adolescenza liquida, una riflessione e revisione del concetto
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International Journal of Psychoanalysis and Education (versione italiana) n° 1, vol. I, anno I ISSN 20354630 (riferito alla versione telematica pubblicata all’indirizzo www.psychoedu.org)
organo ufficiale dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa (copyright©APRE 2006)
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L’adolescenza liquida Una riflessione e revisione del concetto
Arturo Casoni
neuropsichiatra dell’infanzia e dell’adolescenza, psicoterapeuta e psicoanalista socio fondatore Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali - IPRS
Nota: contributo pubblicato anche in Casoni A. (a cura di) Adolescenza liquida, EDUP, Roma, 2008
Abstract
Dopo una ricognizione del concetto di adolescenza, specificamente per ciò che la letteratura psicoanalitica ha espresso, il lavoro si concentra sulle fenomenologie che l’adolescente contemporaneo segnala, sia in senso psicopatologico sia di stili di vita. Riprendendo la metafora di Z. Bauman a proposito di “modernità liquida”, si evidenzia che la condizione adolescenziale, per le sue caratteristiche intrinseche di vitalità e precarietà, segnala con intensità particolarmente evidente l’impatto che le trasformazioni socio‐culturali producono sui soggetti, e l’adolescenza diviene in questo scenario la popolazione target per poter indagare gli sviluppi sociali futuri nella sua totalità, quindi una sorta di indicatore di “disagio della modernità”. La crisi riguardo alla certezza e solidità degli organizzatori sociali e identitari definisce quindi la condizione adolescenziale. Si indagano alcuni aspetti come: le trasformazioni della famiglia contemporanea, l’impatto dei media elettronici, la presentificazione del tempo vissuto. In ultimo si analizza il problema del lavoro clinico con l’adolescente contemporaneo.
1. Cosa vuol dire adolescenza?
1.1. Lo straniero interno
“L’esistenza di una dinamica descrivibile in termini di disagio, le cui modalità espressive
appartengono all’adolescenza/giovinezza, sembra indubitabile. È possibile rilevare, persino
come dato transculturale, che per i giovani il disagio - vissuto come momento di eroismo,
trasgressione, atto di sfida e di ribellione alla conformità, visto come rischio voluto e con
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misurata incoscienza - entra, in un certo senso, a far parte addirittura del mito e proprio
come tale è celebrato ed esaltato da tanta produzione artistica (letteratura, cinema)
soprattutto per i maschi. Nell’età adolescente, il dinamismo del disagio dev’essere
considerato quasi parte integrante del percorso di emancipazione e di autonomia dalla
famiglia d’origine, una sorta di scotto inevitabile per affrancarsi dalla dipendenza o per
contrastare provocatoriamente chi la incarna o la rappresenta. In queste forme il disagio si
presenta di non facile lettura, a causa della sua ambiguità. Come ogni trasgressione, esso
esprime infatti, in modo esaltato ed esagerato, il desiderio/bisogno di sfidare la tradizione o
di contrapporsi all’ordine costituito, non disgiunto però da quello, altrettanto intenso, di
appartenervi, di esserne accolto e integrato. Questo spiega il perché, molto spesso, il disagio
ricalchi, nelle sue manifestazioni più estreme, proprio i modelli a cui si contrappone e che
intende distruggere o superare” (Comitato Nazionale di Bioetica, 1999).
La citazione ci viene utile per mettere al sicuro un aspetto dell’adolescenza che non è
specifico delle generazioni contemporanee, post-moderne, ma è al contrario un aspetto
strutturale, invariante, perfino transculturale della condizione adolescenziale: il disagio
nelle sue due valenze, di eroica ribellione alla conformità e di sofferenza che segnala il
timore di non essere accettati dall’ordine costituito. L’adolescente come “straniero interno”,
che vuole affermare la sua diversità e al contempo pretende di essere integrato.
C’è nella nostra cultura una valenza specifica dell’essere adolescente che lo rende al
contempo partecipe ed estraneo. Tutti noi siamo stati adolescenti eppure, se adulti, di fronte
ad un adolescente proviamo un senso di disorientamento, di disagio commisto a fascino.
Non è bambino, in qualche modo minore - minus habens - bisognoso di cure o attenzione
ma “gestibile”; e non è adulto, ma alla pari. Non sappiamo bene se lui o lei ci chiede di fare
qualcosa o se la sua domanda è quella di far niente, di lasciarlo fare, di non contrapporci.
Va quindi sottolineato un aspetto - che definiremmo meta-osservativo – che ci deve rendere
sospettosi su ciò che la letteratura sull’adolescenza ci propone. Un rischio intrinseco al
tentativo di spiegazione del mondo adolescenziale da parte del mondo degli adulti: “nel
voler spiegare i problemi dell’adolescenza in maniera così impaziente, l’adulto mostra con
tutta evidenza che tali problemi non sono altro che i propri” (Jeanneau A., 1982).
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1.2 L’adolescente e l’adulto
Io direi che sono due le caratteristiche principali che la nostra cultura dedica
all’adolescenza. Da una parte la maturazione biologica, il corpo che si fa abile. Dall’altra il
compito sociale di svincolo dalla condizione filiale e l’accesso alla condizione di adulto,
con i diritti e i doveri conseguenti.
Nella citazione iniziale, tratta dal documento del Comitato Nazionale di Bioetica, si
evidenzia come un’esperienza di malessere/disagio possa essere considerata costitutiva
dell’essere adolescente, parte di un dinamismo fisiologico di quella fase della vita, quasi un
passaggio obbligato nel percorso di costruzione dell’identità, verso l’emancipazione, la
pacificazione e l’autonomia.
Così è, e questa realtà appartiene al nostro modo di rappresentare l’adolescenza già da
tempo immemore, visto che Sakespeare nel 1611 scriveva: “Vorrei che non ci fosse l’età
che va dai sedici ai ventitre; o che per tutto questo tempo la gioventù che è in noi dormisse
sempre. Perché in tutto quell’intervallo non si fa che mettere incinte ragazze, maltrattare gli
anziani, rubar la roba e menar cazzotti”.
“Adolescenza, gli anni difficili”, questo è appunto il titolo di un volume pubblicato dal mio
istituto nell’ormai lontano 1993 (Bracalenti R.).
Ma l’adolescenza è anche l’aurora della vita autonoma, l’epoca dell’apertura al mondo,
delle possibili libertà mai prima possedute. Non è soltanto disagio o difficoltà evolutiva.
Quest’aspetto della condizione adolescenziale è spesso ignorato da parte del mondo degli
adulti, che sembra avere i suoi problemi di identificazione-proiezione con l’adolescenza.
Come sottolinea Sandro Gindro, tali problemi inducono gli adulti “ad espropriare gli
adolescenti delle loro fantasie a favore della proprie” e in particolare a considerare gli
adolescenti come adulti “imperfetti”, in via di costruzione, ciò che rischia di misconoscere
la legittimità del loro essere al mondo così come sono oggi: “È vero che ogni adolescente
sarà l’uomo maturo e adulto di domani (o almeno si spera) però io penso che prima di tutto
il giovane debba essere rispettato nella dignità del suo stato specifico, consentendogli di
realizzare le esigenze esistenziali che lo caratterizzano nel suo presente e non solo in
prospettiva di quello che sarà il suo futuro” (Gindro S., 1993).
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Troppo spesso sentiamo ripetere dagli amministratori delle politiche sociali che gli
adolescenti sono importanti perché “sono gli adulti di domani”.
E oggi loro esistono?
Gli adolescenti devono fare in fretta a divenire quello che ancora non sono ma che
sicuramente sono “condannati” a divenire: adulti.
Nella psiche degli adulti l’adolescenza è percepita spesso con invidia. Si vede in loro la
possibilità di fare ciò che a noi non è riuscito, il possesso di un tempo lungo davanti, un
aureo futuro al quale noi abbiamo dovuto rinunciare. Si guarda lui/lei e si pensa a noi, a
quello che non siamo diventati. E ancora, troppo spesso gli adulti descrivono quei loro anni
dell’adolescenza come felici e spensierati, cercando di non ricordare quanto invece siano
stati difficili. Si proietta nella propria adolescenza qualcosa che non vi è stata, ma che ora
preferiremmo pensare del nostro passato, come “paradiso perduto”.
L’adolescenza ha quindi un potere mitopoietico che attira su di sé caratteristiche che
talvolta sono distanti dalla realtà di quell’esperienza concreta.
C’è poi un altro aspetto perturbante dell’adolescenza: loro sono belli. L’ideale di bellezza
della nostra cultura, il nostro canone estetico, riproduce più o meno il corpo di un/una
adolescente. Dalla scandalosa Lolita di Nabokov ai sensuali ragazzini di Caravaggio è il
loro corpo che si fa portatore di una sensuosa attrattività che facciamo fatica a riconoscere
in noi.
Quindi non bisogna lasciarsi andare lungo il piano inclinato che ci porta a stigmatizzare
l’adolescenza come momento di disordine da guarire, e l’adolescente come soggetto da
normalizzare.
Questa deriva molto pericolosa emerge spesso riguardo all’impatto sull’opinione pubblica
che hanno di solito gli studi sugli health risk behaviors, quando si deve parlare
dell’adolescenza come popolazione “a rischio”. La stigmatizzazione degli adolescenti come
popolazione portatrice di problemi tout court produce sull’opinione pubblica un effetto
peggiorativo e punitivo per quella fascia di popolazione. Una spiegazione di questa deriva
interpretativa, come si diceva più sopra, può essere compresa sulla base di una sorta di
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effetto di rispecchiamento negativo che la figura dell’adolescente produce sulla società
adulta, la quale tende a proiettare su di loro i suoi problemi di violenza-droghe-sessualità
disordinata1.
