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JULIE BUXBAUM

DIMMI TRE

SEGRETI

Traduzione di Michela Albertazzi

Titolo originale: Tell Me Three Things

Traduzione dall’inglese: Michela Albertazzi

Coordinamento editoriale: Valentina Deiana

Testo copyright © 2016 Julie R. Buxbaum Inc.

Cover photo: © Kim Guisti

Per l’edizione italiana © 2016 De Agostini Libri S.p.A.

Redazione: corso della Vittoria, 91 - 28100 Novara

Prima edizione ebook: aprile 2016

ISBN 978-88-511-3964-3

www.deagostini.it

www.deagostinilibri.it

De Agostini YA

@DeAgostiniYA

deagostinilibri/

Published in the United States by Delacorte Press, an imprint of Random House Children’s Books, a division of

Penguin Random House LLC, New York.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in

alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema,

radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore.

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Per i miei E e L:

vi voglio bene da qui alla luna e ritorno.

E di nuovo. E un’altra volta ancora.

All’infinito.

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Capitolo 1

Settecentotrentatré giorni dopo la morte di mia madre, quarantacinque dopo la fuga

d’amore di mio padre con una sconosciuta incontrata su Internet, trenta dopo il

nostro trasloco improvviso in California, e solo sette dopo aver iniziato il penultimo

anno in una scuola nuova dove non conosco praticamente nessuno, mi arriva una

mail.

Il che avrebbe dovuto sorprendermi – una lettera che compare così nella mia casella

di posta, firmata con il bizzarro alias Un Perfetto Sconosciuto (nientemeno!) –, se

non fosse che ultimamente la mia vita è diventata così stramba che niente sembra

scioccarmi. C’è voluto tutto questo tempo – ben 733 giorni durante i quali mi sono

sentita tutt’altro che normale – per imparare quest’importante lezione: a quanto

pare si diventa immuni alle sorprese.

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: Il tuo spirito guida alla Wood Valley High School

piacere, signorina Holmes. nella vita reale non ci conosciamo, e non so se ci

incontreremo mai. voglio dire, magari sì, a un certo punto - magari ti chiederò che

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ore sono o qualche altra sciocchezza decisamente al di sotto del nostro potenziale -

ma non credo che riusciremo mai a conoscerci, almeno non in un modo che faccia

davvero la differenza… ed è per questo che ho pensato di mandarti una mail avvolto

in un manto di anonimato.

e sì, mi rendo conto che sono un ragazzo di sedici anni che ha appena usato

l’espressione “manto di anonimato”. e quindi eccoti servita: il motivo numero uno

per cui non saprai mai il mio vero nome. non potrei sopravvivere alla vergogna di

essere stato così saccente.

“manto di anonimato”? Seriamente?

e sì, mi rendo conto che la maggior parte della gente avrebbe semplicemente

mandato un sms, ma non sono riuscito a trovare un modo per farlo senza rivelarti chi

sono.

ti ho osservata, a scuola. non in modo inquietante. anche se mi domando se il

semplice fatto di usare la parola “inquietante” non mi renda in effetti inquietante. in

ogni caso, è solo che… tu mi intrighi. avrai già notato che la nostra scuola è una terra

desolata, popolata per lo più da Barbie e Ken con i capelli biondi e gli occhi vacui. c’è

qualcosa in te - non solo il tuo essere nuova, perché certo, il resto di noi frequenta le

stesse scuole dall’età di cinque anni -, qualcosa nel modo in cui ti muovi e parli, e in

realtà non parli ma ci guardi come se fossimo parte di qualche bizzarro documentario

della National Geographic, che mi fa pensare che tu possa essere diversa da tutti

quegli idioti.

mi fai venire voglia di sapere che cosa succede in quella tua testa. sarò sincero: di

solito me ne frego del contenuto della testa della gente. la mia mi dà già abbastanza

da fare.

il vero scopo di questa mail è mettere la mia esperienza al tuo servizio. mi spiace

doverti dare una brutta notizia: orientarsi nelle terre selvagge della Wood Valley

High School non è facile. il posto può sembrare caldo e accogliente, con i nostri spazi

per lo yoga e la meditazione e la lettura e il chiosco del caffè (chiedo scusa: Kiosco

del Kaffè), ma come ogni altro liceo in America (o magari pure peggio) questo posto

è una cavolo di zona di guerra.

e dunque con la presente intendo offrire i miei servizi come spirito guida virtuale.

sentiti libera di farmi qualsiasi domanda (tranne ovviamente sulla mia identità) e farò

del mio meglio per rispondere: di chi diventare amica (lista breve), da chi stare alla

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larga (lista più lunga), perché non dovresti mangiare gli hamburger vegetariani della

mensa (storia lunga che non vuoi sapere e che ha a che fare con sperma di atleti),

come ottenere il massimo dei voti nel corso della prof Stewart, e perché non dovresti

mai sederti vicino a Ken Abernathy (questione di flatulenza). oh, e stai attenta in

palestra. il signor Shackleman fa fare dei giri di corsa extra alle belle ragazze per

guardare loro il sedere.

mi sembra una quantità sufficiente d’informazioni, per ora.

e x quel che vale, benvenuta nella giungla.

cordialmente,

Un Perfetto Sconosciuto

A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: Truffa elaborata?

PS… ma fai sul serio? O è una specie di scherzo/rituale d’iniziazione, stile commedia

romantica sciocca? Hai intenzione di persuadermi a condividere i miei pensieri/paure

più oscuri e profondi e poi BAM, quando meno me lo aspetto, li posterai su Tumblr e

io diventerò lo zimbello della scuola? Se è così, hai scelto la persona sbagliata. Sono

cintura nera di karate, so prendermi cura di me stessa. Se non è uno scherzo, grazie

per la tua offerta, ma no. Voglio diventare reporter di guerra, un giorno o l’altro.

Tanto vale abituarmi agli scenari di conflitto fin da subito. E in ogni caso, vengo da

Chicago… penso di potermela cavare alla Wood Valley.

