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1 Diego Rossi Cyberspazio, tecno-taoismo e metafisica light Note su The Metaphysics of Virtual Reality di M. Heim Nelle pagine che seguono si cercherà di analizzare, per quanto in maniera non esaustiva, il pensiero di un autore, Michael Heim, poco noto in Italia, che tuttavia figura tra i più apprezzati studiosi della realtà virtuale: un vero e proprio pioniere della filosofia del cyberspazio 1 (i suoi primi lavori risalgono ad un periodo in cui non si era ancora sviluppata la rete internet). L’intento è quello di offrire un modesto contributo alla diffusione, in Italia, di questo autore e della sua opera filosoficamente più significativa, The Metaphysics of Virtual Reality, che contiene spunti di indubbio interesse per la ricerca filosofica in un settore, quello della realtà virtuale, che negli ultimi anni sta guadagnando un peso sempre crescente nel panorama culturale, proporzionale al peso che le tecnologie informatiche hanno accumulato – e continuano ad accumulare – nella vita quotidiana di tutti. Le riflessioni svolte in questa sede mirano a mettere in rilievo quegli aspetti del pensiero di Heim che maggiormente suscitano un interesse filosofico sia in chiave ontologica che in chiave storica, ed in particolare i legami che esso intrattiene con la Technikphilosophie heideggeriana, sottolineando gli aspetti più originali della sua analisi in relazione allo studio della storia della metafisica. Cenni preliminari 1 Termine coniato originariamente da William Gibson, che lo usò per la prima volta in Neuromancer, Ace Book, New York, 1984 (tr. it. di G. Cossato e S. Sandrelli, Neuromante, Mondadori, Milano, 2003) per indicare lo spazio virtuale della rete, uno «spazio cibernetico» simulato al computer. La fortuna del termine è dovuta indubbiamente alla sua straordinaria capacità evocativa. Nell’economia del discorso sviluppato in queste pagine si vedano anche, dello stesso autore, almeno: Count Zero, Ace Book, New York, 1986 (tr. it. D. Zinoni, Giù nel cyberspazio, Mondadori, Milano, 1990); Monna Lisa Overdrive, Bantam Spectra, New York, 1988 (tr. it. M. Pensante, Monna Lisa cyberpunk, Mondadori, Milano, 1991); Idoru, Berkley, New York, 1996 (tr. it. D. Zinoni Aidoru, Mondadori, Milano, 1997). Si veda anche, infine, il testo del documentario di M. Neale, William Gibson: No Maps for these Territories, USA, 2003.

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Diego Rossi

Cyberspazio, tecno-taoismo e metafisica lightNote su The Metaphysics of Virtual Reality di M. Heim

Nelle pagine che seguono si cercherà di analizzare, per quanto in maniera non esaustiva, il pensiero di un autore, Michael Heim, poco noto in Italia, che tuttavia figura tra i più apprezzati studiosi della realtà virtuale: un vero e proprio pioniere della filosofia del cyberspazio1 (i suoi primi lavori risalgono ad un periodo in cui non si era ancora sviluppata la rete internet). L’intento è quello di offrire un modesto contributo alla diffusione, in Italia, di questo autore e della sua opera filosoficamente più significativa, The Metaphysics of Virtual Reality, che contiene spunti di indubbio interesse per la ricerca filosofica in un settore, quello della realtà virtuale, che negli ultimi anni sta guadagnando un peso sempre crescente nel panorama culturale, proporzionale al peso che le tecnologie informatiche hanno accumulato – e continuano ad accumulare – nella vita quotidiana di tutti.

Le riflessioni svolte in questa sede mirano a mettere in rilievo quegli aspetti del pensiero di Heim che maggiormente suscitano un interesse filosofico sia in chiave ontologica che in chiave storica, ed in particolare i legami che esso intrattiene con la Technikphilosophie heideggeriana, sottolineando gli aspetti più originali della sua analisi in relazione allo studio della storia della metafisica.

Cenni preliminari

Michael Heim, nato in California nel 1944, si è ormai imposto all’attenzione mondiale come il «filosofo del cyberspazio»2. Sin dal suo primo libro3, Electric Language, del 1986, si è infatti sempre interessato

1 Termine coniato originariamente da William Gibson, che lo usò per la prima volta in Neuromancer, Ace Book, New York, 1984 (tr. it. di G. Cossato e S. Sandrelli, Neuromante, Mondadori, Milano, 2003) per indicare lo spazio virtuale della rete, uno «spazio cibernetico» simulato al computer. La fortuna del termine è dovuta indubbiamente alla sua straordinaria capacità evocativa. Nell’economia del discorso sviluppato in queste pagine si vedano anche, dello stesso autore, almeno: Count Zero, Ace Book, New York, 1986 (tr. it. D. Zinoni, Giù nel cyberspazio, Mondadori, Milano, 1990); Monna Lisa Overdrive, Bantam Spectra, New York, 1988 (tr. it. M. Pensante, Monna Lisa cyberpunk, Mondadori, Milano, 1991); Idoru, Berkley, New York, 1996 (tr. it. D. Zinoni Aidoru, Mondadori, Milano, 1997). Si veda anche, infine, il testo del documentario di M. Neale, William Gibson: No Maps for these Territories, USA, 2003.

2 Cfr. D. Weinberger, Email, Rumors, Good Remarks, in «JOHO. Journal of the Hyperlinked Organization», 16/05/1998 (http://www.hyperorg.com/backissues/joho-may16-98.html).

3 Le principali opere di questo autore sono: M. Heim, Electric Language: A Philosophical Study of Word Processing, Yale University Press, New Haven/C.T., 1986 (19992); Id., The Metaphysics of Virtual Reality, Oxford University Press, New York, 1993); AA.VV., Being Human in the Ultimate. Studies in the Thought of John M.

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all’impatto che le nuove tecnologie hanno sull’uomo e sul mondo da un punto di vista prettamente filosofico, ovvero a quello che egli stesso definisce lo «slittamento ontologico»4 (ontological shift) causato da una tecnologia che ha già mutato in profondità la realtà e la relazione tra l’uomo e il background ontologico (il mondo) sul quale si muove.

La peculiarità delle analisi che Heim svolge in The Metaphyics of Virtual Reality sta proprio nel suo approccio prettamente filosofico alla materia del cyberspace e della realtà virtuale, un approccio che gli consente di riallacciare queste tematiche alla tradizione della metafisica occidentale e di dialogare direttamente con pensatori, come McLuhan e Heidegger, che per primi hanno intravisto la connessione tra

Anderson, edited by M. Heim e N. Georgopoulos, Rodopi Press, Amsterdam-Atlanta 1995; M. Heim, Virtual Realism, Oxford University Press 1998. A questi libri si va ad aggiungere una cospicua produzione saggistica, tra cui: Id., The Rescuing of Reason. Kant and the Foundations of Metaphysics, in «Dialogue», 13, 1-2, 5 (1971), pp. 51-57; Id., Some Philosophical Proposals for the Role of the Humanities. Toward a Postmodern Logic, in «Kinesis», n. (1979), pp. 39-46; Id., Philosophy as Ultimate Rhetoric, in «The Southern Journal of Philosophy», XIX, 2 (1981), pp. 181-195; Id., The Mystic and the Myth: Thoughts on The Snow Leopard, in «Studia Mystica», IV, 2 (1981), pp. 3-9; Id., Topics, Topicality: The New Topos, in «Philosophy Today», XXV, 2 (1981), pp. 131-138; Id., Authenticity Is Not A Real Predicate, in AA. VV., Research in Phenomenology, XIII, Humanities Press, 1983, pp. 199-207; Id., The Realization of Infinity: On the Philosophy of John M. Anderson, in «Philosophy and Phenomenological Research», 43, 4, 6 (1983), pp. 541-550; Id., A Philosophy of Comparison: Heidegger and Lao Tzu, in «The Journal of Chinese Philosophy», 11, 4 (1984), pp. 307-335; E. Grassi e M. Heim, Philosophical Letters, in «The Journal of Chinese Philosophy», 11, 4 (1984), pp. 335 e sgg.; M. Heim, Reason as Response to Nuclear Terror, in «Philosophy Today», XXVIII, 4 (1984), pp. 300-307; Id., The Impact of Computerized Writing on the Human Thought Process. A Philosophical Investigation, Atti del Convegno Ninth Western Educational Computing Conference, California Educational Computing Consortium, Oakland, California 1985, pp. 95-102; Id., Humanistic Discussion and the Online Conference, in «Philosophy Today», XXX, 4 (1986), pp. 278-288; Id., The Finite Framework of Language, in «Philosophy Today», XXXI, 1 (1987), pp. 3-20; Id., Grassi's Experiment: The Renaissance through Phenomenology, in AA. VV., Research in Phenomenology, XVIII, Humanities Press, 1988, pp. 233-263; Id., The Technological Crisis of Rhetoric, in «Philosophy and Rhetoric», 21, 1 (1988), pp. 48-59; Id., Searching for the Essence of Tai Chi, in «The Healing Tao Journal», 1, 2 (1989), pp. 21-24; Id., Infomania, in AA.VV., The State of the Language, edited by Ch. Ricks e L. Michaels, University of California Press, 1990, pp. 300-306, M. Heim, The Metaphysics of Virtual Reality, in «Multimedia Review», Meckler, n. (1990), pp. 27-34; Id., Remembering the Body Temple, in «The Healing Tao Journal», 1, 4 (1991), pp. 10-12; Id., The Erotic Ontology of Cyberspace, in AA.VV., Cyberspace: First Steps, edited by M. Benedikt, MIT Press, Cambridge/Mass., 1991, pp. 59-80 (tr. it. C. Lunardi, Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Muzzio, Padova, 1993); M. Heim, The Computer as Component: Heidegger and McLuhan, in «Philosophy and Literature», 10 (1992), pp. 33-44; Id., Cybersage Does Tai Chi, in AA.VV., Falling in Love with Wisdom. American Philosophers Talk about Their Calling, edited by D. Karnos e R. Shoemaker, Oxford University Press, New York, 1993, pp. 205-209; M. Heim, Metaphysics Lite, in «Writing Sociology», 1, 2 (1993), pp. 3-4; Id., Nature and Cyberspace, in «Man & Nature», 28, 9 (1993); M. Heim, The Essence of VR, in «Idealistic Studies: An Interdisciplinary Journal of Philosophy», 23, 1 (1993), pp. 49-62; Id., Alternate World Syndrome (AWS), in «The Bulletin of Anomalous Experience», 5, 3 (1994), pp. 14-15; Id., Heidegger and Computers, in AA.VV., The Question of Hermeneutics, edited by T.J. Stapleton, Kluwer Academic Publishers, Amsterdam, 1994, pp. 397-423; M. Heim, The Dark Side of Virtual Reality, in «UFO: A Forum on Extraordinary Theories and Phenomena», 9, 6 (1994), pp. 36-39; Id., The Design of Virtual Reality, in Press Enter. Between Seduction and Disbelief (Catalogo della mostra),

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l’informatica e la cibernetica con la storia della filosofia (si pensi allo Heidegger di Filosofia e cibernetica, ad esempio).

Egli stesso concepisce la sua come una filosofia trans-nazionale ed in effetti, se mai possa avere un senso la classica categorizzazione che distingue tra filosofi analitici e continentali, Heim dovrebbe necessariamente ricadere nel secondo gruppo, con buona pace della geografia. Certo è che nella sua formazione hanno un indubbio peso i tre anni trascorsi in Europa come studente Fullbright e gli studi su Heidegger compiuti presso l’università tedesca di Freiburg5. Significativa è stata l’influenza di Hermann Gundert ed Heribert Boeder6. Nonché quella di Ernesto Grassi7, «umanista italiano e mago della retorica»8, con il quale ha stretto un’amicizia durata negli anni, rinnovata dalle frequenti partecipazioni ai Zürcher Gespräche.Power Plant Contemporary Art Gallery, Toronto, 1995, pp. 57-86; Id., Im Reich des Virtuellen. Der Computer als Schoepfer einer neuen Realität, in «Neue Zürcher Zeitung», 18 (23/1/1998), p. 65; Id., Virtual Reality and the Tea Ceremony, in AA.VV., The Virtual Dimension. Architecture, Representation, and Crash Culture, edited by J. Beckmann, Princeton Architectural Press, pp. 156-77; M. Heim, The Feng Shui of Virtual Enviroments, in «Computer Graphics World», 24, 1, 1 (2001), pp. 19-21. Si ricordano infine le seguenti traduzioni in americano: E. Fink, Ontological Problems of Community, tr. by M. Heim, in AA. VV., Contemporary German Philosophy, Pennsylvania State University Press, II, 1983, pp. 1-19; M. Heidegger, Hebel-Friend of the House, tr. by M. Heim e B. Foltz, in AA. VV., Contemporary German Philosophy, Pennsylvania State University Press, III, 1984, pp. 89-101; G. Picht, Some Fundamental Thoughts on a Philosophy of Music, in AA. VV., Contemporary German Philosophy, Pennsylvania State University Press, IV, 1984, pp. 244-261; il volume di M. Heidegger, The Metaphysical Foundations of Logic, tr. by M. Heim, Indiana University Press, Bloomington 1984, che contiene un’importante introduzione filosofica; ed infine W. Biemel, The Transformation in Husserl's Later Philosophy, tr. by M. Heim, in The Question of Hermeneutics, ed by T.J. Stapleton, Kluwer Academic Publishers, Amsterdam 1994.