Dall’altro canto, ciò non deve portarci ad una sorta di indifferente ignoranza riguardo alle
specificità di dramma di questa fase della vita.
Se il malessere c’è, tale malessere va comunque fronteggiato, sia per rendere meno
accidentato il percorso di sviluppo degli adolescenti, sia per impedire che tale malessere si
trasformi in una problematica più complessa, con un esito in vere e proprie forme di
psicopatologia o di devianza cronicizzata.
Ed è fondamentale ricordarsi che, nel giudizio clinico, è straordinariamente difficile con il
soggetto adolescente riuscire a predire uno sviluppo, e porre una diagnosi differenziale tra
ciò che attiene al disagio fisiologico e ciò che invece è prodromo di psicopatologia2.
Va ricordata ancora – a proposito delle rappresentazioni diffuse - un’interpretazione
dell’adolescenza che è presente nella nostra cultura, forse più in quella umanistico-letteraria
e meno in quella scientifica.
Tale interpretazione valorizza, dell’adolescenza, gli elementi più trasgressivi, e, se si vuole,
coglie un’immagine romantica dell’adolescente inteso come portatore di valori positivi,
ribelle nei confronti di un mondo di adulti ormai annientati dalla banalità della vita
quotidiana. In qualche modo l’adolescente come “eroe-poeta maledetto”.
In contrasto con l’immagine dell’adulto svuotato di desideri, fantasie, capacità progettuali,
l’adolescente assume qui il significato di un soggetto propositivo poiché inquieto,
insoddisfatto e perciò stesso dinamico, vitale, in cerca di qualcosa. Il suo andare alla ricerca
si identifica con un atteggiamento produttivo, mentre l’età adulta, con la fine di una serie di
tensioni, appare come introdotta dalle rinunce.
“Adulto” è quindi colui che ha rinunciato alle passioni e alle sfide, chi, nel confronto con i
dati della realtà, ha ceduto il passo alla banalità della vita quotidiana, ai compromessi, in 1 L’IPRS ha svolto una ricerca a livello nazionale dal titolo Il disagio degli adolescenti. Valutare gli interventi, valutare le politiche, commissionata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2006, dove si sottolinea quest’aspetto di rischio nel valutare le politiche di intervento sugli adolescenti (la ricerca è disponibile in: www.iprs.it) 2 Cfr. il saggio di L. Cancrini nel volume
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ultima analisi alla rinuncia esistenziale. Il portato di questa impostazione, agli effetti di una
interpretazione della dialettica disagio/benessere, è che la salute psichica consisterebbe nel
mantenere vivo l’adolescente che alberga in ognuno di noi, con le sue imprevedibilità, i
suoi sbalzi d’umore, la sua instabilità, le sue passioni brevi ed intense. Paradossalmente,
sarebbe quindi “sano” chi si rifiuta di crescere, di omologarsi, colui che riesce a mantenersi
in una condizione di “eterno adolescente”3.
Tale interpretazione, che inevitabilmente appare come estremistica sotto alcuni aspetti, ha
comunque in sé qualcosa di genuino, se non altro riguardo a quell’idealizzazione
dell’adolescente che fa parte della nostra cultura, e di cui essa ha bisogno per sopravvivere.
Ma questa immagine dell’adolescente come “eroe-poeta maledetto” si scontra con
l’evidenza della realtà esistenziale concreta e quotidiana di molti giovani di oggi – e forse
di sempre – caratterizzata da modelli e stili di vita assolutamente conformisti, passivi,
consumistici, omologati verso il basso, senza alcuna originalità o eroismo. Secondo questa
lettura – opposta alla precedente – gli adolescenti sarebbero la popolazione più esposta a
quella sorta di “inquinamento consumistico” diffuso, generalizzato e inconsapevole, che li
ha resi “consumatori di merce” e non persone in grado di autodeterminarsi (cfr. Laffi S.
2000, 2003).
La dialettica tra questi due opposti ed estremi modi di rappresentare l’adolescente – da una
parte eroicamente attivo e dall’altra passivo consumatore di merci - circoscrive un’area di
riflessione che ci offre lo stimolo per non ridurre eccessivamente una realtà complessa
quale è la condizione adolescenziale4.
1.3 L’adolescente e la psicoanalisi
Ma torniamo alla domanda posta dal titolo, secondo una lettura più scientifica: cosa vuol
dire adolescenza?
3 Nel contributo clinico di G. Monniello, presente nel volume, si descrive la dialettica di transfert/controtransfert tra terapeuta e adolescente, proponendo la capacità da parte dell’analista di recuperare introspettivamente il proprio essere stato adolescente come dato significativo per la cura. 4Molto gli psicoanalisti si sono occupati dei rischi di estraneamento, omologazione, perdita di senso del soggetto di fronte ai compiti “evolutivi”, di confronto con la realtà oggettiva senza la rinuncia a quell’ “appercezione creativa” che deve caratterizzare un rapporto benefico con il reale. In sintesi, della “patologia normotica”, come la definisce Bollas. Cfr. Bollas C., L’ombra dell’oggetto, Borla 1999; Gindro S., Luci ed ombre sul progetto di uomo in L’adolescenza. Gli anni difficili. cit.
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È doveroso dare la priorità alla riflessione psicoanalitica sull’adolescenza, in quanto ci
sembra che proprio il concetto di “adolescenza” abbia molto risentito delle influenze
interpretative apportate dagli psicoanalisti - da Sigmund Freud in poi5 - fin quasi a
costituirne il concetto stesso nell’accezione moderna che tutti noi utilizziamo.
Nel “dopo Freud”, la psicoanalisi si è orientata - con Anna Freud (1958), E. Erikson (1968),
e quindi con Peter Blos (1988) e i due Laufer (1986) - verso il riconoscimento
dell’adolescenza come tappa evolutiva fondamentale nella costituzione della personalità
umana.
Cercando di evitare gli aspetti di tecnicismo estremo di alcuna psicoanalisi, e quindi con il
rischio di ridurre la complessità del pensiero psicoanalitico, mi sembra di poter identificare
un elemento caratterizzante la condizione adolescenziale: il corpo e le trasformazioni delle
sue funzioni. C’è, in adolescenza, la necessità di integrare nell’immagine di sé il corpo, che
non è solo il corpo sessuato, ma è anche il corpo come strumento spaziale di misurazione
del reale, come mezzo di espressione simbolica, come oggetto di investimenti narcisistici,
come possibile strumento di offesa: il corpo come luogo dell’identità.
Aspetti che, seppur non tutti direttamente sessuali, vi sono strettamente connessi.
Massimo Recalcati, a proposito del ”farsi corpo dell’adolescente”, scrive: “E’ infatti
proprio a livello del corpo che si traccia la prima e più impressionante scansione tra
adolescenza e infanzia. L’adolescente assiste al vivo del proprio processo di trasformazione
corporea, allo svilupparsi del corpo e degli organi genitali” (Recalcati M., 2003).
La sessualità, non a caso, è da sempre stata considerata come un’area problematica dell’età
adolescenziale. Eppure, è assolutamente un infingimento - dopo la teorizzazione di
Sigmund Freud a proposito dell’evoluzione psico-sessuale del bambino (Freud S., 1905) -
l’identificazione dell’adolescenza come momento di “nascita” della sessualità, sia in senso
biologico sia psicologico. È però senza dubbio vero che questo periodo della vita è
caratterizzato dal riconoscimento sociale e culturale del corpo sessuato.
Se, nell’opinione corrente, si tende a considerare la sessualità come assente nella vita di un
bimbo di cinque anni, questo certo non accade in quella di un sedicenne. La sessualità, dalla
5 Per brevità non posso qui sintetizzare la teoria freudiana sulla Sexualtheorie, ma la do per scontata.
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pubertà in poi (pubes, i peli del pube) si manifesta come fenomeno evidente, e, cosa ancor
più significativa, socialmente riconosciuto.
Raffaele Bracalenti così scrive: “Gran parte del tumulto emotivo che si riscontra in
adolescenza non è da porre, allora, in relazione alla necessità di trovare oggetti d’amore
diversi da quelli parentali, e neppure alla possibilità di mettere in atto gesti esplicitamente
sessuali - poiché entrambe le cose fanno parte del ricco bagaglio d’esperienze del bambino
- ma al diritto socialmente acquisito di potersi innamorare e di poter ‘fare l’amore’. Il diritto
acquisito diviene infatti anche un dovere, ma la sessualità esplicita ed esibita turba e
spaventa” (Bracalenti R. 1993) .
Questo breve accenno ad un tema che andrebbe sviluppato con ben più spazio, ci serve ad
evidenziare l’importanza della sessualità adolescenziale, come area di esperienza in
trasformazione, in questo passaggio verso la sessualità adulta - con le concessioni e le
limitazioni che la caratterizzano - che sicuramente assorbe su di sé una grossa fetta di
quello che è definito normalmente il compito evolutivo dell’adolescente. E sicuramente la
sessualità è, anche, catalizzatrice di una grossa fetta di quello che è considerato il disagio
della crescita adolescenziale.
Poi c’è la questione dell’adolescenza come lutto da elaborare: secondo questa prospettiva, il
lavoro dell’adolescente consiste nell’imparare a fare a meno degli “oggetti mentali”
infantili, dai quali deve imparare a distaccarsi, rinunciando perciò alla propria infanzia. Ma
questo tema ci porterebbe troppo lontano.