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: non una truffa, elaborata o meno

ti giuro che non è uno scherzo. e non penso di aver mai neanche visto una commedia

romantica. incredibile, lo so. spero che non lo reputi una grave mancanza da parte

mia.

lo sai, vero, che quella della giornalista è una professione in via di estinzione? forse

dovresti aspirare a diventare una blogger di guerra, invece.

A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

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Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: Spam personalizzata?

Molto divertente. Aspetta, c’è davvero dello sperma negli hamburger vegetariani?

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: Lei, Jessie Holmes, ha vinto $ 100.000.000 da un principe nigeriano.

non semplice sperma, ma sperma di giocatori di lacrosse sudati. eviterei anche il

polpettone, tanto per stare sicuri. in effetti, stai alla larga dalla caffetteria punto e

basta. quella merda ti farà venire la salmonella.

A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: Le farò avere i miei dati bancari al più presto.

Chi sei?

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: e una copia del certificato di nascita e della patente.

eh, no. scordatelo.

A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: e, ovviamente, anche il mio numero di previdenza sociale, giusto?

D’accordo. Ma spiegami almeno questo: l’assenza totale di maiuscole. Ti si è rotto il

tasto MAIUSC?

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: e anche altezza e peso, grazie

pigro all’ennesima potenza.

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A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: ADESSO sì che vai sul personale.

Pigro e prolisso. Abbinamento molto interessante. Eppure ti prendi la briga di

mettere le maiuscole ai nomi propri…

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: e il cognome da nubile di sua madre

non sono un totale bifolco.

A: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Da: Jessie A. Holmes ([email protected])

Oggetto: pigro, prolisso E ANCHE ficcanaso

“Bifolco” è una parola grossa per un adolescente.

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: pigro, prolisso, ficcanaso e… bello

non è l’unica cosa a essere… fiuu. stavo per fare una battutaccia. me l’hai servita così

bene che quasi ti venivo dietro!

A: Jessie A. Holmes ([email protected])

Da: Un Perfetto Sconosciuto ([email protected])

Oggetto: pigro, prolisso, ficcanaso, bello e… modesto

È quello che hai detto alla tua ragazza ieri sera?

Capito? È questo il problema con le mail. Di persona, non direi mai una cosa del

genere… così volgare, allusiva. Come se fossi il tipo che si può permettere di fare

certe battute; che, a tu per tu con il genere maschile, saprebbe flirtare e scuotere i

capelli, e che, se ci fosse l’occasione, saprebbe andare molto più in là di un bacio.

(Per la cronaca, io sono capace di baciare. Non dico che passerei un esame avanzato

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in questa materia o, che ne so, vincerei l’oro alle Olimpiadi, ma sono piuttosto sicura

di non fare così schifo come baciatrice. L’ho scoperto facendo il paragone con Adam

Kravitz. Prima superiore. Lui: un sacco di bava e movimenti ritmici e rabbiosi della

lingua, come uno zombie che provava a mangiarmi la testa. Io: partecipante fin

troppo entusiasta, con il viso irritato per i tre giorni successivi.)

Le mail hanno il vantaggio di darti più tempo per completare il test, come succede a

quelli con il disturbo da deficit dell’attenzione. Nella vita reale, rielaboro di continuo

le conversazioni nella testa e le modifico fino a perfezionare un botta e risposta

spiritoso, spensierato e apparentemente senza sforzo. Uno spreco di tempo,

ovviamente, perché a quel punto è troppo tardi. Se la mia vita fosse un diagramma di

Venn, la personalità che immagino di avere e quella che possiedo veramente non si

intersecherebbero mai. Via mail e SMS, invece, ho quei pochi istanti in più che mi

permettono di essere la versione migliore, rielaborata, di me stessa. Di essere la

ragazza la cui personalità sta nell’intersezione tra i diagrammi.

Dovrei essere più prudente, me ne rendo conto ora. È quello che hai detto alla tua

ragazza ieri sera? Sul serio? Non so neanch’io se sembro più l’affiliato di una

confraternita maschile o una sgualdrina; in ogni caso, non sembro me stessa. E quel

che è peggio, non so nemmeno a chi sto scrivendo. È improbabile che questo PS sia

davvero un benefattore che ha pietà della nuova arrivata. O meglio ancora, un

ammiratore segreto. Perché chiaramente il mio cervello è arrivato dritto a questa

conclusione, risultato di una vita passata a divorare troppe commedie romantiche e a

leggere troppi romanzi inverosimili. Perché credete che abbia baciato Adam Kravitz?

Era il mio vicino di casa quando abitavo a Chicago: c’è forse una storia migliore di

quella in cui la ragazza scopre che il vero amore l’aspettava da sempre alla porta

accanto? Certo, il mio vicino si è rivelato uno zombie che sbava gazzosa, ma

pazienza! Sbagliando, s’impara.

Di sicuro PS è uno scherzo crudele. Probabilmente non è nemmeno un lui, solo una

ragazza meschina che prende di mira i deboli. Perché, diciamocelo: io sono debole.

Forse persino patetica. Ho mentito: non sono cintura nera di karate e men che meno

forte. Fino al mese scorso, mi illudevo di esserlo. Sul serio. La vita mi ha presa a

pugni, mi ha scaricato merda addosso, ma io l’ho presa per le corna, tanto per

mischiare i modi di dire. Oppure no. A volte mi sento proprio come se avessi preso la

merda per le corna. L’unica cosa di cui vado orgogliosa? Nessuno mi ha vista

piangere. E poi sono diventata “quella nuova” alla WVHS, in questa strana zona

chiamata The Valley, che si trova a Los Angeles ma non proprio, o qualcosa del

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genere: mio papà ha sposato una riccastra che profuma di biscotti alle mandorle, e il

succo di frutta qui costa dodici dollari, e non so… Non so proprio più niente, ormai.

Non sono mai stata così sperduta, confusa e sola. No, del liceo non avrò mai un bel

ricordo. Una volta la mamma mi ha detto che il mondo si divide in due categorie di

persone: quelli che adorano gli anni delle superiori, e quelli che passano il decennio

successivo a riprendersi. Quello che non ti ammazza ti fortifica, diceva.

