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Dispense su barthes, prof, gianfranco marrone, a.a. 2008-09 IL SORGERE DEL SENSOErrore. Il segnalibro non è definito. 2.Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. La ricerca del grado zero Le degré zéro de lécriture [1953] può essere considerato come il libro d’esordio di Roland Barthes. In esso infatti, riprendendo scritti precedenti, lo studioso francese formula per la prima volta in modo organico alcune delle tematiche che riprende e modula in vario modo negli studi successivi: il destino storico della letteratura, l’inevitabile compromissione sociale del linguaggio, il carattere etico delle forme narrative, il sovrapporsi dell’opera alla critica e così via. In particolare, nel Grado zero della scrittura emerge quella ‘tragicità’ del pensiero che costituisce la linea di continuità dell’intera ricerca barthesiana: si intravedrà (tra il 1957 e il 1966) nella costruzione della semiologia come critica sociale e tornerà a chiare lettere negli scritti sul testo (1967-1974) e sulla soggettività (1975- 1980). Questo pamphlet di un lettore ormai adulto che si espone per la prima volta sulla scena della critica militante può essere inteso, insomma, come la prima efficace esposizione di un pensiero compiuto e autonomo. Non che, naturalmente, Barthes non abbia avuto dei punti di riferimento: basti pensare al Che cosè la letteratura? di Jean-Paul Sartre, che è certamente uno dei modelli e degli interlocutori privilegiati delle argomentazioni del Grado zero. Solo che, nel panorama filosofico, letterario e politico dei primi anni Cinquanta in cui il Grado zero viene pensato e scritto, lo sforzo di Barthes è proprio quello di aggirare le impasses concettuali dell’impegno sartriano, quanto meno per garantire a esse una più profonda motivazione specificamente letteraria, ovvero linguistica e formale. Ripensare Sartre in termini di forma letteraria significa pertanto trasformare il tono normativo-esortativo dell’autore di Che cosè la letteratura? in un tono descrittivo e constativo apparentemente più distaccato: la prima e radicale scelta di Barthes – come si è visto [§ 1.3] – è quella di non scrivere, poiché la scrittura è destinata a un inevitabile annullamento storico; o, almeno, di non accompagnare la meditazione sulla letteratura a un qualche tipo di pratica letteraria tradizionalmente riconosciuta come tale. Come si vedrà, portando alle estreme conseguenze il paradosso storico della «moltiplicazione delle scritture», Barthes intuisce che il metalinguaggio critico deve costituirsi come l’unica scrittura possibile, l’unica affrancata dalla significatività dei segni della Letteratura. Laddove Sartre offriva i suoi testi come modello di una letteratura politicamente e socialmente impegnata, Barthes propone la parola del critico come apertura verso l’utopia del senso, un senso che non significhi più nulla, una forma che non segnali altro che se stessa. 2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Lingua, stile, scrittura Alla base della riflessione sul grado zero della scrittura Barthes pone una triplice distinzione tra usi e forme linguistico-letterarie. Se la lingua è il linguaggio dal punto di vista di una Natura e di una familiarità preesistente allo scrittore, e lo stile una sorta di investimento soggettivo della lingua, la scrittura è il linguaggio dal punto di vista della sua socialità. Secondo una definizione destinata a diventare celebre, la scrittura, dice Barthes, è «un atto di solidarietà storica», una «funzione» che regola il rapporto tra la creazione letteraria e l’area sociale entro cui essa agisce e a cui si rivolge. La 1

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IL SORGERE DEL SENSOErrore. Il segnalibro non è definito. 2.Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. La ricerca del grado zero Le degré zéro de l’écriture [1953] può essere considerato come il libro d’esordio di Roland Barthes. In esso infatti, riprendendo scritti precedenti, lo studioso francese formula per la prima volta in modo organico alcune delle tematiche che riprende e modula in vario modo negli studi successivi: il destino storico della letteratura, l’inevitabile compromissione sociale del linguaggio, il carattere etico delle forme narrative, il sovrapporsi dell’opera alla critica e così via. In particolare, nel Grado zero della scrittura emerge quella ‘tragicità’ del pensiero che costituisce la linea di continuità dell’intera ricerca barthesiana: si intravedrà (tra il 1957 e il 1966) nella costruzione della semiologia come critica sociale e tornerà a chiare lettere negli scritti sul testo (1967-1974) e sulla soggettività (1975-1980). Questo pamphlet di un lettore ormai adulto che si espone per la prima volta sulla scena della critica militante può essere inteso, insomma, come la prima efficace esposizione di un pensiero compiuto e autonomo. Non che, naturalmente, Barthes non abbia avuto dei punti di riferimento: basti pensare al Che cos’è la letteratura? di Jean-Paul Sartre, che è certamente uno dei modelli e degli interlocutori privilegiati delle argomentazioni del Grado zero. Solo che, nel panorama filosofico, letterario e politico dei primi anni Cinquanta in cui il Grado zero viene pensato e scritto, lo sforzo di Barthes è proprio quello di aggirare le impasses concettuali dell’impegno sartriano, quanto meno per garantire a esse una più profonda motivazione specificamente letteraria, ovvero linguistica e formale. Ripensare Sartre in termini di forma letteraria significa pertanto trasformare il tono normativo-esortativo dell’autore di Che cos’è la letteratura? in un tono descrittivo e constativo apparentemente più distaccato: la prima e radicale scelta di Barthes – come si è visto [§ 1.3] – è quella di non scrivere, poiché la scrittura è destinata a un inevitabile annullamento storico; o, almeno, di non accompagnare la meditazione sulla letteratura a un qualche tipo di pratica letteraria tradizionalmente riconosciuta come tale. Come si vedrà, portando alle estreme conseguenze il paradosso storico della «moltiplicazione delle scritture», Barthes intuisce che il metalinguaggio critico deve costituirsi come l’unica scrittura possibile, l’unica affrancata dalla significatività dei segni della Letteratura. Laddove Sartre offriva i suoi testi come modello di una letteratura politicamente e socialmente impegnata, Barthes propone la parola del critico come apertura verso l’utopia del senso, un senso che non significhi più nulla, una forma che non segnali altro che se stessa. 2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Lingua, stile, scrittura Alla base della riflessione sul grado zero della scrittura Barthes pone una triplice distinzione tra usi e forme linguistico-letterarie. Se la lingua è il linguaggio dal punto di vista di una Natura e di una familiarità preesistente allo scrittore, e lo stile una sorta di investimento soggettivo della lingua, la scrittura è il linguaggio dal punto di vista della sua socialità. Secondo una definizione destinata a diventare celebre, la scrittura, dice Barthes, è «un atto di solidarietà storica», una «funzione» che regola il rapporto tra la creazione letteraria e l’area sociale entro cui essa agisce e a cui si rivolge. La

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scrittura è dunque «una morale della forma». Lingua e stile sono concetti antecedenti a qualsiasi problematica del linguaggio, lingua e stile

sono il prodotto naturale del Tempo e dell’individuo biologico; ma l’identità formale dello scrittore prende veramente corpo solo al di fuori dell’instaurazione delle regole di grammatica e delle costanti dello stile, là dove il testo nella sua interezza, dapprima concentrato e racchiuso in una natura linguistica perfettamente innocente, è destinato a diventare finalmente un segno totale, la scelta di un comportamento umano, l’affermazione di un Bene determinato, introducendo così lo scrittore nell’evidenza e nella comunicazione di una felicità o di un malessere, e legando la forma al tempo stesso normale e particolare della sua parola alla vasta Storia degli altri. [GZ: 12].

Se la lingua e lo stile sono il materiale linguistico «naturalizzato» che lo scrittore si ritrova al di qua dell’atto di scrivere, la scrittura sta al di là di quello stesso atto. Senza essere necessariamente un’operazione consapevole e intenzionale, la scrittura annulla o ridimensiona l’idea di una naturalità linguistica e di una espressività individuale e spontanea, aprendosi al mondo e alla storia. In altre parole, con questa distinzione tra lingua, stile e scrittura, anche se in abbozzo, Barthes enuncia l’ipotesi di una costitutiva socialità del linguaggio (in seguito verificata grazie alla linguistica saussuriana) il cui svelamento costituisce già un atto demistificante. Ma il discorso prosegue, in questo contesto, sul solo versante letterario. La scrittura classica, ossia premoderna e tradizionale, vive – dice Barthes – una condizione pacificata e unitaria: non pone a se stessa alcun problema di autoriflessività e di autocoscienza. Ma con Flaubert nasce un tipo di letteratura che ha bisogno di presentarsi innanzitutto come un’interrogazione su di sé in quanto attività linguistica, ha bisogno di oggettivarsi, di trovare un senso, di autodefinirsi in ogni sua scelta. Tra Laclos e Stendhal, Fénelon e Mérimée non c’è alcuna differenza dal punto di vista della scrittura (ovvero del rapporto tra l’apparato letterario e la sua funzionalità sociale) ma soltanto della lingua e dello stile (ovvero delle scelte retorico-estetiche). Con Flaubert e Mallarmé si inaugura invece quella «modernità» che comporta una moltiplicazione indiscriminata delle scritture: uno scrittore, nell’atto stesso dello scrivere, è costretto ad autodefinirsi, a riconsiderare le coordinate del suo rapporto con la società, a calcolare le distanze con essa, a instaurare una complicità. Da cento anni Flaubert, Mallarmé, Rimbaud, i Goncourt, i Surrealisti, Queneau, Sartre,

Blanchot o Camus, hanno disegnato – disegnano ancora – certe vie di integrazione, di esplorazione o di naturalizzazione del linguaggio letterario; ma la posta in gioco non è questa o quell’ avventura della forma, questa o quella riuscita del lavoro retorico o audacia del vocabolario. Ogni volta che lo scrittore traccia un complesso di parole è messa in questione l’esistenza stessa della Letteratura; e ciò che nella pluralità delle sue scritture la modernità mette in luce è l’impasse della propria Storia. [GZ: 45]

Sia che ci si adoperi per limare sino allo stremo la forma o lo stile (Flaubert), sia che si persegua il silenzio (Mallarmé), sia che ci si apra verso la parola parlata (Queneau), in ogni caso si è sempre all’interno della modernità letteraria; la scrittura è costretta a rendersi significante, a significare se stessa come Letteratura, a dire: «Vedete? Io sono la Letteratura». La conseguenza di ciò, paradossale ma inevitabile, è il fatto che il linguaggio letterario finisce per essere sempre e in ogni caso il tentativo di ricreare un segno nuovo, originale e mai visto, ma di ritrovarsi al contempo come un

