Come si scrive un'autobiografia

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La maggior parte delle autobiografie che ricordiamo e che sentiamo più vicine sono state scritte da gente comune, senza alcun potere, la cui esistenza ci è nota solo perché loro stessi hanno lasciato traccia delle proprie storie. Quando, attraverso la sottile alchimia di esperienza diretta e artificio, il personale diviene universale, si sprigiona una forza dirompente; nessuno può sapere quale storia, per una volontà precisa o per caso, darà voce a un popolo o a un’epoca. Se ti senti in grado di scrivere la tua storia, perché non farlo bene? Mettendoci un po’ di impegno in più, con qualche ritocco e limatura qua e là, decidendo in anticipo la struttura e infine sistemando un po’ il testo, potresti far sì che la tua storia non solo venga letta per rispetto da pochi (o molti) parenti, ma che diventi un piacere autentico per tutti coloro che vi si imbatteranno. È a questo punto che entra in scena questo manuale...

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Come si scrive un’autobiografia. Manuale di scrittura creativa a più voci. (Titolo originale e Autobiographer’s Handbook)a cura di Jennifer Traig

Traduzione di Alessandra Mulas

© 2010 by 826 National, All rights reservedPublished by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria and Ted Weinstein Literary Management

© Omero Editore, Roma 2013. Tutti i diritti riservati.www.omero.itwww.omeroeditore.it

Isbn: 978-88-96450-09-3

Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi

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COME SI SCRIVE UN’AUTOBIOGRAFIA

manuale di scrittura creativa a più voci

JENNIFER TRAIG

introduzione di Dave Eggerstraduzione di Alessandra Mulas

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INDICE

Introduzione di Dave Eggers 7Il Gran consiglio - Incontra i nostri esperti di autobiografia 15

Capitolo 1 - Appuntamento con la musa 25Capitolo 2 - Precedere il passato 41Capitolo 3 - Tu contro la prima pagina 56Capitolo 4 - Linee, curve e tangenti 69Capitolo 5 - Strategie di movimento 88Capitolo 6 - Tagliare 98Capitolo 7 - C’è differenza tra i ricordi 106Capitolo 8 - Dentro di te c’è una folla 128Capitolo 9 - Capire la battuta 136Capitolo 10 - Scrivere attraverso il dolore 141Capitolo 11 - Fatti contro verità 146Capitolo 12 - Perdersi nel labirinto 156Capitolo 13 - La tua fine (per ora) 161Capitolo 14 - Fagli fare un giro 165Capitolo aggiuntivo - Dalla mente, a Internet, al libro, a te 183

Conclusione 195Appendice 197826 National 219

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INTRODuzIONE

Dave Eggers

Le ragioni per scrivere un’autobiografia possono essere tante, ma in quest’introduzioneintendo discuterne una in particolare, non solo perché mi sembra prevalere su tutte lealtre, ma anche perché spero possa dare forza a tutti gli aspiranti autori di questogenere letterario: scrivi la tua storia perché un giorno morirai e, se non l’avrai messa sucarta, la tua storia morirà con te.

La maggior parte di quello che facciamo in quanto esseri umani – costruire musei eospedali, strade e impianti di purificazione dell’acqua – lo facciamo perché desideriamooffrire alle generazioni future un mondo migliore. Il primo e più importante fra tuttiquesti doni che teniamo in serbo per loro è senz’altro la conoscenza: quella massa difatti, verità e saggezza che si è accumulata nel tempo, dalla nascita della razionalità edel linguaggio a oggi. E tuttavia siamo sorprendentemente approssimativi quando rac-contiamo ai bambini la storia della loro famiglia. Quella che narriamo loro sui variparenti – genitori, nonni e avi che si perdono nella notte dei tempi – è nel migliore deicasi una storia sconnessa e piena di lacune. Noi americani siamo particolarmenteinclini a dimenticare (deliberatamente, direbbero in molti) le nostre origini. E questoè un problema.