Ma qualcosa l’ha uccisa, e io non sono diventata più forte. Per cui, guarda un po’,

magari esiste una terza categoria di persone: quelli che dalle superiori non si

riprendono mai.

Capitolo 2

Non so come, sono inciampata nell’Unica Cosa Che Non Si Può Cercare Su

Google: Chi è PS? Una settimana dopo aver ricevuto le mail misteriose, non ne ho

ancora idea. Il problema è che mi piace sapere le cose. Preferibilmente in anticipo,

con tempo a sufficienza per prepararmi.

Chiaramente, l’unica opzione ora è diventare Sherlock.

Iniziamo dal Giorno 1, quell’orribile primo giorno di scuola, che ha fatto schifo, ma a

essere sinceri non più schifo di qualunque altro giorno da quando mamma è morta.

Perché la verità è che ogni giorno dopo la sua morte, è sempre rimasta morta. Passo

e chiudo. Hanno fatto schifo tutti quanti. Il tempo non cura tutte le ferite, in barba

alle promesse scritte frettolosamente da parenti lontani su biglietti di condoglianze

comprati al supermercato. Ma immagino che quel primo giorno ci debba essere stato

un momento in cui ho lanciato una quantità sufficiente di patetici segnali di aiuto da

far sì che PS mi notasse. Un momento in cui questa etichettaLa mia vita fa schifo è

stata ben visibile dall’esterno.

Ma identificarlo non è poi così semplice, perché quel giorno ho infilato una serie

infinita di figuracce. Per prima cosa ero in ritardo per colpa di Theo. Theo è il mio

fratellastro… il figlio della nuova moglie di papà, che,yuhuuu, frequenta a sua volta il

terzo anno qui, e ha deciso di approcciare l’intera dinamica della famiglia allargata

fingendo che io non esista. Per qualche motivo, sono stata così stupida da dare per

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scontato che, dal momento che viviamo nella stessa casa e andiamo alla stessa

scuola, saremmo andati in macchina insieme. E invece no. A quanto pare, la

maglietta GO GREEN di Theo è solo una messinscena, e ovviamente non ha bisogno

di riempirsi la testolina di preoccupazioni insignificanti come, che so, i soldi per la

benzina. Sua mamma è a capo di non so quale grande azienda di management

cinematografico, e la loro casa (potrò viverci anche io, adesso, ma di certo non è casa

mia) ha una biblioteca privata. Se non che, ovviamente, è piena di film e non di libri,

perché: siamo a Los Angeles! E così ho dovuto prendere la mia macchina per andare

a scuola e sono rimasta imbottigliata in un traffico pazzesco.

Quando sono finalmente arrivata alla Wood Valley High School – ho oltrepassato i

suoi cancelli minacciosi, trovato un posto nell’enorme parcheggio pieno di auto

lussuose, e mi sono arrampicata su per il viale –, la segretaria mi ha indirizzata verso

un gruppo di ragazzi seduti in cerchio, a gambe incrociate, sul prato. Come se fosse il

campo estivo della parrocchia, con un paio di custodie di chitarra abbandonate in

giro. Tutto unKumbaya, Signore, Kumbaya. A quanto pare, queste cose succedono a

Los Angeles: lezioni all’aperto su un prato di un verde impossibile per essere

settembre, schiene appoggiate ad alberi in fiore. Ero già a disagio e sudata nei miei

jeans scuri, e tentavo di scrollarmi di dosso il nervosismo e la rabbia da

automobilista. Tutte le altre ragazze avevano ricevuto il promemoria del primo

giorno: indossavano abitini estivi svolazzanti dai colori chiari, appesi a spalle esili con

laccetti sottilissimi.

Finora, questa è la differenza numero uno tra Los Angeles e Chicago: le ragazze, qui,

sono tutte magre e mezze nude.

La lezione era già iniziata, e mi sentivo in imbarazzo a stare lì impalata, cercando di

capire come entrare nel cerchio. Stavano facendo a turno in senso orario per

raccontarsi a vicenda in che modo avevano trascorso le vacanze estive. Alla fine, mi

sono lasciata cadere dietro a due ragazzi alti, nella speranza che avessero già parlato

e che potessero nascondermi.

Ovviamente, ho scelto quelli sbagliati.

«Ciao a tutti. Caleb» ha detto il ragazzo davanti a me, con tono autoritario, come se

si aspettasse che tutti lo sapessero già. Mi piaceva la sua voce: convinta, sicura del

suo posto tanto quanto io ero insicura del mio. «Quest’estate sono stato in Tanzania,

ed è stato fighissimo. Per prima cosa, ho scalato il Kilimanjaro con la mia famiglia, e

ho avuto male ai quadricipiti per settimane. Poi ho fatto volontariato con un gruppo

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che stava costruendo una scuola in un’area rurale. Così, sapete, per fare un po’ di

beneficenza. Tutto sommato, un’estate grandiosa, ma sono contento di essere

tornato. Il cibo messicano mi mancava un sacco.»

Appena ha smesso di parlare, ho iniziato ad applaudire – aveva scalato

il Kilimanjaro e costruito una scuola – ma mi sono fermata immediatamente,

rendendomi conto di essere l’unica.

Caleb indossava una semplice maglietta grigia e jeans firmati, ed era bello ma in un

modo che non intimidiva, i lineamenti abbastanza normali da renderlo il tipo di

ragazzo con cui avrei potuto, forse, un giorno, magari, ok, probabilmente no, uscire.

Non proprio abbordabile, no, niente affatto, troppo attraente per me, ma almeno

per un momento volevo godere di quel sogno a occhi aperti.

Il turno successivo toccava al ragazzo spettinato seduto proprio davanti a me. Era

carino anche lui, quasi quanto il suo amico.

Mmm. Magari, con mia sorpresa, questo posto avrebbe finito col piacermi, dopo

tutto. Se non altro, avrei avuto una gran vita di fantasia, se non una reale.