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linguaggio «già passato di moda» [GZ: 62], già sentito e quindi chiuso in se stesso. Da cui il paradosso della Letteratura dei nostri giorni: Da ciò si deduce che un capolavoro moderno è impossibile, visto che lo scrittore è messo

dalla sua scrittura in una via senza uscita: o l’oggetto della storia è candidamente consegnato alle convenzioni della forma, e la letteratura resta sorda alla nostra Storia presente, e il mito letterario non è superato; o lo scrittore riconosce la vasta freschezza del mondo attuale, ma per darne conto dispone solo di una lingua splendida e morta. [GZ: 63]

2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. La scrittura bianca Questa «tragicità della scrittura» moderna sembra richiedere una scrittura bianca, puramente indicativa, amodale: è la scrittura al livello zero, dove i segni significano soltanto se stessi, senza rimandare a una loro collocazione nella storia e nella società. Ma si tratta di un’utopia del linguaggio, poiché «salvo a rinunciare alla Letteratura, la soluzione di questa problematica della scrittura non dipende dagli scrittori» [GZ: 62]. La contraddizione di fondo della scrittura è la medesima di quella della società nel suo complesso: e la richiesta di un grado zero della scrittura è omologa alla esigenza politica di una pacificazione sociale. Da qui la presa di distanza da Sartre e la conseguente impostazione di una questione radicalmente nuova della letteratura. La scrittura non è più – come per l’autore della Nausea – uno dei mezzi della lotta politica in vista di un generale umanesimo. Molto diversamente, essa stessa è un territorio socialmente compromesso sin dalla sua materialità (ovvero dalla sua forma linguistica); il suo destino è lo stesso di quello dell’intera società. Ripercorrere il cammino che dalla lingua letteraria della classicità ha portato alla moltiplicazione delle scritture della modernità significa mimare il processo di formazione della società moderna. Richiedere un utopico grado zero della scrittura è contemporaneamente lottare in termini rivoluzionari per l’ipotesi di una omogeneizzazione sociale. Come si vede, questa problematica è ampiamente connessa con quella dello stereotipo che incontreremo nel Barthes degli anni a venire. L’impasse dello scrittore moderno di fronte al linguaggio, la difficoltà di produrre un’opera i cui segni non siano portatori di un passato linguistico stantio e solidificato, è la tipica condizione moderna dell’uomo (intellettuale o scrittore, è lo stesso) di fronte al linguaggio: una condizione in cui il meccanismo stereotipico della ripetizione è lo spazio odiamato ma indispensabile entro cui la parola si agita e si disperde. Per questo basti un esempio: il passaggio dall’epoca classica (dove la letteratura non fa materia di problema) all’epoca moderna (dove la scrittura va in cerca di se stessa) è segnato – tra l’altro – dal successo e dalla conseguente crisi dell’istituto della cosiddetta verosimiglianza. Con Flaubert e la sua ‘scuola’ si realizza del tutto quell’ideale mimetico che in modi e tempi diversi ha sempre accompagnato l’istanza letteraria. La verosimiglianza diventa verità: proprio per questo essa finisce per rivelarsi come un eccesso di artificio, come un insieme di strumentazioni messe in gioco al fine di produrre l’effetto illusorio della mimesi artistica. «Nessuna scrittura è più artificiale di quella che ha preteso rappresentare più da vicino la Natura», dice Barthes [GZ: 49] introducendo un tema su cui tornerà spesso negli anni successivi. La poetica naturalista – e, in generale, ogni letteratura che si presenta come ‘realista’ – accompagna la mortificazione dei contenuti con un’ipertrofia della forma; di conseguenza, essa «non è affatto neutra», ma esibisce suo malgrado «i segni più spettacolari della fabbricazione», ovvero dell’artificio letterario. Si delinea in tal modo il problema entro cui si sviluppa la questione degli stereotipi: così come i miti

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della società di massa [cfr. § 2.3] sono l’esito di una naturalizzazione dell’ideologia borghese, allo stesso modo il realismo letterario è il nascondimento dei procedimenti tecnici della letteratura. In questo senso – cosa, del resto, chiara allo stesso Barthes [MO: 215] – Il grado zero della scrittura è una vera e propria mitologia della letteratura che anticipa perfettamente i Miti d’oggi degli anni successivi. Rivelare, all’interno o al di là della lingua e dello stile, l’esistenza di un altro carattere del testo letterario, la scrittura, vuol dire rendere conto del fatto che, al di sotto della lucentezza estetica dell’opera, si annida la necessità dello stereotipo, il ricorso inevitabile ai cliché, l’introiezione mal digerita dei luoghi comuni. La modernità – di cui Barthes è vittima e testimone al contempo – scorge i primi bagliori della sua crisi nel momento in cui, pur manifestando il suo disgusto per lo stereotipo, è costretta in ogni caso a farne uso, o, con una locuzione che Barthes amava riprendere da Brecht, un ‘Grande Uso’. 2.Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Una critica brechtiana Spesso misconosciuta, la riflessione su Brecht e, in generale, sul teatro ha una grande importanza nel pensiero di Barthes. Sviluppatasi soprattutto attraverso l’esperienza di critico militante e di redattore della rivista Théâtre populaire, questa riflessione infatti, non solo costituisce un elemento di raccordo decisivo tra il Grado zero della scrittura e Miti d’oggi, ma conserva una funzione basilare anche nella ricerca barthesiana successiva. L’esperienza del teatro epico, vissuta nella seconda metà degli anni Cinquanta con grande euforia, viene da Barthes tenuta presente sia nel periodo strutturalista sia in quello cosiddetto della ‘soggettività’, in apparenza del tutto estraneo a ogni interesse politico e sociale. Al di là dell’ideologia marxista professata da Brecht nei suoi drammi – del resto condivisa dal Barthes di Théâtre populaire – quel che Brecht (teorico e drammaturgo) mostra in modo definitivo è, secondo Barthes, l’insopprimibile responsabilità delle forme espressive, ovvero la centralità politica e morale del lato significante del linguaggio, artistico e non. Brecht, secondo Barthes, rompe con quella millenaria tradizione della verosimiglianza e dell’identificazione che costruisce l’opera d’arte (ma in generale ogni discorso) come una sostanziale mistificazione. Egli erige tra l’opera e il pubblico una barriera di razionalità che ridà all’opera la sua funzione comunicativa e al pubblico la sua intelligenza; aggira il ricatto che separa il piacere estetico dalla comprensione ideologica, il cuore dalla ragione, il corpo dall’anima. Barthes insiste spesso, nei suoi scritti teatrali, sul fatto che per comprendere un’opera di Brecht non è sufficiente recepire il suo eventuale messaggio: è necessario invece assumere una disposizione d’animo, una mentalità, una visione del mondo ben precise. Il problema della critica brechtiana non è dunque quello di spiegare al pubblico il significato dei singoli drammi ‘epici’, ma di disporre quello stesso pubblico a accettare il gioco (in fin dei conti liberatorio) che quei drammi propongono; si tratta cioè, non di invitare a una ricezione, ma di motivare un modo di ricezione. 2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Teatro e teatralità Ma come viene inteso innanzitutto da Barthes il teatro? Troppo spesso, e superficialmente, considerato l’apostolo del testo letterario verbale, Barthes in realtà, sin dal 1954, nel saggio su “Il teatro di Baudelaire” [ora in SC: 5-12], conferisce al lato materiale della scena un ruolo esteticamente preminente: Che cos’è la teatralità? È il teatro meno il testo, è uno spessore di segni e di sensazioni che

prende corpo sulla scena a partire dall’argomento scritto, è quella specie di percezione

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ecumenica degli artifici sensuali, gesti, toni, distanze, sostanze, luci, che sommerge il testo con la pienezza del suo linguaggio esteriore. [SC: 5-6]

Il che non significa che il testo teatrale scritto sia del tutto inessenziale: esso deve infatti predisporre, già dal momento della sua composizione sulla pagina, la scena che deve manifestarlo e il pubblico a cui si rivolge. In un buon testo teatrale, scrive Barthes, «la parola precipita immediatamente in sostanze»; in Eschilo, in Shakespeare, in Brecht «il testo scritto è travolto fin dal primo momento nell’esteriorità dei corpi, degli oggetti, delle situazioni»: l’arte del teatro non sta nella apposita realizzazione, nella ‘messa in scena’ di un testo letterario valido di per sé, ma è presente, se c’è, già in quel testo. È per questo che, secondo Barthes, le opere teatrali di Baudelaire non possono raggiungere il loro scopo, non comportano «alcuna teatralità profonda». E anche quando l’autore delle Fleurs du mal sembra prestare attenzione al lato scenico dei suoi drammi, non fa che porsi dal lato dello spettatore, tende cioè a trasformare la necessaria artificialità della scena nella volgarità di un’ostentazione eccessiva. Accade così – come del resto, nota di soppiatto Barthes, spesso in Francia – che vi sia più teatro nelle poesie, nei saggi o nei Salons di Baudelaire che non nei suoi quattro progetti specificamente teatrali. Se a una rappresentazione questi ultimi rinviano (con tutto il loro sistema di luoghi itineranti, di flash-back, di tableaux esotici, di sproporzioni temporali etc.) è più al cinema che non al teatro, è a quella finzione cinematografica che, secondo Barthes, è erede indiretta della narrazione romanzesca. 2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Uomini coinvolti Chi invece – in qualche modo all’opposto di Baudelaire – è riuscito a produrre una teatralità pura, a fare dell’artificio teatrale un’operazione estetica tutt’altro che eccessiva o menzognera è, appunto, per Barthes, Bertold Brecht. Scoperto nel maggio del 1954, grazie a una rappresentazione di Mutter Courage del Berliner Ensemble a Parigi, Brecht fornisce a Barthes gli strumenti estetici e ideologici per quell’opera di demistificazione che egli andava compiendo con Miti d’oggi e che a posteriori troverà conferma teorica grazie alla semiologia. Brecht, per così dire, accentua in Barthes quel ‘fiuto’ semiologico, quella predisposizione verso il rovescio del linguaggio che egli aveva già ampiamente manifestato nel Grado zero. È impossibile (oltre che inutile) dire quanta volontà di demistificazione esistesse già in Barthes prima dell’incontro con il teatro epico e quanto la frequentazione brechtiana abbia contribuito a infondergliela. È certo comunque che, se si vuole rintracciare una forma autonoma di pensiero barthesiano, al di là di una serie incrociata di influenze e di prestiti, bisogna cercarla nel modo specifico in cui Barthes fa propri autori molto diversi come Sartre, Camus, Marx, Brecht, Saussure, Freud, Hjelmslev, Mallarmé, adattandoli, per così dire, ai propri fini. Tra questi autori (oggi meno distanti tra loro proprio grazie all’opera di Barthes), il nome di Brecht è al contempo uno dei meno pronunziati e uno dei più importanti. Brecht, insomma, non è per Barthes un autore da amare come tanti altri; la sua opera non sta nello stesso scaffale di quelle dei più grandi scrittori, sia di teatro che di letteratura. Anzi, forse, non sta in nessuno scaffale, non è qualcosa che va consumato nella pacifica coscienza di una fruizione estetica qualunque, ma – dice Barthes [SC: 38-43] – è una avventura «coestensiva alla problematica del nostro tempo», un evento che coinvolge esistenzialmente e storicamente l’uomo contemporaneo: Instancabilmente dobbiamo ripetere questa verità: conoscere Brecht è di ben altra importanza