2. Cosa vuol dire adolescenza “liquida”?
Ci troviamo in un’epoca in cui i teorici del divenire sociale – che siano sociologi, filosofi,
storici o quant’altro - ci vanno segnalando un cambiamento di paradigma nella costituzione
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delle soggettività, sia individuali sia collettive, che spesso viene definito attraverso la
contrapposizione tra i termini “moderno” e “post-moderno”6.
Nel panorama delle varie teorie critiche che in qualche modo fanno riferimento alla
descrizione post-moderna dell’attuale condizione sociale e umana - senza entrare nel merito
della loro pregnanza - abbiamo fatto nostra la metafora della “liquidità” ripresa da Zygmunt
Bauman7, e l’abbiamo accostata all’adolescenza. Vediamo perché.
Il sociologo ha paragonato il concetto di modernità e post-modernità rispettivamente allo
stato “solido” e “liquido” della società. Secondo Bauman, nella modernità la morale è la
regolazione coercitiva dell’agire sociale attraverso la proposta di valori o leggi universali a
cui nessun uomo ragionevole (la razionalità è caratteristica della modernità) può sottrarsi.
Non si può invece parlare di un’unica morale post-moderna, perché la fine delle “grandi
narrazioni” del Novecento, cioè le ideologie, ha reso impossibile la pretesa di verità
assolute, e quindi ci troviamo in uno scenario abitato da tante morali coesistenti8. Da qui
deriva la metafora della “liquidità”, contrapposta all’organizzazione sociale che si
costituisce attraverso principi di valore saldi e solidi. L’uomo post-moderno è orfano di una
morale – di un contenitore collettivo e quindi di un codice di comportamento sociale –
assoluto e unico. L’incertezza è l’aspetto che lo caratterizza.
A noi è sembrato, leggendo Bauman, che la descrizione di soggetto che egli ci proponeva
aderisse esattamente alla condizione degli adolescenti. Ci è sembrato che essi fossero il
campione sociologico più indicativo del processo di trasformazione in atto.
La condizione adolescenziale, per le sue caratteristiche intrinseche di vitalità e precarietà,
segnala con intensità particolarmente evidente l’impatto che le trasformazioni socio-
culturali producono sui soggetti, e l’adolescenza diviene in questo scenario la popolazione
target per poter indagare gli sviluppi sociali futuri nella sua totalità, quindi una sorta di
indicatore di “disagio della modernità”.
6 U. Beck parla di “seconda modernità”, in un’accezione simile. 7 Della sconfinata attività editoriale di Z. Bauman segnaliamo: Paura liquida, Laterza 2008; Vita liquida, Laterza 2008; Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza 2007; Il disagio della modernità, B. Mondatori 2007; Amore liquido, Laterza 2006; Modernità liquida, Laterza 2003. 8 M. Recalcati, in Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri 2007, propone una lettura di una nuova forma di rischio totalitario, di tipo “post-ideologico”, come conseguenza della crisi delle c.d. ideologie.
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La crisi riguardo alla certezza e solidità degli organizzatori sociali e identitari ci è sembrato
quindi che definisse la condizione adolescenziale.
Plebani vede il problema della costruzione dell’identità giovanile come strettamente
correlato al momento storico-culturale in cui viene preso in considerazione. Nell’epoca
post-moderna, in cui entrano in crisi i fondamenti di verità tradizionali, in cui la realtà
assume un insopprimibile carattere di contingenza, mentre nel contempo viene offerta una
eccedenza di opportunità, emergono forme inedite di individuazione e identificazione, con
un grande cambiamento nella sfera dell’etica (Plebani T., 2003).
Silvia Vegetti Finzi e Anna Maria Battistin (2000) vedono appunto nell’incertezza il
termine che meglio definisce questo periodo di vita: incerto il modo d’agire degli
adolescenti, incerti i ruoli genitoriali, incerti i valori di riferimento, incerti i confini
temporali dell’adolescenza, incerta anche la chiave di lettura psicologica possibile.
Il venir meno di certezze consolidate, se da una parte ha determinato un accrescimento del
senso di precarietà dell’individuo, dall’altra ha trasformato il campo delle sue appartenenze,
non più caratterizzato dall’esclusività, ma dalla pluralità e dalla mobilità.
Ciò vale sia per le appartenenze della sfera privata sia per quelle della sfera sociale.
Vediamo di elencarne sinteticamente alcuni aspetti, cercando di raggruppare le varie
caratteristiche del mondo adolescenziale all’interno di “contenitori” fenomenologici.
2.1. Gli affetti e le passioni
L’adolescenza, si è detto, è zona di frontiera, tra l’infanzia e l’età adulta. Questa scansione
ci porta a rappresentare l’adolescente in un’interzona affettiva tra la famiglia di origine, che
è il luogo affettivo dell’infanzia, e la costruzione di un universo affettivo autonomo, ciò che
- nelle sue molteplici e variabili forme – caratterizza la vita adulta.
Vediamo come la modernità liquida articola questi due scenari.
Si pensi alla provvisorietà della famiglia contemporanea, così frequentemente segnata da
separazioni, divorzi, ricostituzioni, e alla conseguente rarefazione/trasformazione della
funzione genitoriale. Se fino a qualche generazione fa si aveva la quasi certezza di nascere
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in una famiglia abitata da un padre e una madre, e di ritrovarsi con gli stessi genitori, nella
stessa famiglia, a 16 anni, ora le percentuali di adolescenti che vivono in una famiglia
“monoparentale”, “ricostruita”, “allargata” ad altri soggetti non legati da vincoli “di
sangue” sono drammaticamente aumentate9.
Ciò, ovviamente, non segnala soltanto aspetti di degrado riguardo all’istituzione familiare -
visto che litigi e disordini tra genitori non sono certo una novità degli ultimi anni -. Si può
dire che dagli anni ’70 in Italia, con la legge sul divorzio, si è inaugurata una stagione in cui
i conflitti familiari hanno avuto più spazio per la mediazione, per la condivisione di ciò che
rimane comune (i figli!), per la costruzione di nuovi contesti familiari in grado - talvolta -
di portare benessere anche ai figli10. Ma è pur vero che le ultime generazioni di adolescenti
segnalano le contraddizioni inaugurate in una stagione iniziata forse prima di trenta anni fa.
Gregory Bateson diceva che “per fare uno schizofrenico ci vogliono tre generazioni”. Qui
potremmo dire che - mutatis mutandis – per fare un adolescente “liquido” ce ne vogliono
per lo meno due.
Per gli adolescenti contemporanei, quindi, la famiglia è qualcosa di incerto e spesso mobile.
Ci può essere oggi e domani non più. E se è vero che gli esseri umani si costituiscono anche
a partire dalle dinamiche emozionali e affettive che si instaurano all’interno del triangolo
familiare - come ci insegna Sigmund Freud -, ciò non può non generare delle profonde
trasformazioni nella soggettività di questi individui.
Tra l’altro, all’interno delle cosiddette “nuove famiglie” si assiste a trasformazioni radicali
dei ruoli svolti al suo interno dai vari soggetti in gioco e, in particolare, i ruoli genitoriali
materno/paterno hanno subito straordinarie modificazioni nella loro struttura11.
Per ciò che riguarda l’esercizio degli affetti fuori dalla famiglia, gli adolescenti
contemporanei si caratterizzano per ciò che è definita la liberalizzazione e moltiplicazione
delle esperienze affettivo-sessuali. Se da un lato ciò corrisponde a verità per molti di loro,
ed è innegabile lo “sdoganamento” culturale che la nostra società ha prodotto sulla liceità 9 Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si interrogano gli insegnanti delle scuole medie, inferiori e superiori, che spessissimo segnalano la “rarefazione” familiare e i disordini conseguenti nel rendimento dei figli. Sul fenomeno dei “drop-out” l’IPRS porta avanti da tempo un’attività di ricerca e intervento. 10 Nel caso clinico descritto da Pietro De Santis, presente nel volume, si esemplifica una descrizione di realtà genitoriale “ricostruita”, osservata dal vertice della psicoterapia del figlio. 11 Nel convegno che l’IPRS organizza a Roma il 23-24 maggio 2008, dal titolo Il complesso del piccolo Hans. Quali cambiamenti nelle costellazioni edipiche contemporanee? Si tratterà appunto di questi temi.
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dei rapporti sessuali e affettivi in età adolescenziale, dall’altro ciò non è sempre vero. E,
comunque, si assiste spesso ad un effetto apparentemente paradossale di “miseria”
affettivo-sessuale in un contesto sociale e culturale che dovrebbe garantire una ricchezza di
relazioni. Questo aspetto lo potremo forse spiegare nel paragrafi successivi.
2.2. I media elettronici e la solitudine
Un aspetto del disagio giovanile è, con apparente paradosso, la conseguenza del benessere
socio-economico acquisito. La modernizzazione della società, e in particolare l’avvento
delle nuove tecnologie – internet, video-giochi, chat, blog, telefoni cellulari,
moltiplicazione dei canali tv, ecc. – ha modificato le abitudini e gli stili di vita degli
adolescenti in modo straordinariamente evidente.
L’influenza esercitata dai mass-media e dalla comunicazione tecnologica, che ha introdotto
la presenza virtuale dell’altro, sta producendo delle modificazioni nella rappresentazione
cognitiva ed affettiva dello spazio relazionale.