4 Lo «slittamento ontologico» è uno dei concetti chiave della riflessione di Heim, anzi lo si può definire il perno su cui si incentrano tutti i suoi studi. Cfr. M. Heim, The Metaphysics of Virtual Reality, cit. (d’ora in avanti MVR), p. XIII, dove l’autore definisce tale concetto come «qualcosa di più di un cambiamento nel modo in cui gli uomini vedono le cose, qualcosa di più di uno spostamento di paradigma o di un cambio della nostra posizione epistemologica. […] Uno slittamento ontologico è un cambiamento nel mondo sotto i nostri piedi, nell’intero contesto in cui sono radicate la nostra conoscenza e la nostra consapevolezza. Le cose cambiano ancor prima che noi possiamo renderci conto di cosa ci stia succedendo».

5 Queste, come le altre principali informazioni biografiche che seguono, sono desunte dalla nota biografica che Heim stesso ha inserito nel suo sito personale: http://www.mheim.com.

6 Hermann Gundert, cugino di Hermann Hesse, è stato docente di filologia classica all’università di Friburgo. Heribert Boeder ha insegnato filosofia all’università di Osnabrück.

7 Ernesto Grassi (Milano, 1902 – Monaco di Baviera, 1991), è tra i maggiori filosofi italiani dello scorso secolo. Fortemente influenzato da Heidegger, che conobbe nel 1928, è stato presidente del Centro Internazionale di Studi Umanistici di Monaco e professore di filosofia dell’Umanesimo presso l’Università di München. Tra le sue opere più importanti pubblicate in Italia: Il problema della metafisica platonica, Laterza, Bari, 1932; Heidegger e il problema dell’umanesimo, tr. it. di E. Valenziani, G. Barbantini, Guida, Napoli, 1985; Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, a cura di C. Gentili, Guida, Napoli, 1990; La metafora inaudita, a cura di M. Marassi, Aesthetica, Palermo, 1990.

8 È la definizione che ne dà Heim nella sua nota autobiografica: http://www.mheim.com/bio.html.

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A queste influenze europee vanno ad aggiungersi i suoi legami con «gli hegeliani di St. Louis» e con l’ambiente classicista della Tulane University, i quali, come Heim stesso afferma, lo hanno sempre più avvicinato alla «filosofia continentale», ovvero a quella che egli definisce una filosofia d’ampio respiro, umanistica, dai «larghi orizzonti», in contrasto con le tendenze in voga nell’ambiente accademico anglo-americano, orientato prevalentemente su tematiche analitiche9.

In una certa misura, si deve dire che i suoi rapporti con l’accademia sono ambivalenti, poiché la ricerca universitaria, arroccata su posizioni consolidate, non appare in grado di far fronte alle domande che le nuove tecnologie pongono con insistenza incalzante e dunque sembra incapace di corrispondere agli interessi di Heim. Sicché, se da un lato Electric Language fu per lo più ignorato dal mondo accademico, ciò fu dovuto in larga parte perché a quel tempo, come sostiene Heim, «la maggior parte degli accademici stava ancora istallando i software e cercando di capire come funzionassero le macro della tastiera»10.

Ad ogni modo, Heim si è sempre mosso ai margini della ricerca universitaria, da un lato attento allo studio della filosofia teoretica, di stampo scolastico, e continuando sempre a mantenere legami con l’università, dall’altro però rimanendo aperto alle suggestioni e all’esperienza del mondo esterno all’ambito accademico, a cominciare da quello industriale legato alla realtà virtuale. Sicché il suo pensiero spazia con disinvoltura nella storia della metafisica, della logica, dell’estetica, ma non ne rimane invischiato, per così dire, mantenendo ben saldi i piedi sul terreno dell’attualità, confrontando continuamente quella storia con quanto hanno da dirci i pionieri della realtà virtuale, Myron Krueger, David Zeltzer e quanti, scienziati e artisti, addetti ai lavori della realtà virtuale, stanno contribuendo a forgiare giorno dopo giorno il mondo che ci circonda. Confrontando, in altre parole, Platone con Gibson, attualizzando quello attraverso la riflessione sul cyberspazio e allo stesso tempo dando una profondità concettuale e uno spessore teoretico a questa riflessione – e al senso della ricerca tecnologica – ricorrendo alle radici filosofiche e metafisiche di tale realtà.

Se a questi cenni biografici su Heim si sommano i suoi interessi per la cultura orientale, ed in particolare per il Tai Chi, che egli stesso insegna dal 1989, nonché per la meditazione taoista, si avrà un quadro abbastanza preciso del punto di vista che egli assume nei confronti delle nuove tecnologie. Un punto di vista che non a caso egli stesso, riportando un’osservazione del figlio, non esita a definire «tecno-taoismo»11.

1. «Tecno-taoismo»

Il tecno-taoismo di Heim esprime l’esigenza di accogliere senza fobie l’avvento delle nuove tecnologie, rimanendo però a un tempo collegati con il proprio centro interiore, per così dire, con la propria

9 Cfr. http://www.mheim.com/bio.html.10 MVR, p. 140.11 Ivi, p. XVIII.

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corporeità. In un certo senso, appare proprio come una forma di sincretismo in perfetto stile cyberpunk, come le tante forme di culti sincretistici che William Gibson ama descrivere nei suoi romanzi: la saggezza orientale cerca in questo caso di trovare nella tecnologia della realtà virtuale una conferma ed una riattualizzazione.

Di tecno-taoismo12 si parla in effetti a proposito di film come Matrix, o come il suo emulo coreano, Resurrection of the Little Match Girl, di Jang Sun-Woo, per esprimere appunto l’idea di un mondo simulato interamente al computer, in cui perde senso il tentativo di distinguere in maniera univoca il sogno dalla veglia, ovvero la simulazione della realtà virtuale dalla realtà reale. A questo livello, si tratta della riproposizione, in chiave cibernetica, del koan di Zhuang-zi, famoso saggio taoista:

«Una volta Zhuang-zi sognò di essere una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhuang-zi che sognava di essere una farfalla o una farfalla che sognava di essere Zhuang-zi. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamiamo la metamorfosi degli esseri»13.

C’è una vasta letteratura che gioca con queste tematiche, a cominciare dal Rabbi Shimon Ben Lakish, che afferma: «dall’inizio della sua creazione non è stato che un sogno»14; una tematica che trova la sua espressione forse più emblematica nel capolavoro di Calderon de la Barca, La vida es sueño, che non a caso viene citato da Maria Bettetini nella prefazione a un libro come Il virtuale di Pierre Lévy15, a testimoniare della forza concettuale che una simile suggestione riveste all’interno del dibattito sulla realtà virtuale: «Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione. […] la vita è sogno, e i sogni sono sogni»16, è il grido disilluso di Sigismondo che preconizza il Neo di Matrix, la presa di coscienza della vacuità di ogni forma di realtà, per cui non rimane in fondo che muoversi sui diversi piani della realtà virtuale, la fuga dalla caverna platonica declinata in un tentativo di plasmare quest’illusione che è la realtà per mezzo della consapevolezza, ovverosia per mezzo di quella augmented reality che è la realtà virtuale.

È una possibile chiave di accesso alla metafisica della realtà virtuale; ed indubbiamente è una delle più suggestive immagini che percorrono in

12 Cfr. D. Cazzaro, Resurrection of the Little Match Girl di Jang Sun-woo, in «Cinema Coreano» (http://www.cinemacoreano.it); O. Bosnelli, Jang Sun-woo: il nuovo Anderson coreano, in «Hideout. Cultura dell’immagine e della parola» (http://www.hideout.it); M. Catola, Resurrection, in Fantafestival 2004, a cura di M. Catola, (http://www.cinemainvisibile.it/Speciali/fantafestival2004.htm).

13 L. Kia-hway (a cura di), Zhuang-zi (Chuang-tzu), tr. it. di C. Laurenti, C. Leverd, Adelphi, Milano 1982, p. 32. È da notare che in altre traduzioni la conclusione è leggermente più radicale, ad esempio in L.V. Arena, Il sogno della farfalla. Incursioni nel non pensiero, Pendragon, Bologna, 2003, p. 7: «tra Chuang-tzu e la farfalla c’è, sì, una differenza, solo la metamorfosi di una cosa in un'altra».

14 Cit. in R. Sicuteri, Lilith. La luna nera, Astrolabio, Roma, 1980, p. 20.15 M. Bettetini, prefazione a P. Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano, 1997

(Qu’est-ce que le virtuel?, La Découverte, Paris, 1995) pp. XVI e sgg.16 P. Calderon de la Barca, La vita è sogno, a cura di C. Acutis, tr. it. di A. Gasparetti,

Einaudi, Torino, 1980, p. 51.

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maniera trasversale la letteratura sul tema, sin dalle prime riflessioni degli anni Ottanta, guidate per lo più dagli spunti filosofici dell’avanguardia cyberpunk. Dalla posizione di Lévy17, che tenta di liberare il virtuale dall’ipoteca di un «platonismo redivivo e cadaverico» in una lettura che ne metta in luce il carattere di «liberazione, salvezza, consapevolezza» di una realtà – virtuale – che è «forse capace anche di comprendere che la vita è sogno»18, a quella, ben più critica, di David Gale, che vede nella realtà virtuale il trionfo del narcisismo dei “cowboys della rete”, «ragazzi orfani che bordeggiano la costa del Pacifico alla ricerca del Dio dei numeri, del codice e del disinfettante antivirus, il Dio che non ti deluderà mai perché tu stesso avrai disegnato e programmato ogni suo movimento e ogni comportamento»19, il tecno-taoismo è un elemento imprescindibile col quale chiunque voglia studiare filosoficamente la realtà virtuale deve fare i conti, a prescindere dalle conclusioni cui giunge.

E tuttavia sarebbe sostanzialmente errato leggere la posizione di Heim in questa prospettiva. Certamente in The Metaphysics of Virtual Reality non possono non emergere diversi spunti in questa direzione, e di tanto in tanto l’ipotesi tecno-taoista s’impone con una certa fascinazione, come nel tema dell’ontologia erotica del cyberspazio20, in cui Heim affronta direttamente l’afflato mistico che caratterizza il tentativo di fondare nel cyberspazio l’iperuranio platonico ovvero il paradiso cristiano. Ma la sua analisi non è riducibile a questo aspetto del tecno-taoismo e risulterebbe miope una lettura di The Metaphysics of Virtual Reality, tanto quanto un’interpretazione del suo approccio globale alle tecnologie della RV, che si limiti a ricondurre la posizione heimiana nell’alveo di una simile tradizione.

Il che ci porta a fare due considerazioni: in primo luogo, Heim mostra un’ampiezza di sguardo ed un rigore d’analisi notevoli, che lo pongono in una prospettiva problematica sempre rinnovata, che non si stanca mai di rintracciare nuove piste e percorsi di riflessione, o meglio che non si accontenta mai di ottenere una prospettiva “ultima”, per quanto ampia possa apparire, una qualsiasi chiave di lettura che possa appagare nella presunzione della sua verità; la seconda considerazione, conseguente alla prima, riguarda la assoluta originalità di Metaphysics.

Heim non è un pensatore che si lasci imbrigliare in facili categorizzazioni: il suo intento non è «foggiare uno stile», dar vita ad un sistema teorico ovvero appoggiare una certa posizione filosofica piuttosto che un’altra – si tratta per contro «di illuminare certi fenomeni, al fine di comprendere più profondamente dove siamo e dove ci stiamo dirigendo»21. Il tecno-taoismo cui fa riferimento Heim non vuole

17 Su Lévy si dovrà necessariamente tornare nel corso di queste riflessioni, per tentare un confronto con le posizioni di Heim ed un chiarimento del suo pensiero.

18 M. Bettetini, op. cit., p. XVI.19 D. Gale, Cowboys in paradiso. Nuova speranza per uomini malinconici, in AA.VV.,

Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia, a cura di Francor Berardi (Bifo), Castelvecchi, Roma, 1996, p. 26.

20 Cfr. in particolare M. Heim, The Erotic Ontology of Cyberspace, in MVR, pp. 109-128.

21 MVR, p. XVIII.

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esprimere in fondo null’altro che una posizione di equilibrio, un giusto mezzo che eviti tanto la tecno-fobia quanto la tecno-mania: si tratta di una posizione che «accetta in una certa misura l’inevitabilità del nostro sodalizio con la tecnologia e al contempo cerca di implementare un ponderato equilibrio, un equilibrio di energie appreso in anni di pratiche taoiste»22.

Per Heim il taoismo non è riducibile alla suggestione di gusto orientaleggiante che vede nella realtà virtuale lo specchio tecnologico di una vita trasognata, il Nirvana cibernetico alla Salvatores23 che confonde sogno e veglia in un labirintico videogame. A ben guardare il problema nasce dal ricorso al taoismo, del tutto inappropriato ad indicare la simulazione quale cifra della realtà. Ed in questo senso è con molta maggior proprietà di linguaggio che vi ricorre Heim: il taoismo non si è mai limitato ad indicare l’illusorietà del mondo, tanto quanto il buddhismo, se è per questo.