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che conoscere Shakespeare o Gogol’; perché il suo teatro Brecht lo ha scritto precisamente per noi, e non per l’eternità. La critica brechtiana è dunque una piena critica di spettatore, di lettore, di consumatore, e non di esegeta: è una critica di uomini coinvolti. [SC: 38]

Questo radicale coinvolgimento dello spettatore che l’opera brechtiana comporta non è ovviamente riconducibile alla classica strategia, di origine aristotelica, dell’identificazione. Il teatro epico brechtiano si basa infatti su principi – che Barthes torna a spiegare più volte – che rivoluzionano radicalmente l’arte teatrale europea: il pubblico non deve subire lo spettacolo ma deve assumere un ruolo attivo che gli permetta di conoscere il senso di quel che viene rappresentato; l’attore non deve incarnare il personaggio ma al contrario lasciare trasparire un certo straniamento; lo spettatore non deve identificarsi con l’eroe in modo da potere giudicare le cause e i rimedi della sua sofferenza; l’azione non deve essere imitata ma raccontata; il teatro, insomma, non deve essere magico ma critico. Tali imperativi estetici, con le conseguenti trasformazioni tecniche della drammaturgia, mettono in questione, non solo i nostri gusti, ma anche, sottolinea Barthes, le nostre abitudini percettive, morali, ideologiche. Così, per esempio, in La Madre [SC: 116-119] viene del tutto invertito il rapporto tradizionale tra madre e figlio: la morte di quest’ultimo educa la prima donandole una coscienza politica. L’abitudine culturale si svela come una falsa natura: alla maniera marxiana, l’apparente inversione serve a rimettere le cose al proprio posto. Quel che il teatro epico ottiene è dunque uno smascheramento dello stereotipo, la messa in luce del carattere significante della cultura umana. Così, Brecht è agli occhi di Barthes un artista che ha fondato il suo teatro politico e il suo impegno marxista sulla convinzione che «la materialità dello spettacolo non è regolata soltanto da un’estetica o da una psicologia dell’emozione, ma anche e soprattutto da una tecnica della significazione» [1964: 343-344]. A partire da questa consapevolezza, Brecht ha potuto creare una tecnica teatrale che «affermava il senso ma non lo riempiva», dove cioè il mito dell’espressività dell’opera e della naturalezza della recitazione viene sostituito da una prassi scenica che non rappresenta il reale ma lo significa. La critica brechtiana comporta dunque non solo un versante sociologico, uno ideologico e uno morale ma anche uno specifico interesse semiologico. È Brecht, sembra dire Barthes, che conduce a Saussure. Un anno prima della stesura di “Il mito, oggi”, dove le categorie semiologiche vengono utilizzate per motivare le ‘piccole mitologie del mesÈ [cfr. § 2.3], Barthes trova in Brecht una prassi critica della semiologia che tende a cancellare ogni forma di mal celata menzogna: il postulato di tutta la drammaturgia brechtiana è che, almeno oggi, l’arte drammatica più che

esprimere il reale deve significarlo [...] Il formalismo di Brecht è una protesta radicale contro l’invischiamento della falsa Natura borghese e piccolo-borghese: in una società ancora alienata l’arte deve essere critica, deve recidere ogni illusione, anche quella della ‘Natura’. [SC: 42]

Accade così, coerentemente con questi presupposti, che il nome di Brecht venga utilizzato da Barthes anche al di fuori del campo specificamente teatrale; l’insegnamento del drammaturgo tedesco trova un’efficace utilizzazione anche nella critica di messaggi e segnali della società borghese di massa. Lo spirito demistificante di Miti d’oggi – si vedrà – è profondamente brechtiano; e a Brecht, in questo libro, Barthes ricorre esplicitamente più d’una volta. Così, a esempio, Tempi moderni di Chaplin viene letto da Barthes [MO: 31-32] come un film

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«conforme all’idea di Brecht»: allo stesso modo di Madre Coraggio, Charlot è cieco, non coglie le cause economiche del suo stato (più che un proletario è soltanto un povero), non percepisce le ragioni politiche dei suoi mali (lo sciopero per lui è una catastrofe), non indirizza la sua rivolta verso il sistema (prendendosela, alla maniera dei luddisti, con la macchina); ma la sua cecità, proprio come in Madre Coraggio, viene invece vista dallo spettatore, e – spiega Barthes – «vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede». Di conseguenza, per quanto discutibile dal punto di vista politico, sotto il profilo estetico la «forza rappresentativa» di Tempi moderni è enorme: «Nessuna opera socialista – scrive Barthes – è ancora arrivata a esprimere la condizione umiliata del lavoratore con tanta violenza e generosità». Del tutto opposto Fronte del porto di Elia Kazan [MO: 60-62]: il personaggio interpretato da Marlon Brando – non a caso formatosi nell’antibrechtiano Actor’s studio –, proprio perché supera il gradino che dall’inconsapevolezza sociale porta alla rivolta, mistifica del tutto la propria condizione politica e ideologica. Così, se da un lato la figura del capitalista viene caricaturizzata, Brando raggiunge la coscienza politica soltanto attraverso il ricorso a una giustizia astratta, incarnata nei rappresentanti dello Stato e della Chiesa. Accade insomma che, essendo il personaggio del portuale costruito come un eroe positivo, lo spettatore è indotto a immedesimarsi con il suo destino e a ripercorrere le medesime (improduttive) tappe ideologiche. Ne conclude Barthes: Si può riassumere l’errore di Kazan dicendo che, ancor più del capitalista, era importante

dare a giudicare Brando stesso. C’è infatti da aspettarsi molto di più dalla rivolta delle vittime che dalla caricatura dei loro carnefici. [MO: 62]

2.Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. La naturalizzazione Se Il grado zero della scrittura è il libro più intenso di Barthes, Mythologies [1957] – raccolta di testi pubblicati nella seconda metà degli anni Cinquanta e poi riuniti per il tramite di un saggio teorico generale “Le mythe, aujourd’hui” – è senza dubbio quello che più lo ha portato alla notorietà. Con Miti d’oggi – ripetendo i gesti di Michelet per l’Ottocento e di Lévi-Strauss per i ‘tristi tropici’ – Barthes si candida al ruolo di etnologo della società di massa. E, con un atteggiamento che coniuga il sorriso a una radicale moralità, ne svela al contempo i meccanismi latenti di adattamento e i punti critici. Le mitologie della società piccolo-borghese di massa, proprio perché non hanno a che fare con le grandi scelte ideologiche ma le sostengono nei dettagli significanti, si identificano quasi del tutto con le forme ricorrenti del discorso, ovvero con gli stereotipi. Anche se in queste pagine Barthes usa molto raramente, e senza particolari implicazioni concettuali, questo termine, è fuori di dubbio che in esse ricorrano invece locuzioni proprie al medesimo campo semantico: ‘ovvio’, ‘va-da-sé’, ‘naturalizzazionÈ, ‘tautologia’ e via dicendo. Del resto, si legge già nella premessa: Il punto di partenza di questa riflessione era il più delle volte un senso di insofferenza davanti

alla ‘naturalità’ di cui incessantemente la stampa, l’arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia, e volevo ritrovare nell’ esposizione decorativa dell’ ‘ovvio’ l’abuso ideologico che, a mio avviso, vi si nasconde. [MO: IX]

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Un progetto analitico di questo tipo si identifica con quel lavoro mediante cui il mitologo si adopera per smascherare il carattere fortemente ideologizzato del discorso. A prima vista la direzione dell’analisi critica barthesiana è perfettamente determinata; il disgusto nei confronti dello stereotipo costituisce il fine unico del lavoro mitologico. Quella tragicità che si rinveniva nel saggio sulla scrittura letteraria contemporanea sembra, al momento, messa in secondo piano o del tutto dimenticata. Ma, leggendo il libro con attenzione, le cose si rivelano un po’ più complesse. 2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. La struttura semiologica del mito Ricordiamo alcuni passaggi fondamentali dell’argomentazione barthesiana. Il mito quotidiano, dice Barthes, non si identifica con un oggetto, un concetto o un’idea particolari; piuttosto, è il risultato semiologico di una messa in forma di qualsiasi materiale virtualmente significante: un articolo di cronaca, la recensione su una rivista, un comizio politico, una rubrica di astrologia, un film, etc.. Qualsiasi cosa può assurgere al mito, a patto che esibisca determinati criteri formali attraverso cui viene «parlata» dalla società. Per questo – ed è il primo punto fermo di Barthes (di evidente derivazione marxista) – «il mito non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose ma ha un preciso e necessario fondamento storico» [MO: 192]. Tale fondamento è una parola anteriore, un messaggio già dato attraverso cui il mito si instaura senza però cancellarlo del tutto, sfruttandone anzi i sensi preesistenti. Gli esempi più evidenti di questa duplicità di piani sono quelli ricavati dalla pubblicità, dove ovviamente l’intenzione persuasiva deve venire mascherata dal ricorso alle tematiche più diverse. Per costruire la propria efficacia retorica, i messaggi pubblicitari – spiega Barthes [MO: 28-30, 77-79] – utilizzano sia le certezze rassicuranti della scienza (formule e terminologie ad hoc) sia l’immaginario euforico di certe sostanze (acqua, grasso, olii) sia il gioco ambiguo tra parti del corpo (superficie/profondità, dentro/fuori). Ma è possibile scovare la presenza del mito anche in contesti apparentemente neutri: è il caso della bistecca e delle patate fritte, del vino e del latte, i cui modi di assunzione mettono in scena tutta un’epica patriottica [MO: 67-73]; o, ancora, delle fotografie degli attori scattate negli Studios d’Harcourt, che attraverso piccoli accorgimenti tecnici (lo sguardo verso l’alto, la posa di tre quarti) finiscono per produrre l’immagine «olimpica» del divo del cinema [MO: 15-17]. Il che porta al celebre schema attraverso cui Barthes spiega, in termini semiologici, il mito come sistema secondo – metalinguaggio o connotazione, a seconda dei termini – o, in altre parole, come segno che si nutre di un segno già dato: significante significato segno SIGNIFICANTE SIGNIFICATO SEGNO MITICO Un soldato nero che fa il saluto militare alla bandiera francese in una fotografia nella copertina di un settimanale illustrato (primo significante) è innanzitutto, ingenuamente, la designazione di quel negro che fa quel saluto (primo significato). Ma questa stessa fotografia (secondo significante), in quel contesto specifico, rimanda a qualcos’altro: alla grandezza dell’impero coloniale della Francia (secondo significato). Il meccanismo mitologico non sta comunque nel fatto che quel negro è il ‘simbolo’ dell’impero francese: la presenza del soldato di colore non si annulla nella sua significazione, semmai convive con essa. Per questo, non c’è nulla di simbolico, ma, appunto, di