«Come sapete, io sono Liam. Per il primo mese, ho fatto un tirocinio con Google,

nella zona di San Francisco, ed è stato fantastico. La mensa da sola valeva il viaggio. E

poi ho girato l’India, zaino in spalla, per buona parte di agosto.» Anche lui aveva una

bella voce. Melodica.

«Zaino in spalla, ‘sto cavolo» ha esclamato Caleb – il ragazzo del Kilimanjaro, con la

maglietta grigia – e il resto della classe si è messo a ridere, incluso il professore. Io

no, perché come al solito ero rimasta indietro. Ero troppo impegnata a domandarmi

come facesse un ragazzo delle superiori a ottenere un tirocinio a Google, e a

rendermi conto che se era contro di loro che avrei dovuto competere, non sarei mai

entrata al college. E, d’accordo, stavo anche osservando quei due ragazzi,

domandandomi chi fossero. Caleb, nonostante l’arrampicata sul Kilimanjaro, aveva

uno stile impeccabile, da membro di una confraternita, mentre Liam era più hipster.

Un interessante yin e yang.

«Vabbè. Ok, niente zaino in spalla. I miei genitori non mi avrebbero lasciato andare

se non avessi promesso di stare in hotel, perché, sapete, la dissenteria e tutto il

resto. Ma comunque, sento di aver acquisito una reale conoscenza della cultura

locale e per di più ci ho guadagnato un bel saggio breve per le domande di

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ammissione… che poi è il motivo per cui sono andato» ha precisato Liam, e

ovviamente a quel punto ho capito l’antifona e sapevo di non dover applaudire.

«E tu? Come ti chiami?» ha chiesto l’insegnante, che ho poi scoperto essere il signor

Shackleman, il prof di ginnastica che, secondo PS, aveva l’abitudine di guardare il

sedere delle ragazze. «Non mi ricordo di te dall’anno scorso.»

Non so come mai si fosse sentito in dovere di sottolinearlo e far sì che tutta la classe

si girasse a guardarmi, ma non importa, mi sono detta. Questo era un gioco da

ragazzi: che cosa ho fatto durante le vacanze estive? Non c’era motivo di avere le

mani tremanti e i battiti del cuore a mille; non c’era motivo di sentirmi come nelle

fasi iniziali di un attacco di cuore. Conoscevo i segnali. Avevo visto le pubblicità. Gli

occhi di tutti erano su di me, inclusi quelli di Liam e Caleb, che mi osservavano

entrambi divertiti e diffidenti. O magari incuriositi. Non avrei saputo distinguere.

«Ehm, ciao, io sono Jessie. Sono nuova di qui. Non ho fatto nulla di entusiasmante

quest’estate. Voglio dire, io… mi sono trasferita da Chicago, ma fino ad allora,

lavoravo, ehm, avete presente lo Smoothie King del centro commerciale? Ecco lì.»

Nessuno è stato così maleducato da scoppiare a ridere, ma stavolta i loro sguardi

erano facili da interpretare. Pena, bella e buona. Loro avevano costruito scuole e

viaggiato in Paesi lontani, fatto tirocini in aziende da miliardi di dollari; io avevo

passato i miei due mesi di libertà a miscelare sciroppo ad alto contenuto di fruttosio.

Col senno di poi, mi rendo conto che avrei dovuto mentire e raccontare di aver

aiutato orfani paraplegici in Madagascar. Nessuno avrebbe battuto ciglio.

O applaudito, per dire.

«Aspetta. Non sei sulla mia lista» ha detto il professor Shackleman. «Sei all’ultimo

anno?»

«Ehm, no» ho risposto, sentendo una goccia di sudore scivolarmi sul viso. Rapido

calcolo: asciugarla avrebbe attirato più o meno l’attenzione sul fatto che stessi

secernendo una massiccia quantità di acqua dai pori? L’ho asciugata.

«Hai sbagliato lezione» ha detto. «Non assomiglio alla professoressa Murray, vero?»

A questa battuta, nella migliore delle ipotesi solo marginalmente divertente, sono

scoppiate vere e proprie risate. E venticinque facce si sono girate di nuovo verso di

me, a prendermi le misure. Intendo letteralmente: sembrava che alcuni di loro

cercassero di individuare la mia taglia.

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«Dovresti essere all’interno.» Il professor Shackleman mi ha indicato l’edificio

principale, così ho dovuto alzarmi e andarmene mentre l’intera classe, incluso

l’insegnante, inclusi i favolosi Caleb e Liam, guardavano le mie chiappe allontanarsi. E

solo più tardi, quando in effetti sono arrivata alla mia classe e ho dovuto alzarmi in

piedi e ripetere l’intera faccenda delle vacanze estive di fronte ad altri venticinque

studenti – e pronunciare le parole “Smoothie King” per la seconda volta davanti a un

pubblico ugualmente inorridito – mi sono resa conto di avere una grossa macchia di

erba sul sedere.

Riflettendoci, il numero di persone che potrebbero aver percepito la mia

disperazione? Almeno cinquanta, e sto facendo una stima al ribasso per farmi sentire

meglio.

La verità è che PS potrebbe essere chiunque.

Ora, ben quattordici giorni più tardi, me ne sto in piedi in mensa con il mio stupido

pranzo al sacco e mi guardo intorno in questo nuovo territorio – dove tutto è

luccicante e costoso (i ragazzi qui guidano delle vere BMW, non vecchie Ford Focus a

cui hanno appiccicato uno stemma della BMW comprato su eBay) – e non so dove

andare. Mi trovo davanti al problema che, da che mondo è mondo, ogni nuovo

studente deve affrontare: non ho nessuno con cui pranzare.