Certo, il koan di Zhuang-zi è una bellissima immagine taoista, e la stessa immagine la si ritrova nella tradizione ebraico-cristiana, tanto quanto in quella indiana. Ma i koan, tipici del buddhismo zen, sono formule paradossali che mirano a decostruire la struttura egologica del sapere intellettuale per consentire l’accesso ad una forma di consapevolezza intuitiva. L’aneddoto della farfalla, in verità, più che puntare l’indice sull’illusorietà del mondo, mira a scardinare l’illusione dell’ego cosciente che dal mondo si sente separato. Se c’è un inferno, nella tradizione orientale, questo è l’ego, ed è contro di esso che perennemente i saggi taoisti e zen mettono in guardia.

Il fatto che il sogno di Zhuang-zi venga per lo più interpretato in chiave schopenhaueriana la dice lunga sull’influenza di una tanto consolidata tradizione cartesiana che si fonda interamente sull’unica certezza dell’ego cogito e che è ben disposta a rinunciare a sostanziare ontologicamente tanto la farfalla quanto il sogno: ciò che è letteralmente agli antipodi del modo di sentire tipico della saggezza orientale – almeno fintantoché quella saggezza non ha gettato la spugna di fronte all’incalzante sapere scientifico e tecnologico dell’Occidente. In altre parole, scorgiamo un ego che arranca nei confronti dell’illusione metafisica, laddove non vi è né Zhuang-zi né farfalla, né sogno né veglia, ma solo il fluire incessante dell’Essere, «la metamorfosi di una cosa nell’altra», ed il sorriso sereno di questa saggezza24.

22 Ibid.23 Si fa riferimento qui al noto film prodotto e diretto da G. Salvatores, Nirvana,

Italia, 1997.24 Per un approfondimento di questi aspetti del pensiero orientale, ed in particolare

per una chiarificazione della posizione filosofica di Zhuang-zi rimandiamo all’ottimo lavoro di A. Cheng, Storia del pensiero cinese, I: Dalle origini allo «studio del Mistero», ed. it. a cura di A. Crisma, Einaudi, Torino, 2000 (il capitolo dedicato a Zhuang-zi è alle pp. 99-130). Cfr. in particolare pp. 121 e sg., dove l’autrice affronta direttamente il sogno della farfalla, di cui vale la pena riportare la traduzione: «Un giorno, Zhuangzi sognò di essere una farfalla; era felice di essere una farfalla: quale piacere, quale libertà! Aveva dimenticato di essere Zhou. Improvvisamente, si risvegliò, e si ritrovò con stupore nella pelle di Zhou. Ora non sapeva più se era Zhou ad aver sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla ad aver sognato di essere Zhou. Ma fra Zhou e la farfalla deve ben esserci una differenza: è ciò che si chiama la metamorfosi degli esseri».

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È con questa consapevolezza che Heim indica nel tecno-taoismo una chiave di lettura della sua posizione filosofica: è a questo ambito di riferimento, a questa saggezza, che la parola taoismo dell’espressione heimiana rimanda. In fondo, l’assunto taoista è qualcosa di molto semplice: è un invito a «unificare la mente e il corpo, armonizzando l’interno e l’esterno»25.

Si tratta di mantenere una costante consapevolezza di sé, di essere presenti costantemente a se stessi, vivere in pieno il “qui ed ora” nell’integrale coscienza di sé. L’ego – e l’intelletto che ne è diretta promanazione – è il principale ostacolo a questa coscienza. È l’ego ciò che preclude la partecipazione consapevole alla «metamorfosi di una cosa nell’altra», ponendo una frattura insanabile laddove l’intuizione taoista non coglie che continuità (Zhuang-zi e la farfalla), ed è sempre l’ego a generare la rottura tra res cogitans e res extensa e la conseguente distanza dell’io dal proprio corpo (che è ad un tempo distanza dal proprio sé interiore)26. In altre parole, si potrebbe dire, il taoismo non invita che ad essere «buoni amici delle cose prossime», per dirla alla maniera di Zarathustra.

Non a caso Heim ricorda che:

«Il maggior pericolo dell’interfaccia è costituito dal fatto che possiamo perdere il contatto con i nostri stati interiori. Per stati interiori, non intendo nulla di arcano. I taoisti ci invitano a trovare un contatto con i nostri organi fisici interni, ci invitano, cioè, a “guardare” il nostro fegato, a “respirare” i nostri polmoni e a “toccare” il nostro cuore. Quello che intendono dire con questo è qualcosa di molto semplice. Ciò che intendono è non perdere l’acuta sensibilità del nostro corpo, le più semplici forme di consapevolezza, come il movimento del corpo, la disfunzione di un organo, e le attività autonome come la respirazione, l’equilibrio e il cambiamento di peso. La perdita di questi semplici stati interni può sembrare insignificante. Nell’insieme, tuttavia, questa consapevolezza costituisce il background della vita psichica dell’individuo. “Il corpo è il tempio dello spirito”»27.

In merito a questo racconto, il commento di Cheng è molto chiaro: «Qui il discorso non è “cosa importano le cose, dato che tutto è sogno, e non è realtà”. Il problema, per Zhuangzi, è che non v’è propriamente alcun modo di sapere se colui che parla è in stato di veglia o di sogno, così come non v’è modo di sapere se ciò che si pensa sia conoscenza o ignoranza». Come si vede, piuttosto che la realtà, ciò che viene messo in questione è proprio il principio egologico della conoscenza, l’ego cogito cartesiano, appunto.

25 MVR, p. 81.26 Queste istanze taoiste sono confluite poi nel pensiero occidentale, dapprima

nell’apertura della psicologia umanista (si pensi al celebre volume di E. Fromm, D. Suzuki, R. De Martino, Psicoanalisi e buddhismo zen, tr. it. di P. La Malfa, Astrolabio, Roma, 1968) ed in seguito in diverse scuole che da qui hanno preso l’avvio, in particolare in quella che viene definita psicologia transpersonale, che si propone il compito di accedere a livelli sempre maggiori di integrazione del proprio sé. Un testo particolarmente brillante, che espone in maniera chiara ed esaustiva i principali assunti della psicologia transpersonale è K. Wilber, Oltre i confini. La dimensione transpersonale in psicologia, tr. it. di A. Ferroni, Cittadella, Assisi, 2001: Wilber, praticante il buddhismo zen, offre un’ottima traduzione in termini “occidentali” e psicologici di ciò che viene espresso da secoli nella saggezza orientale del taoismo. La psicologia transpersonale mira così a trascendere i confini della coscienza soggettiva, per recuperare dapprima la consapevolezza del corpo, e per via via aumentare sempre più tale coscienza fino a quello che definisce «lo stato supremo di coscienza», quello cioè dell’unità complessiva del cosmo.

27 MVR, p. 81.

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A tal proposito è pregnante l’aneddoto, raccontato da Heim, del vecchio saggio che si rifiuta di ricorrere ad una carrucola per attingere acqua dal pozzo:

«Se uso un oggetto come questo, la mia mente si crederà furba. Con una mente astuta, non metterò più il cuore in ciò che faccio. Presto solo il mio polso lavorerà, girando la manovella. Se non ci metto il cuore e tutto il mio corpo nel mio lavoro, allora il mio lavoro diventerà noioso. Quando il lavoro sarà noioso, che gusto pensi che abbia l’acqua?»28.

L’osservazione del vecchio saggio esprime molto bene l’irriducibile tecnofobia insita nel taoismo. In questa prospettiva, la tecnologia, qualunque tecnologia, non è, in quanto mezzo – termine medio –, che uno strumento dell’ego, divaricatore della frattura tra la mente e il corpo generata proprio da quell’ego resosi astuto (astuzia ulissiade che è in buona sostanza la tecnica stessa): nella carrucola rifiutata dal vecchio c’è già il virtuale29 e c’è già, pertanto, l’abbandono del corpo, la fuga narcisistica della mente che si stacca dal polso relegato a funzione della carrucola (alienazione intrinseca nel lavoro ridotto all’azione macchinica) e che trova rifugio nell’onanismo della realtà virtuale – ciò che è il definitivo abbandono del mondo delle cose prossime (l’acqua).

La tecnologia ci incanta, suggerisce Heim sulla scorta del saggio taoista. Ci incanta, nel senso che costituisce un’irresistibile fascinazione che nello stesso tempo ci inganna, lasciandoci imbambolati davanti allo schermo del televisore – o al portale di internet. Sotto questo riguardo, una carrucola è già un’interfaccia, tanto quanto la schermata di Google. In entrambi i casi, fissiamo lo sguardo, ci imbamboliamo, perdendoci nei nostri pensieri, e tratteniamo il respiro – segno tangibile «della rottura del dolce fluire dell’energia interna»30.

Per contro, «chi pratica la meditazione o le arti marziali raggiunge la consapevolezza del processo della respirazione, poiché la respirazione lega il sistema nervoso autonomo alla vita cosciente»31. L’ansia e lo stress tipici del mondo occidentale (che sul piano fisico conseguono in larga parte da una cattiva respirazione), sono sintomatici della scelta compiuta dall’uomo occidentale di non fare alcuno sforzo per tirare l’acqua dal pozzo. Sono il prezzo, in qualche modo, dell’acqua corrente.

Ed è proprio questo il nodo problematico, ciò che implicitamente sottende l’espressione heimiana: “tecno-taoismo” è un ossimoro per indicare l’esigenza di mantenere un costante contatto con i nostri stati interiori nel mentre abbracciamo la tecnologia, quella tecnologia che coincide proprio con la storia della frattura tra mente e corpo. È un modo per dire che «vogliamo avere il nostro Zen senza rinunciare alla manutenzione della motocicletta»32 – traduzione tecno-taoista della classica aporia botte piena/moglie ubriaca.

28 Ivi, pp. 74 e sg.29 Vedremo che è proprio questa una delle tesi principali di Lévy, che scorge nel

virtuale niente di meno che la chiave dell’agire tecnico.30 MVR, p. 81.31 Ibid.32 Ivi, p. 75.

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Il taoismo rappresenta allora per Heim l’ancora esistenziale33 per navigare nel mare incerto del cyberspazio tenendoci però ben radicati nel terreno della realtà quotidiana. Un tentativo di sottrarsi al prezzo da pagare per poter far proliferare i nostri mondi virtuali.

Certo appare legittimo dubitare del fatto che questo tentativo possa avere successo: se la tecnologia che inevitabilmente stiamo abbracciando è intrinsecamente ostile alla saggezza orientale, al corpo, al mondo, il ricorso al taoismo proposto da Heim non rischia forse di assumere lo sgradevole odore di una palestra metropolitana dove rinchiudersi un’ora al giorno per praticare esercizio fisico e “tenersi in forma”, solo per poi affrontare con maggior grinta la routine del lavoro al computer? Il tecno-taoismo di Heim non è in fondo il corrispondente filosofico dei tanti corsi di Yoga e Tai Chi praticati in Occidente come forma di terapia per combattere lo stress e l’ansia quotidiana? Una sorta di tapis roulant esistenziale da usare per bilanciare la perdita di benessere psico-fisico causata dal benessere tecnologico di auto e ascensori? In termini meno generici, come possono sposarsi gli antipodi di un taoismo irriducibilmente tecnofobo e di una tecnologia costitutivamente disumanizzante, se non riducendo almeno uno dei due termini – il taoismo – all’altro, in un utilizzo opportunista che ne svuoti completamente il senso originario?

Si vede bene che, in fondo, il senso di questa antinomia riguarda il destino stesso dell’uomo: che ne è dell’essere umano nel momento in cui decide di sposare la tecnologia e di proiettarsi nel regno della realtà virtuale? È proprio questa la domanda che muove Heim ad interrogarsi sulla realtà virtuale:

«La RV controllerà definitivamente le correnti elettromagnetiche del corpo umano e quindi influenzerà le energie naturali e i bioritmi della vita umana. Come insegnante, nonché praticante di vecchia data, dell’arte cinese del Tai Chi Chuan, guardo con una certa apprensione a questo tipo di controllo, poiché so quanto siano delicati i sistemi energetici umani e quanta disciplina interiore ci voglia per integrare e armonizzare il sistema. Quando la tecnologia della RV influenza il nostro sistema energetico interno – anche attraverso un semplice link audiovisivo – quanto a lungo possiamo sperare di mantenere l’armonia interiore e l’unità mente-corpo? »34.

Per questa ragione, l’ingenuità del tecno-taoismo heimiano è in fondo più apparente che reale. Se, in una certa misura, il suo invito ad

33 Cfr. Virtual-Reality Check, in MVR, pp. 129 e sgg. «Ancora esistenziale» (existential anchor) è un’espressione cui Heim ricorre per indicare quelle caratteristiche intrinseche dell’esistenza che possono costituire l’unico appiglio per “verificare” e distinguere la “realtà reale” (il mondo primario, come Heim lo definisce) dalla “realtà virtuale” e che dunque dovrebbero essere anche il limite estremo (ovvero minimo) oltre il quale non si dovrebbe andare quando si progetta un mondo virtuale: sono la fragilità umana (la possibilità di essere feriti realmente), l’irreversibilità del tempo, la morte. Ne consegue che, seguendo il ragionamento di Heim, fintantoché non è dato morire o anche essere effettivamente mutilati in un videogioco (e fintantoché il game over non costituisca un termine irreversibile), sarà sempre possibile distinguere il “sogno” dalla “veglia” (cioè il mondo virtuale dal mondo reale), per quanto alto possa essere il livello di realismo della simulazione.