Quando ero un adolescente lessi un libro intitolato Some Recollections of a BusyLife di un certo Thomas S. Hawkins, un resoconto davvero divertente, e al tempostesso affascinante, sul viaggio di un pioniere nell’America di metà Ottocento. L’autoreera cresciuto nel Missouri in completa libertà, un po’ come Tom Sawyer, e a ventidueanni era partito per gli spazi aperti della California, e la loro promessa di felicità.Aveva guidato una carovana di carri coperti attraverso le pianure, commerciando congli indiani e combattendo contro i banditi e finalmente si era stabilito nel nord dellaCalifornia, dove aveva partecipato alla fondazione della città di Hollister.

Quest’uomo era il mio bis-bis-bis-bis-bisnonno, che la mia famiglia chiamava ilBisnonno Hawkins. Sin da quando ero bambino avevo sentito parlare di lui dai mieige nitori, soprattutto perché tenevamo il suo fucile – lo stesso con cui aveva sparato adanimali selvatici e ladri attorno al 1860 – sopra la mensola del camino in salotto. Tuttiquelli che entravano in casa nostra volevano sapere di chi era stato e se funzionavaancora. No, non funzionava.

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A parte la questione del fucile, tutto quello che sapevamo su Thomas Hawkins eranouna manciata di disordinati brandelli della storia della sua vita, almeno fino a quandouno dei nostri parenti californiani ci inviò una copia di Some Recollections of a BusyLife. Il libro era stato stampato in proprio in sole trecento copie, ma sembrava un libroa tutti gli effetti, con una copertina rossa, la legatura robusta e tutti i caratteri inordine. Lo lessi in pochi giorni e ne rimasi sbalordito. Avevo davanti un autore senzaalcuna preparazione letteraria – aveva lasciato la scuola a diciassette anni – un uomoche si era mantenuto dapprima facendo il maestro, quindi aveva aperto un negozio einfine era diventato un banchiere, ma che era riuscito lo stesso a scrivere un libro chenon avrebbe sfigurato su uno scaffale in compagnia delle opere di Twain (tra l’altro eracresciuto a pochi chilometri da Hannibal, dove abitava Samuel Clemens, meglio notocome Mark Twain). E grazie al fatto che Thomas Hawkins si era preso la briga di scri-vere la sua storia, ora avevo una conoscenza molto più approfondita di lui, della suaepoca, della storia della mia famiglia, della vita dei pionieri che colonizzarono il norddella California… insomma, di moltissime cose. Le sue parole ci avevano restituitoun’avventura e una storia d’amore, il suono dei carri che attraversavano il Nebraska, ivolti degli indiani con i quali aveva stretto amicizia e il volto di quelli contro cui avevacombattuto. Attraverso la forma immutabile di un libro avevamo la possibilità di im-parare moltissimo su che tipo di esistenza aveva vissuto Hawkins e gli altri che avevanofatto scelte simili alle sue, così da sentirci davvero legati al nostro retaggio (lo so,retaggio non è una parola usata di frequente negli Stati uniti, e solo di rado la sentiamonelle nostre case, ma è proprio questo genere di cose che può cambiare).

Il libro spinse mio fratello maggiore, Bill, a ricostruire il nostro albero genealogico,seguendo il ramo della nostra famiglia fino ad arrivare all’Inghilterra, all’Irlanda e allaGermania. Ben presto l’albero raccoglieva centinaia di nomi e date e città natali, mat-rimoni e figliolanze. Ma, al di là di questi semplici dati, non restava traccia di quellevite. Nessun libro, nessun diario, nessuna autobiografia. E così queste persone – le lorovite, le loro voci, le loro conoscenze – erano svanite nel nulla. Probabilmente qualcosadei loro ricordi, frammenti delle loro vite, era stato tramandato ai figli, che a loro volta,in frammenti ancora più piccoli, li avevano tramandati alle generazioni successive. Egiunte sin lì, allora, le persone erano diventate semplici nomi, date, al massimo unacaratteristica peculiare. L’enorme patrimonio di ciò che avevano provato e desiderato evisto era andato perduto.