Gli adolescenti del 2000 sono a pieno titolo la prima generazione che è stata culturalmente
“nutrita” fin dalla nascita con media elettronici. Talvolta questi media hanno avuto una
funzione di protesi per compensare un vuoto di relazione: basti pensare al bambino o al
ragazzino lasciato solo in casa, mentre gli adulti sono al lavoro, davanti alla tv o alla play
station.
Si badi bene, qui non si vuole sostenere che i media elettronici sono la causa del disagio.
Tutt’altro, visto che essi strutturalmente si offrono come strumenti di facilitazione e
ampliamento della comunicazione e quindi delle possibilità di relazione. Ci riferiamo ad un
uso che spesso si fa di essi, che va a modificare e strutturare una miseria relazionale che
viene da altrove, da altre cause.
Comunque, i media elettronici abitano a tal punto la vita quotidiana degli adolescenti – a
differenza degli adulti che ne fanno un uso strumentale e parziale - fino a permetterci di
pensare che la loro cognizione del mondo, la loro percezione dello spazio esistenziale e
relazionale, ha subito delle modificazioni profonde. I ragazzi d’oggi, anche per questo,
sono diversi da noi.
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Certamente le competenze di uso di uno strumento elettronico che un ragazzo ha sono di
solito superiori a quelle che ne ha un suo genitore. E questa ignoranza da parte degli adulti
spesso crea un gap, una non comunicazione tra le generazioni.
Si può dire comunque che esistono due categorie di adolescenti: quelli che hanno molti
strumenti emotivo-affettivi per vivere nel mondo della complessità mediata dall’elettronica,
e quelli che ne hanno pochi.
Questi ultimi sono poco capaci di organizzare la propria autonomia, il proprio quotidiano, i
propri affetti nel momento dell’incontro con l’altro. In qualche modo celano le loro
difficoltà di incontro e confronto con la realtà attraverso la mediazione elettronica. Quelli
che hanno meno strumenti per interagire con la complessità, subiscono una difficoltà ad
aderire ad una dimensione profonda, con un conseguente appiattimento sui modelli dei
media. Coloro che hanno più strumenti, si rappresentano un presente allargato, fatto anche
di presenze virtuali.
In adolescenza uno dei primi segni - dei prodromi, si potrebbe dire - di chiusura al mondo,
di ritiro dalle relazioni, è spesso manifestato da un’ipertrofia e moltiplicazione delle
interazioni virtuali. Più tardi la famiglia si accorgerà che “qualcosa non va”, che il ragazzo
“va male a scuola”, che “non esce più con gli amici”, che “da mesi non ha più la ragazza”,
che “la sera torna a casa stravolto”.
Si copre il ritiro attraverso un’apparente ricchezza e molteplicità di comunicazioni mediate,
filtrate.
L’assenza del carattere direttamente esperienziale della vita, e del suo aspetto relazionale in
particolare, talvolta quasi soltanto ridotto al virtuale, produce profonde esperienze di
solitudine.
“Tranne lo sport, quasi tutti gli altri interessi sono coltivati solo virtualmente”, così ci
raccontava un operatore di Cagliari degli adolescenti “normalissimi” con i quali si trovava
ad interagire.
“L’associazionismo giovanile si può oggi ricondurre e ridurre al mondo delle chat, dei blog
e dei forum su internet, che sono i luoghi virtuali di incontro in cui i ragazzi si confrontano
e si aggregano sulla base di interessi comuni”, questo lo abbiamo sentito a Bergamo.
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“Le competenze di interazione che gli strumenti tecnologici offrono, si manifestano come
inefficaci nel momento dell’incontro, dello scambio. Oggi i giovani sono più competenti in
tanti campi, però sempre dal punto di vista individuale. Il disagio è poi: ‘dove spendo
queste cose, con chi e come?’ Non sanno relazionarsi a due, si difendono e si confondono
nel gruppo, non hanno parole per dire…”, così ci hanno detto a L’Aquila.
“Vi è una forma di disagio meno visibile: le grandi solitudini dei ragazzi che vivono in una
dimensione povera di relazioni. È la povertà dei significati che porta ad un appiattimento
sul versante dei consumi. Assistiamo ad una sorta di analfabetismo emotivo-affettivo: la
mancanza di codici con cui riconoscere e gestire le emozioni/affetti”, così a Bergamo12.
La mancanza negli adolescenti di strumenti per relazionarsi, arriva quindi a far parlare gli
operatori di una sorta di assenza di strumenti linguistici e cognitivo-affettivi.
La molteplicità delle opzioni di comunicazione si scontra con la riduzione al virtuale
dell’altro, in una sorta di “protesi” della presenza con nuove forme di esperienza della
solitudine. Se è vero che il medium elettronico fattualmente facilita e avvicina l’altro nel
suo essere prodromo di un incontro reale con l’altro, l’abuso consumistico del medium –
così presente negli stili di vita adolescenziali - produce l’illusione della condivisione, la
feticizzazione dell’incontro, la moltiplicazione all’infinito degli incontri fino alla sincope
della solitudine parlante di fronte ad uno screen.
In questo senso i media elettronici - che strutturalmente sono definibili come facilitatori di
relazione - in alcune situazioni di disordine o impossibilità di relazione, possono indurre
una specifica sindrome di protesizzazione della presenza illusoria, e così far cronicizzate
l’esperienza di solitudine.
Le competenze di interazione che gli strumenti tecnologici offrono, se non ben integrate
con le altre, si manifestano come inefficaci nel momento dell’incontro, dello scambio vis a
vis. A queste competenze si associa una non competenza rispetto alla dimensione emotiva.
Assistiamo quindi ad una sorta di incapacità a riconoscere la presenza dell’altro con un
rischio che alcuni autori definiscono di deumanizzazione dell’universo relazionale (cfr.
Semi A.A., 2006).
12 I brani sono tratti da Il disagio degli adolescenti. Valutare gli interventi, valutare le politiche, ricerca a livello nazionale che l’IPRS ha svolto su commissione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2006 (la ricerca è disponibile in: www.iprs.it).
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Citando Levinas (1987), verrebbe da dire che l’assenza dello “sguardo nudo dell’altro”
introduce ad un’esperienza di perdita di senso. Ciò implica una tendenza all’inazione e
quindi una difficoltà nell’attivarsi in situazioni concrete di impatto con il reale.
In questo scenario - forse descritto con toni un po’ troppo drammatici - possiamo collocare
quella che abbiamo definito la miseria affettivo-sessuale di alcuni adolescenti
contemporanei.
Questa non competenza all’esercizio degli affetti e delle emozioni - che, lo ripetiamo, non è
generata dai media elettronici, ma ne è influenzata – non può non sortire degli effetti su
quell’area così importante per essi che è l’identità di genere, la sessualità, il
corteggiamento, il godimento sessuale, l’innamoramento.
Talvolta - ma non sempre, per fortuna - i racconti che gli adolescenti ci fanno della loro vita
manifestano una assenza di fatto di relazioni, oppure, talaltra, una costellazione di episodi
di corteggiamento, spesso coronati da successo, fino alle “scopate”, ma che vengono
raccontati senza partecipazione emotiva, senza spessore affettivo, in forma straniata.
Le esperienze - e qui ci sforziamo di non separare ciò che riguarda la sessualità da ciò che
attiene al mondo degli affetti – scivolano addosso senza lasciare segni, anche quando
impegnano i soggetti per un tempo lungo. Tutto è ridotto a “quotidianità” banalizzata.
Torniamo quindi alle esperienze di incontro con l’altro ridotte a piacere da consumare, e
questo fenomeno di miseria ci fa tornare alla mente la mancanza di codici affettivi in grado
di dare spessore al vivere.
E’ certo giusto interrogarsi sulle cause che generano queste realtà, ma, inevitabilmente,
questo discorso straordinariamente complesso ci porterebbe molto oltre i limiti che ci siamo
posti.
2.3. La presentificazione del tempo vissuto
Altro aspetto fondamentale è la relazione esistente tra adolescenza e possibilità sociali di
accesso all’universo adulto. Anche a livello statistico, gli indici riferibili all’adolescenza
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spesso devono esplorare una fascia d’età che giunge ben oltre i 25 anni, quindi molto oltre
quei 18 anni che un tempo formalizzavano la maggiore età, l’entrata nel mondo adulto.
La condizione di insicurezza e indeterminatezza nei confronti del futuro è aspetto che
caratterizza le nuove generazioni anche riguardo all’entrata nel mondo del lavoro e alla
realizzazione di un progetto di vita familiare autonoma.
Oggi l’esigenza principale del sistema produttivo e del mercato del lavoro è quella della
flessibilità: l’aspettativa è quella di una vita lavorativa in cui ci si troverà a più riprese nella
condizione di dover ridefinire il proprio status occupazionale e, di conseguenza, a
riconvertire saperi e prassi professionalizzanti.
L’impossibilità di prevedere un percorso lavorativo non precario, l’imprevedibilità del
proprio futuro economico, la necessità di attrezzarsi ad un’identità lavorativa multiforme,
plastica, cangiante, non può non produrre degli ovvi effetti sulla solidità identitaria.
È questa una dilazione forzata che l’organizzazione societaria impone, che prolunga in
modo talvolta paradossale il tempo dell’adolescenza, fino a far sfumare i limiti di ciò che è
chiamata “post-adolescenza”, e determinando realtà esistenziali a rischio di disagio.