34 MVR, p. 144.

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orientarsi verso pratiche taoiste per bilanciare lo scotto esistenziale non può che apparire filosoficamente ingenuo, simile in questo al suggerimento che si può trovare su qualunque rivista dedicata al benessere e alla salute, d’altro canto il vero interesse delle analisi di Heim sta nell’interrogazione e, sotto questo riguardo, «tecno-taoismo» è espressione di un problema, non già di una soluzione: è espressione cioè di quell’antinomia che permea contraddittoriamente e drammaticamente l’uomo cibernetizzato.

Nel panorama delle riflessioni sulla RV, la Metaphysics di Heim spicca proprio per la sua neutralità: egli evita di schierarsi tanto in favore di una visione pessimistica circa l’ineluttabilità di un destino disumanizzante in seno alla tecnologia cyber, quanto in favore di un cieco ottimismo di stampo vagamente post-human. Né la sua posizione è riducibile a semplice ignavia. Piuttosto egli scorge nel percorso intrapreso dall’uomo un campo aperto, ancora tutto da esplorare e definire, anche attraverso opzioni volontariamente attivate, non già un sentiero segnato una volta per tutte dove all’uomo non resta che arretrare o accettare in pieno tutto ciò che il viaggio riserva.

A questo punto il tecno-taoismo assume un ulteriore senso: il rifiuto di un anacronistico neoluddismo nei confronti della RV porta Heim a vedere nelle nuove tecnologie un territorio vergine che, in quanto pionieri, siamo tutti chiamati a costruire. Rifiutarsi di entrare in questo territorio vorrebbe dire, in qualche modo, ritirarsi dal mondo, sposare un eremitico taoismo che, in fondo, significherebbe lasciare ad altri libero gioco nella costruzione del nuovo mondo (o meglio, dei nuovi mondi – virtuali, s’intende). Pertanto la sua posizione è quella di chi vuole intervenire il più possibile nelle scelte riguardanti le nuove tecnologie ma con la consapevolezza dei rischi che tali tecnologie comportano. Si tratta insomma di costruire attivamente una realtà virtuale che sia ben ancorata al substrato biologico ed esistenziale senza il quale dell’uomo non rimarrebbe che un fantasma cibernetico, un metafisico guscio svuotato della sua consistenza ontologica.

Successivamente, Heim ha specificato meglio questa posizione, ricorrendo all’espressione «realismo virtuale»35. Con ciò egli intende proprio delineare una posizione intermedia, una “terza via” se si vuole, tra rifiuto ostinato e cieca accettazione:

«Da un lato ci sono gli idealisti della rete, che promuovono le comunità virtuali e un flusso d’informazioni globale. Dall’altro lato ci sono i realisti näive che accusano la cultura elettronica per la violenza criminale e per la disoccupazione. In mezzo corre lo stretto sentiero del realismo virtuale»36.

35 Cfr. M. Heim, Virtual Realism, cit. Conviene precisare, ad ogni modo, che «realismo virtuale» è un’espressione in primo luogo estetica. Proprio nella prefazione al libro, infatti, Heim chiarisce che, laddove Electric Language affrontava la RV da un punto di vista di filosofia del linguaggio, e The Metaphysics of Virtual Reality la affrontava da un punto di vista ontologico, Virtual Realism si propone un’analisi estetica della RV.

36 Ivi, p. 9

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Si tratta, afferma Heim, di individuare forme di convivenza con la tecnologia che consentano di creare una «more balanced life»: la ricerca, dunque, di un equilibrio tra tecnologia e vita. Il tecno-taoismo si evince qui nella doppia guida da seguire in questo percorso, in questo stretto sentiero che è il realismo virtuale – da un lato le nuove forme artistiche e le nuove possibilità indicate dai pionieri del virtuale, dall’altro la filosofia e il taoismo:

«Il mio obiettivo è di mettere in luce il crocevia delle attuali trasformazioni e di trovare qualche guida per imboccare il sentiero che io chiamo realismo virtuale. Come guida, guardo alle recenti opere d’arte, alle tradizioni culturali e alla mia esperienza di lavoro accanto ad inventori di computer, studiosi d’arte di design elettronico e studiosi di filosofia del Tai Chi Chuan»37.

Una volta di più, si tratta di evitare tanto l’estremismo di quanti hanno orecchi solo per ascoltare i professori d’ingegneria che ci invitano a diventare digitali, quanto quello dei «realisti naïve» che vogliono combattere la tecnologia con passione luddista38. Più esplicitamente: «Il realismo virtuale richiede la capacità di ricostituire il reale attraverso i computer, e significa anche conservare l’identità umana nel momento in cui installiamo la tecnologia nelle nostre vite e le nostre vite nella tecnologia»39.

A rigore, dunque, si dovrebbe sostituire il tecno-taoismo con il realismo virtuale, che Heim stesso ha scelto per indicare meglio il percorso che è andato delineando nel corso dei suoi tre libri. Tuttavia mi sembra che la prima espressione, ancorché usata da Heim in maniera alquanto inconsapevole (e forse proprio per questo), sia da difendere, in sede di rielaborazione critica, perché, meglio del realismo virtuale, mostra tutta la tensione antinomica che si scorge nel tentativo teoretico del filosofo americano, nonché la complessa problematicità della realtà che tale tentativo cerca di analizzare – la realtà (virtuale e non) che ci circonda.

In definitiva si può dire che tale tentativo, ed in ciò consiste a mio avviso il principale contributo di Heim, è di mantenere alto il livello di consapevolezza di quanti sono decisi a sposare la tecnologia senza rinunciare alla propria umanità, e per far questo si deve in primo luogo necessariamente guardare alla RV in una prospettiva metafisica, senza la quale verrebbero meno i fondamenti concettuali che soli possono strutturare una tale consapevolezza.

2. La metafisica (light) del cyberspace37 Ibid.38 Ivi, p. 10: «While much of the population still has ears only for professors at

engineering institutions who speak of become digital and rendering cities into bits, a growing number of people are beginning to look at the complex tradeoffs. Some, whom I call naïve realists, are willing to fight technology with a Luddite passion».

39 Ivi, p. 6.

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Come per il taoismo, Heim ricorre alla metafisica in un’accezione molto semplice, nel suo senso più elementare: si tratta dello «studio sui principi primi della realtà»40. Tali principi non sono nulla di particolarmente astruso, bensì sono, per così dire, le particelle elementari dell’esistere umano, gli assunti di base, i punti di riferimento entro cui l’essere umano si muove. Certo, si tratta dello studio dell’Essere, del Bene, del Bello, e di solito questi principi si scrivono con la maiuscola, ad indicarne la priorità concettuale che rivestono, ma anche a sottolinearne, talvolta, la distanza che li separa dalla quotidianità. Non a caso Heim propone una metafisica che possa essere scritta con le minuscole, una metafisica che sappia «far vibrare nel lettore una corda che suoni cristallina e amichevole e che sia accogliente […] che abbia il senso dell’umorismo, una metafisica che sia resa sopportabile dalla leggerezza dell’essere (con la E minuscola)»: una metafisica light, insomma, che «dia nutrimento ma che nello stesso tempo sia facile da digerire»41.

Cionondimeno, la metafisica che si propone Heim, ancorché facilmente digeribile, non ha nulla di superficiale. Metaphysics Lite rappresenta indubbiamente una rottura definitiva con la filosofia di stampo accademico, ma non certo con la filosofia tout court. Heim mira ad alleggerire la forma di comunicazione del pensiero, non già il pensare stesso, laddove ha esigenza di rivolgersi al grande pubblico piuttosto che alla stretta cerchia degli addetti ai lavori: lo scritto accademico è viziato dal fatto che è destinato unicamente ad un ristretto circolo dotato di un proprio gergo, incomprensibile, il più delle volte, non solo per la persona comune, ma già per l’accademico di un altro settore, in una babele di tecnicismi che spesso giunge a creare divisioni interne agli stessi dipartimenti universitari.

La risposta di Heim alla crisi della filosofia consiste dunque in primo luogo nel liberare la teoria dalla «cattiva scrittura», che per troppo tempo l’ha tenuta in ostaggio. La filosofia deve poter parlare anche a persone che non lavorano nell’ambiente universitario, e quest’onere ricade interamente sul filosofo.

Così, se «Socrate bazzicava nella piazza del mercato»42, l’odierno filosofo deve saper scrivere libri che si sappiano imporre sul mercato globale. Si tratta di spogliarsi di ogni tecnicismo, «togliersi di dosso l’aura del dottorato»43, tuffarsi nel mondo generato dal computer, nella cultura che ci circonda, acquisire uno stile naturale, spontaneo, «saper bussare con educazione alla porta del lettore»44, essere uno scrittore, insomma, prima che uno scrittore di filosofia.

In un’intervista rilasciata a G. Lovink, per rispondere della scelta della parola «metafisica» per il titolo del suo libro, Heim afferma:

«Mi domando se dovrei dire il vero motivo. Negli Stati Uniti la parola metafisica non è intesa nel senso tradizionale, com’è in Europa, una disciplina 40 Cfr. MVR, p. 155.41 M. Heim, Metaphysics Lite, cit., pp. 3 e sg.42 Ibid.43 Ibid.44 Ibid.

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oscurata dalla scienza. Ma c’è un altro significato negli USA. C’è tutto un movimento di persone che sta esplorando altre tradizioni, specialmente le religioni asiatiche, che non sono classificate scientificamente. Questo viene spesso chiamato metafisica. Alcune delle nostre celebrità più popolari usano la parola metafisica per descrivere il loro interesse per l’astrologia e la lettura della mano. La gente di Los Angeles penserà che stai parlando di qualche area non scientifica. A me la parola metafisica piace per questo motivo. Voglio dire che io la intendo in senso stretto, tradizionale, europeo. Ma a me piace anche l’idea che non sia poi neanche così seria. Io la chiamo “metafisica light”, non troppo pesante, facile da digerire»45.

Metafisica light, dunque: cosa vuol dire analizzare la realtà virtuale da una simile prospettiva?

Perché sia light, l’analisi di Heim non può certo consistere nello studiare RV e cyberspace per mezzo della storia della metafisica, o delle sue categorie. Certo, tra gli aspetti più interessanti della Metaphysics c’è proprio questa continua rilettura dei capisaldi del pensiero moderno – e non – alla luce delle attuali tecnologie (cosicché Boole, Leibniz, Pietro Ramo, lo stesso Platone, sono letti come precursori più o meno inconsapevoli del cyberspazio, e come creatori di quella filosofia e di quella visione del mondo che sottende alla RV). Anzi, a mio avviso, l’interesse principale che riveste il libro di Heim, da un punto di vista prettamente filosofico, consiste proprio nei numerosi spunti in direzione di una rilettura dell’intera storia della metafisica sub specie virtualitatis. Ma questo, semmai, è un possibile risultato a cui si può pervenire in seguito all’analisi (e lo stesso Heim non sembra guardare in questa direzione nel tirare le somme). L’analisi, di per sé, non si impernia sulla storia della metafisica. L’oggetto d’indagine rimane la realtà virtuale. In chiave metafisica.

Molto semplicemente, si tratta per Heim di individuare quali sono i principi primi della RV e, soprattutto, in che misura tali principi incidono, collidono o altrimenti agiscono sulla realtà. Per questo, si deve innanzitutto stornare l’idea comune della RV da una serie di incomprensioni e di facili luoghi comuni. Platonicamente, si deve liberare il campo dall’opinione e pervenire ad una conoscenza vera della cosa, cioè a dire alla sua essenza. Ciò che da sempre è l’operazione principale della metafisica, appunto: la domanda circa il ti estì – quel «che cosa» che solo rende la cosa ciò che essa è.

In The Essence of VR46 si può vedere bene il procedere di una metafisica che vuol essere light. Heim immagina un ragazzino curioso di sapere cosa sia la realtà virtuale, ma che non si accontenta di risposte generiche e facili: si potrebbe rispondere che la realtà virtuale è quell’esperienza che si fa indossando casco e guanti e provando uno dei giochi di Jonathan Waldern. Ma Heim suppone che il ragazzino non sia soddisfatto di questa risposta: ci ha già giocato, in realtà, e vuole saperne di più – vuole sapere qualcosa della RV in generale. Inconsapevolmente, il ragazzino domanda dell’essenza della RV. La definizione che se ne può ricavare da un dizionario risulta altrettanto insoddisfacente: qualcosa che

45 G. Lovink, Heidegger On-Line. An interview with Michael Heim, in Id., Uncanny Networks: Dialogues with the Virtual Intelligentsia, MIT Press, Cambridge/Mass., 2004, pp. 28-35.

46 MVR, pp. 109-128.

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ha a che fare con la simulazione, qualcosa che è reale solo negli effetti che produce sulla persona e non nei fatti; ma non dice nulla che serva a distinguere la realtà virtuale nel suo esser tale. Né può soddisfare una semplice distinzione rispetto ad altre esperienze di simulazione, come la televisione, un modo di procedere che può dirci solo quel che la realtà virtuale non è, senza aggiungere nulla alla nostra conoscenza circa il che cosa essa è.