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Qualche anno fa, l’826 Valencia sostenne un progetto guidato da un’insegnante i cuimetodi erano eccezionalmente innovativi, Lisa Morehouse. Insegnava alla BalboaHigh School, una grande scuola pubblica della città, e quell’anno ci telefonò per saperese eravamo interessati a inviare dei tutor che aiutassero i suoi studenti con un progettosulla storia orale che sarebbe durato per sei mesi. Cogliemmo la palla al balzo.

I genitori degli studenti del Balboa venivano da ogni parte del mondo: El Salvador,Cina, Messico, Vietnam, Guatemala, le Samoa americane, Cambogia. Nella maggiorparte dei casi si trattava di persone che parlavano inglese ma non erano madrelingua;se si aggiungevano le prevedibili difficoltà di comunicazione che si creano fra adolescentie genitori ecco che avevamo il quadro di un gruppo di studenti che non sapevano poimolto sulle vite dei loro antenati. In alcuni casi madri e padri avevano deliberatamentetenuto nascoste le loro storie, supponendo che i loro bambini preferissero lasciarsi ilpassato alle spalle e cominciare una nuova vita.

Lisa Morehouse ci presentò così se stessa e il suo progetto di storia orale: ai suoi stu-denti veniva chiesto di intervistare un parente immigrato negli Stati uniti da un altropaese (o, se non avevano parenti con queste caratteristiche, qualcuno che era arrivatoin California da un’altra parte dell’America). I ragazzi scelsero la loro impostazione erealizzarono una serie di interviste, le tradussero laddove era necessario e alla fine letrasformarono in racconti avvincenti.

un giorno, insieme a una dozzina di tutor dell’826 Valencia, andai al Balboa peraiutare gli studenti a sistemare le loro storie: il primo a cui mi avvicinai fu per me unarivelazione. Mi capitò di lavorare con Jimmy Meas, un ragazzo cambogiano-americanonato a San Francisco, il cui padre aveva lasciato la Cambogia negli anni Settanta. Ilpadre di Jimmy era stato dapprima un contadino, poi era stato coscritto nell’esercitocambogiano e quindi aveva servito i Khmer Rossi.

Sotto quel terribile regime aveva cercato in tutti i modi di passare inosservato pernon farsi mandare nei campi di sterminio cambogiani, fino a che, un giorno, avevadeciso di rischiare tutto per fuggire insieme a sua moglie, la madre di Jimmy.

Questo è un brano della sua storia:

Fuggii di notte, insieme a tua madre – l’avevo incontrata quando avevo all’incirca di-ciannove anni, lei stava raccogliendo riso in un campo – correndo verso la foresta. Questoè tutto quello che posso dirti. Era una notte fredda e buia, ventosa, pioveva… Non siriusciva a vedere nulla perché non c’erano luci e le coperte erano tutto ciò che avevamoper ripararci. Era una situazione spaventosa perché non sapevo se i soldati stavano pat-tugliando quella zona ed ero terrorizzato dall’idea di imbattermi in qualcuno di loro. Erospaventato anche dalle bombe, perché i Khmer Rossi avevano nascosto mine ovunque…Jimmy e io leggemmo quel brano insieme e restammo entrambi senza parole. “Sapevi