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mitico, poiché una determinazione storica effettiva (il fatto che esiste un soldato negro in uniforme francese: primo segno) accompagna un’intenzione significativa ulteriore (la grandezza di un impero, fondata sul fatto che anche un negro può integrarsi in esso: secondo segno), ovvero un’ulteriore determinazione storica e, in fin dei conti, un’ideologia specifica. Il segno mitico non è quindi prodotto da quel soldato negro reale che fa il saluto militare in quel dato momento, ma dalla redazione del giornale che usa quell’immagine per la propria copertina. Proprio perché il mito non nasconde nulla, ma «deforma», esso è un’arma più sottile e più subdola, meno facilmente identificabile di una qualsiasi lampante simbologia. La forza del mito sta nell’ambiguità del suo significante, nel fatto che esso sia contemporaneamente senso e forma. Il mito può esibire, a seconda dei casi, ora una ora l’altra faccia del doppio sistema semiologico su cui si regge. Così – scrive Barthes – il mito è «una fisica dell’alibi», la possibilità incessante di negare la sua intenzione e di presentare soltanto la sua maschera ingenua, di far passare come naturale ciò che in realtà è l’effetto volontario di un meccanismo ideologico. Diversamente dal segno linguistico, che per definizione è del tutto immotivato rispetto al significato a cui rinvia o alla cosa che designa, il segno mitico è parzialmente motivato, non tanto dalla sua presunta natura, ma dalla storia. È la posticcia motivazione del segno [cfr. § 3.2] che garantisce la naturalizzazione del significante mitico, la possibilità di far passare per ovvio, per è-sempre-stato-così, per va-da-sé, ciò che è in effetti una costruzione ideologica determinata dalla storia e dalla società. Dal punto di vista del produttore di miti – consapevole o inconsapevole, non importa – si costruisce un meccanismo di motivazione storica del segno: affinché l’imperialità francese possa essere significata, tra il saluto del negro e quello di un qualsiasi soldato francese ci deve essere una certa analogia. L’analogia tra il senso e la forma, tra il segno di partenza e il segno mitico, instaurando una motivazione fittizia, ovvero arbitraria, riesce a far passare per naturale ciò che è soltanto storico. Ma dal punto di vista del «lettore» del mito accade il fenomeno pressoché opposto: ricevendo una significazione ambigua, ricevendo cioè sia il senso letterale del segno sia quello mitologico, la causa che fa proferire la parola mitica è perfettamente esplicita, ma è immediatamente

bloccata in una natura; non viene letta come movente ma come ragione. [...] tutto avviene come se l’immagine provocasse naturalmente il concetto, come se il significante fondasse il significato. [MO: 210-211]

2..Errore. L'argomento parametro è sconosciuto. Mitologizzare il mito La complessità del meccanismo mitologico, la difficoltà a liberarsene, sta proprio nel fatto che le intenzioni del mito non sono nascoste, ma naturalizzate: ciò che è un sistema semiologico si trasforma agli occhi del consumatore di miti in un sistema induttivo, l’equivalenza del significante e del significato diventa un processo causale, un sistema di valori viene percepito come sistema di fatti. Ogni tentativo di annientare il mito è per questo, molto frequentemente, un ricadere in esso: come quando la pagina bianca mallarmeana, estrema propaggine della ribellione all’istituzione letteraria, finisce per diventare anch’essa Letteratura; o quando un linguaggio originariamente compiuto e perfetto come quello matematico è, in una formula come quella einsteiniana, altrettanto mitologizzato. Così, se da un lato non può che riproporsi l’utopia del grado zero come antilinguaggio privo di virtualità mitologiche, dall’altro lato Barthes sembra individuare una nuova possibilità: mitologizzare il mito, costruire un ‘mito artificialÈ che, rubando al primo mito quanto esso ruba al linguaggio,

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smaschera in termini paradossali le intenzioni del mito stesso. È il caso di Bouvard et Pécuchet. Questo celebre romanzo di Flaubert costituisce, secondo Barthes, un esempio particolarmente significativo di mito al secondo grado. Esibendo senza commento di sorta l’infinita serie di banalità di cui si beano i due personaggi, Flaubert fa della loro parola «già mitica» un’«ingenuità guardata». La bouvardetpécucheità è quel metodo che, manifestando la stupidità della propria parola, rende ridicoli gli schiocchezzai del mondo. Barthes fa propria la problematica dei luoghi comuni, quale, con Flaubert, si è istituita sulle soglie di una modernità in crisi: non è possibile evitare i luoghi comuni se non facendo di essi la materia del proprio discorso, sia esso l’avventura romanzesca o il linguaggio quotidiano. La bêtise si rivela una sorta di animale bifronte: da un lato come assenza di intelligenza, di produttività concettuale o di intuizione; da un altro lato, come una sorta di arguzia di un livello diverso, un’intelligenza di secondo grado, che sa innalzare contro ai suoi avversari un metodo invincibile proprio perché nascosto dalla sua apparente ingenuità. Affrontare la bêtise, come fa Flaubert con i suoi due copisti, è rappresentarla, mostrarne gli esiti e la forza, immergersi nel mondo disgustoso della banalità per rendere conto dei suoi effetti al contempo ridicoli e pericolosi. Così, le possibilità dell’intellettuale che vuole sottrarsi al mito sono essenzialmente due. Da un lato la scelta letteraria dove, come Flaubert, si aggira il mito con le sue stesse armi, lo si cancella mitologizzandolo: ma si tratta di uno spazio chiuso e istituzionalmente isolato rispetto alla vita della società. Dall’altro lato, un’altra solitudine, quella del mitologo, la cui lotta contro il buon senso («una verità che si arresta all’ordine arbitrario di chi la parla» [MO: 234]) porta alla cancellazione di tutti i sensi, all’eliminazione di ogni verità, a un atto politico che si limita a postulare una libertà utopica e, per questo, lussuosa. Autoescludendosi dalla massa dei consumatori del mito, il mitologo si allontana in fin dei conti dalla comunità; e, tra l’altro, si allontana dall’uso dell’oggetto che, a rigore di logica, dovrebbe precedere le sue significazioni sociali. A questo proposito c’è una frase celebre di Barthes che risulta essere particolarmente efficace: «il vino è obiettivamente buono e nello stesso tempo la bontà del vino è un mito: ecco l’aporia» [MO: 237]. In questa contemporaneità tra il godimento del vino e la constatazione del carattere mitico della sua bontà sta, ancora una volta, la tragicità in cui la società di massa costringe l’intellettuale, sia esso il semiologo o lo scrittore. E in questa dicotomia si gioca gran parte del lavoro teorico di Barthes: se a prima vista un testo come Miti d’oggi conserva la lucidità positiva di un’analisi rigorosa e politicamente critica rispetto al sociale, si scopre però, alla fine, come anche una presa di posizione di questo genere riveli le sue aporie; le quali, costituzionalmente, hanno luogo all’interno del linguaggio, ovvero in quel luogo dove è possibile al contempo la costruzione dei miti, la loro demolizione e la postulazione di un discorso altro in cui il senso non si solidifichi nello stereotipo. Ma è possibile ritrovare concretamente un tale discorso? Barthes stesso risponde diverse volte a questo interrogativo, non tanto ricorrendo a un qualche tipo di tecnica linguistica privilegiata, quanto piuttosto esibendo un’idea di linguaggio tutta teorica, costruita per così dire in laboratorio, con la perfetta coscienza – ancora una volta – della necessarietà dell’utopia. La letteratura sarà la strada più frequentemente battuta da Barthes alla ricerca dell’antistereotipo.

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UNA SEMIOLOGIA CRITICA 3.1 Segni cattivi e segni buoni Nate quasi per caso, le «piccole mitologie del mese» assumono a posteriori il ruolo di penetranti analisi semiologiche della società di massa. Come si è visto [§ 2.3], con il saggio "Il mito, oggi" Barthes ritrova nelle categorie del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure la possibilità di svelare i meccanismi di costruzione e di nascondimento dell'ideologia piccolo-borghese, ossia della doxa stereotipata propria all'universo dei mass media. Da quel momento in poi, per circa dieci anni [cfr. § 3.4], la semiologia fornisce a Barthes gli strumenti teorici per mettere in evidenza il carattere mitologico del segno, per dimostrare che, in quanto tale, nella nostra società il segno non può che essere 'cattivo', non può che rinviare in modo più o meno velato a una ideologia, a una forma di autorità, a un insieme di costrizioni, a un regime di «libertà vigilata». La nostra cultura, comprende Barthes grazie alla semiologia, tende a trasformare gli oggetti in segni di quegli oggetti, a sottovalutare gli usi rispetto ai significati, a caricare di senso cose, eventi e persone che, nel momento in cui diventano significanti, perdono ogni concreta realtà. La simbolicità della cultura non è cioè, pensa Barthes, soltanto una caratteristica delle società studiate dagli etnologi; non è soltanto il 'pensiero selvaggio' a elaborare codici simbolici che sopperiscono ai bisogni e ai desideri concreti degli uomini. Il sistema di vita e di pensiero entro cui oggi viviamo ─ che certa filosofia pensa euforicamente come razionale e progressivo ─ non è per nulla diverso, se non in superficie, rispetto a quello cosiddetto primitivo: come quest'ultimo ha bisogno del segno, salvo poi nasconderlo, rimuoverlo, dimenticarlo. Ma la semiologia non è soltanto la volontà di mostrare il simbolismo artificioso che riveste il mondo; è una disciplina che ne studia i funzionamenti, che ne individua le procedure di generazione e di trasformazione. Di conseguenza, se il suo còmpito principale è quello di spiegare la falsa coscienza insita in ogni segno, essa è in grado al contempo di indicare la strada per il riconoscimento del segno 'buono', quello letterario. Così, il cosiddetto 'strutturalismo' di Barthes è rigorosamente diviso tra la constatazione dello spessore semiotico nascosto della (nostra) cultura e l'aspirazione verso un'altro regime di senso dove le cose possano valere per quel che servono e non per quel che significano; dove i segni possano venir esibiti come significanti piuttosto che come significati; dove l'imperiosa domanda «che vuol dire?» possa essere definitivamente bandita. In altre parole, è molto importante ricordare, al fine di una corretta comprensione della semiologia barthesiana, che il segno, come entità fisica che sta per qualcos'altro, è sempre per Barthes un qualcosa di negativo, la manifestazione di una cattiva coscienza, il sintomo manifesto di un'ideologizzazione più profonda. Il 'segno 'buono' (il grado zero utopico) resta invece implicito negli studi semiologici e può essere identificato ─ grazie all'analisi critica ─ con l'opera letteraria in quanto strategia linguistica di 'decezione' del significato. Si spiega così il doppio rinvio speculare tra le prime quattro principali opere di Barthes. Il grado zero della scrittura è una riflessione sulla letteratura che pone il problema più vasto delle connotazioni sociali del linguaggio, di cui poi si occupa Miti d'oggi; gli Eléments de sémiologies [1964b], sorta di tecnicizzazione della critica ideologica, rinviano altrettanto necessariamente a Sur Racine [1963a] e