Heim ricorre allora alle diverse linee guida che hanno ispirato le ricerche dei pionieri, e che puntano il dito ora su un aspetto ora su un altro. Ne individua sette: simulazione, interazione, artificialità, immersione, telepresenza, full-body immersion, network. In qualche modo, sembra che ci stiamo avvicinando un tantino in più a quei principi primi della realtà virtuale che dovrebbero essere il campo d’analisi della metafisica. Ma da qui a trascrivere queste parole con la maiuscola il passo è breve. E si ricade nell’erudizione fine a se stessa. Qualcosa che risulta abbastanza indigesto per il ragazzino curioso che pure sembrava animato da un’indubbia spinta metafisica. «È troppo» per il ragazzino, che a questo punto ha solo una gran confusione di idee, di concetti apparentemente simili, cavilli tecnici e filosofici che, in buona sostanza, non riescono a comunicargli nulla: in fondo, aveva chiesto di sapere cos’è la realtà virtuale, non di ripercorrere questo dedalo di opinioni, idee e tecnicismi, che alla fine lo gettano solo nello sconforto («Devo allora tornare a casa con la sensazione che non esiste nessuna reale realtà virtuale?»47).

Se tutto questo sapere non riesce ad illuminare un ragazzo, ed anzi risulta completamente astruso, lontano dalla quotidianità nella quale, in fin dei conti, ci troviamo ad interagire con computer, televisione, media e quant’altro, c’è almeno un buon motivo per tentare una scrematura della metafisica, alleggerendola del peso di una conoscenza erudita indigeribile. Una conoscenza che pure è l’unica a poter veicolare una comprensione del fenomeno, ma che non deve impantanarsi poi nella viscosità della propria settorializzazione, nell’ipertrofia di un’erudizione annichilente.

La speculazione metafisica ha senso, piuttosto, quando «riguarda il terreno sul quale poggiamo i piedi, chi siamo e cosa scegliamo di essere»48. Comprendere l’essenza di una tecnologia come la RV vuol dire, per Heim, comprendere qual è la visione che ne muove la ricerca, la visione del mondo e dell’uomo che sottende a questa tecnologia. Insomma, con la metafisica «ci troviamo ad affrontare una speculazione, ma non una speculazione vuota»49.

Si comprende meglio allora qual è il senso principale della riflessione metafisica sulla RV. Si tratta di cogliere, da un lato, la struttura metafisica che la sottende, dall’altro il modo in cui essa, nel suo svilupparsi, modifica il reale nel quale gli esseri umani sono immersi, la struttura ontologica ed esistenziale del mondo, ovverosia, per dirla in termini heideggeriani, il «ci» entro il quale l’Esser-ci si dà.

47 Ivi, p. 117.48 Ivi, p. 118.49 Ibid.

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Nell’analisi di Heim avremo allora da un lato l’indicazione dell’«ontologia erotica del cyberspace», dall’altro lo «slittamento ontologico» che egli individua nella tettonica della storia, e che costituisce forse il più grosso stravolgimento nel corso di quella Geschichte che è a un tempo Geschick al quale l’uomo si destina.

Slittamento ontologico che è uno stravolgimento solo perché inaspettatamente sembra rivoltare l’asse ontologico sul quale l’uomo soleva orientarsi, ma che non è altro che il manifestarsi di ciò che si era andato preparando, sotterraneamente, per secoli, nel corso della storia della metafisica, nell’intimo movimento dell’ontologia erotica del cyberspace, poiché quest’ultimo, a guardarlo in questa luce, non è pura e semplice invenzione tecnologica, bensì costituisce piuttosto la realizzazione di un lungo processo: come il terremoto non è che il manifestarsi, ancorché violento e inaspettato, dei movimenti che per secoli si sono succeduti nelle placche terrestri, così il cyberspace non è che il manifestarsi di una lunga spinta metafisica, il fiore della tecnologia, la quale coincide in ultima istanza, almeno nella prospettiva heideggeriana che implicitamente Heim assume, con la quintessenza stessa della metafisica, ovverosia ancora con il nucleo destinale insito nella tecnica. Ciò che Heim riassume nel motto: «il cyberspazio è il platonismo realizzato»50.

È questo, sostanzialmente, il terreno metafisico sul quale Heim conduce la sua analisi della realtà virtuale, i punti di riferimento a partire dai quali orientarsi nel cammino intrapreso dall’uomo alle soglie dell’era virtuale. Ed è su questo fondo che vanno gettate le ancore esistenziali che Heim individua nel tentativo di garantire una navigazione sicura in quell’elemento instabile che è il cyberspazio.

3. La peculiarità della prospettiva heimiana

A tutt’oggi, The Metaphysics of Virtual Reality costituisce un’opera per molti versi unica nel suo genere. Il dibattito su RV e cyberspazio è decisamente aumentato – di volume e intensità – rispetto agli anni in cui quest’opera è stata pubblicata; molti sono i testi apparsi nel frattempo in tutto il mondo; la rete abbonda di siti, discussioni e articoli sull’argomento. Tuttavia la Metaphysics di Heim mantiene un carattere peculiare che la fa spiccare su questo panorama, se non altro per l’originalità dell’analisi svolta e per la profondità che lo sguardo filosofico le conferisce, nonostante gli anni trascorsi farebbero presupporre la necessità di un aggiornamento. In verità, se si eccettuano certe cifre e alcuni termini, l’intera riflessione heimiana rimane perfettamente in piedi: si sostituiscano ai bit e ai Kbyte i Gigabyte, ai word processor i laptop, ai bulletin board i blog e i forum, e si otterrà un testo in grado di descrivere perfettamente l’attuale.

Questo colpisce particolarmente nel leggere oggi il libro di Heim: manca completamente quella patina vintage che ricopre invece testi anche più recenti che si occupano di tecnologia, ed in particolare di computer. A ben guardare, questa caratteristica di The Metaphysics è

50 Ivi, p. 89: «Cyberspace is Platonism as a working product».

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data proprio dall’analisi filosofica che, per sua stessa natura, indaga l’essenza, cioè qualcosa che non muta col mutare delle forme, ovvero col mutare delle mode e con il potenziamento delle tecnologie. The Metaphysics of Virtual Reality analizza l’essenza di una tecnologia, quella della RV e più in generale dei computer, a prescindere dal suo manifestarsi. Sotto questo riguardo, il potenziamento della grafica, ad esempio, non può inficiare l’analisi che Heim fa dell’essenza della RV; né l’avvento di Windows può mettere in questione la logica sottostante alla videoscrittura che egli pone in rilievo.

Scarseggiano nella letteratura sull’argomento i testi che possono dar prova di una simile capacità di rimanere attuali. Sotto questo aspetto, The Metaphysics è a tutti gli effetti un classico, posto che un classico sia un libro in grado di stimolare il lettore al di là del tempo e della cultura d’appartenenza: in grado insomma di rimanere sempre attuale.

A questo punto può essere utile un confronto tra The Metaphysics ed altri due “classici” del settore, apparsi per altro nello stesso giro di anni: La vita sullo schermo di Sherry Turkle51, del 1996, e Il virtuale di Pierre Lévy52, del 1995. Da questo confronto si potrà allora dedurre tutta la peculiarità del testo heimiano, ciò per cui vale la pena rileggere oggi un lavoro che data ormai quasi una ventina d’anni (The Metaphyiscs è del ’93).

L’ottimo lavoro della Turkle (non a caso riproposto in Italia nel 2005, a quasi dieci anni dalla sua prima traduzione) si impone per la sua capacità di analizzare l’impatto che i computer e ancor più internet hanno avuto sulla società, su tutti i livelli, ed in particolare sulla costruzione del sé53. Come scrive Ricciardi, «Life on the screen […] ha uno spessore e una forza culturale che va oltre l’impeto di novità che lo ha caratterizzato e può staccarsi dalle radici del tempo storico del vissuto dei suoi lettori, ma anche dai vincoli con le tecnologie da cui profondamente dipende»54. Ciò che lo rende un classico, per l’appunto.

All’epoca in cui la Turkle scriveva il libro, lo scenario della rete era dominato dai MUD (multi-user dungeons), la versione on-line dei giochi di ruolo “da tavolo”, sorti negli anni Settanta e diffusisi a livello globale tra gli anni Ottanta e Novanta, forse proprio grazie alla spinta della rete che, come ha sottolineato l’autrice di Life on the screen, favorisce la proliferazione delle personalità e il gioco di maschere tipico del roleplaying. Oggi lo scenario si è modificato solo apparentemente, ovvero solo nella grafica, nel senso che il MUD si è trasformato nell’MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game), dove il gioco di ruolo diventa di massa e dove la grafica consente di calarsi nei panni di eroi ed

51 S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, tr. it. di B. Parrella, Apogeo, Milano, 2005 (Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster, New York, 1995).

52 P. Lévy, op. cit.53 Cfr., a questo proposito, anche S. Turkle, The Second Self. Computers and the

Human Spirit, MIT Press, Cambridge/Mass.-London, 2005 (Twentieth anniversary edition. Prima edizione: Simon & Schuster, New York, 1984). Tr. it. di G. Proni, Il secondo io, Frassinelli, Milano, 1985.

54 M. Riccardi, Lo schermo e lo specchio, introduzione a S. Turkle, La vita sullo schermo, cit., p. VII.

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eroine 3D rivestiti di texture fotorealistiche. Ma anche in questo caso, l’“update” di Life on the screen richiede ben poco tempo: non muta, nella sostanza, l’analisi della cultura emergente sugli schermi del computer.

Semmai, i recenti sviluppi tecnologici e commerciali del PC non fanno che portare in luce alcuni aspetti di quell’analisi che negli anni Novanta potevano apparire solo poco più che fantascientifici, o d’avanguardia (è il caso della robotica e dell’intelligenza artificiale, ad esempio). Il grande merito della Turkle, al di là degli elementi descrittivi, è di fatto la capacità di cogliere il cambiamento in atto (allora come oggi, ché tale cambiamento non si è ancora concluso) nella mentalità e nella cultura: a rischio di semplificare troppo, si può dire che nella sociologia ermeneutica del computer Sherry Turkle individua il principale terreno di ricaduta della filosofia post-moderna, e ad un tempo il banco di prova che ne rafforza le tesi. La cultura del bricolage levistraussiano trova allora conforto nell’estetica della Apple, mentre la psicoanalisi post-strutturalista alla Lacan o alla Deleuze funge da modello per comprendere la deflagrazione della coscienza online e la proliferazione rizomatica di tanti plurimi io quanti sono gli aspetti del sé che attraverso la rete si vuole far emergere, per gioco, magari, o per schizoanalisi.

In parte, il discorso sviluppato da Sherry Turkle si sovrappone a quello di Michael Heim, in particolare per ciò che riguarda l’ontological shift, causato, nell’analisi di Heim, dall’imporsi nella cultura del word processing: la videoscrittura manda in frantumi l’antico stile razionale e consequenziale del trattato (o del romanzo tipico del Settecento: il Bildungsroman alla Goethe, dove l’intera storia appare unitaria e teleologica), in favore di uno stile che è cifra di una cultura anti-positivistica, irrazionalistica, schizoide, multimediale, connettiva. (Ma anche qui, come nel caso dell’analisi della Turkle, rimane un certo grado di ambiguità sui nessi causali, il che è probabilmente da imputarsi più alla viscosità dell’argomento che non ad eventuali mancanze teoriche: rimane sostanzialmente indecidibile se non sia piuttosto la deflagrazione culturale di fine Ottocento, di cui lo stile frammentistico nietzscheano è tipico emblema, da cui deriva larga parte della letteratura novecentesca – Joyce in primis – ad aver impresso un certo corso allo sviluppo tecnologico e quindi ad aver contribuito alla nascita di una videoscrittura come la conosciamo oggi; ovvero se non sia quest’ultima ad aver diffuso ed imposto un certo tipo di cultura, modificando “geneticamente” l’interfaccia tra la literacy e l’utente – scrittore o lettore che sia).

Ma la sovrapposizione è solo parziale, poiché l’interesse della Turkle, che rimane sociologico, si ferma a questo mutamento, o meglio mutazione (ché «di mutazione, si tratta, e non di mutamento, in quanto muta l’organismo cosciente medesimo, ed il rapporto tra mente umana ed ecosistema», come sostiene F. Berardi55), laddove Heim, indossati casco e guanti, si rende conto che tutte le preoccupazioni riguardanti

55 F. Berardi (Bifo), Introduzione, in AA. VV., Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia, cit., p. 6, che continua: «[…] nella intersezione tra umano e tecnologico emergono le linee di una civiltà di tipo tecno-biologico, e si intravede la formazione di una mente globale il cui funzionamento è ingovernabile da parte delle menti individuali, ma anche dall’associazione (politica) di menti collettive».

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l’ontological shift causato dalla videoscrittura sono nulla in confronto al terremoto costituito dalla realtà virtuale:

«Il mio sismografo filosofico impazzì. La realtà virtuale che avevo provato in quell’occasione era ancora un prototipo primitivo, come i videogiochi arcade e i simulatori di volo amatoriali. Ma le sue implicazioni sembravano enormi. Quegli slittamenti nella realtà che avevo individuato nel primo uso del computer erano impercettibili al confronto. Lo slittamento ontologico attraverso simboli digitali era diventato nella RV un surrogato pienamente sviluppato, aggressivo, della realtà»56.