Ho zero possibilità di unirmi a Theo, il mio nuovo fratellastro che, l’unica volta che gli

ho detto “ciao” in corridoio, mi ha ignorata con un’intensità tale che ho rinunciato

persino a guardare nella sua direzione. Di solito passa tutto il suo tempo con una

certa Ashby (sì, si chiama davvero così), che sembra una supermodella sempre in

passerella: sensazionale trucco gotico, abiti firmati all’apparenza scomodi, lineamenti

ampi e inespressivi, capelli a spazzola rosa. Sto iniziando a pensare che Theo sia uno

degli studenti più popolari della scuola – sempre a salutare qualcuno nei corridoi –, il

che è strano, perché è il tipo di persona che a Chicago avrebbero preso in giro. Non

perché è gay – i miei compagni alla Franklin Delano Roosevelt non erano omofobici,

o almeno non apertamente – ma perché è appariscente. Esageratamente esagerato.

Qualsiasi cosa Theo faccia è teatrale, eccetto quando si tratta di me, ovviamente.

Ieri notte l’ho incrociato sul corridoio prima di andare a letto e indossava un kimono

di seta, come un modello nella pubblicità di un profumo. Certo, io avevo le guance

spalmate di crema antibrufoli e puzzavo di olio di tea tree, nella mia personale

parodia della teenager brufolosa. Ma almeno ho avuto la decenza di far finta che non

fosse strano, il modo in cui le nostre vite si erano mischiate improvvisamente, e

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senza il nostro consenso. Gli ho augurato la buona notte nel tono più amichevole

possibile, dato che non vedo il motivo di essere maleducata. Non è che questo possa

cancellare il matrimonio dei nostri genitori. Ma Theo mi ha solo rivolto un grugnito

elegantemente elaborato, con un notevole messaggio nascosto: Tu e

quell’arrampicatore sociale di tuo padre fareste meglio a sloggiare da casa mia.

Non ha torto. Voglio dire, a mio padre non interessano i soldi di sua madre.

Ma dovremmo andarcene. Dovremmo salire su un aereo, questo stesso pomeriggio,

e ritrasferirci a Chicago… anche se non è possibile, visto che la nostra casa è stata

venduta. La camera in cui ho dormito per tutta la vita ora ospita una bimba di sette

anni e la sua ampia collezione di bambole. L’ho persa, insieme a tutte le altre cose

che conoscevo.

Quanto al pranzo di oggi, ho preso in considerazione l’idea di portare il mio triste

panino con marmellata e burro d’arachidi in biblioteca, un piano sventato da un

severo cartello VIETATO MANGIARE. Peccato, perché la biblioteca è fantastica, finora

l’unica cosa che ammetterei essere migliore della FDR. (Alla FDR, non avevamo una

vera e propria biblioteca… avevamo uno stanzino per i libri, che più che altro veniva

usato per limonare. Ma d’altronde la FDR era, be’, una scuola pubblica. Questo posto

costa un fantastilione di dollari all’anno, e il conto me lo paga la nuova moglie di

papà.) La brochure della scuola diceva che la biblioteca è stata donata da qualche

pezzo grosso di uno studio cinematografico, con un cognome famoso… e le sedie

sono tutte lussuose, del tipo che si trova in una di quelle riviste patinate che la nuova

moglie di papà sparpaglia strategicamente in giro per la casa. «Porno per designer»

le chiama, con la risata nervosa che rivela che parla con me solo perché è obbligata.

Mi rifiuto di pranzare in bagno, perché è quello che fanno i ragazzi patetici nei film e

nei libri, e anche perché fa schifo. I fattoni hanno colonizzato il cortile sul retro, e in

ogni caso non ho voglia di sacrificare i miei polmoni sull’altare delle false amicizie.

C’è quello strano affare del Kiosco del Kaffè, che normalmente sarebbe proprio

adatto a me, nonostante il nome stupido: perché le K? Perché? Ma per quanto

velocemente mi precipiti lì, dopo l’ora di algebra, trovo sempre le due comode

seggiole già occupate. In una c’è quel tipo strambo che indossa ogni giorno la stessa

maglietta vintage di Batman e jeans attillati, e legge libri persino più voluminosi di

quelli che piacciono a me. (Li leggerà veramente? O è solo una scena? Andiamo, chi

legge Sartre per divertimento?) L’altra invece è occupata a rotazione da un gruppo di

ragazze che ridono troppo forte e flirtano con Batman, il cui vero nome è Ethan, cosa

che so solo perché siamo nella stessa classe per l’appello e per il corso di letteratura.

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(Il primo giorno ho scoperto che ha passato l’estate a fare volontariato in un

campeggio a tema musicale per bambini autistici. Non ha, in nessun modo, usato un

frullatore. Punto a favore: non mi ha rivolto uno di quegli sguardi di compatimento

che ho ricevuto dal resto della classe quando ho raccontato del mio lavoro superfigo

a fare frullati. Ma d’altronde, è perché non si è disturbato a rivolgermi nemmeno uno

sguardo.)

Nonostante gli sforzi delle ragazze, Batman non sembra interessato. Fa il minimo

indispensabile – un mezzo abbraccio senza contatto visivo, e via – e, anche se in

modo impercettibile, sembra tirarsi indietro dopo ogni approccio, come se quel

gesto gli costasse molto. (A quanto pare ci si scambia un sacco di abbracci e baci in

questa scuola, uno su ogni guancia, come se fossimo ventiduenni parigini, e non

sedicenni americani imbranati sotto ogni punto di vista.) Non riesco a capire come

mai continuino a tornare da lui, ogni volta in una bolla di allegria, come se essere alle

superiori fosse divertentissimo! Sul serio, c’è bisogno di ripeterlo? Per la stragrande

maggioranza di noi le superiori non sono divertenti; sono l’esatto contrario del

divertimento.

Mi chiedo che effetto farebbe parlare usando solo i superlativi come fanno queste

ragazze. Ethan, sei simpaticissimo! Sul serio, proprio supersimpaticissimo.

«Hai bisogno di una boccata d’aria. Vieni a fare due passi con noi, Eth» dice una

bionda, arruffandogli i capelli, come a un bimbo disobbediente. I sedicenni flirtano

allo stesso modo a Los Angeles e a Chicago, anche se vorrei sottolineare che le

ragazze qui sono ancora più rumorose, come se ci fosse una correlazione diretta tra il

volume della voce e l’attenzione maschile.

«Nah, non oggi» glissa Batman, educato ma freddo.