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agli Essais critiques [1964a], di marca prettamente letteraria. L'analisi semiologica e l'analisi letteraria sono i due binari su cui si esercita l'interesse barthesiano: direzioni di ricerca parallele, l'una specchio e coscienza dell'altra, ma rigorosamente distinte. E' per questo che il progetto di una narratologia intesa come semiologia letteraria, ossia come applicazione delle categorie semiologiche al fatto letterario, interesserà ben poco Barthes [cfr. § 3.4], il quale ─ in Critica e verità [1966b] ─ teorizzerà l'incolmabile distanza tra una scienza della letteratura e una critica letteraria. Prima ancora che un impegno scientifico, la semiologia è quindi per Barthes una sorta di engagement morale accompagnato da una forte fascinazione intellettuale. Gérard Genette, in quegli stessi anni, era stato già molto preciso su questo punto: La semiologia barthesiana è, nella essenza e nel suo principio attivo, quella di un uomo

affascinato dal segno, di un tipo di fascinazione che comporta, come in Flaubert o in Baudelaire, una parte di repulsione, e che ha il carattere essenzialmente ambiguo di una passione. L'uomo eccede nel fabbricare segni e questi segni non sono sempre molto sani. [Genette 1965: 178-179]

Da cui, sempre secondo un'intuizione di Genette, l'origine etica dell'intera opera barthesiana, dove sia la semiologia sia la critica letteraria costituiscono al contempo «un atto militante di contestazione e di valutazione» e «il solo ricorso possibile, la sola difesa» contro l'assedio dei segni che l'uomo sempre subisce. 3.2 L'arbitrarietà del segno Ma cosa distingue un segno 'buono' da uno 'cattivo'? Qual è lo strumento semiologico che conduce a un giudizio morale di questo tipo? La risposta di Barthes è estremamente semplice e precisa: si tratta del principio saussuriano dell'arbitrarietà del segno, nel passaggio dalla sua formulazione linguistica alla sua applicazione all'universo semiologico. Già in Miti d'oggi la questione era sostanzialmente delineata: la garanzia della propria riuscita è fornita al mito dalla motivazione analogica della sua forma; nel momento in cui il significante mitico è relativamente motivato da una analogia con un altro significante culturalmente determinato, ne consegue quell'effetto di natura per cui il mito viene percepito come sistema di ragioni causali. Negli Elementi di semiologia [ES] e nel Sistema della moda [SM], poi, tale principio assume una dimensione più generale e subisce una singolare reinterpretazione. Ma prima di esporre il punto di vista di Barthes sulla questione, sarà utile tornare brevemente a Saussure e alle problematiche suscitate dal principio dell'arbitrarietà del segno previsto nel Corso di linguistica generale. Quando infatti Saussure [1916: 87] afferma che il segno linguistico è «immotivato, vale a dire arbitrario rispetto al significato», sembra in prima istanza ricollegarsi alla tradizione cosiddetto del 'convenzionalismo linguistico'. Questa tradizione, pur superando la tesi della naturalità della lingua, in qualche modo la riattiva, poiché postula una unicità del significato dei termini. Secondo il convenzionalismo, dunque, l'arbitrarietà del segno linguistico è determinata dal fatto che un concetto può essere espresso in modi diversi nelle varie lingue storico-naturali: l'arbitrarietà si attesta esclusivamente nel rapporto tra il significante e il significato. L'esempio è di Saussure stesso: «il significato 'bue' ha per significante b-ö-f da un lato e o-k-s (Ochs) dall'altro lato della frontiera» [1916: 86]. De Mauro [1967] ha mostrato come in realtà l'intuizione saussuriana ─ per quanto ambigua nella sua

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formulazione ─ vada ben al di là delle tesi convenzionalistiche. Riarticolando e commentando un annoso dibattito sulla questione, egli arriva a spiegare come la nozione di arbitrarietà vada messa in connessione con la reale novità della linguistica saussuriana, ovvero con l'idea del valore economico delle entità della lingua e, in definitiva, con l'idea della lingua come pura forma. Riprendendo alcune argomentazioni di Benveniste [1939] (le stesse citate da Barthes negli Elementi), De Mauro sostiene che «non è concepibile un 'significato' autonomo dai 'significanti' d'una determinata lingua. Di conseguenza, non è possibile assumere un significato 'bue' come entità comune a due lingue diverse» [1967: 415]; anzi, una volta codificato un certo rapporto tra significante e significato, una volta cioè che la massa dei parlanti lo ha messo in uso, quello stesso rapporto diviene necessario e fonte di motivazione per la formazione di ulteriori rapporti di significazione. Per cui, ne conclude De Mauro, la nozione di arbitrarietà regge tutta l'impalcatura teorica di Saussure proprio perché garantisce la radicale socialità e storicità della lingua, il suo sganciamento dal piano della natura e allo stesso tempo da un qualsiasi sistema di universali semantici. L'idea strutturalista, di conseguenza, non si allontana dal sociale, come pensano molti dei suoi detrattori, ma anzi ne garantisce il riconoscimento. Facendo leva sulle ambiguità terminologiche di questa problematica, Barthes [ES: 46-50] propone di distinguere due coppie oppositive: arbitrario/necessario e immotivato/motivato, tra cui sono possibili relazioni di vario genere. Nella lingua, dice Barthes, il rapporto di significazione (tra significante e significato) non è per nulla arbitrario, nel senso che nessun parlante è libero di modificarlo. Esso è semmai necessario, come pensava Benveniste, dal punto di vista delle codificazioni sociali, e al contempo è immotivato, come diceva già Saussure, dal punto di vista della natura. Riprendendo Lévi-Strauss, Barthes precisa ulteriormente che occorre distinguere tra due diversi momenti della significazione: sottolinea che l'immotivazione si dà a priori (non c'è alcun motivo per cui si istituisca una certa relazione tra suono e senso), ma che, a posteriori, essa si trasforma in necessità (una volta istituita tale relazione, non è possibile modificarla). Nel passaggio tra questi due momenti, sul piano delle codificazioni sociali che si solidificano nel tempo, entra in gioco un processo di naturalizzazione del segno per cui ogni parlante usa la lingua come se i segni a essa appartenenti fossero, almeno parzialmente, motivati. Il che spiega, non solo il caso delle onomatopee, ma anche quello della formazione di nuovi termini per analogia a quelli già associati in sistemi paradigmatici. L'analogia è appunto quel movimento che rende possibile la produzione di nuovi segni e, di conseguenza, le trasformazioni linguistiche: solo che a produrre questi nuovi segni in analogia a quelli già attualizzati è l'intera massa sociale, a cui è demandata totalmente la capacità combinatoria della lingua. In questo senso, la naturalizzazione linguistica, vista dal punto di vista etico-politico, non è capziosa, non impone decisioni prese altrove, ma fa parte del normale processo di produzione e riproduzione della lingua stessa. Le cose si complicano ulteriormente nel momento in cui si passa al campo della semiologia. In linea di principio i sistemi semiologici sono sempre arbitrarî, poiché «non sono fondati per contratto, ma per decisione unilaterale» [ES: 47]; e in linea di fatto sono sempre motivati, poiché in un modo o nell'altro si fa entrare in gioco una relazione di similarità o di analogia tra significante e significato. E se pure i gradi di motivazione possono essere variabili (più evidente nelle immagini, meno nel cibo o nell'abbigliamento), in ogni caso i sistemi semiologici sono arbitrari, poiché è un gruppo ristretto a imporre le proprie strategie di senso alla massa. Questo stesso gruppo, poi, può utilizzare, per diffondere quel sistema, o alcune motivazioni a esso preesistenti o, nel caso in cui non ve ne fossero, provvede esso stesso a metterle in gioco per analogia. L'arbitrarietà del segno semiologico, per essere tale, ha dunque bisogno di nascondersi dietro una maschera di motivazione, ha bisogno ─ torna a ripetere Barthes ─ di naturalizzare i suoi segni.