L’incontro con la realtà virtuale non solo allarga il campo d’analisi di Heim, ma lo sposta significativamente sotto un profilo qualitativo: dalla sociologia della tecnologia, ovvero, nella prospettiva heimiana, da una lettura del cambiamento culturale di stampo ongiano, nel quale si inserisce la sua prima fatica, Electric Language, Heim accede alla dimensione della metafisica, dove incontra le riflessioni heideggeriane sulla cibernetica. Su questo terreno, il suo principale merito sta forse nel fatto di aver mostrato chiaramente i punti sui quali il discorso di Heidegger si connette al tessuto della tecnologia attuale (laddove Heidegger non poteva che avere una ancor vaga percezione di ciò che è un computer).

Il cyberspace, allora, diventa l’espressione visibile di ciò che Heidegger tentava di nominare nel ricorso alla cibernetica e alla cibernetizzazione dell’umano. La realtà virtuale diventa espressione estrema della tecnica, e pertanto della metafisica (estrema perché massima, ma anche perché collocata ai due estremi della metafisica: all’estremo temporale della sua conclusione, e a un tempo all’estremo fondo della sua intimità). Ciò che, peraltro, continua ancora in larga misura a sfuggire in ambito filosofico, dal momento che continuano significativamente a scarseggiare analisi in questa direzione57.

56 MVR, p. XIII.57 I testi di Heidegger ai quali Heim fa esplicito riferimento sono: Hebel – Der

Hausfreund, Neske, Pfullingen, 1957; Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a./M., 1967 (ed. it. a cura di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987); Parmenides, in M. Heidegger, Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a./M., 1982, vol. 54 (tr. it. a cura di F. Volpi, Parmenide, Adelphi, Milano, 1999); Metaphysische Anfangsgründe der Logik, in Id., Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a./M., 1978, vol. 26 (tr. it. di G. Moretto, Principi metafisici della logica, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1998); Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen, 1957 (tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976). A questi andrebbero aggiunti altri testi, anche più direttamente connessi con la riflessione sulla cibernetica (e, quindi, conseguentemente sul cyberspace): in primis il testo dei Zollikoner Seminare, a cura di M. Boss, Klostermann, Frankfurt a./M., 1987 (tr. it. di A. Giugliano, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli, 1991); e poi ancora Holzwege, Klostermann, Frankfurt a./M., 1950 (tr. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1997). Ovviamente, oltre a questi, fondamentale risulta Das Ende des Denkens in der Gestalt der Philosophie, pubblicato da Hermann Heidegger col titolo Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, Erker, St. Gallen, 1984 (tr. it. a cura di A. Fabris, Filosofia e cibernetica, ETS, Pisa, 1988, nuova edizione riveduta e ampliata, 1997). Oltre ad Heim, un altro autore che connette direttamente lo studio di Heidegger al cyberspace è R. Coyne, Cyberspace and Heidegger’s pragmatics, in «Information Technology & People», 11/4 (1998), pp. 338-350. Cfr. anche Id., Designing Information Technology in the Postmodern Age. From Method to Metaphor, MIT Press, Cambridge/Mass., 1995.

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È in particolare nel saggio su Heidegger e McLuhan58 che Heim affronta direttamente la relazione tra la riflessione di Heidegger sulla cibernetica e la filosofia del cyberspazio. O meglio, Heim legge ciò che Heidegger scrive sulla Sprachmaschine come una riflessione ante litteram sui computer:

«La “macchina linguistica” era un termine che Heidegger aveva utilizzato nel tentativo di dare un nome all’incipiente fenomeno dell’elaborazione elettronica dei testi. Certo, l’elaborazione elettronica dei testi non esisteva al tempo di Heidegger, almeno non come fenomeno culturale. Essa esisteva solo nei sogni di inventori come Doug Engelbart e Ted Nelson. Ma anche se non vide mai un elaboratore testi, Heidegger aveva un occhio acuto per le implicazioni filosofiche del cambiamento in atto nelle tecnologie della scrittura»59.

Le preoccupazioni maggiori di Heidegger nei confronti di questa Sprachmaschine gli derivavano fondamentalmente dalla sua meditazione sul linguaggio, il quale non può essere considerato come mero strumento di comunicazione, bensì costituisce esso stesso l’elemento entro cui si forgia la cultura.

Piuttosto, il fatto stesso che ci sia una generale tendenza a considerare il linguaggio sempre più come mezzo di comunicazione e la sua conseguente informatizzazione, sono sintomi di un cambiamento più radicale, un cambiamento che Heidegger riferisce all’Essere e al modo in cui l’uomo corrisponde alla «chiamata dell’Essere», un cambiamento nel «destino» dell’uomo, un cambiamento più decisamente ontologico che non soltanto epistemico – insomma, uno «slittamento ontologico», per l’appunto. Per questa via, dunque, Heim può riferire il pensiero dell’ultimo Heidegger direttamente al computer, e dunque al cyberspace. Una prospettiva che egli può guadagnare solo a partire dalla posizione metafisica del problema.

Queste peculiarità emergono con forza ancora maggiore laddove si tenti un confronto con l’altro classico citato: Il virtuale di Pierre Lévy, un testo decisamente più filosofico rispetto a Life on the screen, e tuttavia assolutamente diverso da The Metaphysics of Virtual Reality.

Per molti versi, si tratta di un libro di filosofia “tradizionale”, quasi scolastico: Lévy iscrive infatti la trattazione del virtuale all’interno di una categorizzazione, tratta peraltro da Guattari60, che contempla una dialettica tra quattro «funtori ontologici»: attuale-virtuale e possibile-reale. Sicché il virtuale, come nota giustamente l’autore, lungi dal costituire un ossimoro nell’espressione della realtà virtuale, non è che una possibile declinazione del reale. L’opposizione è piuttosto nella coppia attuale/virtuale e risale alla ben nota dialettica aristotelica tra potenza ed atto. L’intersezione tra reale e virtuale configura piuttosto, in accordo con Guattari, un insieme di «territori esistenziali, o incarnazioni caosmiche»61.

58 M. Heim, Heidegger and McLuhan: The Computer as Component, in MVR, pp. 55-72.

59 Ivi, pp. 62 sg.60 F. Guattari, Chaosmose, Galilée, Paris, 1992.61 Cfr. P. Lévy, op. cit., p. 145, dove l’autore riassume brevemente il sistema

proposto da Guattari.

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Il virtuale, insomma, «non è affatto il contrario del reale, ma un modo anzi di essere fecondo e possente, che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata»62. Il virtuale è «il complesso problematico, il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un evento, un oggetto o un’entità qualsiasi, e che richiede un processo di trasformazione: l’attualizzazione»63. È la potenza, aristotelicamente parlando, o meglio il potenziale che potrà, virtualmente, esprimersi in un processo di attualizzazione, peraltro mai univocamente definito, poiché il seme non è già l’albero, né in esso vi è inscritto l’albero che sarà, bensì «a partire dai vincoli che gli sono propri, dovrà inventarlo, coprodurlo insieme alle circostanze in cui si imbatterà»64.

Sulla scorta di questa impostazione, Lévy prende nettamente le distanze dalle posizioni heideggeriane, interpretandole peraltro come decisamente conservatrici. In accordo con Michel Serres, Lévy declina il tema del virtuale come «fuga dal ci» e questa fuga avviene molto prima che la tecnologia abbia inventato qualcosa come la «realtà virtuale»: questa fuga è inscritta già nell’immaginazione, come nella memoria, nella conoscenza, nella religione. E tutto questo è già virtuale (Lévy parla di «vettori di virtualizzazione»). Sicché l’heideggeriano Esser-ci non sarebbe in grado di cogliere il più peculiare aspetto dell’essere umano: il Dasein («che significa notoriamente esistenza nel tedesco filosofico classico ed esistenza propriamente umana – essere un essere umano – in Heidegger»65), inscrivendo l’Essere – ed in particolare l’essere umano – in un ci, è come se lo si comprimesse nell’attuale, negando la possibilità che l’uomo possa anche solo immaginare. Scrive Lévy: «essere svincolati da qualsiasi ci, occupare uno spazio inafferrabile (dove ha luogo la conversazione telefonica?), prodursi solo tra le cose situate chiaramente ossia non essere soltanto “nel ci” (come ogni essere pensante), tutto questo non impedisce di esistere»66.

Sembra quasi che, a voler seguire Heidegger, si finirebbe col negare la possibilità che si dia, non solo il telefono, ma qualunque forma di espressione culturale, e finanche la stessa immaginazione. Tant’è che al Da-sein tedesco Lévy oppone l’ex-sistere latino, laddove «è come se il tedesco sottolineasse l’attualizzazione e il latino la virtualizzazione»67.

Sembrano le stesse accuse che venivano mosse al freddo e immobile Essere parmenideo: come se Heidegger non desse spazio alcuno, con l’Esser-ci, all’ec-stasi propria dell’Existenz. Come se l’Esser-ci heideggeriano, che Lévy legge immediatamente come essere umano, fosse poi a sua volta appeso al «piolo dell’istante» dell’animale

62 Ivi, p. 2.63 Ivi, p. 6.64 Ibid.65 Ivi, p. 10.66 Ibid.67 Ibid.

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nietzscheano a cui l’uomo aveva domandato una volta: «Perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi?»68.

Questa grossolana incomprensione della filosofia heideggeriana, su cui non è il caso di dilungarsi69, preclude a Lévy la possibilità di cogliere tutta la portata della sua stessa riflessione. Ed è un peccato, perché peraltro proprio attraverso la sua analisi del virtuale sarebbe possibile sostanziare e chiarire la lettura heideggeriana della tecnica insieme a quella curva che la volontà di potenza compie tornando su di sé, che Heidegger indica con la formula «volontà di volontà».

Infatti è proprio nel testo di Lévy che si può cogliere con estrema lucidità nel virtuale il senso più intimo della tecnica, e si può leggere nel processo di virtualizzazione l’intera parabola della tecnologia, intesa

68 Il riferimento è, ovviamente, al celebre incipit della Seconda Inattuale di F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano, 2001, p. 6: «Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, attaccato al piuolo dell’istante e perciò né triste né tediato. Il vedere ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello […]. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L'animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quello che volevo dire - ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l'uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. Allora l'uomo dice "Mi ricordo"».

69 Basterebbe una sia pur superficiale lettura di Essere e tempo per rendersi conto dell’incomprensione di fondo che vizia la lettura che Lévy, e prima ancora Serres, fanno dell’analitica esistenziale heideggeriana. Bastino qui le parole di Pietro Chiodi nella sua introduzione al testo di Heidegger: «nell’uomo il rapporto fra ente ed essere (l’esistenza) è assolutamente singolare, perché in tutti gli altri enti l’essere proprio di ciascheduno esprime l’impossibilità da parte di questi enti di essere diversi da ciò che sono […] mentre nell’uomo l’essere, il sein del Da-sein, l’essere dell’Esser-ci esprime la possibilità da parte di questo ente di essere tale quale esso progetta di essere; l’Esserci è tale che, nel suo essere, questo essere stesso è in gioco. Quindi solo dell’uomo si può dire che ha l’“esistenza”, che ex-siste, che, autoprogettandosi, è esposto alla possibilità di realizzarsi (nell’autenticità) o di perdersi (nell’inautenticità). […] Il carattere universale dell’Esserci umano è l’essere-nel-mondo, non dunque il suo esser “soggetto” o anima o pensiero. […] In-essere (nel mondo) per l’uomo non significa esser-dentro-in, ma ex-sistere, trascendere autoprogettandosi come “in”. Le cose sono “dentro” il mondo, vi insistono, l’uomo vi ex-siste» (in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. IX). Si dovrebbe dunque dire che, lungi dall’essere un’opzione anti-heideggeriana, la «fuga dal “ci”» di cui parla Serres non solo è in accordo ma anzi è pensabile solo se inquadrata nel contesto dell’esistenzialismo heideggeriano (di matrice, peraltro, kierkegaardiana, per cui Chiodi parla di Essere e tempo, in ibid., come di «uno dei maggiori documenti della “Kierkegaard-Renaissance” tra le due guerre»). Né questa tematica esistenzialista emerge solo in Essere e tempo, bensì ritorna in tutta l’opera di Heidegger ed è a fondamento dell’analitica esistenziale quanto della stessa interpretazione che Heidegger dà della tecnica, iscritta nell’esistenza stessa dell’uomo come progettualità. Fondamentale, in questo contesto, appare il corso tenuto da Heidegger a Friburgo nel semestre invernale 1929-30: M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Klostermann, Frankfurt/a.M., 1983, tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – Finitezza – Solitudine, il Melangolo, Genova, 1999. Cfr. anche Id., Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), a cura di K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt/a.M., 1988, ed. it. a cura di E. Mazzarella, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, Guida, Napoli, 1992 e Id., Seminari di Zollikon, cit.

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come a un tempo logos della tecnica e logos tecnico. E precludendosi questa possibilità, Lévy rimane – del resto volontariamente70 – su un piano di mera antropologia filosofica (ed unicamente a questo piano riducendo, tra l’altro, l’interpretazione che dà di Heidegger).