La dilatazione parossistica della durata dell’adolescenza è un segnale chiaro in questa
direzione: la società si sta adolescentizzando. Se, da una parte, l’estinzione dei “riti di
passaggio” di cui ci ha parlato Van Gennep (1909) determina una impossibilità a
formalizzare un suo superamento, dall’altra, l’adolescenza - con i suoi doveri di
acquisizione di un’identità sufficientemente solida, di una capacità di fronteggiare i compiti
e i ruoli sociali che caratterizzano la vita dell’adulto (un lavoro, una famiglia), di
consolidamento di un’identità di genere maschile/femminile – diviene appunto una mission
impossibile, e il soggetto non può che aggrapparsi ad una fantasia di “eterna giovinezza”,
procrastinando all’infinito l’uscita da questa fase di vita.
Il dato d’ordine sociale-economico dovrà essere allora considerato non soltanto attraverso
la valutazione dell’offerta che il mondo del lavoro propone nei vari contesti, ma anche
attraverso la capacità di contenimento che le istituzioni tradizionali - famiglia e scuola -
offrono in vista di un approdo futuro.
Come dire che, più che la ricchezza delle offerte lavorative che il territorio propone, si
dovrebbe andare a sondare la funzione di “contenitore a lungo termine” di famiglia e
scuola.
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Tale prospettiva ci è confermata anche dalle indagini che lo IARD svolge regolarmente
sulla condizione giovanile in Italia13. A proposito del lungo permanere dei giovani in
famiglia, emerge che, più che difficoltà di affrancamento dalla famiglia di origine, vi sono
determinanti di tipo culturale che inibiscono tale scelta anche quando questa risultasse
possibile: “Ci troviamo dunque di fronte a dei giovani che non si attivano certamente per
velocizzare i processi di transizione; la tendenza in atto sembrerebbe quella di ‘scegliere’
piuttosto che ‘subire’ la permanenza in famiglia” (Buzzi C. e coll. 2002).
Verrebbe quindi da chiedersi se è vero che i “bamboccioni” esistono, e - se la risposta è sì -
se ciò è da riferire casualmente alla smidollatezza degli stessi, oppure ad un dato
sociale/culturale/economico che passa sopra la testa dei bamboccioni e dei loro genitori.
La domanda da porsi è: questi cambiamenti del ciclo vitale intervenuti “fuori”, nella
struttura sociale, quali modificazioni possono produrre “nella testa” degli adolescenti?
Come si rappresentano essi il fluire della loro esistenza?
A proposito di rappresentazione del tempo vissuto nei giovani contemporanei, molti ormai
sono gli autori che - da prospettive varie, con strumenti di analisi molteplici e applicazioni a
contesti diversi - identificano una sorta di denominatore comune riferito alla modificazione
indotta riguardo all’orientamento temporale.
Ci si trova di fronte ad una sorta di emergenza innovativa che sta producendo
trasformazioni in atto nel sottofondo della collettività, che ancora non è oggetto di
attenzione e che bisogna far emergere per darle senso e renderla gestibile14.
Alessandro Cavalli, che da tempo studia il fenomeno, sottolinea come per le nuove
generazioni non sembra esservi nessun elemento di continuità fra passato, presente e futuro,
alcun rilievo da un lato per la dimensione del ricordo, dall’altro lato per quella della
progettualità e delle aspettative: “nei giovani l’assenza di una concezione strutturata del
tempo e della progettualità a medio-lungo termine è legata al desiderio di non restringere
con scelte troppo precoci l’orizzonte dei futuri possibili (…) in altri l’assenza di questa 13 R. Grassi, nel saggio presente nel volume, ci presenta una sintesi del nuovo rapporto IARD 2007. 14 E’ pregevole il lavoro di riflessione “a tutto campo” prodotto in: G. Ardrizzo, a cura di, L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Meltemi 2003.
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concezione del tempo è legata ad una forma di carassi, o debolezza della volontà, che
inibisce la capacità di compiere scelte” (Cavalli A., 1980).
Un tratto significativo della cultura giovanile della nostra epoca è quello indicato da Cavalli
come “destrutturazione temporale”, tipico di quei giovani che esitano di fronte alle scelte
che rischiano di diventare irreversibili. “Questi giovani non sono incapaci di scegliere, ma
pensano che ogni scelta (di formazione o di lavoro) debba essere considerata provvisoria
finché non si saranno sondate adeguatamente le proprie preferenze e predisposizioni e
finché non si saranno esaminate con cura tutte le opportunità che la realtà esterna sembra
offrire. Rinviare le scelte vuol dire in questo caso non precludersi delle possibilità che in
seguito si potrebbero rimpiangere” (Cavalli A., 2001).
Connesso alla destrutturazione temporale è un altro tratto caratteristico della cultura
giovanile attuale, comunemente designato come “presentificazione”: presentificazione
come negazione del futuro e del passato (o comunque come enfatizzazione della
dimensione del presente), come “tentativo di arricchire il presente di significatività per sé”
(Cavalli A., 1985).
In un lavoro successivo, lo stesso autore definisce ulteriormente la presentificazione come
“l’atteggiamento di chi vuole sentirsi ‘privo di vincoli’, quindi libero di agire in base alle
preferenze del momento e alla contingenza della situazione (…) Non viene rivendicata
nessuna coerenza nel tempo, anzi, al contrario, il soggetto non vuole sentirsi vincolato
neppure dalle scelte che egli stesso ha compiuto in passato. L’identità del soggetto resta in
tal modo aperta, ma anche labile perché non prevede una continuità che leghi in qualche
modo passato, presente e futuro; la dimensione temporale dominante è quella del presente e
il tempo si definisce soltanto come una successione di presenti discreti, non connessi tra
loro” (Cavalli A., 1980).
Cavalli sottolinea dunque come la presentificazione, intesa come tratto caratteristico della
cultura giovanile dominante, contribuisca ad una labilità della struttura identitaria. Ciò ci
porta a riflettere sui processi di costruzione dell’identità tipici della società in cui viviamo, e
in particolare di quei soggetti che appartengono alle ultime generazioni.
“La prospettiva temporale, intesa come qualità dello spazio di vita inerente il passato di un
individuo, il suo presente e futuro psicologici a un momento dato, riassume in sé tutte le
caratteristiche dell’esperienza temporale, secondo differenti livelli di realtà. Essa
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costituisce, dunque, un quadro di riferimento per diverse decisioni comportamentali, che si
specifica e si differenzia nel corso dello sviluppo del soggetto rendendolo in grado di
apprezzare tutte le sue possibilità di azione oltre i vincoli posti dalla situazione attuale (…)
Parlare di prospettiva temporale significa fare riferimento al processo di formazione dei
progetti e dei fini, che in parte si strutturano in base ad esigenze individuali e in parte sono
dettati dagli obiettivi che la struttura sociale in cui si incanalano i progetti costitutivi di quel
piano di vita propone ed obbliga a proporsi sotto forma di motivazione” (Ricci Bitti P. e
coll., 1985).
Per molto tempo la cultura occidentale ha premiato una prospettiva temporale di tipo
protentivo, vale a dire che la tendenza a proiettare i propri obiettivi in tempi lunghi
costituisce l’esito delle comuni tecniche di socializzazione. Ma qualcosa sta cambiando, e
questa destrutturazione temporale, la perdita di una progettualità a medio-lungo termine, la
presentificazione come negazione del futuro e del passato, non possono non far pensare a
qualcosa di preoccupante riguardo ai meccanismi di costituzione di quella cosa che
chiamiamo “identità”.
La destrutturazione temporale - connessa geneticamente alla modificazioni intervenute
nella società - può quindi essere letta come una sorta di meccanismo difensivo che i giovani
hanno prodotto su se stessi per poter operare un accettabile adattamento – in senso
darwiniano - ad un ambiente sociale modificato.
Se è vero che “identità” è la continuità dell’Io, la percezione continuativa del proprio essere
se stessi inseriti in un contesto sociale e forniti di un senso esistenziale, con l’identità
patchwork o flessibile o liquida i giovani d’oggi sono alla ricerca di una loro coerenza
esistenziale.
Si può allora dire che la frammentazione/liquidità dell’identità e la destrutturazione del
tempo giovanile sono due aspetti di un unico fenomeno che ha profondissime radici sociali.
Questi aspetti del tempo vissuto negli adolescenti, come è ovvio, hanno una ricaduta sulla
rappresentazione della loro vita emozionale-affettiva, sui due versanti che delimitano
l’adolescenza come frontiera tra la famiglia d’origine e l’universo affettivo autonomo in
costruzione.
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Di questa derivazione i sociologi non possono occuparsi. E’ affare che riguarda gli
operatori psi.
Si parlava precedentemente della cognizione che essi hanno della famiglia come
organizzazione affettiva “provvisoria”, inaffidabile nella sua continuità. Il loro meccanismo
di difesa, allora, è appunto la presentificazione: oggi c’è, domani forse no, tanto vale non
rappresentarsi un futuro possibile.
La famiglia è luogo insignificante come modello da tentare di riprodurre nel proprio futuro.
Ma comunque, quando è “inevitabile”, sarà riprodotta pedissequamente e in un modo
qualunque. Non vi è la possibilità di produrre una sua vitalizzazione innovativa.
A proposito degli affetti “fuori” dalla famiglia, si parlava della liberalizzazione e
moltiplicazione delle esperienze affettivo-sessuali. Non è certo nostra l’associazione
mentale tra pluralità e superficialità delle relazioni come conseguenza logica inevitabile.
Eppure, nei racconti degli adolescenti, non si può non riconoscere una “miseria” che,
quando non riguarda la quantità delle relazioni, ha a che fare con qualcosa che è la loro
qualità. Anche in questo scenario la presentificazione si manifesta come riduzione dello
spessore emozionale, con minore attesa passionale, impossibilità a rappresentarsi una sua
ricchezza.