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queste cose?” Gli chiesi. Scosse la testa, non ne sapeva nulla. I suoi genitori avevanovoluto tenerlo all’oscuro di quanto avevano sofferto e del modo in cui erano riusciti afuggire, e Jimmy, da parte sua, non aveva mai avuto l’interesse e lo stimolo per faredelle domande in proposito. Il progetto aveva spinto Jimmy a chiedere a suo padre diraccontargli tutta la sua storia; così il rispetto e la gratitudine che il ragazzo già provavaverso i suoi genitori erano cresciuti ancor di più e avevano alimentato un nuovointeresse da parte sua per la Cambogia. Il processo fu effettivamente concluso solodopo che Jimmy ebbe lavorato alla storia di suo padre e la 826 Valencia l’ebbe pubblicatanel libro che ne era derivato, I Might Get Somewhere: Oral Histories of Immigrationand Migration. Riportando alla luce la storia del padre, mettendola per iscritto e facen-dola funzionare anche da un punto di vista stilistico, Jimmy aveva fatto in modo chesarebbe stata letta e che sarebbe stata ricordata. E che non sarebbe mai andata perduta.

Da tempo all’826 Valencia teniamo corsi per adulti che desiderano scrivere la loroautobiografia. Nel corso degli anni ho gestito una dozzina di questi gruppi e, visto chesono gli allievi stessi a chiederlo, abbiamo fornito una discreta quantità di indicazionipratiche non solo su come si scrive un autobiografia, ma anche su come si può riuscirea pubblicarla. Abbiamo avuto a disposizione editor e agenti, i cui consigli sono semprestati precisi e incoraggianti. Ma ogni volta che un corso arrivava alla fine, guardandoquella cinquantina di volti pieni di speranza e di determinazione, capivo due cose edavo voce, nel modo più sincero possibile, almeno alla seconda: 1) la maggior parte deinostri allievi, con molta probabilità, non sarebbe riuscita a pubblicare il proprio librocon una grande casa editrice (che fornisse un compenso) e 2) ogni singolo membro delgruppo avrebbe dovuto scrivere comunque la propria storia. “Fallo per te stesso”, dicevo– “e per quelli che verranno dopo di te o verrai dimenticato”.

Ho continuato a ripetere queste parole per anni e ogni volta che le pronunciavo pen-savo alle memorie messe su carta dal bisnonno Hawkins. A dire il vero, però, io nonavevo letto il suo libro fino a quando avevo avuto ventidue anni o giù di lì. Mi ero peròscontrato con una strana coincidenza: quando avevo cominciato a scrivere quest’intro-duzione, ne avevo cercato una copia, senza riuscire a trovarla, e alla fine l’avevo compratada un libraio in Kansas. Ero rimasto senza parole quando avevo letto il primo paragrafo:

Scrivo queste memorie senza aspettative e senza la presunzione che ci sia stato qualcosanella mia vita che possa essere d’interesse per un vasto pubblico. Confido, tuttavia, nelfatto che i miei figli e i miei nipoti e i loro discendenti e una manciata di amici abbianoil desiderio di conoscere alcuni dei grandi cambiamenti che si sono verificati nel nostrostile di vita negli ultimi settant’anni, o che magari siano interessati a conoscere qualcosadelle difficoltà e delle privazioni che i loro antenati hanno sperimentato sulla loro pellein quella parte del nostro Paese che oggi è conosciuta come Far West.

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Era stranissimo! Non ricordavo – proprio non ci riuscivo – l’incipit del libro diHawkins eppure, tanti anni dopo, ero giunto alle stesse conclusioni: detto senza mezzitermini, l’importante è scrivere la propria storia. Quando, negli anni Novanta, le auto-biografie acquisirono una maggiore visibilità – come genere che veniva letto e scritto –ci furono molte perplessità e interrogativi e si tentò, in modo diffuso ma frammentario,di analizzare il fenomeno. Come avviene ogni volta che una certa tendenza si manifesta– o si ha il sentore che stia per manifestarsi – poche di queste preoccupazioni si rive-larono fondate e la maggior parte dei teorizzatori sentenziò che le autobiografie sareb-bero ritornate nel buio da cui erano venute a grande velocità, e a testa bassa. Ma, dalmomento che il successo dell’autobiografia non accennava a diminuire, e poiché c’eranoallora più aspiranti autori di autobiografie che in qualsiasi altra epoca, avevamo laprova che stava accadendo qualcosa a un livello molto profondo.

