mandarino.

La giornata dell’alunno con disprassia appare come una successione ininter-rotta di gesti complessi che necessitano organizzazione prassica e spaziale, che non fanno altro che metterlo in difficoltà, svelano le sue incapacità, divorano le sue risorse attenzionali, lo stancano sommandosi tra loro e finiscono per peggiorare inevitabilmente i suoi ritardi nel corso di tutta la giornata.

Qui la posta in gioco non è l’apprendimento di un qualche sapere, un voto al compito in classe o il passare a una classe superiore; in gioco vi è il rischio costante di sentirsi umiliati davanti ai compagni (essere trattato da infante alla scuola primaria, da incapace, mediocre, stupido o buffone qualche anno dopo), è la rovina dell’autostima (incapace di affrontare le prove scolastiche, il bambino è inoltre incapace di salvare la propria reputazione durante le pause, le ricreazioni, i cambi d’aula). Sopraggiungono lo scoramento e la rinuncia (tutto risulta troppo difficile, sempre).

Per questo motivo è fondamentale saper accettare, con discernimento, di dispensare il bambino da alcuni compiti in determinate circostanze, fare una lista chiara delle esigenze che riguardano gli aspetti di vita quotidiana e intraprendere azioni di rieducazione solo in ambiti circoscritti, in momenti definiti. Un tale progetto può essere concepito solo insieme al bambino e alla sua famiglia e deve essere fortemente evolutivo, in funzione dell’età e delle necessità ambientali.

Nota bene: le difficoltà esaminate in questo capitolo non riguardano ogni singolo bambino con disprassia; come sempre bisogna personalizzare le proposte in relazione a ogni soggetto.

Ragionare sulle attività di vita quotidiana all’interno del progetto per il bambino

Per centrare gli obiettivi che riguardano gli aspetti e le attività della vita quotidiana (AVQ), i professionisti impegnati nel ruolo di sostegno possono essere guidati da diversi punti chiave.

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Vita quotidiana 289

Il tema della valutazione

È necessario innanzitutto fare una sorta di fotografia di ciò che il bambino è capace o non è capace di fare, collocare quindi questi elementi in relazione alla sua età, alle esigenze particolari dell’ambiente scolastico di quel bambino partico-lare in quell’anno particolare. Esistono numerosi questionari che permettono di fare un punto della situazione sugli aspetti più importanti della vita quotidiana. I questionari possono essere più o meno esaustivi, alcuni tengono conto dei desideri e dei sentimenti dei genitori, oltre che del bambino (possono anche divergere molto tra loro!), altri propongono una valutazione all’interno di una situazione «ecologica» (Geuze, 2005b; Fougeyrollas et al., 2001; Talbot, 1993).

La valutazione degli aspetti di vita quotidiana all’interno della situazione scolastica è molto importante (Barray, Gadolet e Guillot, 1999), spesso invece è trascurata o estrapolata a partire dall’esperienza osservata in famiglia. Ma a scuola, a differenza che nell’ambiente di casa, il bambino è costantemente sottoposto a una pressione doppia che aggrava (o rivela) il deficit: fare in fretta e fare sotto lo sguardo dei suoi compagni.

Il tema della fattibilità

Il bambino può, o potrà, ragionevolmente realizzare una certa azione da solo? O con un aiuto? Se sì, quale aiuto? E in quale momento (si veda capitolo 2)?

Solo una valutazione specifica (rigorosa e funzionale) può permettere di giudicare la fattibilità totale o parziale, incrociando: • da una parte, le capacità del bambino (in termini di motricità, capacità pras-

siche, percezione dello schema corporeo, comportamento spaziale e stile di vita, bisogni, gusti);

• dall’altra, le competenze sollecitate dal compito (in termini di forza, destrezza, precisione, rapidità, organizzazione prassica visuo-spaziale, memorizzazione).

Quando la fattibilità è parziale, è meglio precisare quanto più possibile in quali circostanze quell’azione può essere realizzata dal bambino da solo o entro quali limiti (problema del doppio compito, si veda capitolo 2).

In effetti, accade ancora troppo spesso che, una volta che il bambino rie-sce ad abbozzare o a realizzare un determinato gesto, gli venga poi imposto di

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realizzare quella performance di continuo (poiché ha già dimostrato che può farlo, dunque «quando vuole può!»).

Queste argomentazioni fallaci sono dannose e hanno un’influenza ne-gativa sul suo desiderio di autonomia: il bambino si scoraggia, rinuncia, vive le richieste eccessive degli adulti come impossibili. Tralasciando la fatica che provocano, queste richieste esagerate inducono nel bambino un sentimento permanente di insufficienza: invece di raccogliere complimenti e felicitazioni per i suoi successi (benché parziali e puntuali), gli vengono restituite solo critiche riguardo a quei momenti e a quelle situazioni in cui non risponde alle aspettative esagerate di alcuni adulti.