Ma, per fortuna nostra, non è sempre così. Esistono anche adolescenti passionalmente
solidi.
2.4. Le psicopatologie e la loro cura
La psicopatologia, da sempre, segue e si adatta alle trasformazioni che l’organizzazione
societaria e la cultura le impongono, modificando le forme che la caratterizzano. Ne è un
esempio, negli ultimi decenni, l’affermarsi e il diffondersi delle diagnosi di Disturbo
Narcisistico di Personalità (H. Kohut) e di Borderline (O. Kernberg).
Queste forme nosografiche, di derivazione psicoanalitica, hanno una caratteristica specifica:
portano in sé le tematiche e le conflittualità tipiche dell’adolescenza, ad esempio le
dialettiche tra identità e alterità, estendendole alla vita adulta. Si potrebbe dire che sono
“l’altra faccia” dell’adolescentizzazione della società.
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Se un Disturbo Narcisistico/Borderline di Personalità è, per lo meno in parte, fisiologico in
età adolescenziale, esso diviene entità nosologica più avanti15, quando si manifesta
un’impossibilità per il suo tramonto, un impossibile accesso ad una personalità
diversamente strutturata.
In questo senso si può dire che l’adolescenza, come fase della vita “di frontiera”,
contribuisce notevolmente a modificare le forme in cui la psicopatologia si presenta. Essa
ha attratto l’attenzione degli psicopatologi, e specificatamente degli psicoanalisti, fino a
divenire il momento di discrimine tra identità infantile e adulta, tra personalità “sana” e
struttura psicopatologica. E le modificazioni sociali, culturali e quindi identitarie nelle
ultime generazioni hanno prodotto di necessità dei cambiamenti anche nelle forme in cui il
disagio si trasforma in psicopatologia.
I segnali estremi in questo senso possono andare dalla straordinaria prevalenza, tra gli
adolescenti, di casi borderline e di disturbi gravi della personalità, fino ai comportamenti
devianti e dissociali degli adolescenti delle seconde e terze generazioni di immigrati, così
come si sono manifestati ad esempio nelle banlieu parigine.
L’emergere di nuove forme di disagio adolescenziale, non sempre inquadrabili all’interno
delle classiche categorie diagnostiche della psicopatologia, ha imposto un ripensamento
degli interventi rivolti al mondo degli adolescenti, sia sul piano prettamente clinico sia su
quello psico-sociale. Come è ormai riconosciuto da molti, le forme di disagio
adolescenziale richiedono un progetto terapeutico articolato, di rete, sia individuale sia di
accoglimento sociale.
Gli approcci tradizionali agli interventi di prevenzione e di cura si rivelano spesso inefficaci
ad intercettare e ad intervenire sulla nuova realtà del disagio. Molto spesso gli interventi
non sono in grado di riconoscere e far leva sugli aspetti positivi ed evolutivi delle nuove
identità adolescenziali, e vi è una tendenza alla patologizzazione della modificazione socio-
culturale in atto16.
In Italia è in atto un dibattito vivace tra psicologi, psichiatri e psicoterapeuti che ha come
centro il funzionamento – e quindi il senso – delle comunità terapeutiche per i casi
15 L. Cancrini, nell’articolo presente in questo volume, sottolinea questo aspetto. 16 G. Monniello, nell’articolo presente nel volume, affronta appunto il tema dell’istituzione come luogo costruito sulle esigenze dell’adolescente problematico.
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borderline. Ovviamente la maggioranza di utenti sono adolescenti o “giovani adulti”
(eufemismo che si riferisce appunto all’interminabilità dell’adolescenza). La domanda di
senso di queste istituzioni è in qualche modo connessa anche alle modificazioni che si
vanno producendo nelle soggettività degli utenti stessi, come altra faccia della medaglia.
Ribaltando la prospettiva che osserva la relazione tra adolescenza e scienza
sull’adolescenza, si può affermare che, in qualche modo, l’adolescenza ha modificato la
struttura conoscitiva che la ha osservata. Questo è valido specificamente per ciò che
riguarda la lettura che la psicoanalisi ha dato dell’adolescenza.
Le fenomenologie presentate dagli adolescenti - anche, ma non solo da loro - hanno portato
gli osservatori a riconsiderare inizialmente il setting della classica cura psicoanalitica,
obbligando gli analisti ad una sorta di plasticità riguardo al proprio ruolo e al proprio agire;
successivamente a mettere in discussione i presupposti della tecnica e delle teorie di
riferimento. Secondo alcuni la “psicoanalisi dell’adolescenza” ha cambiato il paradigma
classico della psicoanalisi stessa (Pellizzari G.), producendovi una sorta di rivoluzione
epistemologica (Petrella F.).
La psicoanalisi, a partire dalle osservazioni innovative che sortivano dallo studio
dell’adolescenza, ha mostrato così tutta la sua vivacità e plasticità di fronte ai nuovi stimoli,
creando i presupposti per un nuovo modello.
Inoltre, la centralità di questo modello ha posto le basi per una innovazione che non ha
riguardato solo il setting psicoterapeutico, ma che si è estesa anche a setting istituzionali. In
particolare, il contributo della clinica psicoanalitica risulta prezioso a quanti operano nel
campo degli interventi di comunità per la promozione del benessere; interventi che, proprio
perché individuano nei gruppi adolescenziali un target privilegiato, necessitano di
parametri teorici di riferimento che consentano all’operatore di inquadrare correttamente le
complesse dinamiche attivate dal rapporto con l’utenza adolescenziale17.
Verrebbe da avanzare un accostamento “audace” che mette a raffronto due realtà molto
distanti tra loro.
17 Il lavoro pionieristico di A. Novelletto sugli interventi clinici e istituzionali di impostazione psicoanalitica rivolti agli adolescenti è esemplificato nell’articolo di G. Monniello, presente nel volume
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Come le isteriche dei primi del ‘900 hanno imposto a Sigmund Freud l’identificazione di
un paradigma di interpretazione che esulava dagli strumenti della psichiatria di allora –
ovvero il concetto di inconscio e quindi la creazione di un paradigma psicodinamico, che
andava oltre l’organicismo imperante - così, mutatis mutandis, gli adolescenti
contemporanei ci offrono e impongono l’opportunità di una de-costruzione prima del
setting di cura e poi dei presupposti teorici che quel setting informava.
E’ questa un’opportunità di ripensamento sul proprio fare da non tralasciare.
2.5. Identità ”liquida”
Tutte le fenomenologie che abbiamo fin ora descritto, se collegate, possono portare al
riconoscimento di elementi di novità per ciò che riguarda l’identità dei soggetti portatori di
questi fenomeni. Come si diceva all’inizio, sono stati i sociologi a raccogliere gli stimoli di
novità e a descriverli in termini di personalità secondo i loro termini: patchwork, a
palinsesto, post-moderna, liquida.
Noi vorremmo trasferire queste osservazioni sull’area psi, e invitare i clinici, coloro che si
occupano fattualmente di salute, di cura, di presa in carico della sofferenza dei giovani
contemporanei, affinché gli strumenti di intervento divengano più efficaci, più coerenti con
gli “oggetti mentali” che appartengono agli adolescenti d’oggi.
La fluidificazione dell’identità - o della soggettività, se si preferisce -, lungi dall’essere
interpretabile come mera patologia, rappresenta anzi una conditio sine qua non per
l’adattamento alle mutate esigenze sociali. Ma, inevitabilmente, espone i nuovi soggetti a
nuove forme di disagio, e talvolta a forme nosografiche che segnalano questi cambiamenti.
La liquidità non riguarda soltanto l’ordine psicopatologico, ma l’intera struttura socio-
culturale.
Siamo consapevoli che il termine “adolescenza liquida” - nel suo essere una definizione
suggestiva di riflessioni, una descrizione della realtà in trasformazione che ha una validità
euristica – non è strumento risolutivo. La sua efficacia operativa è quella appunto di aprire
un’area di riflessione che può fare luce su zone della soggettività contemporanea che la
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ricerca psicoanalitica fa fatica ad accettare come “indagabili”, come riconoscibili territori
inesplorati. E’ più una definizione per difetto, in quanto non fa riferimento alle possibili
cause che la hanno determinata.
La domanda è: quali sono gli apparati sociali e quindi psichici che hanno determinato
questa liquidità del soggetto?
3. Una postilla metodologica
Le riflessioni qui presentate scaturiscono da una prassi che ha utilizzato - come è nella
tradizione del nostro istituto, l’IPRS di Roma - un duplice strumento d’indagine: la ricerca
psico-sociologica e la riflessione che parte dalla clinica psicoanalitica. L’uso di uno sguardo
“bioculare” – l’occhio sociologico e quello clinico-psicoanalitico – è strumento prezioso per
poter cogliere la tridimensionalità del fenomeno adolescenza contemporanea18.
Lo sguardo sociologico è storicamente attento ai segnali di novità fino, talvolta, a enfatizzarli a
tal punto da “inventare il nuovo che avanza”, fino a costruire fenomenologie che non
appartengono all’ordine del reale.
D’altro canto, è vero talvolta che lo sguardo clinico – per sue caratteristiche strutturali, come ad
esempio il suo operare entro la “torre d’avorio” dello studio psicoanalitico – è strutturalmente
impedito a dismettere le strutture interpretative della realtà che la sua teoria di riferimento gli ha
consegnato, creando così una sorta di allucinazione negativa che gli impedisce di riconoscere gli
aspetti di novità che i soggetti, nella stanza d’analisi, continuano a manifestare senza alcun
effetto sull’ascoltatore.