È carino, se ti piace il genere menefregoditutto. Ha gli occhi blu e i capelli scuri.

Capisco perché quella ragazza glieli ha scompigliati: sono così folti che è impossibile

non volerci affondare le mani.

Ha l’aria cattiva. O triste. O entrambe. Come se anche lui stesse contando i giorni che

lo separano al diploma, quando potrà andarsene da qui, e nel frattempo non si

prendesse neanche la briga di fingere.

Per quel che vale: 639 giorni, week-end inclusi. Persino io riesco a fingere… la

maggior parte del tempo.

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Non sono riuscita a guardare bene senza correre il rischio di farmi scoprire, ma sono

quasi sicura che Batman abbia una fossetta sul mento, e c’è una buona possibilità

che indossi l’eyeliner, il che, mah! O magari sono le occhiaie che fanno risaltare i suoi

occhi, perché ha un aspetto perennemente esausto, come se dormire fosse un lusso

che non si può permettere.

«Figurati» dice la tipa, e fa finta di non essere ferita dal suo rifiuto, anche se è chiaro

che lo è. Per tutta risposta, si siede sulla seggiola di fronte a Batman, in braccio a

un’altra ragazza, un’altra bionda, che le assomiglia così tanto da sembrare la sua

gemella, e finge di coccolarla. So come funziona lo spettacolo.

Passo vicino a loro, ansiosa di arrivare alla panchina appena fuori dalla porta. Un

posto solitario per pranzare, forse, ma anche una zona senza ansie. Non ho modo di

fare casini lì.

«Che hai da guardare?» mi abbaia contro la prima bionda.

Ed eccole qui, le prime parole che un altro studente mi ha volontariamente rivolto da

quando ho iniziato a Wood Valley, due settimane fa: Che hai da guardare?

Benvenuta nella giungla, penso. Benvenuta. Nella. Giungla.

Capitolo 3

Non è poi così male qui, mi dico, ora che sono seduta su una panchina e do le spalle

a Batman e a quelle stronzette, la mensa e il resto della classe al sicuro dietro di lui.

Insomma, la gente qui è antipatica. Sai che roba! La gente è antipatica ovunque.

Ripeto a me stessa che il clima è una benedizione. C’è il sole, perché a quanto

sembra a Los Angeles splende sempre il sole. Ho notato che tutti i ragazzi portano

occhiali da sole firmati, e – se non fosse che ne hanno davvero bisogno – li prenderei

in giro per come si sforzano di essere alla moda. Passo le giornate strizzando gli occhi

e a farmi ombra con una mano, come un boy scout sull’attenti.

Il mio problema più grosso è che mi manca la mia migliore amica, Scarlett. Lei è la

mia guardia del corpo… alta un metro e cinquanta, per metà ebrea e per l’altra metà

coreana, avrebbe saputo esattamente come rispondere a tono a quella ragazza, con

qualcosa di tagliente. Invece, posso contare soltanto su me stessa: me, i miei riflessi

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rallentati e le mie retine che bruciano. Ho cercato di convincermi che ce la posso fare

da sola per i prossimi due anni. Che se ho bisogno di tirarmi su, mi basta mandare un

SMS a Scarlett, e sarà come se fosse vicino a me, e non dall’altra parte del Paese. Lei

sì che è una con la battuta sempre pronta. Vorrei solo sentirmi un po’ meno stupida

nel capire come funziona questo posto. Avrei decisamente bisogno di un’APP che mi

spieghi come usare il badge per il pranzo, che cosa diavolo sia il Giorno della

Beneficenza di Wood Valley, e perché devo indossare scarpe chiuse in

quell’occasione. E, forse la cosa più importante, chi devo evitare di guardare anche

solo accidentalmente. Che hai da guardare?

Le civette bionde ora passano accanto alla mia panchina – il tentativo di far

passeggiare Batman non deve aver dato frutti – e, camminando, ridacchiano.

Stanno ridendo di me?

«Ma sul serio?» La più bionda finge di sussurrare alla sua amica appena meno

bionda, e poi si gira a fissarmi. Sono entrambe carine, che fortuna, in modo

convenzionale. Capelli dorati e luminosi, freschi di piega, occhi azzurri, pelle di pesca,

magre. Tette stranamente grandi. Gonne così corte che penso proprio violino il

codice di abbigliamento della scuola, e quattro strati di trucco che sono stati

probabilmente applicati con l’aiuto di un tutorial di YouTube. Sarò onesta: non mi

dispiacerebbe avere esattamente quel tipo di fortuna, essere la rara teenager che

non ha mai dovuto fare i conti con i brufoli. La mia faccia, anche nei giorni migliori,

ha quello che mia nonna ha sempre insensibilmente definito “carattere”. Ci vuole un

secondo, forse anche un terzo sguardo perché qualcuno riesca a scorgere il mio

potenziale. Cioè, ammesso che ne abbia. «Hai visto quell’elastico?»

Oh, merda! Avevo ragione. Stanno proprio parlando di me. Non solo mi toccherà

passare i prossimi due anni senza uno straccio di amico, ma finalmente capirò il

senso di tutti quei reportage speciali in TV sul bullismo a scuola. Un Perfetto

Sconosciuto sarà anche uno scherzo, ma lui/lei ha ragione: questo posto è una zona

di guerra. Avrò bisogno di un video motivazionale personalizzato.

Ho la faccia in fiamme. Mi tocco i capelli con un dito, un segno di debolezza, certo,

ma anche un riflesso. Non c’è niente di male nel mio elastico. Ho letto su una rivista

che sono tornati di moda. Anche Scarlett ne indossa uno, a volte, ed è stata votata

Studentessa Meglio Vestita, l’anno scorso. Trattengo le lacrime che mi riempiono gli

occhi. No, non mi vedranno piangere. Anzi, mi correggo: non mi faranno piangere.

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Fanculo.