Ciò da cui Heim è svincolato, essendo svincolato dall’ipoteca di questo fraintendimento dell’analitica esistenziale heideggeriana – per non dire del pensiero heideggeriano in generale. Per mezzo della metafisica (e si è visto in che accezione intendere il ricorso heimiano a questo termine), egli guadagna, da un lato, l’accesso al piano dell’ontologia, e dall’altro può estendere, oltre lo stesso Heidegger, la riflessione sulla metafisica occidentale e su una tecnologia che ne esprime il pieno dispiegamento – il «Graal» della perenne ricerca occidentale dell’interfaccia totale. Laddove l’analisi di Lévy non può che attestarsi sulla dichiarazione – tutto sommato scontata – che «la virtualità non ha assolutamente niente a che fare con quel che se ne sente dire alla televisione»71 (nonostante l’apprezzabile qualità dell’analisi svolta), la Metafisica della realtà virtuale costituisce piuttosto un battistrada indispensabile per qualunque riflessione che voglia indagare alla radice quel complesso fenomeno che è la realtà virtuale – alla radice, ovvero a quel fondo inesplorato entro cui il seme (tecnico) del virtuale è potuto germogliare nella proliferazione rizomatica del cyberspace.

4. Cyberspace e cibernetica in Heidegger

A questo punto sarà opportuno dare alcune indicazioni, per quanto solo in misura accennativa, a ciò che, sulla scorta delle riflessioni heimiane, è possibile ricavare dal confronto tra filosofia e cibernetica che Heidegger è andato sviluppando negli ultimi anni, in direzione di una maggiore comprensione del fenomeno della realtà virtuale.

A ben guardare, ciò che in primo luogo Lévy si preclude nel suo misconoscimento dell’analitica esistenziale di Essere e tempo è proprio la possibilità di seguire il percorso che in quella sede Heidegger mirava a preparare e che avrebbe dovuto costituire l’aspetto fondamentale del suo esistenzialismo, il vero intento di Essere e tempo, oltreché l’unica via per superare l’ambito della mera antropologia filosofica (soprattutto per ciò che concerne la filosofia della tecnica) in direzione dell’ontologia.

È evidente che si tratta, a questo punto, della ben nota questione della Kehre, la annunciata – e, di fatto, sempre rinviata – «svolta» che avrebbe dovuto costituire la seconda parte di Essere e tempo e, a voler precisare ciò che si diceva a proposito dell’esistenzialismo heideggeriano, avrebbe dovuto trattare di quell’ontologia fondamentale entro cui doveva confluire la semplice “ontologia” – in qualche modo regionale – dell’uomo, con la quale l’analitica esistenziale svolta nella prima parte di Essere e tempo è stata per lo più – e a torto – identificata:

70 P. Lévy, op. cit., p. 2: «La posta che questo libro mette in gioco è […] triplice: filosofica (concetto di virtualizzazione), antropologica (rapporto tra il processo di ominazione e la virtualizzazione) e sociopolitica (capire la mutazione contemporanea per poterne divenire attori)».

71 P. Lévy, op. cit., p. 140.

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«In fin dei conti – considerata dall’attuale sguardo retrospettivo – la comunicazione della parte, completamente insoddisfacente, su tempo e essere sarebbe stata abbastanza importante. Essa non avrebbe lasciato che il fraintendimento di Essere e tempo come una semplice “ontologia” dell’uomo e il disconoscimento della “ontologia fondamentale” andassero così avanti come è accaduto e come ancora accade. […] L’aspetto insoddisfacente della parte tenuta riservata non era un’insicurezza riguardo alla direzione del domandare e del suo ambito, ma soltanto quella riguardo alla corretta elaborazione»72.

Questa direzione e quest’ambito del domandare costituiscono in effetti il quid di Essere e tempo, la cifra, se si vuole, anche dell’intero pensiero heideggeriano così come si è andato sviluppando dopo il 1927, ovverosia a partire dal 1941, data del definitivo abbandono del progetto originario di Essere e tempo73.

Ed è ad un tale ambito che bisogna guardare se si vuol intraprendere un cammino in direzione di una comprensione fondamentale del cyberspace, cioè a dire di una comprensione filosofica che non si assesti su un mero soppesare i “rischi” dell’era digitale ovvero piuttosto su un annunciarne il trionfo. Ed è invero questa la stessa direzione indicata, sia pure solo di lontano – di lontano, s’intende, per ragioni meramente cronologiche – dal pensiero dell’ultimo Heidegger, il quale appunto, nel nominare la cibernetica, intuiva il compimento e la fine della filosofia come metafisica.

Ma, per procedere con ordine, si dovrà in primo luogo intendere cosa sia in gioco nella Kehre heideggeriana: non già un’inversione, ovvero un cambiamento, in seno al pensiero dell’ultimo Heidegger. Piuttosto la Kehre nomina uno stato di cose, «la cosa stessa» dell’esser-gettati dell’uomo, e dunque non è un accadimento che sopraggiungerebbe tardi nella riflessione heideggeriana, bensì, sia pure in maniera non ancora pienamente distesa, presente sin da subito nello Heidegger di Essere e tempo74.

In questa Kehre, dunque, ne va, come è noto, della cosa stessa del pensiero, la domanda fondamentale – mai tematizzata – della filosofia, ovvero la domanda circa l’essere: la Seinsfrage. «Il compito del pensiero

72 M. Heidegger, Uno sguardo all’indietro sul mio pensiero, in M. Heidegger, E. Husserl, Fenomenologia, tr. it. di R. Cristin Unicopli, Milano, 1999, p. 228.

73 Su queste vicende, ed in generale per una ricostruzione storica e bibliografica del percorso compiuto da Heidegger nella “svolta” del suo pensiero, si veda quanto scrive C. Badocco nella sua avvertenza all’edizione italiana in M. Heidegger, Tempo e essere, nuova ed. it. a cura di C. Badocco, Longanesi, Milano, 2007 (M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen, 1969). Cfr. inoltre T. Sheehan, La Kehre a Marburgo, tr. it. di S. Venezia in AA.VV., Heidegger a Marburgo (1923-1928), a cura di E. Mazzarella, il Melangolo, Genova, 2006, pp. 155-187; E. Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli, 1981, pp. 15-131.

74 Cfr. T. Sheehan, op. cit., pp. 155 e sg.: «La svolta non nomina un “evento”, ma uno stato di cose [un Sachverhalt], lo stato delle cose proprio nel momento in cui le cose riguardano l’esser-ci e l’essere. Come tale la svolta non ha mai avuto luogo, perché essa è già da sempre il caso in questione. La svolta nomina uno stato di cose particolare che riguarda il mondo (= l’essere) e l’esser-ci. Questo stato proprio di cose è l’ultimatività della gettatezza (il fatto “di esser-gettati nell’aperto”) nell’esserci, nel momento in cui il mondo accade attorno a noi. Chiamiamo questo stato di cose “il fatto”, ovvero la cosa stessa [die Sache selbst]».

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sarebbe allora l’abbandono del pensiero che si è avuto finora per dedicarsi alla determinazione della cosa del pensiero»75.

A ben guardare, ciò di cui si domanda in questa Seinsfrage, e dunque ciò che costituisce propriamente la cosa del pensiero – e nondimeno ciò che rimane sempre fondamentalmente, e forse necessariamente, eluso in tutto l’arco del pensiero heideggeriano – è nient’altro che la Temporalità, la Temporalität. Vale a dire, con le parole dello stesso Heidegger, che si tratta di «trovare attraverso l’interpretazione dell’essere come temporalità [Temporalität] – interpretazione a cui si perviene passando per la temporalità [Zeitlichkeit] dell’esserci – un concetto di tempo (cioè il carattere proprio del “tempo”) da cui si dia come risultato l’“essere” in quanto essere presente»76. In altri termini, già in Essere e tempo, «“Tempo” è il nome dato a ciò che più tardi sarà chiamato “la verità dell’essere”»77.

Non è possibile addentrarsi fino in fondo in questo campo problematico aperto dalla riflessione heideggeriana. Si può dire, però, che probabilmente il tentativo di nominare positivamente tale «verità dell’essere» è destinato, per la stessa natura di tale verità, al fallimento, ovvero all’impossibilità di un dire che non sia per ciò stesso una proposizione, o meglio un’enunciazione78. Ma può anche darsi che tale fallimento sia dovuto all’impossibilità di cogliere il tempo nella sua

75 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e essere, cit., p. 94.

76 M. Heidegger, Protocollo di un seminario sulla conferenza Tempo e essere, in Id., Tempo e essere, cit., p. 40.

77 Ivi, p. 36. Cfr. su questo A. Giugliano, Heidegger e la concettualizzazione filosofica del tempo (1924/1927), in AA.VV, Heidegger a Marburgo, cit., pp. 293-327, che analizza diffusamente il «raffinatissimo patchwork» che caratterizza l’espressione più intima del pensiero heideggeriano nel suo formarsi: «si può affermare che paradossalmente il tratto più caratterizzante del suo pensiero fondamentale sia, per dir così, come un invisibile buco nero la cui immagine e forza d’attrazione trattenga chiusa in se stesso e non faccia apparire l’evidenza: cioè il fallimento della tematizzazione e concettualizzazione del tempo in quanto tempo, della Temporalità, di cui l’analitica esistenziale costituiva solo più la fase preparatoria, l’ontologia fondamentale del Dasein nella cui ed a partire dalla cui Zeitlichkeit era da cogliere la Ek-stasis (la peculiare Ek-sistenz preumana) arcontico-primordiale della Temporalität, solo la cui automatica inversione (l’afferramento concettuale della quale richiede perciò altrettanto un’inversione della stessa concettualità che l’ha raggiunta) rende possibile l’orizzonte estatico-orizzontale proprio della Existenz umana» (ivi pp. 294 e sg.).

78 È questo, del resto, il senso della chiosa con cui Heidegger conclude la sua conferenza su Tempo e essere: «Se un oltrepassa mento rimane necessario, esso riguarderà […] quel pensiero che si lascia coinvolgere propriamente ed espressamente nell’evento al fine di dirlo – dirlo a partire da esso e in vista di esso [um Es aud ihm her auf Es zu – zu sagen]. È necessario oltrepassare incessantemente gli ostacoli che facilmente rendono insufficiente un tale dire. Un ostacolo di questo tipo resta anche il dire l’evento nel modo imposto da una conferenza. Essa si è limitata a enunciare proposizioni» (M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 31). Occorre cogliere una tale chiosa, che pure ha il sapore della beffa, in tutta la profondità dell’ammissione cui accenna: l’ammissione, cioè, di un’insufficienza del dire legata non tanto alla debolezza della parola, quanto piuttosto alla natura stessa di un oggetto (su cui si applica necessariamente una proposizione) che per definizione sfugge alla categoria di oggetto – ciò che in effetti costituisce la fondamentale critica heideggeriana alla metafisica, la quale ha sempre trattato dell’essere come di un ente. Sta in questo nodo gordiano la ragione più profonda del “corto-circuito” della Kehre.

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dimensione più propria in quanto esso stesso sfugge per sua natura ad una dimensione veritativa, cioè in quanto sarebbe proprio nella sottrazione di sé nel velamento che si dà il carattere costitutivo della temporalità79. Cioè, in altri termini, sarebbe proprio l’impostazione aletheiologica del problema, e dunque ancora fondamentalmente metafisica, a mettere Heidegger nell’impossibilità del dire – ciò che lo pone indubbiamente, da questo punto di vista, ancora al di qua del pensiero nietzscheano80.

Nondimeno è proprio su questo terreno, che comunque Heidegger indica, sia pure sempre solo indirettamente, e che anzi caratterizza come die Sache selbst, “la cosa stessa”, ovvero il fatto che è al contempo l’ultimatività della gettatezza, lo “stato di cose”, il Sachverhalt nel quale l’esserci si ritrova gettato – è proprio su questo terreno che bisogna incamminarsi ed indagare, e forse è a partire da qui che si può iniziare un percorso di riflessione sul cyberspace in senso filosofico, una domanda sulla realtà virtuale che interroghi direttamente e profondamente l’essere dell’esserci, ma anche e soprattutto che interroghi finalmente e che pensi l’essere «senza alcun riguardo per la sua relazione con l’ente»81, ovvero senza alcun riguardo per la metafisica82.

79 Cfr. M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 29: «nel far avvenire si annuncia come sua propria peculiarità il fatto di sottrarre ciò che gli è più proprio [das Eigenste] all’illimitato disvelamento. […] All’evento come tale appartiene l’Enteignis, l’“espropriazione”. Con essa l’evento non rinuncia a se stesso, ma salvaguarda la sua proprietà».

80 Cfr. A. Giugliano, op. cit., pp. 325 e sgg.: «Si può dire che il concetto di tempo originario e autentico costituisca in fin dei conti il vero e proprio cavallo di Troia della fortezza del pensiero Heideggeriano; concepire infatti il tempo come orizzonte di possibilità dell’essere significava intendere il tempo come verità dell’essere, e dunque mancarlo nella sua più intima dimensione antialetheiologica […]: cioè intrinsecamente Schein, il proprio della fenomenicità (autoapparenzialità) del fenomeno e dunque della fenomenologia stessa. È ciò che porterà Heidegger a interrogarsi (ma ancora hegelianamente, cioè mantenendo fermo il primato aletheiologico dell’essere/apparenza, della verità sull’arte, della filosofia sull’arte, dell’intero logico sul frammento in conciliato) dapprima intorno all’origine dell’opera d’arte – ed alla strana possibilità che si dia l’emergere/auto apparire di un Dasein, cioè appunto di una Ek-stasis/Ek-sistenz non coincidente più con l’uomo, bensì con un manufatto (il tempio) o con un organismo (l’animale) che appaiono sovranamente a partire da se stessi e nel loro eventuale continuare ad apparire aprono essi l’orizzonte del mondo umano che solo così continua eventualmente ad apparire – e poi quasi automaticamente a confrontarsi con l’apice filosofico di questo ribaltamento che mette in primo piano l’intrascendibilità dell’apparenza sulla verità, dell’arte sulla filosofia, del tempo sull’essere, della temporalità sul tempo, dell’irripetibile ritorno della Ekstasis/Eksistenz della Temporalität sulla Eksistenz conforme al Dasein futurativo umano, troppo umano della Zeitlichkeit: il pensiero cronomantico di Nietzsche».