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3..1 Il sistema della moda L'esempio più tipico dell'arbitrarietà del segno semiologico si ha certamente, secondo Barthes, con il sistema della moda [SM]. La moda è infatti il caso più evidente di un sistema di senso assolutamente sganciato da un qualsiasi tipo di ragioni sia naturali che razionali; essa si impone per tautologia: la moda è di moda. Di conseguenza i segni della moda sono totalmente arbitrari, poiché sono elaborati da un fashion-group del tutto separato dalla massa degli utenti: il fatto che il segno di moda «nasce bruscamente e tutto intero» ogni anno, che la moda «non evolve, cambia», rende perfettamente evidente il carattere artificiale di un tale sistema di significazione. Affinché l'arbitrarietà dell'istituzione della moda possa diffondersi è necessaria pertanto una motivazione a posteriori dei suoi segni, o, sarebbe meglio dire, una parvenza di motivazione, una ragione qualsiasi che nasconda la sua gratuità dietro una giustificazione in qualche modo accettabile. E' per questo che la moda ricorre in prima istanza a motivazioni di tipo utilitaristico (dove si collega l'abito alla situazione in cui esso 'va portato') o di tipo estetico-culturale (dove si rimanda a uno spazio antropologico più vasto); entrambe quanto meno discutibili, poiché fondate su labili analogie. Ancora una volta quindi, anche se in modi del tutto irrazionali e difficilmente dissimulabili, la motivazione del segno porta a una sua naturalizzazione. Da qui l'enunciazione di quello che Barthes [SM] definisce il «paradosso semiologico»: da un lato gli uomini penetrano il reale attraverso la significazione, trasformano cioè le cose in segni; dall'altro lato, poi, una volta istituiti i sistemi simbolici, ogni società tende a mascherarli dietro l'alibi di una natura o di una ragione. Il segno, che di per sé è un'entità assolutamente priva di ragioni intrinseche, acquista nel corso della sua storia ragioni del tutto estrinseche, il più delle volte labili, e le propone infine come naturali ed eterne. Ogni occorrenza del segno nel discorso, ogni sua ripetizione, è pertanto una ulteriore conferma della sua efficacia, della sua forza, della sua presunta naturalezza. Il tempo trasforma così la motivazione nel suo opposto, l'arbitrarietà: ogni parlante usa certi termini e non altri perché li trova preconfezionati, perché si è sempre fatto così, perché altrimenti non avrebbe la possibilità di comunicare con coloro i quali possiedono il suo stesso tesoro linguistico. Ora, i sistemi semiologici della nostra società hanno come scopo profondo di ricalcare il meccanismo della lingua, di rendere normale, naturale, ovvio ciò che in via preliminare non ha ragion d'essere. Se tali sistemi sono arbitrari non è però perché non hanno ragion d'essere, ma perché sono imposti: se nel caso della lingua l'immotivazione non costituisce alcun problema etico poiché essa è un prodotto socialmente condiviso, non lo stesso vale per un sistema di senso come la moda (o la cucina, l'arredamento, e tutte le piccole mitologie quotidiane su cui Barthes ha lavorato), dove vengono elaborate delle significazioni come se si trattasse di significazioni linguistiche; come se il segno semiologico avesse la stessa socialità di quello della lingua. Il caso della moda continua in questo a essere esemplare: molto spesso infatti gli enunciati cosiddetti «vestimentari» non hanno nemmeno bisogno di una motivazione, per quanto labile, ma fondano la loro verità su una tautologia: «quest'abito è di moda perché è di moda». In apparenza, quindi, tali enunciati non mentono, non indicano l'improbabile motivo per cui un determinato anno va di moda quel genere di abito invece di un altro: essi, in generale, significano apertamente la Moda. Sono pertanto, come i segni linguistici, immotivati e al contempo necessari nell'economia del sistema al quale appartengono. Si comprende così l'interesse di Barthes per il fenomeno della moda contemporanea: a differenza del costume, che nella storia ha sempre preteso significare altro da sé (l'identità antropologica, la provenienza geografica, il ruolo sociale, etc.), l'abito di moda della società di massa acquista tanto

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più valore (è tanto più di moda) quanto meno esibisce il suo senso (ossia il lavoro linguistico necessario per diventare di moda). Si potrebbe dire: la moda trasforma il senso in valore; è per questo che essa, tal quale la letteratura [cfr. § 4.3], affascina il semiologo in cerca di modelli esemplari. 3..2 Il ribaltamento di Saussure La moda è dunque un modello semiologico perfetto. Nel momento in cui un sistema di senso qual è la moda elabora meccanismi di socializzazione così complessi e rigorosi ha raggiunto infatti la sua massima potenza sociale. Esso è omologo al modello linguistico, possiede la medesima efficacia della comunicazione verbale, ne ricalca il più fedelmente possibile la sofisticazione dell'apparato strutturale. E' per questo che Barthes studia così a fondo il sistema della moda e lo propone come esempio di metodologia per l'analisi semiologica. Non è il ricercatore a presupporre un'analogia formale tra il sistema linguistico verbale e gli altri sistemi semiologici più o meno oggettuali. Viceversa, è l'oggetto stesso della semiologia a richiedere, per una analisi approfondita che ne spieghi gli strumenti e le finalità nascoste, che questa disciplina si ponga sotto l'ala protettiva della linguistica e ne proponga la validità ermeneutica. Dal che si evince molto chiaramente come il campo di applicazione della semiologia barthesiana sia sempre quello di una società determinata nel tempo e nello spazio, ovvero della società retta dall'ideologia piccolo borghese e alimentata dai mezzi di comunicazione di massa. Se la 'massa', nel caso della lingua, ha una connotazione positiva, poiché implica l'idea di una socialità condivisa e di una produttività in comune, lo stesso termine acquista invece colorazioni negative nel momento in cui Barthes discute di semiologia generale: indica infatti la sottomissione a gruppi molto ristretti di decisione o, in altri termini, l'illusione di una scelta spontanea, in realtà indotta e prevista in anticipo. L'oggetto della semiologia barthesiana è in tal modo molto ristretto, e soltanto a partire da questo basilare restringimento di campo vanno intese le riflessioni teoriche di Barthes su langue e parole, sulla significazione, sul valore segnico, su denotazione e connotazione e così via. La semiologia di Barthes non è, alla maniera di Sebeok [1976], la dottrina generale dei segni sia naturali (come quelli degli animali) che culturali; e nemmeno, alla maniera di Eco [1975], si può identificare con una teoria generale della cultura. Essa si dà soglie di azione ben più limitate, vuoi per scelta meditata, vuoi per influsso dei tempi. E' chiaro pertanto che, nel momento in cui l'oggetto di studio della semiotica ─ come è accaduto negli anni Settanta e Ottanta ─ si allarga e invade campi eterogenei e tradizionalmente separati, l'impianto complessivo delle categorie barthesiane non regge e ha bisogno di sostanziali modifiche. Se però, almeno con occhio storicizzante, si vuole intendere il senso di certe scelte teoriche di Barthes, occorre seguire il filo dei suoi ragionamenti (del resto esplicito) e ripercorrerlo in tutte le sue intrinseche ragioni. Non si tratta più, oggi, di difendere o di accusare Barthes rispetto a un campo di applicazione della semiotica che a lui è rimasto estraneo, ma semplicemente di ricostruire le tappe concettuali che lo hanno portato ad affermare, con grosso scandalo dei suoi contemporanei, che la semiologia è una parte della linguistica e non viceversa. L'accusa di glossocrazia o di centralismo linguistico che da più parti è stata fatta a Barthes perde molta della sua ragione d'essere soltanto se si prende atto di quanto si è detto sinora. In sintesi: è l'oggetto specifico di una semiologia critica limitata allo studio (etico oltre che sociologico) della società di massa a postulare la necessità del modello categoriale della linguistica. Dato che «in una societa come la nostra» [SM: XV] il linguaggio umano articolato è il fondamento del senso, la base della cultura, nel momento in cui si studiano sistemi di senso (apparentemente) diversi dalla lingua

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bisogna in ogni caso adoperare le categorie e i metodi della linguistica. Acquistano così tutto il loro senso ─ in quest'ordine di ragionamenti ─ le notissime affermazioni: non è affatto certo che esistano nella vita sociale del nostro tempo esistano, al di fuori del

linguaggio, sistemi di segni di una certa ampiezza. [...] Oggetti, immagini, comportamenti possono, in effetti, significare, ma mai in modo autonomo: ogni sistema semiologico ha a che fare con il linguaggio [...] non c'è senso che non sia nominato, e il mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio. [ES: 14]

Affermazioni del resto immediatamente precisate: Tuttavia, tale linguaggio non è lo stesso dei linguisti: è un linguaggio secondo, le cui unità

non sono più i monemi o i fonemi, ma frammenti più estesi del discorso che rinviano a oggetti o episodi, i quali significano sotto il linguaggio, ma mai senza di esso. [ES: 14]

Da cui, appunto, l'assunzione disciplinare di fondo, secondo la quale la semiologia è forse destinata a farsi assorbire da una trans-linguistica, la cui materia sarà

costituita ora dal mito, dal racconto, dall'articolo giornalistico, ora dagli oggetti della nostra civiltà, nella misura in cui essi sono parlati [...] Si deve insomma ammettere sin d'ora la possibilità di rovesciare, un giorno, l'affermazione di Saussure: la linguistica non è una parte, sia pure privilegiata, della scienza generale del linguaggio, ma viceversa la semiologia è una parte della linguistica: e precisamente quella parte che ha per oggetto le grandi unità significanti del discorso. [ES: 14-15]

Nonostante siano poste in apertura al noto manuale barthesiano, queste decise prese di posizione vanno intese come le conclusioni teoriche di un lavoro di analisi già avviato. Solo dopo aver constatato che la produzione del senso e della significazione nelle società attuali è possibile sempre e dovunque a partire dal modello linguistico, Barthes ribalta Saussure. Come è stato più volte affermato, dietro gli Elementi di semiologia sta la riflessione lacaniana sulla centralità del linguaggio nella strutturazione dell'inconscio. Ma a fondamento di questo libretto sta soprattutto il lungo lavoro di ricerca sulla moda, sull'automobile, sul cibo, sulla pubblicità, sulla fotografia giornalistica, su tutti quei sistemi semiologici, cioè, che, lavorando 'sotto' il linguaggio, traggono da esso la loro fonte primaria di esistenza. Del resto, il Giappone sta lì a indicare ─ ha voluto dire Barthes in modo ellittico [cfr. § 5.4.2] ─ che può anche accadere che il senso sia all'opera nelle significazioni sociali senza essere tuttavia nominato, che un sistema di segni dia adito a una moltitudine di comportamenti sociali senza per questo nascondere la propria artificialità, anzi esibendola come un valore. Ma si tratta di un caso sporadico, per altro tutt'altro che concreto. Nella maggior parte dei casi è il linguaggio verbale, in quanto garanzia di efficienza significativa e di articolazione interna, a rendere conto della segnicità della cultura. La lingua è il modello verso cui tendono tutti gli altri sistemi semiologici di cui è intessuta la società: essa è quel sistema di segni che ─ storicamente e costituzionalmente ─ è riuscita a nascondere e a far passare per naturale il proprio codice, sociale e artificiale a un tempo. Per questo, nel momento in cui occorre discretizzare il continuum del reale, nel momento in cui occorre rendere intelligibile il