Grazie ad un lavoro di riformulazione teorica che è stato portato avanti da Sandro Gindro, il
fondatore dell’IPRS, e centrato sul concetto di inconscio sociale (Gindro S., 1993), a noi sembra
di poter vedere la tridimensionalità dei giovani contemporanei, senza lo schiacciamento sia
sociologico sia psicopatologico.
In un recente e stimolante saggio sull’adolescenza contemporanea, dal titolo L’ospite
inquietante, Umberto Galimberti (2007), riprendendo un altro libro sull’adolescenza dal titolo 18 Nel saggio di C. Sandomenico, presente nel volume, si tenta di ricostruire il percorso teorico che ha portato l’IPRS all’identificazione di una metodologia d’indagine in grado di dare comprensione ai fenomeni sociali in atto.
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ancor più suggestivo, L’epoca delle passioni tristi (Benasayag M., Schmit G., 2004), sottolinea
con forza un aspetto: ciò che caratterizza il disagio adolescenziale contemporaneo è il nichilismo
diffuso, ovvero non un fatto riferibile ad una crisi del singolo, magari con evoluzioni nella
psicopatologia, ma una crisi della società, un fatto che riguarda la cultura collettiva e non il
soggetto. Senza dubbio Galimberti, il quale oltre che filosofo attento ai fenomeni sociali è anche
psicoanalista, coglie un aspetto veritiero - la crisi culturale che investe la cognizione del mondo
degli adolescenti - e sottolinea la necessità di rendere consapevoli di questa crisi culturale gli
operatori psi, che rischiano di travisare l’osservato per carenza di strumenti osservativi.
Egli ci dice che essi sono disarmati di fronte al fenomeno culturale. La presa in cura
dell’adolescenza non è affare che può riguardare loro, visto che si tratta di crisi culturale e non
di psicopatologia.
Un punto non ci è chiaro: sembrerebbe che, dalla sua esposizione, un soggetto portatore di un
disagio o di un sintomo psicopatologico - che sia depressione, crisi di panico, comportamento
dissociale, e così via - debba essere considerato o come crisi individuale o come crisi della
cultura in cui il soggetto è accolto.
Non ci è chiaro l’aut/aut.
E’ possibile leggere gli accadimenti di un soggetto singolo senza contestualizzarli in uno
scenario culturale? E’ possibile leggere il senso di una cultura senza fare riferimento a soggetti
singoli?
Affrontare le modificazioni indotte sulle soggettività adolescenziali dalle recenti trasformazioni
socio-culturali - che si faccia nel chiuso di uno studio psicoanalitico oppure “sul campo” in
un’indagine sociale - significa anche e sempre andare ad esplorare una interzona tra il cosiddetto
“disagio della normalità” e la psicopatologia franca.
Di una cosa siamo certi: c’è bisogno di uno “psicoanalista sociale”.
4. L’IPRS e la ricerca clinica sull’adolescenza
In ultimo vorrei ricostruire la traccia di una riflessione sulla clinica dell’adolescenza
contemporanea che l’IPRS sta portando avanti ormai da alcuni anni.
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Le riflessioni che seguono, quindi, riprendono alcuni passaggi dell’esposizione precedente,
rivisitandole in chiave clinica, ovvero centrando l’attenzione sulle valenze di “diagnosi” e di
“terapia” del disagio adolescenziale così come possono essere percepite da un terapeuta nello
svolgimento del suo mestiere.
Come abbiamo già segnalato (paragrafo 2.4) l’adolescenza, nella società contemporanea, se da
un lato ha subìto una sua dilatazione progressiva - fino a divenire una sorta di fase interminabile,
con la conseguente “adolescentizzazione” della personalità adulta - dall’altro ha attratto già da
molti anni l’attenzione degli psicopatologi, e specificatamente degli psicoanalisti, non solo come
momento di scansione tra infanzia e adultità, ma tra personalità “sana” e struttura di personalità
psicopatologica.
Come si è detto, le fenomenologie presentate dagli adolescenti hanno portato gli osservatori a
riconsiderare i presupposti delle teorie di riferimento: la “psicoanalisi dell’adolescenza” ha
cambiato il paradigma classico della psicoanalisi stessa (G. Pellizzari), producendovi una sorta
di rivoluzione epistemologica (F. Petrella).
L’affermarsi e il diffondersi delle diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità (H. Kohut) e
di Borderline (O. Kernberg) - con le loro tematiche, tipicamente adolescenziali, di conflitto
dialettico tra identità e alterità - ha esteso alla vita adulta l’impossibilità di svincolo
dall’adolescenza. Di lì in avanti la pacifica scansione psicopatologica nevrosi/psicosi non è stata
più euristicamente utile. La progressiva “adolescentizzazione” della psicopatologia ha
sparigliato le carte.
Come se - in conseguenza dell’affermarsi della specificità del vissuto adolescenziale con le sue
componenti narcisistiche e di “urgenza” individualistica - si aggiungesse tra le due entità
nosografiche di nevrosi e psicosi una terza, intermedia, che potremmo definire di normosi (F.
Bollas) in quanto, seppur connotata da elementi di sofferenza e di incapacità a gestire la
relazione con il mondo circostante, è coerente con le attese - spesso perverse - dell’ambiente
sociale circostante. Al soggetto si offre la possibilità di trovare una qualche soddisfazione o
appagamento delle sue istanze desideranti senza per questo dover usare il pensiero critico, il
giudizio, la riflessione etica ed estetica su di sé e su ciò che si sta facendo, ma mirando più
semplicemente al “consumo” dell’esperienza gratificante. L’attività di pensiero - che
darwinianamente è strumento di adattamento alla realtà e quindi di ricerca di soddisfazione del
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desiderio e di raggiungimento della meta pulsionale - sembra essere divenuta una funzione
inessenziale e superflua se non dannosa.
Semi a questo proposito scrive: “quanti individui pensanti autonomamente, soggettificati per
quel che è possibile, può tollerare la nostra cultura? (…) Da tempo mi sto interessando alla
decoscientizzazione, alla tendenza ad usare sempre meno il pensiero intellettuale cosciente e
sempre più il pensiero preconscio”(A. A. Semi, 2006).
Per dirla con le parole di Sandro Gindro, sembrerebbe che vi sia una sorta di sopraffazione del
desiderio del piacere a discapito del piacere del desiderio, ovvero di quella attività umana che
mira ad una elaborazione del desiderio individuale, ad un suo dispiegarsi in un tempo di
elaborazione, per renderlo compatibile e condiviso con l’altro, con il contesto sociale.
“Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo.
Il tempo misura la durata del desiderio (…) In questa temporale estensione del desiderio sorge il
teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte coincidono. La rappresentazione desiderante
non coincide con la pulsione desiderante, ma le si sovrappone (…) Il tempo è il senso della
rappresentazione. La rappresentazione desiderante si sovrappone al desiderio, non ne è
assolutamente in contrasto: potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro
desiderio” (Gindro S., 1979).
Il desiderio del piacere è quindi, in questa prospettiva, una parte di un insieme che comporta
anche il piacere del desiderio. La cultura, la civiltà, il pensiero, non sono altro che una via per
trovare soddisfacimento ai propri desideri. La dialettica vitale si sviluppa lungo l’asse desiderio
del piacere-piacere del desiderio e la mancanza della soddisfazione immediata, la sospensione,
lo stato di bisogno, non è spiacevole in sé, ma anzi è il tempo entro il quale si dà spessore al
desiderio, gli si dà un contenuto preciso, una forma che amplifica il piacere che verrà. Il
desiderare, l’attendere, il fantasticare il godimento, è pensiero che dà “cultura” al desiderio,
forma elevata di godimento dell’animale uomo.
Sembrerebbe quindi che questa funzione di “umanizzazione” del desiderio stia perdendo terreno
a favore di una sorta di ricerca a corto-circuito del godimento.
A noi sembra che questa tendenza sia particolarmente presente tra gli adolescenti, ma non
caratteristica specifica dell’adolescenza. Gli adolescenti sono semplicemente la categoria umana
che segnala con particolare evidenza questa tendenza diffusa nella nostra cultura. La loro
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caratteristica di presentificazione del tempo vissuto – per usare la terminologia di A. Cavalli –
può essere quindi letta come presentificazione del “tempo del desiderio”.
Questa è, sommariamente e sinteticamente, un tentativo di descrizione “diagnostica”, sincretica,
del vissuto adolescenziale contemporaneo. Proviamo ora ad ipotizzare un approfondimento del
piano di osservazione diacronico, di ricostruire cioè i precursori che lo hanno determinato. Per
usare una forma espressiva “forte”: tentare di identificarne le cause per poter intervenire
terapeuticamente su di esse.
La domanda è: quali sono le cause che, ipoteticamente, hanno prodotto il fenomeno?
Molti sono i tagli interpretativi che possono tentare l’esplicazione del fenomeno. A noi sembra
che un modo per dar senso/comprensione al fenomeno sia quello – molto semplicemente e
apparentemente banale - di collegare le “nuove soggettività” adolescenziali a quegli
organizzatori che le precedono temporalmente e che le hanno “generate”. Stiamo parlando
ovviamente delle famiglie.