Questo qualcosa ha a che fare con il diritto, e il dovere, to write one’s self intoexistence, cioè di riuscire a esistere attraverso la scrittura. Questa espressione «to writeone’s self into existence» è stata usata molte volte, da molti scrittori, e si discute su chil’abbia coniata. Io l’ho incontrata per la prima volta mentre leggevo Ghetto Celebritydi Donnell Alexander, un’autobiografia del 2003 che unisce liricità e sfrontatezza.Alexander è cresciuto a Sandusky, in Ohio. Figlio di una madre separata sopraffattadal troppo lavoro e di un padre con un’irriducibile inclinazione alla truffa, riuscì a farsistrada sino alla Sacramento State university e lì cominciò a collaborare saltuariamentecon il settimanale locale, cosa che lo condusse in seguito a una carriera da freelance e,infine, a siglare un contratto per un libro. Alexander sfrutta l’autobiografia per definirela sua identità e quella di suo padre, per celebrare i successi della famiglia e ridere delleproprie e altrui manie, il tutto raccontato sempre attraverso un linguaggio fortementemusicale. Ed è esattamente quello che Withman aveva in mente – giusto? – quandoscrisse Song of Myself.

Prima del successo dell’autobiografia era piuttosto diffuso il pregiudizio secondo ilquale le uniche persone che potevano o dovevano scrivere le proprie memorie erano excomandanti militari, stelle del cinema e presidenti – insomma, chi aveva vissuto ingrande, almeno da un punto di vista storico. Questa diffusa opinione non teneva conto,ovviamente, del fatto che la maggior parte delle autobiografie che ricordiamo e chesentiamo più vicine sono state scritte da gente comune, senza alcun potere, la cuiesistenza ci è nota solo perché loro stessi hanno lasciato traccia delle proprie storie.Cosa avremmo saputo dell’animo di un bambino soldato dei nostri giorni se IshmaelBeah non avesse riversato la sua vita in Memorie di un soldato bambino? Non c’ènulla che abbia la stessa immediatezza dell’autobiografia e sia capace di lasciare una

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testimonianza allo stesso modo. Quando, attraverso la sottile alchimia di esperienzadiretta e artificio, il personale diviene universale, si sprigiona una forza dirompente;nessuno può sapere quale storia, per una volontà precisa o per caso, darà voce a unpopolo o a un’epoca.

Quando venne scoperto e proposto agli editori un manoscritto che descriveva la vitadurante l’Olocausto in molti dubitarono che il pubblico lo avrebbe trovato interessante.“Molto noioso”, sentenziò un editor di Knopf. “un monotono diario di battibecchi fa-miliari, insignificanti piagnucolii ed emozioni adolescenziali… Anche nel caso in cuiquest’opera fosse venuta alla luce cinque anni fa, quando il tema era più attuale, noncredo che avrebbe riscosso successo”. Questo libro era il Diario di Anne Frank. Nessuno,né questo editor, né la stessa Anne Frank, avrebbe potuto immaginare che sarebbe di-ventato il testo meglio conosciuto sulle sei milioni di anime che si persero nell’Olo-causto.