81 M. Heidegger, Tempo e essere, cit., p. 31. 82 Cfr. A. Giugliano, op. cit., p. 326, nota 88, in cui, a partire dall’analisi della

temporalità (o meglio della diade concettuale Temporalitä/Zeitlichkeit) Giugliano afferma: «Stanno sicuramente qui anche i presupposti della molto più tarda (nei primi anni ’60) critica di Heidegger a quella ulteriore svolta – vero e proprio pervertimento ontologico-eksistenziale, in cui culmina l’epoca metafisica del mondo ridotto a visione, ad immagine, ad imago, già da Heidegger tematizzata ed analizzata verso la metà degli anni ’30 – della tecnica in figura di cibernetica, cioè di riduzione del mondo e della sua stessa materialità e corporeità a pura messa in forma di se stesso in forma di “volontà” di informazione-di-informazione che informa solo sulla sua autoriproduzione accertata e pianificata, e quindi a produzione-apparizione di una “macchina” autoregolantesi ed

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Si tratta cioè, a questo punto, di accennare a quel profondo legame tra la tecnica e la metafisica che proprio in questo terreno problematico e per così dire infondato83 che è la temporalità affondano – ma come in un abisso – le loro radici, così come – e tanto più – vi affonda le sue radici il cyberspace. (E a questo punto si renderebbe necessaria, ancorché impossibile in questa sede, una più attenta considerazione su ciò che, in termini di spazio cibernetico – ciò che appunto è il cyberspace, “cyberspazio” – implicherebbe l’analisi che Heidegger svolge in Tempo e essere sulla spazializzazione così come si produce a partire dalla temporalità84.)

E del resto è proprio a partire da qui che Heidegger sviluppa la sua indagine sulla tecnica come sulla storia della metafisica, cioè su quella declinazione dell’aletheia in chiave oggettiva che costituisce il nascondimento di quel fondo su cui, ancorché inavvertitamente, pure si muove l’intero percorso della metafisica occidentale e quindi infine di una progettualità tecnica che giunge al suo compimento nella cibernetica intesa come forma di controllo informatico (e quindi fondata sulla riduzione ad informazione della verità dell’essere) sull’intero pianeta.

È qui che si dà la fine della filosofia, intesa come compimento della metafisica occidentale:

«La filosofia finisce nell’epoca attuale. Essa ha trovato il suo luogo nella scientificità dell’uomo che agisce sul piano sociale. Ma il tratto fondamentale di questa scientificità è il suo carattere cibernetico, cioè tecnico. Presumibilmente il bisogno di interrogarsi sulla tecnica moderna va sempre più spegnendosi, quanto più decisamente essa impronta e governa i fenomeni del cosmo e la posizione occupata dall’uomo in esso.

Tutto ciò che nella sua struttura ricorda ancora l’origine della filosofia, le scienze lo interpreteranno secondo le regole della scienza, cioè tecnicamente. […] Non solo la loro verità è misurata sulla base dell’effetto che la loro applicazione

autocontrollantesi e dunque di un “organismo” artificiale intelligente, capace di elaborare qualcosa come un “pensiero” autonomo privo di vettore umano-finito e così di aprire un orizzonte ciberspaziale che si sostituisce all’essere-nel-mondo proprio del Dasein umano e del suo senso e perciò capace di soppiantare il linguaggio tramandato e lo stesso Dasein umano in quanto tale […] e di sostituirvi un Dasein post-umano dotato di un modo di “pensare” cibernetico e di un “linguaggio” tecnico-informatico: cioè un Dasein in cui ne va solo più del controllo e della regolazione dell’infinito fluire sempre presente dei dati informatici di cui esso consiste e che nel loro continuum assicurano la disponibilità di ciò che non è più e/o di ciò che non è ancora presente costituendo in quanto tale, insomma, un Dasein proprio della fine del “pensiero” nella definitiva deominazione planetaria ed astralizzazione ciberspaziale».

83 Cfr. M. Heidegger, Protocollo, cit., p. 41: «il fondamento dell’ontologia fondamentale non è un fondamento su cui si possa costruire – non è cioè un fundamentum inconcussum, ma piuttosto un fundamentum concussum».

84 Cfr. M. Heidegger, Tempo e essere, cit., pp. 19-22: «L’espressione spazio-di-tempo nomina […] l’aperto che si dirada nel reciproco offrirsi di advento [Ankunft], essere-stato e presente per arricchirsi a vicenda. Soltanto questo aperto, ed esso soltanto, concede quello spazio che rende possibile l’estensione costitutiva di ciò che abitualmente a noi è noto come “spazio”. […] Il tempo non è. Si dà il tempo. Il dare che dà tempo si determina a partire dalla vicinanza che rifiuta e riserba. Essa concede l’aperto dello spazio-di-tempo, ma anche custodisce ciò che nell’esser-stato resta rifiutato e nell’advenire resta riserbato. Il dare che dà il tempo autentico noi lo chiamiamo l’offrire che dirada e vela. Nella misura in cui l’offrire stesso è un dare, nel tempo autentico si vela il dare di un dare».

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produce per il progresso della ricerca, ma la verità scientifica stessa è equiparata all’efficacia di tali effetti. […]

La fine della filosofia si mostra come il trionfo dell’organizzazione che manovra il mondo tecnico-scientifico e dell’ordinamento sociale corrispondente a tale mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione mondiale fondata sul pensiero occidentale-europeo»85.

Qui è indirettamente nominato ciò che Heidegger non poteva ancora conoscere col nome che nell’84 Gibson gli ha dato: il cyberspace, ovvero ancora la realtà virtuale. Nella “realtà virtuale” risuona appunto tutto il senso che ha questa «civilizzazione mondiale fondata sul pensiero occidentale-europeo»: fondata cioè su quel «processo di virtualizzazione» che sulla scorta di Lévy si è rintracciato al cuore stesso della progettualità tecnica e che, in termini heideggeriani, non è altro che quella pro-vocazione della Natura che è l’im-posizione come essenza della tecnica86. L’im-posizione è, come è noto, quel che Heidegger, in tedesco, chiama Ge-stell: Gestell è la suppellettile, l’impianto, la struttura di supporto; Heidegger ne forza il senso, per mezzo del trattino, ad un riferimento di potere: Ge-stell diviene quindi un impianto, una struttura che im-pone e pro-voca la natura nel senso del controllo e della virtualizzazione (ovvero, in termini heideggeriani, una Ge-stell «pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell’impiegare, che impedisce ogni visione dell’evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l’essenza della verità»87).

Si intravede qui, in questa struttura di supporto pro-vocante, già la griglia cibernetica dello spazio tridimensionale virtuale, la matrice della realtà virtuale, quell’impalcatura che sostiene e rende possibile la cablatura e la copertura dell’intero pianeta nella rete cibernetica dello spazio virtuale (sicché Google Earth, l’estremo emblema weltanschaulich della riduzione del pianeta-mondo a visione digitale, per fare un esempio, non sarebbe pensabile nemmeno, se non sulla base di quella fondamentale im-posizione tecnica che è la geometrizzazione dello spazio geografico avvenuta, da un lato, per mezzo della geometria cartesiana – i cui assi sono a fondamento della grafica computerizzata –, e dall’altro per mezzo della dis-posizione – virtuale – della rete di meridiani gettata a

85 M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Id., Tempo e essere, cit., pp. 76 e sg.

86 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit., in particolare pp. 22-23.

87 Ivi, p. 25. Si veda anche quanto scrive R. Terrosi, Ex-humans. Sull’essenza del post-umano, in «Kainos. Rivista on line di critica filosofica», 6, 2006 (http://www.kainos.it/numero6/ricerche/ricerche-terrosi-exhumans.html): «Il concetto di Gestell (suppellettile, scheletro, impianto, struttura di supporto, scaffale) viene diviso in Ge-stell dal significato letterale di Stellen come “porre” acquisendo così il significato di im-posizione. In tal modo egli compie un passaggio da un senso di oggetto tecnico familiare (lo scaffale), usato come strumento nella casa, a elemento che si caratterizza per una relazione di potere (l'imposizione). In questo modo si porta avanti una seconda conversione del concetto di tecnica: la prima dalla tecnica in senso lato alla tecnica materialmente produttiva, la seconda dalla strumentalità utilitaristica al legame coercitivo di potere che vede l'uomo come vittima. L'uomo tramite la tecnica quindi pro-voca il cedimento di energia attraverso un atto di imposizione sulla materia».

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mappatura dell’orbe terracqueo al tempo delle grandi esplorazioni europee).

E dunque il cyberspace si colloca necessariamente come compimento del percorso tecnoscientifico della metafisica occidentale, ciò che, in definitiva, si iscrive nella dinamica del nichilismo europeo, non a caso legato da Nietzsche alla “creazione” di un «mondo dietro il mondo» steso a velo della totale mancanza di senso intrinseco del mondo stesso, cioè di quella temporalità arcontica che costituisce il fondamento senza fondo dell’intera storia umana88, e che si compie nella creazione utopica di un paradiso artificiale, un hypertext heaven, per dirla con Heim89, che rovescia ricorsivamente il mito platonico della caverna per farne appunto un «platonismo realizzato».

Si chiude così il cerchio. E già ci siamo spinti troppo in là rispetto alle note che queste pagine si ripromettevano di proporre. Se questo sia un «sentiero interrotto» o piuttosto un vicolo cieco tout court resta da stabilire. Tuttavia è proprio questo il campo, ancora tutto da esplorare, cui si accede per il tramite di The Metaphysics of Virtual Reality, ovvero, in generale, per mezzo di un’indagine sulla metafisica del cyberspace, ciò

88 Cfr. A. Giugliano, Materiali filosofici per una «storia della cultura», Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, dove la cultura è direttamente intesa come «conferimento di senso all’infinità intensiva ed estensiva priva di senso propria del divenire che ci circonda e che ci attraversa e che noi stessi in ogni nostra fibra molteplicemente siamo» (p. 11) e proprio a partire da questo presupposto si sviluppa un’analisi della storia della cultura – cultura che si diffonde e si perde negli «infiniti programmi di “simulazione” virtualreale della realtà individuale prodotta e governata da una sovrana e “totipotente” Matrix storico-universale, matrice tipico-ideale di tutti i possibili concetti tipico-ideali, vera e propria metamorfosi assiologico-telematica delle ineffabili Madri di cui parlano Mefistofele e Faust, per la quale il “mondo” è ormai solo uno spazio cybernetico, un “cyberspazio”. Qui […] può considerarsi pienamente raffigurato il possibile scenario dell’inizio di un imperscrutabile processo di “deominazione” e “astralizzazione” dell’uomo e della sua cultura, da Weber […] quale perverso compimento/ribaltamento dell’etica ascetica intramondana capitalistica moderna nell’etica ascetica “edonistica” del capitalismo contemporaneo […] pur se non ancora in quegli acuti termini allucinatori, un’acutizzazione dovuta tuttavia proprio ad un ormai non più tanto remoto perfezionamento ipertecnico cibernetico-biologico della tendenza di fondo dello stesso processo di razionalizzazione postburocratica proprio dello sviluppo storico-culturale del capitalismo moderno europeo-americano a livello universale-planetario» (ivi pp. 13 r sgg.). Del resto è proprio qui che uno degli autori più acuti della grande temperie culturale francese post-moderna, Jean Baudrillard, compie uno dei suoi azzardi teorici più suggestivi, laddove rilancia nella patafisica l’insensatezza del mondo nietzscheanamente intesa, spingendo alle estreme conseguenze la parabola insensata della virtualizzazione nichilistica del reale, in quella che egli stesso definisce «l’ironia della tecnica»: cfr. J. Baudrillard, Le crime parfait, Galilée, Paris, 1995; tr. it. G. Piana, Il delitto perfetto, R. Cortina, Milano, 1996: «Fortunatamente, gli oggetti che ci appaiono sono già da sempre scomparsi. Fortunatamente, nulla ci appare in tempo reale, come le stelle nel cielo notturno. […] Fortunatamente, nulla accade in tempo reale, altrimenti saremmo sottomessi, nell’informazione, alla luce di tutti gli eventi e il presente sarebbe di un’incandescenza insopportabile. Fortunatamente, viviamo in base a un’illusione vitale, a un’assenza, a un’irrealtà, a una non immediatezza delle cose. Fortunatamente, nulla è istantaneo né simultaneo né contemporaneo. Fortunatamente, nulla è presente né identico a sé stesso. Fortunatamente, la realtà non ha luogo. Fortunatamente, il delitto non è mai perfetto» (p. 11. “L’ironia della tecnica” è invece alle pp. 77-80).

89 M. Heim, Hypertext Heaven, in MVR, pp. 29-40.

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che forse può gettare ulteriore luce sul senso della fine della filosofia e su ciò che in questa sua lunga fine resta ancora da pensare.