«Shhh, guarda che ti sente» bisbiglia l’altra, e poi si gira a osservarmi, con aria di

scusa ma allo stesso tempo gioiosa. È inebriata dalla cattiveria, di riflesso. Poi mi

oltrepassano… sfilando, a dire la verità, come se pensassero di avere un pubblico a

guardarle pronto a fischiare. Mi guardo alle spalle, tanto per essere sicura, ma no, ci

sono solo io, qui. Stanno sculettando puramente a mio beneficio.

Prendo il telefono per scrivere a Scarlett. È ora di pranzo per me, ma lei sta uscendo

da scuola. Detesto che siamo così lontane sia nello spazio che nel tempo.

Io: Io qui non c’entro niente. Tutti portano la 38, o la 36.

Scarlett: Oh, no, non dirmi che dobbiamo fare tutta la sceneggiata del NON SEI

GRASSA. Tutta la nostra amicizia si basa sul fatto che non siamo il tipo di ragazze che

devono fare questa cosa l’una per l’altra.

Non siamo mai state il tipo che dice: «Odio il mio mignolo destro! È così… snodato».

Scarlett ha ragione. Ho di meglio da fare che paragonarmi agli ideali irraggiungibili

stabiliti da direttori grafici di riviste che ridimensionano le cosce altrui con un tocco

di mouse. Ma mentirei se non ammettessi di essere nella “fascia più larga”, per così

dire. Com’è possibile? Mettono lassativi nell’acqua?

Io: E biondi. Hanno tutti questo biondo California.

Scarlett: NON FARTI TRASFORMARE IN UNA DI QUELLE. Hai promesso che LA non ti

avrebbe dato alla testa.

Io: Non preoccuparti. Per darmi alla testa, qualcuno dovrebbe almeno rivolgermi la

parola.

Scarlett: Merda. Davvero? Va così male?

Io: Peggio.

Faccio un selfie veloce, seduta da sola sulla panchina con il mio panino

smangiucchiato. Sorrido invece di fare il broncio, però, e metto l’hashtag #Giorno14.

Quelle bionde sarebbero rimaste imbronciate, avrebbero scattato una foto in una

posa sexy, e l’avrebbero caricata su Instagram. Guarda quanto sono sexy quando non

mangio il panino!

Scarlett: Fai sparire l’elastico. Fa un po’ troppo contadinella con quella camicia.

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Mi sciolgo i capelli. Ecco perché ho bisogno di avere Scarlett qui. Forse è grazie a lei

se non mi hanno mai presa in giro, prima. Se non ci fossimo incontrate all’età di

quattro anni, probabilmente sarei ancora più sfigata.

Io: Grazie. Elastico ufficialmente sparito. Consideralo bruciato.

Scarlett: Chi è il figo che si è infiltrato nella tua foto?

Io: Cosa?

Controllo il display a occhi stretti. Batman stava guardando fuori dalla vetrata

quando ho scattato la foto. Non esattamente infiltrato, ma immortalato per i posteri.

Insomma, alla fine Bionda e Più Bionda avevano un pubblico, dopotutto. Ma certo

che ce l’avevano: ragazze come quelle hanno sempre un pubblico.

Arrossisco di nuovo. Non solo sono una gran sfigata che pranza da sola con un buffo

elastico per capelli, ma sono così stupida da farmi beccare a fare un selfie di questo

meraviglioso momento della mia vita. Da un ragazzo carino, per giunta!

Seleziono la casella di fianco alla foto. Clicco CANCELLA. Se solo fosse così facile

cancellare tutto il resto.

Capitolo 4

“La terra desolata di T. S. Eliot. Qualcuno l’ha letto?» chiede la professoressa

Pollack, la mia nuova insegnante di letteratura.

Nessuno alza la mano, nemmeno io, anche se l’ho letto un paio di anni fa, in quella

che ora mi sembra un’altra vita. La mamma aveva l’abitudine di lasciare libri di

poesia in giro per casa, come se fossero parte di qualche caccia al tesoro implicita:

una spolverata di indizi intricati che conduceva non si sa dove. Quando mi annoiavo,

pescavo uno dei volumi dal comodino o dalla pila vicino alla vasca e li aprivo a caso.

Volevo leggere le parti che lei aveva sottolineato, o dove aveva scribacchiato note

illeggibili nei margini. Mi sono domandata spesso come mai qualche riga fosse

evidenziata di un giallo sbiadito.

Non gliel’ho mai chiesto. Perché non gliel’ho chiesto? Una delle cose peggiori

quando perdi qualcuno è ripensare a tutte quelle volte in cui non hai fatto la

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domanda giusta, o hai stupidamente dato per scontato che avresti avuto tutto il

tempo del mondo. E anche che tutto quel tempo sembra davvero poco. Quello che

rimane appare artificiale. I fantasmi sovraesposti dei ricordi.

Ne La terra desolata, mamma aveva sottolineato la prima frase e l’aveva segnata con

due esuberanti asterischi:Aprile è il più crudele dei mesi.

Perché proprio aprile? Non sono d’accordo. Ultimamente, mi pare che ogni mese sia

crudele a modo suo. Siamo a settembre, ora: matite temperate. Un anno nuovo

eppure niente affatto nuovo. È troppo presto e insieme troppo tardi per fare buoni

propositi e avviare nuovi inizi.

I libri della mamma sono impacchettati in scatoloni lasciati ad ammuffire in un

deposito di Chicago, mentre il loro odore di carta si trasforma in puzza di umido e

polvere. Cerco di non pensare a quello o a come tutta la materia finisca per

disintegrarsi. A come tutto quel sottolineare sia stato uno spreco.

«È una poesia di quattrocentotrentaquattro versi. Perciò sarebbero, tipo,

quattrocentotrentaquattro tweet?» La Pollack suscita una risata. È giovane – forse

meno di trent’anni – e sexy: leggings leopardati, sandali di cuoio con la zeppa, una

canotta di seta che rivela le lentiggini sulle spalle. È vestita meglio di me. Una di quei

docenti a cui gli studenti giurano un tacito sostegno, forse addirittura ammirazione,

visto che la sua vita non ci sembra così estranea. È qualcuno in cui possiamo

identificarci.