Le opere di Beah e Frank, al pari di quelle di molti altri autori di autobiografie, sonoanimate dal bisogno di lasciare una testimonianza, dal bisogno di dire “È accadutoquesto” e “Ho vissuto quest’esperienza” e “Questo è ciò che ho provato, e questo è ilmodo in cui sono riuscito a sopravvivere”. Scrivere la storia di qualcuno significa offrireuna prova della sua esistenza e anche se non si sono visti gli stessi orrori ai quali alcuniautori di autobiografie hanno assistito, non c’è nulla di più potente della voce cheviene dalle pagine di un libro. Quando qualcuno mette le proprie parole sulla carta, equeste parole vengono lette giorni o anni dopo, si crea un’intimità che non si puòottenere in nessun altro modo. Mi rivolgo a quelli di voi che hanno perso i genitori:cosa dareste per avere la loro vita messa per iscritto? Cosa dareste per avere quella deivostri nonni? Per conoscerli attraverso diecimila o centomila parole, tutte intime,sincere, vulnerabili, esultanti? Se hai del tempo a disposizione e vuoi che chi verràdopo di te sappia come e per cosa hai vissuto, cosa ti ha guidato e cosa ti ha ferito, cosahai visto e cosa hai temuto, devi scriverlo. Qualsiasi sarà il risultato, sarà comunqueprezioso.

* * *

Ora, se ti senti in grado di scrivere la tua storia, perché non farlo bene? Mettendociun po’ di impegno in più, con qualche ritocco e limatura qua e là, decidendo in anticipola struttura e infine sistemando un po’ il testo, potresti far sì che la tua storia non solovenga letta per rispetto da pochi (o molti) parenti, ma che diventi un piacere autenticoper tutti coloro che vi si imbatteranno. È a questo punto che entra in scena questomanuale. La curatrice del libro, Jennifer Traig, è stata un nostro tutor sin da quando

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l’826 Valencia è stata fondata, nel 2002, e ha lavorato a ogni pubblicazione degli studentipromossa dalla scuola. È una persona straordinariamente generosa e anche una bravaautrice di autobiografie. Nel suo libro Devil in the Details è riuscita a far sì che deidisturbi ossessivo-compulsivi tipicamente ebraici sembrassero normali e divertenti allostesso tempo, e in questo libro cerca, insieme a quella che è forse la miglior squadra diautori di autobiografie mai messa insieme, di far apparire questo tipo di scrittura – unadelle attività in apparenza più scoraggianti che esistano – qualcosa di realizzabile datutti e in qualsiasi momento.

L’ultima cosa che dirò per incoraggiarti a scrivere la tua storia non riguarda i tuoibambini o le responsabilità nei confronti della storia in generale, ma il dovere che haiverso te stesso. Gli autori che in questo libro si occupano dell’argomento affrontanomolto bene il tema e io voglio unirmi a loro nell’affermare che per quanto possa esseredoloroso ritornare su certi episodi del proprio passato, il processo stesso di ricordarequei momenti, trarre una conclusione da ciò che hanno significato e quindi ricostruirlidando loro una forma nuova, può rappresentare non semplicemente una forma di terapiama un’autentica rivelazione. Scavare, per uno o più anni, nel proprio passato, conun’attenzione particolare ai dettagli e all’organizzazione generale, cercando all’internodella propria vita percorsi e segnali e verificando di volta in volta l’efficacia della resanarrativa… Cosa ci potrebbe essere di più curativo di tutto questo?

Tutti gli autori di autobiografie che conosco sono persone straordinariamente serene.A cominciare da Tobias Wolff. Tutti i lettori di Memorie di un impostore e di Ilcolpevole sanno che non ha avuto una vita semplice. Ma quando lo si incontra e ci siimmerge nel suo calore, saggezza ed equilibrio, viene spontaneo volergli affidare, im-mediatamente e senza nessuna esitazione, i propri bambini, i propri animali e tutta lacasa. Persino quegli autori di autobiografie che sono passati attraverso traumi devastantisono persone straordinariamente gentili, solide e in pace con se stesse. Pensate a FrankMcCourt, Anne Lamott, Maxine Hong Kingstone: li avete mai incontrati? Esistonoforse persone più schive e amanti della riflessione, persone più serene e disposte ad as-coltare gli altri? Potrei aver esagerato nell’attribuire tutto questo al fatto che hannoscritto un’autobiografia, ma sarei sorpreso se almeno una parte della loro serenità nonvenisse dal fatto che trascorrono le giornate dando un ordine alle proprie storie, at-tribuendo una forma alla loro narrazione e conferendo un senso a ogni cosa.