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mondo, diviene necessario nominarlo, trasformare la cosa in segno di quella cosa, isolandone alcuni tratti e indicandoli come gli unici pertinenti la cosa stessa. In tal modo, la molteplicità del mondo viene ridotta all'univocità di un senso, alla designazione nominalistica, verbale. Riduzione, si badi, e non cancellazione: Barthes si guarda bene dall'assolutizzare quel che ai suoi occhi è soltanto una linea di tendenza delle semiotiche sociali del nostro tempo. Anzi, il fatto che la materia significante venga condizionata e ricondotta entro gli schemi linguistici resta una sorta di paradosso storico di cui il semiologo deve saperne rendere conto, spiegandone i meccanismi interni e in qualche modo prevedendone gli effetti. 3.3 Verbale e visivo Ma l'importanza dell'analisi linguistica (o meglio, translinguistica) nella considerazione di sistemi di segni che si manifestano mediante sostanze espressive non verbali (immagini, gesti, materiali diversi, etc.) non è resa necessaria semplicemente da una questione di analogia strutturale tra la lingua e gli altri sistemi semiologici. Vi è anche un'altra ragione, forse ancora più pressante: talvolta in modo mascherato, in ogni caso surrettizio, il linguaggio riappare sempre, in qualsiasi sistema semiologico. E' solo il linguaggio verbale a nominare il senso, a indicare le direzioni della significazione, a orientare i criteri di lettura o di fruizione all'interno di un qualsiasi sistema di segni. E' quanto accade ancora una volta nel caso della moda: in una rivista femminile che si occupa di abbigliamento, osserva Barthes [SM], lo spazio maggiore è dato alle immagini, siano esse fotografie o disegni. Ma queste immagini, che pure rappresentano gli abiti di cui la rivista vuol parlare, si limitano a esibire la moda senza in effetti significarla. E' solo la didascalia, ossia un messaggio squisitamente verbale, che sempre e inevitabilmente, per quanto poco visibile, accompagna l'immagine dell'abito, a nominare il senso, a orientare lo sguardo della lettrice, indicando quale dettaglio, di ogni determinato abito, fa sì che esso sia 'alla moda'. I rapporti tra testo e immagine, tra verbale e visivo sono, secondo Barthes, dominati sempre e comunque dal primo termine. Nel momento in cui si cerca di ricostruire il sistema di significazione che opera all'interno di una immagine, si finisce per ritrovare, in luoghi più o meno nascosti (foss'anche nel metalinguaggio del fruitore e dell'analista), il linguaggio verbale. 6..1 L'iconismo e la connotazione Ma questa osservazione barthesiana, apparentemente di puro buon senso e universalmente condividibile, cozza con l'elaborazione teorica della nascente scienza dei segni. Con essa infatti ci si pone all'interno dell'enorme questione della struttura semiologica di quei segni ─ particolari eppure diffusissimi ─ che sono le immagini; e, cosa più importante, la si risolve in termini del tutto originali. Vale la pena di soffermarsi su questo punto. Secondo la tradizione semiotica americana il significato di un'immagine coincide con il cosiddetto 'referente', con la cosa reale cui il segno si riferisce. Il segno-immagine non è un simbolo ma un'icona, poiché ciò a cui esso rinvia è, molto semplicemente, rappresentato nell'immagine stessa. Se il significato della parola /cane/ è il concetto di 'cane', il suo referente sarà quel cane reale o, al massimo, la razza effettivamente esistente dei cani. Il significato di una natura morta, invece, non porta a nessun concetto: è immediatamente quell'insieme di frutta, cacciagione, strumenti musicali etc. rappresentato dal quadro. La prospettiva strutturale, in linea con la linguistica saussuriana, non può condividere questa posizione poiché essa implica una sorta di positivistica credenza nella realtà oggettiva dei fatti: senza il ricorso al 'reale' nessuna lingua sarebbe analizzabile. Se però nel caso del linguaggio verbale è

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perfettamente possibile fare a meno del referente, in quello delle immagini la questione è molto meno evidente. Bisogna da ciò concludere che le immagini non hanno senso? Ma come spiegare, se così fosse, i fenomeni estetici e tutte quelle forme espressive di cui sempre di più si serve la nostra società? Occorre allora distinguere ─ pensano molti studiosi ─ tra il significato denotato dell'icona (la cosa effettivamente rappresentata in un quadro o in una fotografia) dal suo significato connotato (quel che l'icona vuol dire): una cosa è la modella di cui Leonardo si servì per dipingere il suo quadro, altra cosa è la 'Gioconda', ossia il senso in più che nel corso dei secoli quell'opera ha acquisito. E se il significato denotato è, in linea di massima, in presa diretta (seppure con la mediazione delle abitudini percettive storicamente variabili), il significato connotato dipende per lo più dal modo in cui l'immagine è costruita. In altri termini, il linguaggio delle immagini salta il livello della denotazione e sta tutto su quello della connotazione. Rispetto a questa ipotesi Barthes fa un passo ulteriore: egli mostra come il significato connotato di un'immagine non dipenda tanto dallo stile del suo emittente, quanto da una sorta di zavorra che a essa è perennemente appesa: appunto, il linguaggio verbale. A parte il caso dell'arte (che, vedremo [§ 6.2], è tale proprio perché sfugge al significato), è solo mediante la parola che l'immagine acquista tutto il suo senso: cosa che è perfettamente evidente, ancora una volta, in quei sistemi semiologici iconici che circolano nella società di massa. 6..2 Il messaggio fotografico In un saggio del 1960 dedicato a "Il messaggio fotografico" [ora in OO: 5-21], dove si abbozza un'analisi strutturale delle fotografie dei giornali, Barthes arriva alla conclusione che la supposta rappresentazione della realtà che l'immagine fotografica a prima vista veicolerebbe è né più né meno che un mito: così come il realismo letterario sottende complesse strategie linguistiche che fanno passare per veridico ciò che è soltanto un artificio stilistico, allo stesso modo la denotazione priva di codice della fotografia è soltanto una illusione a posteriori. Tale illusione ─ che in seguito Barthes chiamerà 'effetto di realtà' ─ riesce possibile all'interno di un giornale proprio grazie al testo scritto che sempre e comunque accompagna l'apparato fotografico. Il rapporto tra testo e immagine è nella società attuale del tutto invertito rispetto alle tradizionali stampe illustrate: non è l'immagine che, appunto, illustra la parola, fornendole l'ausilio di una immediata comprensione; al contrario, è il testo che è «parassita, destinato a connotare l'immagine, a 'insufflarle' uno o più significati secondi» [OO: 15]. Al lettore sembra che la fotografia accompagni, per esempio, l'articolo di cronaca accanto al quale viene impaginata; ma in effetti accade l'opposto: è il testo dell'articolo a indicare i percorsi di lettura dell'immagine affermando surrettiziamente qualcosa come: «guardate quant'è vera la vicenda che racconto». Il che crea appunto un'illusione referenziale, fornisce all'operazione culturale della fotografia l'alibi di una natura: è la connotazione linguistica a ideologizzare l'immagine ricevendone a sua volta una patente di veridicità. Il doppio aggancio culturale crea l'effetto di una doppia innocenza. 3..3 La retorica dell'immagine Ma l'analisi del rapporto tra testo e immagine in un messaggio sincretico, che ricorre cioè a differenti materie espressive, viene da Barthes approfondita in un altro saggio, destinato a far da capostipite all'analisi della pubblicità: "Retorica dell'immagine", del 1964 [ora in OO: 22-41]. E' possibile, si chiede ancora una volta Barthes, una semiologia delle immagini, ossia la ricostruzione indipendente

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e specifica di un codice analogico che renda conto dei modi in cui una immagine 'copia' la realtà? La risposta di Barthes è immediata: l'immagine non copia per nulla la realtà, esibisce semmai alcuni sensi che dànno al fruitore l'impressione di vedere, dietro una determinata immagine, una determinata realtà. Il meccanismo delle immagini ─ nella nostra società ─ è del tutto simile a quello del mito: esso serve ad autenticare una ideologia, a nasconderla dietro l'illusione di una natura, ossia, in fin dei conti, attraverso la mediazione di stereotipi, di abitudini percettive, di credenze, di saperi precostituiti. Quando, a esempio, nell'immagine pubblicitaria molto colorata di una marca di pasta ci si mostrano, accanto al pacco della pasta da esibire, pomodori, cipolle, peperoni, funghi, etc., si attiva una serie di stereotipi visivi che veicola valori euforici come la freschezza, la naturalità o la preparazione casalinga del pasto, e anche valori culturali meno evidenti come il richiamo alle nature morte della pittura. Ma, nota Barthes, è solo la denominazione della marca di quella pasta, "Panzani", a indicare al fruitore francese un messaggio connotato di basilare importanza per la caratterizzazione positiva del prodotto: l'italianità, ossia la certezza di una genuinità, il marchio di provenienza. Il tecnico pubblicitario non può lasciar da sola la sua immagine: correrebbe il rischio che l'occhio del destinatario, privato delle indicazioni fornite da un messaggio verbale, vaghi senza posa e direzione, finendo per cogliere sensi altri, per nulla previsti e utili al fine persuasivo che la pubblicità costitutivamente si propone. Se, in generale, l'immagine è polisemica, implica cioè una «'catena fluttuante' di significati, che il lettore può in parte scegliere e in parte ignorare» [OO: 28], il testo verbale acquista rispetto a essa la doppia fondamentale funzione di ancoraggio e di ricambio. Di ancoraggio perché, come si è accennato, il linguaggio verbale, sotto forma di didascalia o di nominazione, determinando il corretto livello di percezione dell'immagine, fissa i significati opportuni che da questa debbono trasparire, regola cioè l'interpretazione («repressiva», dice Barthes) dell'intero messaggio. E di ricambio perché, come accade nei fumetti e soprattutto nel cinema, la parola si fa complementare all'immagine, permettendo alla vicenda narrata il suo sviluppo, determinando ancora una volta i percorsi del senso generale del messaggio. In quanto necessariamente legata al testo, l'immagine usata dai media possiede pertanto una sua retorica, una sua forma significante, la quale rinvia a una sottostante ideologia, a un suo insieme connotato di significati. Per quanto molti affermino che la società di massa si configuri come una civiltà dell'immagine, essa è sempre più, sottolinea Barthes, una civiltà della scrittura: «perché la scrittura e la parola sono sempre termini pieni della struttura informazionale» [OO: 28]. La semiologia barthesiana, partita da una indagine sulla mitologia della letteratura e delle mitologie piccolo-borghesi, ha come principale scopo quello di svelare l'ideologia sottesa alla presunta società dell'immagine ricostruendone la retorica, ossia i meccanismi intrinseci di significazione. Occorre pertanto essere chiari su un punto: non è Barthes ─ come spesso si è sostenuto ─ a privilegiare, per una sorta di deformazione professionale di aspirante scrittore o di critico letterario, l'ambito della verbalità rispetto a quello del visivo, della scrittura rispetto all'immagine (salvo poi cambiare opinione negli ultimi anni). E' la società che si comporta in tal modo, poiché soltanto mediante la lingua può mettere in moto il meccanismo della stereotipia, dell'aggancio del senso entro un regolato sistema di significazione. Si vedrà infatti [§ 6.2] che, nel momento in cui l'opera letteraria sembrerà non garantire più a Barthes la strada per fuoriuscire dallo stereotipo, sarà proprio all'immagine (a un'immagine non ancorata in un messaggio verbale) che egli si rivolgerà per ritrovare quella utopia del senso puro. Ma in quel caso non si tratterà più di impiantare una semiologia delle immagini, bensì di ritrovare nelle immagini la possibilità di rivedere i limiti e le