Se ad un’osservazione superficiale alcuni stili di vita e di comportamento degli adolescenti
appaiono come incomprensibili, estranei, fuori norma e insensati, appena si approfondisce
l’osservazione questi ragazzi appaiono come l’ovvia conseguenza delle famiglie che li hanno
generati, non solo biologicamente ma culturalmente. Ciò che caratterizza l’adolescenza è
soltanto l’aspetto di maggior evidenza, di estremizzazione talvolta provocatoria, di
macroscopizzazione di alcune contraddizioni che albergano dentro le mura domestiche, e in
particolare all’interno dei ruoli genitoriali.
Forse si può dire che sono le “famiglie disordinate” - così le definiscono J. Derrida e E.
Roudinesco in Quale domani?, un libro-dialogo sul presente/futuro di cui la psicoanalisi
dovrebbe cogliere il senso – la chiave di volta per una possibile esplicazione di quello che noi
abbiamo definito l’adolescenza “liquida”. E’ nella destrutturazione dei contenitori socio-
affettivi, e in particolare nei cambiamenti dei ruoli genitoriali - nelle imago di mamma e papà -
che bisogna andare a ricercare il senso. Sono loro i primi soggetti che propongono - o
impongono - le categorie fondamentali, le norme e i valori (principi di bello/brutto,
buono/cattivo, piacevole/spiacevole).
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Derrida, nel testo citato, afferma: “mi domando prima di tutto in che modo (e se) il modello
familiare – punto di riferimento imprescindibile e fondante per la teoria psicoanalitica – sarà in
grado, trasformandosi, di trasformare a sua volta la psicoanalisi. Per Freud e per i suoi
successori, compreso Lacan, la teoria edipica presuppone un modello fisso: l’identità stabile del
padre e della madre. E in particolare l’identità di una madre ritenuta insostituibile (…) A un
certo punto sarà l’approccio psicoanalitico tipico di questa cultura che dovrà essere
caratterizzato da quel movimento stesso che mette in crisi il modello familiare. Questo
mutamento della psicoanalisi dovrebbe d’altronde corrispondere a ciò che essa stessa considera
come la propria missione essenziale: prendersi cura innanzitutto di ciò che, direttamente o no,
riguarda il modello familiare e le sue norme. La psicoanalisi ha voluto sempre essere una
psicoanalisi delle famiglie” (J. Derrida, E. Roudinesco, 2004).
Questo ci porta ad interrogare Sigmund Freud e la teoria psicoanalitica, che, indiscutibilmente, è
stata uno dei supporti concettuali fondamentali nel costituire il moderno concetto di origine della
psicopatologia. E’ appunto nell’avant-coup dell’edipo – o del pre-edipico – che si è dato senso
all’apres-coup del sintomo e della malattia.
Metter mano al Complesso di Edipo è operazione rischiosa, da compiere con estrema cautela,
ma è allo stesso tempo operazione necessaria se si vuole dare nuova vitalità alla lettera
freudiana.
Il “luogo” per eccellenza della teoria freudiana è la psicosessualità (Sexualtheorie), la quale ha
trovato la sua origine nella dialettica madre-figlio-padre, e il suo centro nel Complesso di Edipo.
Di lì sono originate tutte le teorizzazioni seguenti, fino ai recenti modelli di attaccamento,
relazioni oggettuali, interiorizzazione delle relazioni bambino-caregiver.
Quella descrizione ci racconta appunto la nascita psichica dell’essere umano come essere di
relazione.
I teorici freudiani - forse più di Sigmund Freud stesso - hanno poi ritenuto di poter generalizzare
la validità delle sue osservazioni, ritenendo fossero considerabili “universali”, applicabili in
modo invariante a tutte le realtà umane storicamente determinate. Di qui sono nate le
confutazioni e le contrapposizioni (ad esempio di Bronislaw Malinowski) che hanno - tra l’altro -
trasformato la teoria e la prassi psicoanalitica fino alle più recenti teorizzazioni dell’etno-
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psicoanalisi (si consideri ad esempio l’asse Georges Devereux-Tobie Natan), con le straordinarie
modificazioni strutturali indotte sulla tecnica ed il setting dell’intervento di cura.
La nostra ipotesi - meglio dire il nostro territorio da esplorare - per trovare una
comprensione/esplicazione delle nuove identità adolescenziali, è fare riferimento al principale
background socio-affettivo che li ha prodotti, ovvero le loro famiglie.
E’ lì - in quelle famiglie che hanno subìto e prodotto delle trasformazioni straordinarie negli
ultimi decenni - che si può ritrovare il filo d’Arianna in grado di dare un nuovo senso ai fenomeni
in trasformazione.
Il “nuovo” adolescente è - anche ma non soltanto, ovviamente - l’ovvio prodotto delle “nuove”
famiglie, e più in particolare di quelle imago genitoriali che hanno subìto - nel bene e nel male -
delle trasformazioni talmente radicali e drammatiche da non essere più socialmente e
culturalmente riconoscibili. I ruoli genitoriali sono già, di fatto, trasformati e talvolta ribaltati, ma
questa trasformazione non è ancora stata accolta e “istituzionalizzata” nel tessuto sociale e
culturale.
L’adolescente non sa più “chi è” il padre e “chi è” la madre, quali siano i loro ruoli, le loro
funzioni e il senso delle norme (principi di bello/brutto, buono/cattivo) che più o meno
implicitamente sono da loro proposte. Il disorientamento che ne consegue non può non avere
ripercussioni nella percezione di sé e della propria collocazione sociale.
Questo ci sembra un territorio verso il quale anche gli psicoanalisti dovrebbero rivolgere lo
sguardo.
La psicoanalisi, nel suo essere teoria sociale e strumento di interpretazione del soggetto, ci offre
l’opportunità di un doppio sguardo che collega radicalmente il soggetto allo scenario sociale e
culturale in trasformazione. E se si scoprirà che qualcosa è cambiato nel “recinto” edipico, ciò
non farà crollare l’edificio teorico della psicoanalisi. Come ci ricorda Fausto Petrella, l’inconscio
non è più considerato zeitlos, un dispositivo psicobiologico fuori dal tempo, invariante,
caratterizzato dall’inerzia assoluta, e anche l’Edipo può essere indagato per poter dare luce ai
fatti emergenti che caratterizzano gli scenari contemporanei19 (Petrella F., 2006).
19 Nell’articolo Inconscio Sociale e nuove costellazioni familiari in adolescenza, presente nel volume, si sviluppa con maggiore attenzione questo aspetto.
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La domanda che va posta è: cosa è cambiato nell’Edipo degli adolescenti contemporanei? Cosa
è cambiato nelle imago di mamma e papà?
Sandro Gindro scriveva così a proposito del Complesso di Edipo: “Sono una conferma della
validità dell’intuizione freudiana, assai più di quanto riescano a negarla, gli scritti e i discorsi che
tentano di sminuire o confutare l’importanza del significato del complesso di Edipo. La teoria
freudiana ha però dei limiti evidenti. Come è raccontata da Freud, la storia di ogni bambino,
nell’odio e nell’innamoramento verso la coppia dei genitori, è riferibile ad una realtà
estremamente circoscritta. Emblematico non è tanto Edipo quanto il piccolo Hans. Sarebbe forse
più giusto sostituire la definizione ‘Complesso di Edipo’ con quella di ‘Complesso di Hans’.
Hans è un bambino dell’epoca di Freud, che vive a Vienna, in una famiglia piccolo-borghese:
madre e padre tipici, domestici, villeggiature e carrozze. La madre dice quello che dicevano le
madri di quella classe sociale all’inizio del ‘900; il padre ha l’atteggiamento dei padri di
quell’epoca verso i figli maschi, in una Vienna arabescata dal Secessionismo e serenamente in
crisi” (S. Gindro, 1983). E, più avanti, aggiunge: “Il desiderio sessuale è, credo, universale, così
come la dipendenza del piccolo dell’uomo dall’adulto; perciò finché il mammifero uomo alleverà
la prole attraverso il contatto diretto e così stretto con il corpo dell’adulto, i desideri sessuali,
innamoramenti e gelosie, se pur seguiranno dinamiche diverse a seconda delle culture e della
classe sociale, turberanno e animeranno la vita di ogni bambino. Freud ha iniziato un’indagine
apponendovi come simbolo il figlio di Laio e Giocasta; ma il mito di Edipo è molto più articolato
e contraddittorio di quanto egli supponesse” (ibidem).
La nostra attenzione si ferma su un aspetto specifico del fenomeno, ovvero sugli effetti che i
nuovi ruoli genitoriali stanno producendo sull’organizzazione identitaria dei figli “partoriti” in
senso psico-sociale da quelle famiglie, con una particolare attenzione a quell’età che chiamiamo
adolescenza, ovvero nel momento in cui i soggetti sono chiamati ad affrancarsi dalla famiglia
d’origine e aprirsi alla vita sociale.
Ma siamo consapevoli che il fenomeno è più ampio, che richiede ipotesi di risposta variegate e
articolate.
E’ possibile identificare un paradigma, un caso paradigmatico quale è stato per Sigmund Freud il
piccolo Hans, che possa dare un’esemplificazione ed esplicazione dei cambiamenti intervenuti
nella famiglia contemporanea, e che quindi contribuisca a dare comprensibilità a quelle che noi
siamo abituati a definire “nuove soggettività”?
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Questa è la domanda centrale che l’IPRS vuole mettere in discussione nel convegno che si
organizza a Roma il 23-24 maggio 2008, dal titolo Il “Complesso del piccolo Hans”. Nuove
costellazioni edipiche?, dove si tenterà di declinare le molteplici, possibili e articolate risposte.
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