Perciò, scrivi per te stesso, o per te stesso e per chiunque altro possa imbattersi nellatua storia. Scrivi per dar prova che sei esistito, che hai visto cose, che hai sofferto, chesei passato attraverso il fuoco senza smettere di sorridere. Scrivi la tua vita perché l’haivissuta.

Come ultima, piccola testimonianza, voglio riportare un passo dalla fine del libro diThomas Hawkins, un brano in cui compare un uomo dall’orizzonte meravigliosamente

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vasto e che, come atto finale della propria ricerca di esistenza attraverso la scrittura, hapubblicato in proprio il suo libro, in un’edizione limitata. Finisce così:

E mentre sono qui, al tramonto dei miei giorni, e guardo indietro al passato, sento chia-ramente che una forma di Provvidenza ha guidato i miei passi lungo sentieri sconosciuti.Ho molto di cui essere grato. Non c’è nessuno in tutto il mondo verso cui abbia avuto un pensiero cattivo e confidonell’aver suscitato altrettanti buoni pensieri; sono stato benedetto dalla presenza di alcuniveri amici, il cui affetto fedele ha reso la vita degna di essere vissuta, bellissima.Quando guardo all’ignoto che mi attende, spero di poter continuare a vivere i giorni chemi restano agendo correttamente, nella misura in cui Dio mi ha dato la possibilità divedere il giusto, senza paura, e confidando senza riserve nell’amore del mio Padre celestee nella speranza della vita immortale che verrà.E spero che, fino alla fine, sarò in grado di ripetere queste parole:

Vivo per quelli che mi amano,per quelli che mi hanno conosciuto davvero;per il paradiso che sorride su di me,e attende il mio arrivo.Per gli errori contro cui bisogna opporsi,per la giustizia che bisogna sostenere,per la gloria che verràe per il bene che posso fare.

Così terminano alcuni dei ricordi di questa vita piena di eventi, uno schizzo della vita diT.S. Hawkins, di cui la Paul Elder & Company e la Tomoyoe Press della città di SanFrancisco hanno stampato per scopi privati trecento copie destinate all’autore, nel mesedi agosto del millenovecentotredici.

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Come si scrive un’autobiografiaa cura di Jennifer Traig€ 18.00Spedizione gratuita in italia

La maggior parte delle autobiografie che ricordiamo e che sentiamo più vicine sonostate scritte da gente comune, senza alcun potere, la cui esistenza ci è nota solo perchéloro stessi hanno lasciato traccia delle proprie storie. Cosa avremmo saputo dell’animodi un bambino soldato dei nostri giorni se Ishmael Beah non avesse riversato la suavita in Memorie di un soldato bambino? Non c’è nulla che abbia la stessa immediatezzadell’autobiografia e sia capace di lasciare una testimonianza allo stesso modo. Quando,attraverso la sottile alchimia di esperienza diretta e artificio, il personale diviene uni-versale, si sprigiona una forza dirompente; nessuno può sapere quale storia, per unavolontà precisa o per caso, darà voce a un popolo o a un’epoca. Se ti senti in grado discrivere la tua storia, perché non farlo bene? Mettendoci un po’ di impegno in più, conqualche ritocco e limatura qua e là, decidendo in anticipo la struttura e infine sistemandoun po’ il testo, potresti far sì che la tua storia non solo venga letta per rispetto da pochi(o molti) parenti, ma che diventi un piacere autentico per tutti coloro che vi si imbat-teranno. È a questo punto che entra in scena questo manuale.

pp. 22017 x 24 cmISBN: 978.88.96450.09.3Traduzione: Alessandra Mulas

Acquista il libro qui: www.omeroeditore.it/catalogo/scrittura-creativa/come-si-scrive-unautobiografia

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