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capacità della semiologia stessa. Così, pur senza definire ─ in questo territorio di ricerca e in questo stadio del suo itinerario di pensiero ─ la nozione di stereotipo come caratteristica fondamentale e nucleo essenziale della lingua, essa è già in qualche modo presente al fondo delle vicine nozioni di lingua (codice imposto alla massa come necessario), di segno (dove un significato codificato rende pertinente una materia preesistente), di arbitrarietà (garantita dalla ripetizione che pone come naturale ciò che è imposto) e così via. Ma soprattutto la si ritrova in questa epocale necessità di istituire interno all'immagine un sorta di microfisico sistema di controllo, basato appunto sulla doxa dell'universo linguistico. 3.4 L'analisi del racconto Prima di passare all'esposizione degli interessi più strettamente critico-letterari di Barthes (contemporanei a quelli della costruzione della semiologia) occorre esaminare l'unico luogo in cui Barthes si adopera per applicare l'apparato categoriale della semiologia alla letteratura, l'unico momento in cui sembra aver fiducia nella possibilità di fare dell'analisi letteraria una attività rigorosa di tipo scientifico. Si tratta della celebre introduzione barthesiana al numero monografico della rivista Communications dedicato all'analisi strutturale del racconto [Barthes 1966a]. Nel 1966 un gruppo di studiosi (Todorov, Genette, Greimas, Eco etc.) si è posto il problema di verificare un'ipotesi a prima vista azzardata, dalla quale poi nacque gran parte della ricerca semiotica successiva: si trattava di stabilire in che modo e sino a che punto le ricerche morfologiche di Vladimir Propp [1928] potessero essere estese, fatte salve le differenze, dal campo della fiaba, ossia da un prodotto eminentemente folklorico, a quello dei testi letterari in generale. L'idea, a prima vista pretenziosa ma metodologicamente coerente, era quella di rinvenire un modello narrativo universale, ossia una matrice logico-semiotica a partire dalla quale fosse possibile ricostruire, per progressive trasformazioni, qualsiasi racconto. Tale modello non pretendeva di avere alcun valore ontologico, non veniva pensato cioè come il racconto storicamente e antropologicamente originario, ma era soltanto un'ipotesi metodologica astratta ricostruita in laboratorio. Così come la linguistica cerca di trovare una struttura profonda quasi universale, le cui successive trasformazioni generano le lingue effettivamente parlate, allo stesso modo potrebbe essere possibile operare ─ pensavano gli analisti del racconto ─ con la narrazione. Nella introduzione a questa variegata serie di proposte teoriche e applicative, Barthes a prima vista condivide tale progetto di ricerca. Dinnanzi all'infinità di forme e motivi manifestati nei molteplici racconti del mondo e della storia, lo studioso ─ scrive Barthes ─ deve evitare di moltiplicare a sua volta le prospettive di ricerca. E' possibile esaminare il racconto dal punto di vista dello storia, dell'etnologia, dello psicologia, della sociologia, dell'estetica e così via. Ma l'analisi strutturale del racconto deve invece mimare il movimento inaugurale adottato da Saussure dinnanzi all'eteroclisia del linguaggio; deve cioè superare questa molteplicità di oggetti e di metodi per trovare un «principio di classificazione e una chiave di descrizione». Dice dunque Barthes, con evidente perplessità, che l'analisi strutturale del racconto è inevitabilmente condannata a un procedimento deduttivo; essa è costretta a concepire

inizialmente un modello ipotetico di descrizione [...], e a scendere poi, a poco a poco, partendo da questo modello, verso le specie che vi partecipano e al tempo stesso se ne distinguono: è solo al livello di queste conformità e di questi scarti che essa ritroverà, munita di uno strumento unico di descrizione, la pluralità dei racconti, la loro diversità storica, geografica, culturale. [AS: 82-83]

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3..1 Unità e livelli narrativi Nel corso dell'articolo Barthes non si limita del resto a offrire spunti di lettura dei saggi antologizzati. Propone a sua volta categorie narratologiche destinate a diventare celebri: distingue così tre livelli di senso del racconto (le Funzioni, le Azioni, la Narrazione) e, all'interno del livello delle Funzioni, quattro classi di unità narrative. Ma proprio in questa suddivisione dei segmenti narrativi in quattro classi può leggersi in filigrana, per così dire, il sentimento di odio-amore di Barthes nei confronti dell'ipotesi narratologica. In che cosa consiste per Barthes il livello delle Funzioni del racconto? Riprendendo il lavoro dei formalisti russi (soprattutto di Tomasvevskij) e di Propp, Barthes intende una funzione narrativa come «ciò che permette di seminare il racconto con un elemento che maturerà in seguito, sullo stesso livello, o altrove, su un altro livello» [AS: 90]. Per esaminare le varie unità narrative, occorre cioè considerare il loro ruolo dal punto di vista dell'economia generale del racconto, stabilire se e in che modo esse contribuiscono al proseguimento della vicenda, determinare, appunto, la funzione che esse rivestono nella struttura narrativa complessiva. Ma, nota Barthes, non tutti gli elementi del racconto hanno la stessa funzione, o, per meglio dire, non tutte le funzioni narrative hanno lo stesso ruolo. Possono esserci unità narrative il cui ruolo è «cardinale», ossia indispensabile all'armatura semantica complessiva della storia (i nuclei), e altre che servono da riempitivo tra un nucleo e l'altro (le catalisi). Per esempio, tra due nuclei come «il telefono squillò» e «Bond rispose», la cui consequenzialità è necessaria, possono esserci tanti altri segmenti narrativi («Bond si diresse verso la scrivania, sollevò il ricevitore, posò la sigaretta»), la cui esistenza non è altrettanto indispensabile nel contesto generale della storia. Le relazioni tra i nuclei costituiscono quindi la vera e propria struttura narrativa, sorta di sintassi profonda sottesa alla stessa manifestazione verbale («traducibile senza danni di sorta», dice infatti Barthes). La serie delle catalisi è invece una sorta di elemento opzionale, la cui assenza non turba i percorsi principali del senso narrativo. Esistono poi, prosegue Barthes, sempre all'interno del livello delle Funzioni, altre due classi narrative: si tratta degli elementi che servono a costituire la psicologia di un personaggio o la determinazione di un'atmosfera (gli indizi), e di tutte quelle altre unità che, apparentemente senza senso, in qualche modo informano il lettore sulle coordinate spazio-temporali della storia, autenticando la «realtà del referente» (gli informanti). Anche gli indizi e gli informanti, come le catalisi, non sono unità necessarie alla sintassi funzionale, ma delle semplici espansioni dell'armatura narrativa, che proliferano secondo modalità in linea di principio infinite. Il lavoro dell'analista del racconto è quindi quello di elaborare i criteri di funzionamento della sintassi narrativa profonda, di stabilire le leggi logiche secondo cui i nuclei entrano in relazione tra loro: su questo problema, tutt'altro che semplice (su cui già Aristotele, ricorda Barthes, si era interrogato), si dilungano molti degli autori dei saggi di Communications, con una serie di proposte non del tutto assimilabili tra loro. 3..2 Senso e narrazione Ma a ben guardare ─ come si evince anche dal brano sopra riportato ─ l'interesse di Barthes verte, più che sul modello comune di descrizione, sulle differenze rispetto a quel modello: più che sulle relazioni tra i nuclei della vicenda, sulle espansioni della storia raccontata; più che sulla forma narrativa, sugli scarti del senso; più che sul sistema del racconto, sulle sue distorsioni. L'ipotesi di un

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modello strutturale unico di descrizione della narratività ─ che in S/Z verrà paragonato al tentativo Zen di racchiudere tutto il mondo in una fava [cfr. § 6.1] ─ serve insomma a Barthes per rendere conto della pluralità dei racconti e dei loro generi, come anche della inesauribilità di ogni analisi che voglia metalinguisticamente ricostruire i percorsi del senso. In altre parole ancora, se è possibile applicare l'analisi semiologica alla letteratura, è solo per trovare in essa molto di più di quanto non si trovi nel mito o nella moda. Se dinnanzi ai sistemi semiologici massificati il fine del semiologo è solo e soltanto quello di reperire l'ideologia sottesa alla retorica significante, ossia le grosse unità connotative, còmpito dell'analisi semiologica del racconto, dice Barthes, è invece quello di rendere conto, non solo dei nuclei funzionali del racconto, ma di tutte le unità narrative. Un racconto, secondo Barthes, non può esaurirsi nelle sue funzioni; in esso tutto acquista senso: non per una questione di arte, come recita l'opinione comune, ma grazie alla struttura su cui esso inevitabilmente si regge. Da qui certe affermazioni che, annunciando il lavoro di S/Z, enunciano al contempo una vera e propria teoria estetica generale: [...] nell'ordine del discorso ciò che viene notato è per definizione notevole: anche quando un

dettaglio appare irriducibilmente insignificante, ribelle a ogni funzione, esso avrà comunque alla fine il senso stesso dell'assurdo o dell' inutile: tutto ha senso o nulla ne ha. In altre parole potremmo dire che l'arte è estranea al rumore (nel senso informazionale del termine): è un sistema puro, nel quale non c'è, non c'è mai un'unità perduta, per quanto lungo, allentato, sottile sia il filo che la collega ad alcuni livelli della storia. [AS: 90-91]

La descrizione del testo letterario deve quindi rendere conto di tutti i livelli del racconto e, al loro interno, di tutti gli elementi più o meno significativi che vi compaiono. Còmpito invero ingrato se non impossibile ─ come Barthes stesso dirà in Critica e verità, rispondendo a chi, frettolosamente, lo accusava di eccessivo rigore metodologico nell'analisi letteraria. Così, la critica strutturalista non è necessariamente semiologica: a meno di non intendere la semiologia in un modo assai particolare (quello, vedremo, della Lezione) che ben pochi semiologi hanno voluto o saputo seguire.

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