Il mio primo giorno, mi ha presentata alla classe ma non mi ha costretta ad alzarmi e

raccontare qualcosa di me, come hanno fatto gli altri insegnanti. È stato premuroso,

da parte sua, risparmiarmi quella perdita di dignità.

«Allora, ragazzi, La terra desolata è difficile. Veramente, veramente difficile. È a

livello universitario, ma credo che possiate farcela. Ve la sentite?»

Per risposta ottiene soltanto qualche sì svogliato. Io non dico niente. Non c’è bisogno

di sventolare la mia bandiera da secchiona fin da subito.

«Eh, no! Sapete fare di meglio. Ve la sentite?»

Adesso riceve in risposta un vero e proprio tifo, il che mi colpisce. Pensavo che i

ragazzi, qui, si emozionassero solo per i vestiti e per «US Weekly» e per i viaggi

costosi che fanno fare bella figura nelle domande di ammissione al college. Forse li

ho sminuiti troppo in fretta.

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«Ok, allora faremo così: organizzatevi a coppie, e nel corso dei prossimi due mesi,

ogni settimana, affronterete questa poesia in gruppo.»

Oh, no. No. No. No. Sapete qual è l’unica cosa peggiore di essere quella nuova a

scuola? Essere quella nuova quando si deve lavorare in coppia. Merda.

Mi guardo intorno nell’aula. Theo e Ashby sono al primo banco, ed è scontato che lui

non aiuterà la sua sorellastra. Le due bionde che mi hanno presa in giro prima sono

sedute alla mia destra. A quanto pare si chiamano Crystal (Bionda) e Gem (Più

Bionda), che sarebbe esilarante se loro due non fossero disgustose. Guardo a destra.

La ragazza vicino a me indossa occhiali di Warby Parker dalla montatura nera spessa

e jeans strappati… sembra il tipo di persona che sarebbe stata mia amica, a casa. Ma

prima di poter pensare a un modo per chiederle di essere la mia compagna, si è già

girata verso la ragazza di fianco a lei e, senza scambiarsi neanche una parola, si sono

già messe d’accordo.

In un attimo, tutta la classe è già divisa a coppie. Mi guardo in giro, cercando di non

mostrare la mia disperazione, anche se ho negli occhi una supplica. Dovrò alzare la

mano e dire alla Pollack che non ho un compagno? Ti prego, Dio, no. Proprio quando

piego il braccio, pronta ad alzarlo in segno di sconfitta, qualcuno mi tocca la spalla da

dietro con una penna. Mi giro con un sospiro di sollievo. Non mi interessa chi sia. A

caval donato, eccetera eccetera.

Non. Ci. Credo.

Batman.

Lo stomaco mi si stringe per l’imbarazzo. Mi fa un piccolo cenno con la testa, lo

stesso che fa sempre Theo, ma stavolta è inequivocabile: mi sta chiedendo di essere

la sua partner. I suoi occhi blu sono penetranti, quasi invadenti, come se non stesse

solo guardando me, ma dentro di me. Come se stesse misurando qualcosa.

Valutando se sono una perdita di tempo. Sbatto le palpebre, abbasso lo sguardo,

annuendo a mia volta, e gli rivolgo un minuscolo sorriso di gratitudine. Mi giro di

nuovo in avanti e ci vuole tutta la mia forza di volontà per non appoggiarmi le mani

sulle guance a rinfrescarle.

Passo il resto della lezione a domandarmi come mai Batman abbia scelto me. Magari

sembro intelligente? E se sembro intelligente, significa che ho un aspetto da

secchiona? Analizzo mentalmente il mio abbigliamento: camicia a quadri, jeans Gap

con il risvolto, le mie vecchie Vans consumate. L’outfit che portavo a Chicago, ma

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senza il giaccone pesante. Niente di particolarmente rivelatore, specialmente ora che

ho i capelli sciolti. Il mio primo istinto è di pensare che, per chissà quale motivo, stia

solo facendo una buona azione. Devo aver avuto un aspetto patetico, a scrutare

l’aula in cerca di un viso compiacente, specialmente dopo che mi sono beccata gli

insulti di Gem e mi sono messa in imbarazzo il primo giorno di scuola. Persino Ken

Abernathy, che secondo PS ha problemi a trattenere le scoregge, ha trovato un

partner immediatamente.

Quando suona la campanella e tutti stiamo ritirando i nostri pc portatili – ovviamente

io sono l’unica a non avere un computer ultrasottile –, Batman si ferma al mio banco

e mi fissa di nuovo con quegli occhi blu da serial killer. Ha una leggera espressione da

sociopatico, o sono io che me lo immagino? Non credo sia così cattivo. In fondo,

scegliere me è stato davvero un gesto carino da parte sua. Non ricordo di essermi

mai presa la briga di fare amicizia con quelli nuovi, quando ero a Chicago. Sexy e

gentile. Non va per niente bene.

Mi accorgo appena in tempo che devo smetterla di fissarlo e iniziare a parlare.

«Allora, vuoi che ci scambiamo i numeri o cosa?» chiedo, e detesto la cantilena

nervosa nella mia voce: mi fa assomigliare fin troppo a una di quelle ragazze che si

radunano intorno a lui in pausa pranzo. È solo che non ho parlato molto nelle ultime

settimane. Con Scarlett per lo più ci scambiamo messaggi. Mio papà è stato così

impegnato a cercare lavoro e a passare del tempo con la sua nuova moglie che ci

siamo a malapena incrociati. Comunque, non è la mia persona preferita in questo

momento. Non mi piace questa nuova versione di lui, distratto e sposato con

un’estranea, che mi costringe a vivere una vita irriconoscibile senza diritto di replica.

E… basta. Queste sono tutte le persone rimaste nel mio mondo.

«Nah» ribatte. «Faccio io il compito e ci scrivo tutti e due i nomi.» Il tizio non aspetta

neanche il mio ok. Annuisce ancora una volta, come se avessi detto di sì. Come se mi

avesse fatto una domanda e io avessi risposto.

Forse non è così gentile, dopotutto.

Fine dell'estratto Kindle.

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