Qualunque cosa faccia, qualsiasi sforzo produca, qualsiasi successo ottenga, non è mai abbastanza. Le richieste devono dunque essere valutate non con il metro di ciò che è desiderabile ma di ciò che è possibile, e in seguito andranno riviste regolarmente, negli anni, seguendo l’evoluzione e i progressi del bambino, e saranno sempre dosate con realismo.

Esempio 1Quando M., piccolo IMC con disprassia, inizia il primo anno della scuola primaria, l’équipe del servizio di cura domiciliare include nel progetto relativo al bambino il fatto che riesca a mangiare da solo (una volta che, ad esempio, la carne è stata già tagliata), dal momento che è previsto che si fermi a mangiare alla mensa scolastica. La madre, preoccupata (il bambino è molto magro) e molto protettiva, gli dà da mangiare con il cucchiaio; nondimeno è lei stessa parte in causa del progetto che approva. Gli esami (sul piano bucco-motorio e funzionale) evidenziano che M. presenta difficoltà (neuromotorie) nella masticazione e deglutizione, ma anche difficoltà practo-motorie nel riempire il cucchiaio e portarlo alla bocca. Una riedu-cazione congiunta in ortofonia (masticazione) ed ergoterapia (gesto, osservazione e lavoro in situazione, in mensa) è già in corso e va avanti. M. richiede con forza indipendenza rispetto alla madre e desidera condividere la mensa con i suoi com-pagni, partecipa molto e progredisce in modo soddisfacente.Ma in occasione di successivi controlli, constatiamo che benché il bambino possa effettivamente mangiare da solo mangia di fatto troppo poco, si stanca rapidamen-te e si sporca tantissimo, il che provoca imbarazzo sociale (commenti umilianti dei suoi compagni durante la ricreazione che segue il pasto). Decidiamo allora di rivedere l’obiettivo e lo ricalibriamo in modo più realistico: M. mangerà da solo i primi cucchiai del pasto e poi il dessert, un’educatrice presente in mensa gli darà il resto del pasto; sempre questa stessa figura gli laverà velocemente il viso (eventualmente cambierà la maglietta, la madre avrà aggiunto un ricambio nella cartella ogni mattina) prima che M. raggiunga i suoi amici alla loro tavola e poi durante la ricreazione generale di metà giornata.

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Disprassia: disturbo della coordinazione motoria e disturbi evolutivi

del neurosviluppoDi Carlo Muzio

Nelle classificazioni internazionali (quali ICD10 e DSM-5: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) l’espressione «disturbo della coor-dinazione motoria» (DCD) viene usata come sinonimo di «disprassia» e in gran parte della letteratura scientifica i due termini sono spesso usati in modo interscambiabile. Questa indeterminatezza terminologica oggi è messa in discussione dalle nuove conoscenze sull’organizzazione del sistema motorio. Le reti neurali responsabili del semplice movimento sono diverse dalle reti neurali responsabili di un’azione finalizzata a uno scopo (Rizzolatti et al., 1996; Rizzolatti e Sinigaglia, 2006).

Attualmente, alla luce degli sviluppi nel campo delle neuroscienze, è più coerente definire il DCD come un disturbo della capacità di esecuzione del movimento non finalizzato, mentre la disprassia deve essere considerata un disturbo della capacità di pianificazione, controllo ed esecuzione degli «atti motori» finalizzati (prassie e funzioni adattive).

Siffatte questioni diagnostiche sono state approfondite nell’Appendice I del volume Il bambino disprassico (Huron, 2014), dalla quale riprendiamo la figura 1 e la successiva tabella 1.

Si può vedere come i due insiemi non siano coincidenti, ma presentino una relazione di inclusione; il controllo dell’esecuzione del movimento, aspetto critico in caso di DCD, è parte dell’atto motorio finalizzato, i cui deficit carat-terizzano la disprassia.

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Fig. 1 Rapporti di inclusione tra disprassia e DCD.

Disprassia DCD

Nella tabella 1 vengono schematizzate le principali differenze cliniche fra disprassia e DCD.

TABELLA 1DIFFERENZE CLINICHE TRA DISPRASSIA E DCD

Disprassia Disturbo coordinazione motoria (DCD)

Processi e funzioni coinvolti

Deficit e difficoltà sintomatiche

Processi e funzioni coinvolti

Deficit e difficoltà sintomatiche

Componente pro-gettuale: «che cosa fare».

Difficoltà di orga-nizzazione e inte-grazione dell’atto motorio.

Componente ese-cutiva: «come fare».

Stile motorio (eco-nomia del gesto, re-golazioni toniche).

Problem solving. Difficoltà ad adatta-re il movimento allo scopo.

Armonia e fluidità del gesto.

Difficoltà di disso-ciazione e/o di in-tegrazione dei mo-vimenti.

Capacità adattive. Difficoltà a proporre e individuare stra-tegie motorie ori-ginali.

Forza ed economia del gesto.

Disturbi percettivi.

Come si può notare, la compresenza di queste difficoltà è molto comune ed è uno dei principali motivi per cui è complicato trovare un accordo fra le diverse tradizioni culturali e geografiche nel definire specifici criteri distintivi.